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Un’alternativa socialista all’Unione europea

di Alan Woods

 

È in atto un cambiamento radicale a livello mondiale. Al culmine del boom economico, in ogni continente assistiamo ad un attacco senza precedenti al tenore di vita delle masse. Negli Stati Uniti d’America, in Giappone e in Europa, la classe dominante prova a tornare dietro nel tempo, tagliando le spese statali, demolendo lo stato sociale e distruggendo tutte le conquiste acquisiti negli ultimi cinquanta anni. Ciò non è un caso. I Marxisti hanno spiegato le ragioni più volte. Nell’ultimo periodo il sistema capitalista ha superato i suoi limiti. Ora è costretto a fare un passo indietro, rinunciando alle vecchie politiche keynesiane di intervento statale e di capitalismo controllato. Gli stessi economisti che precedentemente hanno visto lo stato come una risorsa per la loro salvezza ora lo considerano la causa di tutti i loro mali. Hanno capito troppo tardi ciò che i marxisti hanno evidenziato decenni fa – che, su una base capitalista, la politica del deficit di bilancio alla fine avrebbe portato ad un’esplosione dell’inflazione.
I vecchi e screditati metodi keynesiani hanno portato ovunque ad un enorme deficit della spesa pubblica. I capitalisti e i loro governi sanno che continuare con tali metodi porterebbe a due scenari: un’inflazione incontrollata e l’esplosione della lotta di classe. Questo è il motivo per cui sono ossessionati dall’idea di tagliare le spese statali. Da un punto di vista capitalista, non hanno alternative. Gli economisti hanno attualmente l’illusione che, mantenendo un basso tasso di crescita e controllando l’inflazione, possano evitare il normale ciclo economico capitalista di crescita e recessione. Questo è una vana speranza. Al momento, nella maggior parte dei paesi capitalisti avanzati, l’inflazione è stata relativamente bassa (i prezzi continuano ad aumentare, ma ad un ritmo minore). Questo è dovuto principalmente al fatto che la domanda è stata scoraggiata dalla pressione sui salari. Alcuni prezzi sono effettivamente crollati (sebbene questa sia un’eccezione): i prezzi dell’acciaio stanno calando al ritmo del 2% annuo e i prezzi dei cellulari con un ritmo impressionante del 20% annuo. Ciò è solo per una parte dovuta allo deprezzamento delle merci attraverso il miglioramento della tecnica e della produttività.
La ragione principale è l’assenza di domanda e la comparsa di un eccesso di capacità produttiva in tutta una serie di settori. Col taglio ai tenori di vita, disoccupazione e una domanda stagnante, i capitalisti non possono aumentare i prezzi delle loro merci come succederebbe di solito in un momento di boom economico. Questa è semplicemente un’altra espressione del fatto che l’attuale boom economico è stato raggiunto a discapito della classe lavoratrice, attraverso una maggiore pressione sui lavoratori per spremere fino all’ultima goccia il plusvalore e aumentare così la produttività e i margini di profitto. La causa diventa l’effetto e vice versa. Poiché non possono alzare i prezzi per aumentare i margini di profitto, i padroni sono costretti a sottoporre i lavoratori a una pressione ancora maggiore per ridurre i costi di produzione. Questa pressione senza pietà sulle spalle dei lavoratori, finalizzata a spremere fino all’ultima goccia il plusvalore, è uno degli aspetti principali dell’attuale boom mondiale. Con le parole del banca di investimenti J.P. Morgan, “C’è un’esplosione d’incremento di produttività in atto” (The Economist, 18/1/97).
Nonostante ciò, questo non è affatto uno sviluppo progressivo. In passato, il sistema capitalistico ha giocato un ruolo relativamente progressista nello sviluppo dei mezzi di produzione nella propria ricerca di profitto. In quanto depositari di surplus, i capitalisti hanno investito in nuovi macchinari, rivoluzionando costantemente le forze produttive. Questo è stata la maniera principale con cui hanno aumentato la produttività della manodopera.  Ma ora ciò è cambiato.  Non investono più sulle forze produttive come facevano in passato, preferendo dedicarsi alla ricerca di facili profitti giocando in borsa, coi derivati e con tutti i tipi di speculazione. L’attuale ondata di acquisizioni ha portato ad un’accelerazione imprevista della concentrazione del capitale e del monopolio, come predetto da Marx e fermamente negato dagli economisti borghesi. Nella maggior parte dei casi, queste acquisizioni non sono accompagnati da nuovi investimenti ma, al contrario, da massicci scorpori delle attività, chiusure e licenziamenti. I grandi monopoli si arricchiscono senza la gravosa necessità di sviluppare la produzione e correre dei rischi. Saccheggiano lo stato attraverso la truffa delle privatizzazioni dove le aziende di pubblica utilità sono andate a ruba con prezzi stracciati e sono state trasformate in monopoli privati. Questa pazzia non si limita ai paesi capitalisti avanzati ma è stata forzatamente estesa al Terzo Mondo.
Ben lontano dall’abolire il ciclo economico, tutti questi sviluppi gli forniranno semplicemente un carattere più duro e convulsivo. Tagliando le spese statali e mantenendo bassi i salari, simultaneamente tagliano il mercato interno, creando nuove contraddizioni. Ogni classe capitalista nazionale cerca un via d’uscita attraverso le esportazioni. Ma ciò non può portare ad una soluzione reale, poiché non tutto può essere esportato. Qualcuno deve importare! La lotta per conquistare anche solo i più piccoli spazi di mercato ha assunto un carattere ossessivo e frenetico. Le grandi potenze economiche lottano ferocemente per accaparrarsi i mercati dell’Asia Orientale. Ma non ce ne sono abbastanza per tutti. Inoltre, il boom in Asia si sta già esaurendo e nuovi paesi produttori asiatici stanno iniziando ad esportare merci a buon mercato nei mercati mondiali. L’eccedenza commerciale della Cina con gli Usa presto supererà quella del Giappone.
Nonostante tutto i discorsi sul libero scambio e la liberalizzazione, c’è una spietata lotta per i mercati tra tutte le principale nazioni capitaliste. C’è un’evidente tendenza alla divisione del mondo in blocchi commerciali, dominati rispettivamente dagli Usa, dalla Germania e dal Giappone. Ognuno di questi prova gelosamente a proteggere i propri mercati e le proprie sfere d’influenza, mentre richiedono un maggior accesso a quelli dei propri rivali.
Nel periodo di boom capitalista generalizzato che ha seguito la Seconda Guerra Mondiale (approssimativamente dal 1948 al 1974) la rapida crescita del commercio mondiale e la divisione mondiale del lavoro hanno giocato un importante ruolo nell’incentivare gli investimenti e la crescita.  Ma non è più questo il caso. Nel periodo recente, abbiamo visto crescere il commercio mondiale dell’8-9%, con nessun effetto evidente sulla crescita economica che è rimasta ferma ai miserabili livelli del 2-3%. Solo questo dato di fatto serve a mostrare la radicale differenza dal periodo di boom economico. Per di più, negli ultimi due anni il commercio mondiale ha di nuovo iniziato a diminuire, crescendo prima del 4% e ora del 2.5%.
Nonostante l’ottimismo ufficiale, l’attuale boom è molto fragile e instabile. Il mantenimento di grandi deficit ovunque, significa che sono ancora preoccupati del tasso d’inflazione latente. Se l’economia davvero dovesse decollare, dovrebbero affrontare immediatamente una nuova onda d’inflazione. Questo è il motivo per cui Alan Greenspan, il Presidente della Federal Reserve ha messo in guardia rispetto alla possibilità di un incremento dei tassi d’interesse negli Usa nel prossimo periodo come un modo per ridurre l’inflazione. Tuttavia, una crescita dei tassi d’interesse ridurrebbe i margini di profitto e potrebbe provocare una diminuzione degli investimenti e la precipitazione in una recessione. Gli Usa sono stati i primi ad entrare nell’attuale boom, e potrebbe essere i primi ad entrare in recessione. Il boom negli Usa dura già da più di sei anni – un tempo abbastanza lungo se lo si paragona alla media post bellica. Inizierà certamente a esaurire la sua spinta nei prossimi 1-2 anni. Una recessione degli Usa avrà un enorme effetto anche sul resto del mondo.
Ciò coincide con la più seria crisi economica in Giappone dalla seconda guerra mondiale. L’economia giapponese di fatto è in recessione da 5 anni. Sotto la pressione degli Usa e Unione Europea, che volevano che il Giappone di aumentasse l’inflazione in modo da creare mercati per le proprie esportazioni, i giapponesi erano gli unici che hanno provato a ricorrere al deficit di finanziamento keynesiano per rivitalizzare l’economia. In questi pochi anni trascorsi, miliardi di dollari sono stati immessi nell’economia giapponese dallo stato. Questo ha avuto solo un effetto marginale nel sostenere la crescita, ma ha significato avere un enorme debito pubblico per il Giappone attualmente. Di fatto, se includessimo i debiti delle amministrazioni locali, ora avrebbe un debito pubblico più alto di quello italiano. È fuori da ogni dubbio che l’economia giapponese sosterrà questa crescita, e una recessione negli Usa avrebbe un maggior effetto in Giappone, che sta combattendo per ritagliarsi sfere d’influenza in Asia.
In quanto all’Europa, la situazione è caratterizzata da bassi tassi di crescita (intorno il 2%), alti disavanzi di bilancio e indebitamento pubblico e imprevisti alti tassi di disoccupazione in un momento che dovrebbe essere di boom economico. Tutti i governi sono impegnati a tagliare le spese statali. Ma ciò renderà impossibile sia raggiungere alti tassi di crescita che ridurre la disoccupazione. Al contrario, queste politiche serviranno solo a tagliare il mercato e aumentare il declino, una volta arrivato. Allo stesso tempo, c’è stato un enorme aumento delle contraddizioni sociali, un’espansione del divario tra ricchi e poveri, e l’inizio di un profondo cambiamento nelle coscienze di tutte le classi. Stiamo quindi entrando in un periodo totalmente nuovo della storia, un periodo molto più simile a quello tra le due guerre mondiali – un periodo di convulsioni e crisi. Ritornando al classico modello del capitalismo, la borghesia sta rendendo ciò inevitabile. Alla fine dei conti, a certe condizioni corrispondono certi risultati. Gli enormi scioperi e manifestazioni in Francia, Germania, Italia e Belgio nel periodo recente sono avvertimenti per ciò che verrà. Ogni paese europeo sta affrontando una crisi economica, sociale e politica. È in tale contesto che dobbiamo considerare la questione dell’unità europea e il dibattito sull’accordo di Maastricht e l’unione monetaria.

Il declino dell’Europa

Il Mercato unico fu creato come un tentativo della borghesia europea per superare i confini angusti dello Stato nazione, con i suoi mercati limitati. Storicamente lo stato nazione ha giocato un ruolo essenziale nello sviluppo del capitalismo, che aveva come primo compito quello di proteggere e sviluppare il mercato interno. Tuttavia, con lo sviluppo delle comunicazioni, della tecnica, della scienza, delle aziende multinazionali, e del mercato mondiale, le forze produttive entrarono in conflitto con i limiti dei confini dello Stato nazione così come con la proprietà privata dei mezzi di produzione. Sia il capitalismo che lo Stato nazione passarono dall’essere una fonte di enorme progresso in colossali catene ed inadempimento all’armonioso sviluppo della produzione. Questa contraddizione si è riflessa nelle guerre mondiali del 1914-18 e del 1939-45 e nella crisi del periodo tra le due guerre.
Lo sviluppo del commercio mondiale nel periodo post bellico ha permesso al sistema capitalista di superare tale contraddizione, ad ogni modo parzialmente e per un periodo di tempo limitato. I mercati nazionali separati della Gran Bretagna, Francia, Germania e di altri paesi, erano troppo piccoli per i grandi monopoli. Il Mercato Unico fu creato nell’intento di superare questa limite. I grandi monopoli aspiravano ad un mercato regionale di centinaia di milioni di persone, e al mercato globale. Sulla base del boom economico, i capitalisti europei ebbero un certo successo nel creare questa unione doganale così incensata, in cui l’abolizione delle dazi doganali tra i paesi del Mercato Unico e una politica di dazi unificata con il resto del mondo serviva a sviluppare e stimolare il commercio mondiale.
Nel Manifesto del Partito Comunista, scritto nel 1847, Marx ed Engels mostrarono come il capitalismo, che dapprima si afferma sotto forma di stato nazione, inevitabilmente crea un mercato mondiale. La devastante dominazione del mercato mondiale è di fatto la caratteristica più decisiva dell’epoca in cui viviamo. Nessun paese, non importa per quanto grande e potente sia, può sfuggire dall’attrazione del mercato mondiale. Il totale fallimento del “socialismo in un solo paese” in Russia e Cina è una prova sufficiente di questa affermazione. Così come lo è il fatto che entrambe le più grandi guerre del ventesimo secolo furono combattute su scala mondiale ed avevano come obiettivo la dominazione mondiale.
In un brillante articolo scritto nel 1924, Lev Trotskij prevedeva il declino dell’Europa. Disse che il centro della gravità della storia mondiale sarebbe passato al Pacifico, e che il mar Mediterraneo (che in latino significa “centro della terra”) sarebbe stato considerato un lago di minima importanza. In realtà tutto questo è già accaduto. Il declino dell’Europa, iniziato 100 anni fa, è stato enormemente accelerato nelle due guerre mondiali, ma particolarmente nel periodo dopo il 1945. Il declino dell’Europa fu accompagnato da un’irresistibile ascesa degli Usa. L’Europa, e in particolar modo la Gran Bretagna, fu il vero sconfitto in entrambe le guerre, e gli Usa furono i veri vincitori. Ciò rifletteva semplicemente i veri rapporti di forza. Gli Usa iniziarono a mostrare i propri muscoli come potenza mondiale nel 1898 con la guerra contro la Spagna quando entrarono effettivamente in possesso di Cuba. Ma i punti di svolta più decisivi furono nella prima e seconda guerra mondiale, quando l’imperialismo statunitense, rimasto ai margini abbastanza a lungo per indebolire i suoi rivali europei, Gran Bretagna e Francia, finalmente si lanciò con tutto il suo peso nello scontro contro la Germania ed emerse come arbitro supremo del destino dell’Europa.
Questa non è la prima volta nella storia che stati un tempo potenti sono stati costretti a inginocchiarsi a vicini più potenti. Le città stato greche di Atene e Sparta una volta giocavano un ruolo dominante, ma si logorarono per le guerre e furono costrette, alla fine, ad accettare la dominazione della Macedonia e poi di Roma. Erano troppo piccole per continuare a giocare un ruolo indipendente. Dopo il 1945, l’Europa era ridotta in cenere, debole, divisa e dissanguata dal conflitto. Al contrario, l’industria americana era intatta e due terzi di tutte le riserve di oro del mondo erano a Fort Knox. La Gran Bretagna, anch’essa gravemente percossa, era ancora abbastanza forte da occupare per un po’ il ruolo di spalla del gigante transatlantico, con la sterlina come moneta di riserva del dollaro. Ma in pratica, le potenze lillipuziane d’Europa non potevano competere contro la forza dell’imperialismo statunitense da una parte e la Russia stalinista dall’altra. Al contrario della situazione successiva alla prima guerra mondiale, la minaccia di rivoluzione e il bisogno di fermare l’avanzata dell’URSS costrinsero l’America a sostenere il capitalismo europeo con grandi quantità di aiuti e investimenti attraverso il Piano Marshall. In effetti, con il Piano Marshall, l’Europa è stata messa a dipendenza delle razioni proveniente dall’America.
Questa relativa debolezza è stato il fattore principale che ha portato alla creazione del Mercato Unico Europeo. Mentre la miope classe dominante britannica si aggrappò ai suoi sogni di potere imperiale, le classi dominanti francese e tedesca furono costrette a scendere a patti con la nuova situazione. La Germania, in particolare, uscì dalla guerra molto indebolita, con la perdita di una gran parte del suo territorio e la distruzione massiccia delle sue industrie. Un’altra ragione della creazione di questo blocco europeo fu un contrappeso tanto politico quando diplomatico ed economico contro gli Usa e il Giappone. Da sole, le potenze europee separate non erano capaci di competere effettivamente con la dominazione economica dell’America e del Giappone. Qui vediamo uno sviluppo contraddittorio – da una parte, un enorme sviluppo del commercio mondiale e l’abbassamento dei dazi doganali, e dall’altra parte l’emergere di enormi blocchi commerciali che si comportano come nuove barriere per il commercio mondiale.
La classe dominante francese, avendo sofferto la sconfitta per mano della Germania in tre guerre in meno di cento anni (1870-71, 1914-18 e 1939-45), era ossessionata dall’idea di evitare una nuova guerra con la Germania legandosi ai suoi vicini, prima con il Trattato della comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), e poi con la Comunità economica europea (CEE). Data la debolezza della Germania, credevano che sarebbero potuti diventare i veri leader dell’Europa, sebbene le cose non sono andate come avevano previsto. Anche quando la Germania ricostruì una potente base industriale, la classe dominante francese immaginava ancora di poter dominare l’Europa, arrivando ad una sorta di condominio, in cui la Germania avrebbe avuto la supremazia economica, ma la Francia avrebbe avuto la leadership politica e militare. Questa è una delle ragioni principali per cui la Francia ha insistito nel mantenere il controllo delle sue armi nucleari. In pratica, comunque, l’asse Parigi-Bonn è una foglia di fico che a malapena camuffa la dominazione schiacciante della Germania.
La sconfitta dell’imperialismo francese nell’Indocina e Algeria ha costretto Parigi ad accettare la perdita del suo status di potenza imperiale e dedicare le proprie energie a rafforzare il suo ruolo in Europa, mentre sviluppava l’industria. Ciò è stato possibile sulla base del boom economico post bellico. Il risultato fu la trasformazione della Francia da una precedente economia principalmente agricola e della rendita ad una potenza industriale, e nel processo ha enormemente rafforzato la classe lavoratrice. Lo stesso processo di scomparsa dei contadini e la crescita del proletariato è avvenuto in Italia, Spagna e negli altri stati europei.
Sebbene l’ampia analisi fatta dai marxisti si è dimostrata corretta, la crescita del Mercato Unico da sei nazioni a quindici e l’integrazione delle loro economie è andata molto più in là di ciò che avevamo originariamente pensato. Sono stati capaci di arrivare a ciò grazie allo sviluppo del mercato mondiale, e al boom generale del capitalismo mondiale nel periodo dal 1948-74 dal quale hanno tratto tutti benefici. Mentre era in atto un’espansione economica, furono capaci temporaneamente di sviluppare l’economia. Con un’abbondanza di mercati, la piena occupazione e un tasso di crescita del 5-6% annuo, le diverse potenze capitaliste d’Europa poterono permettersi di arrivare ad un accordo tra gentiluomini per dividere tra loro il crescente mercato senza tanti problemi. Vero che De Gaulle pose il veto alla prima richiesta da parte della Gran Bretagna di entrare a far parte della CEE, in parte perché sospettava che la Gran Bretagna sarebbe stato un cavallo di Troia per gli interessi America in Europa, ma soprattutto perché la Francia non voleva alcun rivale per la sua presunta posizione come paese guida dell’Europa insieme alla Germania. La miope classe dominante britannica, che aveva rifiutato di unirsi alla Germania e la Francia all’inizio, preferendo mirare ad un immaginario ruolo mondiale, pagò per la sua stupidità vedendo la sua forza scemare rapidamente fino a diventare quasi nulli mentre la Francia, la Germania e addirittura l’Italia, fino ad allora arretrata, la superarono.
Tutto questo fu possibile in base all’alto livello di crescita economica. Questo diede luogo ad un significativo sviluppo delle forze produttive per un periodo. In questo contesto, una maggiore integrazione delle economie delle principali potenze europee fu nell’interesse di tutti i paesi. Alla fine, la Gran Bretagna si intrufolò, seguita dalla maggior parte degli ex membri dell’Associazione Europea di libero scambio (EFTA), il blocco di scambio commerciale degli stati europei più deboli, uniti dalla Gran Bretagna come tentativo senza successo di contrastare la CEE. Fu creata l’illusione di un movimento inarrestabile verso un’Europa unita. Ciò nonostante, rimangono le contraddizioni interne ed emergeranno inevitabilmente in un periodo di recessione economica. Come abbiamo già visto in passato, i legittimi interessi nazionali delle diverse potenze europee sono venute a galla. La crisi del sistema monetario europeo (SME) nel 1992 ha evidenziato le basi fragili di questa “unità”. Ora sono ai ferri corti rispetto a quali nazioni dovrebbero partecipare alla moneta unica, i termini e le scadenze temporali, e quali nuove nazioni dovrebbero far parte dell’UE in futuro.

Francia e Germania

In primo luogo, il processo di unione fra Germania e Francia e gli altri paesi della CEE è stato un tentativo per difendere loro stessi dagli Usa e la Russia. Nell’epoca dell’economia mondiale, le economie nazionali europee sono troppo piccole per competere da sole. È stato necessario unire le risorse e arrivare ad un accordo per condividere un mercato unico, in primis per acciaio e carbone, poi per altri prodotti. Questo è stato un tacito riconoscimento del fatto che, in condizioni moderne, lo stato nazione è diventato un ostacolo reazionario allo sviluppo delle forze produttive. È troppo ristretto per contenere il potenziale produttivo colossale dell’industria moderna. Da ogni punto di vista razionale l’unità europea è ineccepibile. Ma su basi capitalistiche, una vera unità è impossibile. Come spiegò Lenin molto tempo fa, gli Stati Uniti d’Europa capitalisti sono un’utopia reazionaria– cioè non può essere raggiunta, e se anche ci si arrivasse, non sarebbe nell’interesse dei lavoratori.
In effetti, l’unico momento in cui fu ottenuta un’Europa capitalista unita fu sotto Hitler. I Nazisti ebbero un successo temporaneo nell’“unificazione” del continente europeo sotto la dominazione tedesca. La natura reazionaria di tale “unione” non ha bisogno di ulteriori commenti. Ma deve essere chiaro che sotto il capitalismo, l’antagonismo tra le diverse classi dominanti è tale che qualsiasi unione deve necessariamente includere la dominazione di una potenza sulle altre. Vediamo alcuni elementi di questo attualmente. In un periodo lungo qualche decennio, la Germania è riuscita a raggiungere per via economica quello in cui aveva fallito nelle due guerre mondiali – l’unificazione dell’Europa sotto il dominio dell’imperialismo tedesco. Questa è la cosa essenziale per comprendere appieno la cosiddetta Unione Europea. Dietro la facciata dell’unità, tutte le vecchie contraddizioni tra gli stati nazione continuano ad esistere e di fatto si stanno intensificando.
L’UE è di fatti una unione doganale nominale per la difesa del capitalismo europeo dagli Usa e dal Giappone. Ial suo interno è una mercato parzialmente libero che funziona con certi limiti, fin quando gli interessi vitali degli stati membri (in particolare i paesi chiave) non sono colpiti, ma in cui ognuna delle classi dominanti lotta per assicurarsi dei vantaggi. In situazioni di boom economico, l’unione può reggere e addirittura raggiungere una maggiore integrazione. Ma in situazioni di lenta crescita, domanda stagnante e alto tasso di disoccupazione come in questo momento – e ancor di più con una seria recessione – tutte le contraddizioni nazionali si esacerberanno, iniziando dalla Francia e dalla Germania.
Il decisivo punto di svolta è stato l’unificazione della Germania. In un colpo solo, è stato creato uno stato nuovo e potente con 80 milioni di abitanti, situato nel cuore dell’Europa, con una potente base industriale e una formidabile potenza militare. Qui è necessario diradare la nebbia della propaganda ufficiale e delle bugie politiche, e mettere a nudo le vere relazioni. Sebbene l’unificazione della Germania è stata accolta a Parigi e Londra tra applausi e strette di mano, senza dubbio è stata fonte di apprensione nei circoli dominanti britannici e francesi. Anche in precedenza, la Germania era chiaramente la potenza dominante in Europa, ma in seguito la grande forza potenziale di una Germania unita ha minacciato di sopraffare interamente gli altri paesi.
È sorprendente fino a che punto la politica estera di un dato stato rimanga costante. Questa peculiarità cresce dal fatto che nonostante tutti i cambiamenti di governo, l’apparato statale con la sua casta di mandarini conservatori rimane intatta. Questa burocrazia permanente tende a preservare un’inerzia costruita su un lungo periodo, fatto di generazioni, forse secoli. Quindi, gli obiettivi strategici principali della politica estera tedesca nell’Europa Centrale e Orientale conosciuta come Drang nach Osten (la “spinta verso l’oriente”) è rimasta fondamentalmente la stessa per centinaia di anni. Non soddisfatto dalla sua dominazione economica dell’Europa occidentale, l’imperialismo tedesco vuole recuperare le sue sfere di influenza tradizionali nell’Europa orientale e nei Balcani. Questa è una prospettiva allarmante per gli altri capitalisti europei.
Le economie combinate di Germania, Repubblica Ceca, Polonia e Ungheria costituirebbero un mercato di 140 milioni di persone, con un PIL totale di 2,4 miliardi di dollari come base di partenza. Da un punto di vista socialista, l’unione di queste economie sarebbe uno sviluppo interamente logico, come parte degli Stati Uniti Socialisti d’Europa. Ma su una base capitalista è una ricetta per un conflitto. La combinazione dell’industria, della finanza e della tecnica tedesche con grandi risorse manodopera qualificata e a bassi salari nell’Europa orientale costituirebbe una seria minaccia ai “partner” europei della Germania. In un articolo intitolato “Il grande cortile della Germania”, la rivista americana Business Week (3/2/97) espone la crescente preoccupazione delle altre potenze europee per l’ascesa dell’influenza tedesca nell’Est:
Di fatti, l’Europa centrale ha un distinto accento tedesco. Cautamente, la vigorosa potenza dell’Europa è tornata nella regione che fu una volta ha attraversato coi carrarmati. Hanno scavalcato l’Austria e gli Stati Uniti per diventare i più grandi investitori dell’Europa centrale. Le joint ventures che vanno al di là dei suoi confini, sono più di 6000 solo in Ungheria. La Germania è il più generoso erogatore di aiuti in Europa Centrale e il più potente partner commerciale, totalizzando più della metà del totale dello scambio commerciale dell’UE con i 12 paesi orientali che hanno richiesto di aderire all’unione. ‘La Germania sta costruendo una regione di prosperità comune’ riporta James Lister-Cheese, lo specialista dell’Europa orientale all’Independent Strategy, un’azienda di analisi economica con sede a Londra.”
E continua:
Ma in realtà, la Germania sta sempre più fissando le regole per l’aspetto che prenderà il continente. ‘La Germania sarà più centrale nella nuova geografia dell’Europa,’ dice Dominique Moïsi,  vicedirettore dell’Istituto Francese di Relazioni Internazionali. In privato, alcuni politici francesi sono preoccupati che un potente blocco tedesco in un’UE più grande neutralizzerà l’influenza francese.
 “Alcuni sono preoccupati che la Germania stia sostituendo la dominazione politica ed economica alla sua ex supremazia militare. Sir James Goldsmith ha mostrato timore rispetto a una federazione filo tedesca della nazioni europee, fissandolo come cardine della sua nuova campagna per il Partito del Referendum in Gran Bretagna. La sua retorica suggerisce che se la Gran Bretagna si unisse all’unione monetaria, cederebbe effettivamente la sovranità direttamente a Helmut Kohl (Cancelliere cristiano-democratico della Germania dal 1982 al 1998, Ndt) , tramite i malvagi burocrati dell’UE a Bruxelles.”
Anche se il passaggio verso l’unione monetaria fosse completato, non significherebbe alcuna diminuzione delle tensioni tra gli stati europei. Al contrario. Le esacerberebbe. Ciò è ben compreso dagli osservatori capitalisti più intelligenti, come mostre la seguente citazione:
“Il vero problema è che lo stesso marco tedesco sembra sopravvalutato contro la valute non europee, includendo il dollaro. Se il franco è sopravvalutato è perché è sulla scia del marco. È difficile che in queste circostanze il governo tedesco tollererebbe una svalutazione importante unilaterale francese. Ha già riscontrato abbastanza difficoltà nel più giustificabile deprezzamento (svalutazione) italiano e britannico. Se un futuro governo francese dovesse seguire il consiglio di così tanti analisti finanziari inglesi e tentare una svalutazione unilaterale, il danno non sarebbe limitato all’unione economica e monetaria dell’UE (UEM). Ci sarebbe il rischio di una guerra monetaria internazionale mai vista dalla seconda guerra mondiale” (Financial Times, 12/9/96).

“Fortezza Europa”

Lungi dall’essere un passo in direzione del libero scambio commerciale, l’UE è un blocco commerciale regionale diretto da una parte contro Usa e Giappone, e dall’altra parte è un’alleanza di potenze imperialiste dedicate allo sfruttamento collettivo del Terzo Mondo. Questa modalità neo coloniale di sfruttamento non è meno rapace del saccheggio aperto delle colonie avvenute in passato sulla base del dominio militare diretto. In generale, le stesse vecchie colonie in Africa, Asia e i Caraibi sono prosciugate dalle stesse vecchie sanguisughe. L’unica differenza è che questo furto è effettivamente “legalizzato” dal meccanismo dello scambio commerciale mondiale con cui i paesi capitalisti avanzati dell’Europa esercitano una dominazione congiunta sulle ex colonie, risparmiando così sui costi di un dominio diretto, mentre continuano a estrarre enormi profitti risparmiando sul costo del lavoro.
L’Europa nei fatti rappresenta un formidabile blocco commerciale, nonostante il suo relativo declino. Infatti, con un mercato interno dal valore approssimativo di 8,4 bilioni di dollari, è in realtà il 20% più grande di quello degli Usa. Il principale obiettivo dei capitalisti europei è precisamente di mettere assieme le forze per cercare di proteggere questo mercato contro la competizione dei prodotti americani e giapponesi. Ciò genera l’ira dei capitalisti americani che tempo fa soprannominarono l’UE la “Fortezza Europa”, una descrizione che non si allontana molto dalla realtà. Data la mancanza di domanda in Europa (Business Week recentemente scrisse di una “ripresa europea spesso indistinguibile da una recessione”), esportare negli Usa è diventato un’ancora di salvezza indispensabile. Data la crescita del valore del dollaro e la caduta del marco, ciò pone una seria minaccia agli interessi commerciali americani. Dall’altra parte, una recessione negli Usa colpirà fortemente l’Europa, e addirittura la manderà in una crisi profonda. L’attuale alto livello di disoccupazione aumenterà, e tutte le contraddizioni diventeranno più acute.
In una famosa digressione, Henry Kissinger (segretario di Stato Usa tra il 1969 e il 1977, Ndt) fu sentito esprimersi così: “Quando voglio parlare con l’Europa, chi chiamo?” La formazione dell’UE rende possibile per la classe dominante d’Europa, fino a un certo punto, di “parlare con una voce” (almeno in teoria). L’Europa si è scontrata con Washington su diverse questioni, più recentemente l’accordo Helms-Burton e la legge D’Amato che ha imposto sanzioni su aziende non statunitensi che commerciano con Cuba, Iran o Libia. Le tensioni tra l’Europa e gli Usa non sono scomparse, e inevitabilmente cresceranno nel prossimo periodo. Per questa ragione, non è probabile che l’UE si spaccherà, almeno a livello formale. I capitalisti europei vorranno conservare un’unità, in modo da non finire impiccati separatamente.
Detto ciò, le contraddizioni tra gli stati europei rendono addirittura impossibile per loro concordare una politica estera unitaria. Le crescenti contraddizioni tra gli interessi di Francia e Germania sono state svelate ancor più chiaramente. Quando la Germania aveva bisogno di fondi extra per finanziare l’assorbimento della Germania dell’Est, non ha esitato a alzare i tassi di interesse senza consultare Parigi o qualsiasi suo altro partner, sebbene con alti tassi di disoccupazione, un aumento dei tassi d’interesse era l’ultima cosa di cui la Francia aveva bisogno. Nel campo della politica estera, gli intrighi tedeschi hanno giocato un grande ruolo nell’incoraggiare la Croazia a dichiarare l’indipendenza, quindi provocando lo smembramento della Jugoslavia. Ciò era totalmente contrario della politica estera francese, ma Parigi è stata costretta non solo ad accettarla, ma a mandare truppe per sistemare il caos creato successivamente, mentre la Germania è stata con le mani in mano. La principale sfera d’influenza dell’imperialismo francese è ancora in Nord Africa e nel Mediterraneo, considerando che la Germania guarda a oriente, e aspira ad include i suoi nuovi paesi dell’Europa orientale che richiedono di aderire all’UE – una mossa che sarebbe una minaccia diretta al futuro delle Politica Agricola Comune, che è vitale per gli interessi agricoli francesi.
Nel marzo di quest’anno, non sono riusciti ad accordarsi su una politica comune in relazione all’Albania (nel 1997 si verificò in tutto il paese una vera e propria insurrezione popolare, Ndt). Italia e Grecia, con l’appoggio della Danimarca e della Francia, volevano mandare una grande forza militare europea in Albania. Ma una maggioranza di paesi, guidati da Gran Bretagna, Germania e Svezia, si sono opposti. Alla fine italiani e greci inviarono lo stesso delle truppe. Ma gli altri si mantennero ben alla larga.
Neanche la recente visita del presidente Clinton a Londra e la sua “amicizia” ben pubblicizzata con Tony Blair e il presunto ritorno di una “speciale relazione” con la Gran Bretagna non sono un caso. Washington gradirebbe un alleato su cui contare in UE, e vede nella Gran Bretagna il più probabile – se non l’unico – per questo ruolo. È precisamente questa “relazione” con gli Usa che ha reso tradizionalmente la Francia sospettosa della Gran Bretagna, che non che non impedirebbe ai due paesi di divenire alleati contro la Germania nel prossimo periodo.
Nel tentativo di spaventare gli opponenti dell’unione economica e monetaria dell’UE, addirittura Kohl ha innalzato lo spettro di una guerra futura in Europa: “La politica di integrazione europea,” ha detto, “è in realtà una questione di guerra e pace nel ventunesimo secolo.” (The Independent 3/2/96). Kohl demagogicamente si appella all’ “internazionalismo”: “non abbiamo alcuna voglia di tornare al vecchio e buon stato nazione. Non può risolvere i grandi problemi del ventunesimo secolo. Il nazionalismo ha portato grande sofferenza al nostro continente.” (ibid.) Ciò vuole dire che la Gran Bretagna, Francia e tutti gli altri dovrebbero mettere da parte i loro nazionalismi e accettare la leadership del capitalismo tedesco.
Tuttavia, gli altri hanno una visione piuttosto differente! Una visione diametralmente opposta è stata proposta in un recente libro Il cuore corrotto dell’Europa) scritto da Bernard Connolly, un burocrate di lungo corso di Bruxelles incaricato di attuare l’Unione Economica e Monetaria dell’Unione Europea che avverte che il tentativo di avvicinarsi ad un unione monetaria può condurre all’esasperazione del conflitto nazionale ed addirittura una guerra in Europa. In un linguaggio molto esplicito, Connolly avvisa : “il cinismo dei tecnocrati francesi, traditori del loro stesso popolo, e lo zelo minaccioso arrogante e prepotente dei federalisti Tedeschi, per non menzionare le grandi ambizioni di Helmut Kohl, rimangono in rotta di collisione. Il risultato di questo scontro di forze non può ancora essere previsto con precisione. Ma sarà estremamente sgradevole per gli europei.’’ Il tono apocalittico di Connolly è esagerato, ma in quanto alto funzionario, non c’è dubbio che stia dicendo ad alta voce quello che gli altri stanno pensando. Nei corridoi del potere di Londra e Parigi c’è un borbottio continuo riguardo le intenzioni della Germania. Lo scontro di interesse esiste e si aggraverà mentre le contraddizioni dell’UEM verranno rivelate nella pratica.
Negli ultimi cinquant’anni, l’idea di una guerra si è allontanata dalla coscienza delle masse in Europa. Eppure cento anni fa l’anarchico Kropotkin evidenziò che ‘’ la guerra è una condizione naturale dell’Europa’’. E storicamente ciò era vero. Solo il peculiare equilibrio di forze che è emerso dopo la seconda guerra mondiale ha significato che la guerra – almeno la guerra tra potenze maggiori – non è stata più all’ordine del giorno. Ciò nondimeno stiamo entrando in un nuovo e problematico periodo della storia. Le tensioni che adesso esistono tra gli Stati uniti, Giappone ed Europa, in un altro periodo avrebbero già portato alla guerra. Ma con l’esistenza di armi nucleari, e anche la varietà orribile di altri metodi barbarici di distruzione – tra armi chimiche e batteriologiche – una guerra totale tra le potenze maggiori significherebbe uno sterminio reciproco, o quanto meno un prezzo così terribile da rendere la guerra una proposta poco attraente, fatta eccezione per i generali ignoranti e squilibrati.
Ciò nondimeno la guerra in Bosnia è stato un promemoria del tipo di scenario da incubo che si può presentare se la classe operaia fallisse la sua missione storica di cambiare la società. L’allarme di Kohl a riguardo ha un certo significato sintomatico. Nel periodo convulsivo che ci attende, i lavoratori Europei avranno molte opportunità di trasformare la società, ma se fallissero in un certo momento potrebbe esserci un movimento in direzione reazionaria. È altamente improbabile che ciò possa prendere la forma di un classico regime fascista come negli anni venti e trenta. La classe dominante si è  scottata malamente con Hitler e Mussolini. Non daranno il potere statale ad un folle fascista. Ma è abbastanza possibile che proveranno a dirigersi verso un regime bonapartistico – una dittatura militare poliziesca come quella di Pinochet in Cile. Nella moderna situazione, un tale regime può avere un carattere molto feroce. In condizioni di estrema crisi, non si può escludere a livello politico che ciò potrebbe portare ad una guerra in Europa, sebbene tale sviluppo sia poco probabile. Nondimeno, il fatto che tale possibilità sia stata pubblicamente sollevata da Kohl ed ha trovato un eco in Juppé (primo ministro francese dell’epoca, ndt) sia sintomo di un profondo cambiamento della situazione. Nelle condizioni attuali la prospettiva che si apre ora non è una guerra tra gli stati Europei, bensì la guerra di classe in ogni paese d’Europa.

La piaga della disoccupazione

Il patrimonio di un povero sta nella forza e nella destrezza delle sue mani; e nel rendergli difficile di usare di questa forza e di questa destrezza si commette una grave violazione della sua più sacra proprietà” (Adam Smith)

Nella mitologia greca c’era un personaggio chiamato Procuste che invitò i suoi invitati a dormire in un letto con la peculiarità di contenere solo coloro la cui statura si adattasse perfettamente, e per garantire che fosse davvero così, il suo proprietario aveva la brutta abitudine di tagliare le braccia, gambe e teste per raggiungere le dimensioni richieste. Il sistema capitalista nell’epoca attuale è proprio come il letto di Procuste. Il sorprendente sviluppo delle forze produttive reso possibile dai progressi dell’industria, scienza e tecnologia dalla seconda guerra mondiale, ha costruito una colossale capacità produttiva. Ciò non può essere assorbito dai mercati esistenti. C’è troppa capacità produttiva ovunque – troppo acciaio, troppe auto, troppi microchip, ed addirittura troppo cibo. Quindi perché investire nella creazione di nuova capacità? al contrario. È necessario risparmiare, chiudere, fermare la produzione, addirittura pagare le persone per non produrre. Le fabbriche chiudono come se fossero scatole di fiammiferi; milioni sono senza lavoro; intere comunità sono devastate. Così come il letto di Procuste.
Il Mercato comune europeo in origine era destinato  il carbone e l’acciaio. L’industria del carbone è stata decimata in un paese dopo l’altro. Ora è il turno dell’acciaio nel 1984 c’erano 450mila posti di lavoro nell’industria Europea dell’acciaio.  Ora sono solo 250mila e questo numero si ridurrà ulteriormente. Si afferma che c’è una sovrapproduzione nell’acciaio. Eppure l’acciaio rimane ancora essenziale per l’edilizia e per una serie di attività produttive. Dal punto di vista dei bisogni della società, non si può nemmeno parlare di un eccesso di acciaio. Ne abbiamo sicuramente bisogno e in quantità maggiore. Ma dal punto di vista ristretto della produzione capitalista per il profitto, c’è sicuramente troppo acciaio e troppo di molte altre cose. Questa è la logica del manicomio, ma è precisamente la logica sulla quale funziona l’Unione Europea capitalista, e proprio per questa ragione non potrà mai funzionare a favore degli interessi della classe operaia.
La crisi nel capitalismo europeo si riflette nel ritorno di una disoccupazione organica. Nonostante la ‘’ripresa’’, più di 18milioni di persone sono ufficialmente disoccupate nell’Unione Europea, sebbene il dato reale sia di circa 30milioni. La Germania ha i più alti livelli di disoccupazione da quando Hitler salì al potere. La disoccupazione francese supera i 3 milioni. L’onda di insicurezza influenza non solo i lavoratori ma anche la classe media ed addirittura settori manageriali:
L’insicurezza si sta espandendo nei nuclei familiari a reddito medio-basso europei”, scrive il Wall Street Journal, ‘’in quanto è più difficile mantenere il lavoro ed è ancora più difficile trovarlo…mentre le aziende smantellano i loro organigrammi, i datori di lavoro abbandonano interi settori di posizioni lavorative a reddito medio. I produttori stanno rilocalizzando più produzione all’estero per competere in un mercato globale pieno di rivali più concorrenziali e flessibili. I posti di lavori nel servizio pubblico stanno scomparendo mentre i governi provano a sgonfiare i deficit e le imprese di proprietà statali si preparano alla privatizzazione e a nuove sfide competitive. Intere aziende si stanno ristrutturando attraverso le fusioni, lasciando decine di migliaia di lavoratori in esubero al loro destino. La discriminazione basata sull’età sta restringendo le opzioni per milioni di lavoratori  che hanno più di 40 anni lasciandoli ai margini” (Wall Street Journal, 19/06/96).
In questo momento ci sono ufficialmente 18milioni di disoccupati nell’ Unione Europea, di fatti questa statistica è sbagliata, in pratica i reali livelli di persone senza lavoro sminuiscono in maniera esagerata la statistica reale. I dati reali saranno almeno il doppio delle stime ufficiali. E dobbiamo ricordare che questo livello di disoccupazione esiste durante un boom economico. Negli Usa, che vantano i loro successi nel campo dell’occupazione, tra il 1990 e il 1995, le aziende maggiori hanno distrutto 4milioni di lavori (1/4 del totale). Questi sono stati largamente sostituiti da lavori part-time, la maggior parte malpagati nel settore dei servizi (‘’Mac Jobs’’). Per arrivare a fine mese molti lavoratori statunitensi devono avere 2 o 3 lavori, lavorando molte ore al costo della loro salute e della vita familiare. C’è molta ansia, stress ed insicurezza sul lavoro a tutti i livelli.
Negli ultimi 6 anni la Germania, Francia e Gran Bretagna hanno distrutto il 16-17 % di tutti i posti di lavoro nella manifattura. Alcune industrie sono completamente decimate. Ad esempio nel 1979, l’industria tedesca del tessile e del cuoio occupava 550mila lavoratori. Nel 1994 questo numero è sceso a 180mila. In Francia, nel 1982 l’industria militare occupava 270mila lavoratori. Tale numero è sceso a 90mila nel 1993, con ulteriori licenziamenti che andranno da 25mila a 50mila unità. (The Economist, 23/01/96).
La disoccupazione di massa permanente ora colpisce tutte le nazioni UE. Inoltre, più del 40% dei disoccupati sono senza lavoro da più di un anno. È come una terribile epidemia, e come tutte le epidemie, colpisce a tutti i livelli della società. Anche i colletti bianchi, il settore professionale e qualificato che in passato si credeva immune, sono stati colpiti. Lo stesso articolo del Wall Street Journal cita Wyn Nystrom, capo dell’ufficio di Bruxelles di PCM Europa: “la sicurezza dell’occupazione dalla culla alla tomba è svanita. L’insicurezza ha preso il posto dell’epoca dei diritti. Due terzi dei dirigenti di livello medio di oggi scompariranno.”
Un uomo o una donna di oltre 40 anni che perde il lavoro sa bene che probabilmente non troverà di nuovo un lavoro decente. Ma gli effetti più devastanti della disoccupazione sono sofferti dai giovani, con tutti gli effetti sociali come la dipendenza da droghe, vandalismo e crimine. In Spagna quasi la metà dei ragazzi sotto i 20 anni sono disoccupati. In Italia e in Francia sono più di 1 su 4.
Il cancelliere Kohl ha promesso di dimezzare la disoccupazione della Germania entro il 2000. Il governo socialdemocratico Svedese ha promesso lo stesso. Chirac fu eletto sulla base della promessa di tagliare la disoccupazione in Francia e Aznar in Spagna ha promesso che il 1997 sarebbe ‘’l’anno del lavoro’’. Commentando ciò, l’Economist scrive:
fin ora il vortice di promesse non si è praticamente concretizzato. Più di 18 milioni di persone nell’UE cercano lavoro. La disoccupazione Tedesca resta a 4,5milioni, sebbene le sue grandi aziende si stiamo riprendendo. La disoccupazione francese supera i 3milioni. Il record è terribile: qualsiasi ripresa non è riuscita a recuperare il terreno perduto bel campo della disoccupazione nella recessione precedente’’.
Nonostante le promesse di Goran Persson (primo ministro socialdemocratico svedese dal 1996 al 2006, Ndt), la disoccupazione svedese, se si includono anche coloro che sono in schemi di riqualificazione e simili, ora è al 13,3%. L’Irlanda, che è ora presentata come una storia di grande successo economico e addirittura una “tigre europea”, ha una disoccupazione ufficiale del 11.7%. Addirittura in Olanda, dove la disoccupazione è ufficialmente “solo” al 6.2%, questo dato non racconta tutta la storia , siccome l’effettiva occupazione comprende solo il 62% della popolazione economicamente attiva, il che significa che molte persone hanno lasciato il posto di lavoro. In Gran Bretagna, 1 su 4 è stato disoccupato almeno una volta dal 1992. Questa situazione, collegata a  tassi di crescita molto bassi, ha portato a massicci problemi di debito e enormi deficit di bilancio.
Ma con quali mezzi i capitalisti europei propongono di ridurre la disoccupazione? Tagliando il sussidio di disoccupazione e gli altri sussidi, si costringe chi non ha lavoro ad accettare lavori con basse retribuzioni; rimuovendo tutte le restrizioni sui licenziamenti (“maggiore flessibilità del lavoro”); promuovendo lavori part-time senza protezione e con salari bassi, a spese dei lavori veri. In Spagna, circa il 30% ha simili lavori, incluso molti giovani costretti dalla mancanza di un’alternativa fin dagli anni ’80. Mancando tutte le protezioni, questi saranno i primi ad essere licenziati quando la domanda diminuirà.
I criteri economici molto duri di Maastricht sono il riconoscimento che se l’Europa continua con deficit e debiti pubblici sempre in crescita, ci sarà un’esplosione d’inflazione. Già il debito pubblico in Italia ha superato il 125% del PIL; in Belgio è al 130% del PIL; in Germania e Gran Bretagna è a più del 60% del PIL. Dato i bassi tassi di crescita, questi debiti continuano ad aumentare. Se i capitalisti europei fossero riusciti ad ottenere tassi di crescita del 6-8% all’anno, allora avrebbero potuto sostenere determinati livelli di spesa pubblica. Ma tassi di crescita vicini a quelli di una recessione in Europa, nonostante la ripresa, hanno costretto la borghesia ad accettare le misure deflazionistiche. Enormi tagli sono all’ordine del giorno in quanto ogni potenza europea lotta con il proprio bilancio. In realtà sono intrappolati. Se tagliassero le spese statali e i tenori di vita della classe lavoratrice allora taglierebbero il mercato, che riduce la crescita e prepara la strada per un enorme crollo, un possibile nuovo 1929. Si trovano faccia a faccia con un dilemma insolubile.
Questo è il significato della crisi capitalista, che la sinistra riformista non è capace di comprendere. Il loro modello è il keynesismo, con il rafforzamento della spesa pubblica, che il sistema capitalista non si può permettere e che condurrebbe ad un’inflazione cronica. L’unica opzione per i capitalisti è di attuare tagli ai tenori di vita e al welfare state. Nella recessione in vista, le potenze europee si troveranno intrappolate in contraddizioni disperate, ciascuna tentando di trovare una soluzione a spese delle altre. L’UE sarà paralizzata dalla crisi.

Perché Maastricht?

Nelle pagine del Capitale, Marx già spiegava che tramite il credito il capitalismo supera i suoi limiti naturali, espandendo il mercato nel breve termine, solo al costo di indebolirlo in seguito. Nell’ultimo boom economico nel periodo che va dal 1982 al 1990, hanno usato il credito e la spesa pubblica per evitare una recessione. Da un punto di vista capitalista, è stato da irresponsabili. La classica politica di Keynes fu di usare il “pump-priming”( intervento dello Stato destinato a provocare con la spesa pubblica un incremento degli investimenti privati, Ndt) per uscire da una recessione. Usare certe misure in un boom economico era senza precedenti e ha solo mostrato quanto fossero spaventati delle conseguenze politiche e sociali di una recessione. In questo caso, hanno a malapena avuto successo nel posticipare la recessione di due anni, rendendola più profonda e lunga. Ora non possono avvalersi di tali metodi. Al contrario. I livelli di indebitamento –pubblico, privato e aziendale- al momento stanno ancora causando problemi. Questo è il motivo per cui hanno messo da parte la maschera del liberismo per rivelare la vera maschera del capitalismo, fredda e rapace, sotto il vessillo della “finanza sana” e dei “bilanci in pareggio”, che è il grido di battaglia di Maastricht.
Nel loro disperato tentativo di trovare una via di fuga dalla crisi, gli economisti borghesi oscillano ovunque, sostenendo prima una politica e poi un’altra. Non capiscono nulla e non prevedono nulla. Alla fine degli anni ’80 pensavano che il boom economico sarebbe continuato all’infinito. Non hanno previsto la recessione nel 1990, o la seguente ripresa. Avendo seguito il keynesismo nel periodo di crescita economica, divennero accesi sostenitori del monetarismo negli anni ’80. Ma in pratica, il monetarismo ha già mostrato di essere fallimentare. L’Economist ha evidenziato recentemente che quei governi che erano i più entusiasti per le politiche monetariste negli anni ’80 (Giappone, Finlandia, Svizzera) hanno finito successivamente a patire le conseguenze peggiori. La stessa cosa succederà con Maastricht. Stanno tagliando così tanto il mercato che possono cadere in un’enorme crollo, senza aver conosciuto un appropriato boom economico.
Il trattato di Maastricht non è sull’unità europea, ma semplicemente una scusante per continuare un attacco ai tenori di vita e per tagliare la spesa pubblica. La stessa politica è portata avanti da tutti gli altri governi capitalisti, inclusi gli Stati uniti, che non stanno pensando, per quanto ne sappiamo, di aderire all’UE. La vera ragione è il bisogno urgente di ridurre l’altissimo debito pubblico che sta assorbendo una quantità sproporzionata della ricchezza della società ed è diventato una mostruosa ulcera per l’intestino del sistema. Il debito pubblico italiano ammonta a non meno del 120% del PIL italiano, e quello del Belgio equivale al 130% del suo PIL. Questi dati non hanno precedenti in un periodo di pace e sono insostenibili. I tassi d’interesse di questi debiti inghiottiscono una gran parte del bilancio nazionale. Senza il pagamento degli interessi, la maggior parte di questi paesi avrebbero un surplus di bilancio. Questo fatto da solo mostra l’enorme aumento dello spreco e parassitismo fattori inseparabili dal capitalismo moderno.
Questi dati spiegano la politica spietata di tagli alle spese statali ricercata da tutti i governi. Non è dovuto alla cattiveria o al capriccio, come qualcuno potrebbe pensare, ma deriva dalle contraddizioni dello stesso sistema capitalista. I capitalisti si ritrovano intrappolati tra l’incudine e il martello. Da una parte, se permettono al deficit di cresce, dovranno affrontare il pericolo di un’incontrollabile inflazione futura. Dall’altra parte, la politica di tagli alla spesa statale restringerà il mercato e aumenterà la crisi. Ciononostante, hanno deciso di puntare tutto su una politica di tagli. Questo fenomeno mondiale è ciò che si nasconde dietro Maastricht. Il sistema capitalista ha superato i suoi limiti e ora è costretto a tagliare, a rischio di estinguersi. Chiunque non capisca ciò non capirà mai il vero significato di Maastricht o non elaborerà una vera alternativa ad esso.
Quando fu annunciato Maastricht nel 1992, tutti i governi ed economisti europei furono entusiasti. Noi dicemmo al tempo che il destino Maastricht era già segnato e che non avrebbe potuto funzionare. Come si è avverata nella realtà questa previsione?
Il problema è che i capitalisti europei stanno tentando di andare verso un’unione in un periodo dove le condizioni economiche generali stanno puntando alla direzione opposta. Se potessero ottenere un tasso di crescita del 5 o 6 per centro, come fecero durante il periodo di boom economico, allora si potrebbe arrivare all’unione monetaria senza troppi problemi. Ma con i tassi di crescita del 2-3 per cento o meno, ciò è impossibile. Dietro l’appello alla “flessibilità” c’è la difesa degli interessi nazionali di ogni paese. Anche se arrivassero a un accordo su una moneta unica, non sarebbero d’accordo su tutto il resto. A prescindere da ciò, ci sono più di mille altri punti di conflitto – viaggi transfrontalieri, passaporti, immigrazione e così via.
Tutto questo significa che è da escludere uno stato federale europeo su base capitalista. Specialmente in condizioni di crisi economica globale, la quale è inevitabile nei prossimi due anni o poco più, tutte le contraddizioni verranno a galla. È improbabile che l’UE si frantumi del tutto a causa del bisogno di difendere i loro mercati dagli Usa e il Giappone. Devono “combattere insieme, o essere schiacciati uno ad uno”. Ma il movimento verso l’Unione Europea affonderà in una mare di conflitti e battibecchi nazionali. La borghesia europea dovrà barcamenarsi in una serie di accordi bilaterali e cambiamenti di alleanze, con la Germania che guarda sempre più a Est, e la Francia che si avvicina alla Gran Bretagna e agli stati europei più deboli in un tentativo di bilanciare il potere crescente della Germania. Una tale situazione sarà altamente instabile e foriera di ogni tipo di esplosione.
Questo è ciò che gli economisti borghesi non mettono in conto. Per loro è solo un problema matematico o una partita a scacchi. Sono fuori dalle realtà della vita, e soprattutto dalla lotta di classe. Ci sono già stati scioperi e scioperi generali in paese dopo paese. Questo segna l’inizio di un risveglio della classe operaia europea. Questa è la cosa più importante da capire.
La politica dei tagli è già iniziata. Per la fine del 1997, la Francia avrà quasi dimezzato in tre anni il suo deficit di bilancio in percentuale del PIL. L’Italia l’avrà ridotto di non meno di due terzi in 4 anni. In Svezia, il vecchio bastione del welfare state, il deficit di bilancio era il 12% del PIL solo 3 anni fa, ma ora è sceso al 3%. Dal punto di vista del sistema capitalista, questo rappresenta il “progresso”, ma per una gran parte della popolazione significa un attacco al tenore e alle condizioni di vita. Le conseguenze sociali di ciò sono ora riconosciute da tutti tranne le parti ottuse della borghesia: “o ora,” scrive l’Economist, “quegli sforzi hanno aiutato a creare un fosco panorama di crescita lenta, deboli profitti, e ansia sociale.” (The Economist, 1871/97.)
I severi termini di partecipazione di Maastricht costringerebbero ad accettare tagli ai salari, la perdita del posto di lavoro o entrambi. Sarebbe la fine del tipo di stato sociale al quale ci siamo abituati nelle ultime due generazioni in Germania, Francia e Italia. Significherebbe la distruzione di quegli elementi di un’esistenza quasi civilizzata che è stata conquistata dai lavoratori e il movimento sindacalista negli ultimi 40, 50 anni, e il ritorno a tutti i vecchi incubi sulla povertà e insicurezza. Ma questa politica non deriva solo dalla logica dell’unione monetaria europea, come gli euroscettici vorrebbero farci credere. Di fatti, è già stata applicata in Gran Bretagna – nonostante la pubblica dimostrazione dell’ostilità rispetto a “Maastricht” dei principali partiti politici nel Regno Unito.
I lavoratori tedeschi, francesi e belgi danno uno sguardo alle condizioni oltremanica e dicono “Non a noi!” Ma, usando Maastricht come scusa, i vertici europei stanno provando a tornare indietro nel tempo a quello che sembra, dal punto di vista della loro classe, essere un periodo d’oro di “soldi sicuri” e di budget equilibrati – prima della prima guerra mondiale! Da un punto di vista capitalista, è una posizione logica. O per citare l’Amleto di Shakespeare, “Sebbene ciò sia folle, in esso c’è della logica!” L’effetto di tale politica sarà di esacerbare tutte le contraddizioni e provocare un’esplosione della lotta di classe in un paese dopo l’altro. In effetti ciò è già iniziato, come mostrato dagli scioperi e le manifestazioni in Francia, Germania, Italia e Belgio negli ultimi due anni. Ed è solo l’inizio.

Francia

La sconfitta elettorale della destra francese ha scosso la borghesia internazionale. Non se lo aspettavano, e meno che meno si aspettavano la scalata della vittoria della sinistra, che ha trasformato la maggioranza della più grande ala destra nell’assemblea nazionale per 150 anni nella grande maggioranza di socialisti e di comunisti. Questo risultato -insieme al massacro del Partito conservatore nelle elezioni politiche inglesi – è un chiaro segnale dell’enorme volatilità che esiste nella società, caratterizzata dal violente cambiamenti “dell’opinione pubblica” da sinistra a destra e in seguito di nuovo da destra a sinistra. Si apre un nuovo periodo della storia della Francia, la quale, come disse Marx, sarebbe stato il paese in cui la lotta di classe  si sarebbe sempre combattuta fino alla fine.
Sotto la pressione del tentativo di restare al passo con la Germania, il capitalismo francese sta iniziando a crollare. In realtà, la Francia è più debole della Germania. Non ha la stessa base industriale. La crescita è molto bassa – appena l’1,3% nel 1996, e la disoccupazione è intorno il 13%. Però, un taglio ai tassi d’interesse per aiutare la crescita economica è fuori discussione dato il bisogno di mantenere il franco in linea con il marco. La politica del “franco forte” ha aggravato i problemi già seri dell’industria francese e acuito la recessione. Questo è esattamente ciò che significa la politica di Maastricht! Il deficit del settore pubblico è stato stimato al 4% del PIL alla fine del 1996. Il budget del 1997 include gli sgravi fiscali nel tentativo di incoraggiare la crescita, ma allo stesso tempo è un congelamento della spesa pubblica. Su questa base, la riduzione del deficit sarà minima, sebbene Chirac insiste che arriverà al 3% dell’obiettivo Maastricht. Come? Mettendo nei conti la vendita della Telecom francese. Ma questo giochetto non cambia la situazione di base, dato che è un’entrata una tantum, mentre il deficit è permanente e strutturale. Dall’altra parte, il congelamento della spesa pubblica rappresenta un taglio in termini reali, qualcosa di sconosciuto in Francia negli anni recenti.
Lo spostamento a sinistra nel piano elettorale è stata preparata da un’ondata di vertenze nel settore industriale. Durante la giornata di sciopero portata avanti da 5 milioni di lavoratori del settore pubblico, che protestavano contro la proposta di congelamenti degli stipendi, una chiara maggioranza dell’opinione pubblica francese si è schierata con loro. The European (12/10/95) ha evidenziato che “un sondaggio di opinione nel quotidiano Le Parisien ha mostrato che il 57% dei francesi era a favore dello sciopero e solo il 26% era contro.” Questo mostra l’inizio del cambiamento di stato d’animo nella società francese. Lo stesso fenomeno si poteva vedere un anno dopo nel magnifico sciopero nel dicembre del 1996. Lo sciopero dei camionisti fu uno movimento incredibile che rivelò l’enorme forza potenziale nelle mani dei lavoratori. Questo settore da solo fu capace di paralizzare l’economia francese (e anche quella del resto dell’Europa) e far inginocchiare il governo. Sebbene non siano tradizionalmente tra gli strati più avanzati della classe, i camionisti hanno mostrato grande spirito, combattività e determinazione, e hanno ottenuto le loro principali rivendicazioni. Quello che è ancor più importante, tre quarti della popolazioni li appoggiava, nonostante gli inconvenienti dovuti allo sciopero. Allo stesso modo, la maggior parte dei camionisti stranieri ha espresso simpatia e solidarietà con i loro fratelli francesi, sebbene lo sciopero li abbia danneggiati.
Risultato di questo movimento dal basso è l’inizio di un cambiamento nei sindacati. Force Ouvrière si è formata dalla scissione dell’ala destra della CGT comunista e fu virtualmente un sindacato aziendale. Ma la pressione lo spinse in una posizione combattiva, in realtà alla sinistra del CFDT e del CGT nello sciopero del settore pubblico del dicembre 1995. Al contrario la CFDT, che era a sinistra fin dal 1968, si è spostata a destra. Ma ciò ha provocato un grande spostamento a sinistra tra le fila del CFDT, che è diventato organizzato come il gruppo Tous Ensemble (“tutti insieme”). Questo mostra l’inizio di un processo di differenziazioni interne che avverrà in tutti i sindacati nel periodo che sta per iniziare. La polarizzazione a sinistra e destra nella società presto o tardi troverà espressione nelle fila delle organizzazioni del movimento operaio.
Chirac ha deciso di anticipare le elezioni politiche, nonostante avesse una grande maggioranza in parlamento (464 seggi sulle 577 dell’assemblea nazionale), nella speranza di assicurarsi altri 5 anni al potere, in modo da poter portare avanti le politiche impopolari di austerità che ne sarebbero derivate. Nonostante le conclusioni esplosive che ne conseguiranno, la classe dominante francese è disperata per cercare di mantenere la propria posizione di seconda potenza in Europa, dandosi da fare in tutti i modi per mantenersi al passo coi suoi vicini più potenti. Ma nonostante l’unità di facciata, l’intero processo è pieno di contraddizioni. Aumentano sempre più i dubbi che la Francia riesca a far parte dell’UEM. Le relazioni con la Germania sono tese, nonostante tutte le chiacchiere sull’asse Parigi-Bonn. Un funzionario tedesco è stato recentemente citato mentre parlava delle elezioni francesi: “Se l’ambiente sui dimostrerà essere fortemente contro le politiche di riforma (cioè più tagli, AW), dobbiamo chiederci che strada prenderà la Francia” (Business Week, 5/5/97).
La rapida ripresa dei socialisti ha sorpreso sia i partiti dominanti che gli “esperti” stranieri che si lamentavano che Chirac non avesse dimostrato abbastanza zelo nel tagliare il tenore di vita delle masse nella ricerca del santo Graal di Maastricht. In realtà, è stato uno sviluppo completamente prevedibile. Ma Chirac non aveva altra scelta dato che se avesse aspettato un altro anno, la situazione sarebbe addirittura peggiorata. Le elezioni francesi, forse addirittura più di quelle britanniche, hanno rivelato l’alto tasso di volatilità dell’ambiente che ora esiste nella società, particolarmente nella classe media, caratterizzato dal violento passaggio da sinistra e destra e viceversa. Come spiegò Lenin molto tempo fa, questo è uno dei sintomi di una profonda crisi della società. Già settori della classe dominante francese stanno parlando di rivoluzione, come l’ex ministro degli interni del governo, il gollista Charles Pasqua, che nel novembre scorso, rievocando il 1788 ha detto “Siamo alla vigilia di una rivolta.”

Germania

Nel tentativo di ridurre il deficit del settore pubblico tedesco dal 4% al 2.5% (una percentuale ancora più bassa del 3% richiesto da Maastricht), Kohl ha proposto un programma di tagli alla spesa di 70 miliardi di marchi tedeschi (30 miliardi di sterline), includendo un taglio del 2,5% delle spese federali, in aggiunta alle altre riduzioni a livello regionale. Tra le misure proposte c’era un congelamento dei sussidi di disoccupazione, tagli al servizio sanitario e riduzioni dei diritti pensionistici. C’erano anche proposte a lungo termine per aumentare l’età pensionabile delle donne da 60 a 65. Come se non fosse abbastanza, sono stati proposti una serie di cambiamenti nelle leggi sull’occupazione tedesca, con l’obiettivo di ridurre i costi che gravano sui datori di lavoro e concedendo loro una maggiore libertà per licenziare i lavoratori, ed inoltre ridurre lo stipendio nei giorni di malattia dal 100% di un salario normale all’80%.
I governi borghesi commettono sempre l’errore di confondere la classe operaia con i settori dirigenti dei sindacati e del movimento operaio. Quando Kohl ha annunciato il suo programma di tagli, i dirigenti sindacali tedeschi hanno risposto convocando una manifestazione nazionale di massa. Questa è stata di fatto la più grande manifestazione dall’ascesa di Hitler, con 350 mila partecipanti a Bonn il 15 giugno del 1996. Ma, come tipico, i dirigenti hanno provato a svuotarne il contenuto dandole l’atmosfera di un innocuo carnevale con birra, salsicce e palloncini. I rappresentanti dei capitalisti non potevano trattenere il loro entusiasmo. Hanno riso di gusto e portato avanti i loro tagli.  Questo comportamento è tipico della condotta dei dirigenti sindacali a livello internazionale. Anche quando sono costretti dalla pressione a convocare una manifestazione, fanno tutto ciò che è in loro potere per limitarne la portata, per renderla un gesto vuoto e un modo per far sfogare il movimento. Come sempre, la debolezza invita l’aggressione. Tale comportamento (che per una ragione inspiegabile lo chiamano “realismo”) incoraggia semplicemente a portare avanti ulteriori attacchi.
Però hanno completamente sottovalutato la situazione e il vero stato d’animo nei posti di lavoro. In realtà, i leader sindacali “realisti” non avevano alcun contatto con la realtà. Addirittura i delegati sindacali non riflettevano fedelmente lo stato di rabbia e amarezza che si era lentamente accumulata nella classe. Ciò si è visto nella spontanea onda di scioperi non ufficiali che hanno accolto questo tentativo di ridurre l’indennità di malattia dal 100 all’80% del salario, un’importante conquista della classe lavoratrice tedesca. L’annuncio di Kohl è stato accolto da un’esplosione nelle fabbriche che ha lasciato sia i datori di lavoro che i dirigenti sindacali a bocca aperta. La scintilla è stata accesa dai lavoratori della Mercedes Benz, quando la direzione aziendale annunciò all’inizio di ottobre l’intenzione di mettere in pratica questo taglio all’indennità di malattia, facendo pertanto a pezzi il contratto collettivo. Ci furono proteste immediate, e la Mercedes Benz fu costretta a ritirarle. Ci furono manifestazioni di massa degli operai siderurgici nel sud ovest e nel Nord-Reno-Vestfalia. La cosa più interessante da notare qui è il fatto che fino ad ora non c’era alcuna tradizione tra i lavoratori tedeschi di scioperi non ufficiali. Ma questo sta cambiando velocemente. L’ambiente fra i lavoratori è stato dimostrato dai commenti di un rappresentante sindacale della Mercedes dello stabilimento di Stoccarda, Tom Adler:
“La pressione è venuta dal basso. Il mattino dopo la decisione del consiglio di amministrazione di introdurre il taglio all’80%, il turno di mattina ha scioperato, è stato un movimento spontaneo e non organizzato dal IG Metall né dal comitato della fabbrica locale. Anche il turno pomeridiano e quello notturno hanno scioperato spontaneamente. I presidi fuori i cancelli della fabbrica erano molto partecipati ed esprimevano una rabbia enorme da parte dei lavoratori, qualcosa che non ho mai visto prima dai miei compagni di lavoro. Questa era una situazione in cui quasi qualsiasi cosa sarebbe potuta essere possibile. Gli eventi in quei giorni hanno dimostrato una cosa: la coscienza può svilupparsi facendo salti da gigante. Molti lavoratori hanno capito che qualcosa deve succedere. Molti, che erano passivi e con scarsa convinzione appena un giorno prima, hanno preso parte allo sciopero.” (Socialist Appeal, Novembre 1996).
I lavoratori della Mercedes sono riusciti a costringere i padroni a tornare sui loro passi, ma questi ultimi inevitabilmente si riorganizzeranno e lanceranno un nuovo attacco in futuro. Non hanno altra alternativa se non il tentativo di distruggere tutte le conquiste fatte dai lavoratori negli ultimi 50 anni. Questo è l’inizio di un nuovo periodo nel movimento operaio tedesco. Da un giorno all’altro, le vecchie politiche di collaborazione di classe e di “ partecipazione dei lavoratori” (Mittbestimmung) sono state messe da parte dalla classe dominante. I lavoratori hanno dimostrato che sono pronti ad accettare la sfida.
Ora Kohl annuncia che “non mi sono mai inchiodato alla croce del 3%”. Il disperato sforzo di Kohl di far approvare l’unione monetaria a qualsiasi costo ha provocato uno divisione aperta tra il suo governo e la possente Bundesbank. In una manovra trasparente per arrivare all’obiettivo del 3% con un po’ di contabilità creativa, lui ha richiesto la rivalutazione dalla Bundesbank delle riserve d’oro, emettendo così una gran quantità di fondi e riducendo il deficit con un tocco di bacchetta magica. Sfortunatamente, alla Bundesbank non piacciono questi giochi di prestigio. A prescindere da ogni altra considerazione, un trucco così spudorato renderebbe difficile argomentare l’esclusione dall’esclusivo club UEM dell’Italia, della Spagna e degli altri stati deboli per aver fatto ricorso a trucchetti per aggiustare i loro deficit quando Bonn stava facendo lo stesso. No! Il nome del gioco non è trucco di prestigio, ma un assalto organizzato sulla spesa pubblica e al tenore di vita delle masse, e la Bundesbank non accetterà nulla di meno!

Italia

C’è una grave crisi in Italia, che, nonostante tutti i progressi vantati nel periodo passato, rimane un’economia relativamente debole (almeno rispetto alla Germania e la Francia). L’economia è cresciuta solo dello 0.7% nel 1996, e molti uomini d’affari italiani hanno paura di una recessione. La domanda interna è debole, e gli investimenti molto bassi. La disoccupazione supera il 12%. Tra gennaio e agosto del 1996, le grandi aziende e l’industria pesante hanno perso il 2% dei loro lavoratori. Il debito pubblico resta al 123% del PIL – il secondo più alto in UE (dopo il Belgio). Dopo decenni di coalizioni governative instabili del centro destra, la classe dominante italiana sta ora provando a appoggiarsi a una coalizione del centro sinistra, “l’Ulivo” di Romano Prodi, per portare avanti politiche di tagli, nascondendosi dietro il vessillo “Europa”.
Dopo l’espulsione senza il minimo scrupolo dal Sistema monetario europeo (Sme) assieme alla sterlina nel settembre del 1992, la lira è rientrata nel novembre del 1996. Di fatti, la svalutazione della lira nel 1992 ha giovato all’esportazione italiana (e britannica), a gran dispiacere della Francia. Ma fin dall’inizio, il portavoce della Bundesbank, Hans Tietmayer, ha detto chiaramente che, sebbene l’Italia è tornata nello Sme, la sua ammissione alla moneta unica non era per nulla assicurata. Quando l’accordo di Maastricht fu firmato, la Germania insistette per avere condizioni rigide in modo da assicurarsi che la nuova moneta sarebbe stata una moneta forte. Ciò significa che tutti i paesi candidati dovrebbero avere una bassa inflazione, bassi tassi d’interesse a lungo termine, tassi di cambio stabili e bassi deficit e debiti del settore pubblico. Ciò fu fatto per la Germania, Francia, Benelux, Austria e forse Irlanda. (Addirittura tutto ciò avrebbe significato accettare criteri flessibili riguardo il debito per il Belgio e Irlanda). L’Italia non sarebbe dovuta entrarci. Quindi, in particolare i tedeschi stanno insistendo sulle condizioni più rigorose possibili prima di accettare l’Italia (o la Spagna).
Paradossalmente, ritornando nello Sme, la borghesia italiana ha buttato via un grande vantaggio. La svalutazione della lira, come abbiamo visto, fornì un gran impulso all’esportazione italiana, specialmente nel nord-est del paese, che ha inondato i mercati europei. Questo vantaggio competitivo adesso verrà perso. Invece, lo stesso mercato italiano sarà schiacciato dai tagli, mentre le esportazioni saranno ridotte dalla crescita della lira. In un vano tentativo di mantenersi al passo con francesi e tedeschi, il governo Prodi ha portato avanti la linea dura, usando Maastricht come scusante per portare avanti una feroce politica di tagli. Come ha scritto The Economist in modo cinico: ”I requisiti di Maastricht sono importanti, ma richiedono lo smantellamento dello stato sociale. Ciampi ha risposto tempestivamente: ‘prometto che lo faremo’”. Il bilancio del 1997 rappresentava un taglio di 62mila miliardi di lire – ciò oltre ad un taglio di 16mila miliardi di lire nella manovra correttiva del 1996, la così detta “tassa per l’Europa”, e nonostante ciò è stata necessaria un’altra manovra prima di Pasqua per trovare altri 15mila miliardi di lire per rientrare dei termini di Maastricht. Questi continui tagli alla spesa non riusciranno a portare l’Italia ai livello richiesto per partecipare alla moneta unica, ma ad un certo punto provocherà un’esplosione sociale, come è successo in Francia.

La posizione della Gran Bretagna

In passato la Gran Bretagna era l’officina del mondo, guidando la strada dell’industrializzazione. Ma la storia gioca strani tiri. Ora, nel periodo di declino del capitalismo, la Gran Bretagna apre la strada alle politiche più retrograde in tutti i campi. Sotto la Thatcher, un quarto delle industrie manifatturiere furono distrutte e sostituite dal settore più parassitario dei servizi, banche e assicurazioni. La Gran Bretagna è diventata in parte uno stato parassitario che vive di rendita. Un’isola poco importante al largo delle coste dell’Europa e un satellite dell’imperialismo statunitense, un’umiliante dipendenza che loro provano a mascherare con stupide chiacchiere su una “relazione speciale” inesistente. In realtà, Washington dà molta più importanza ai suoi collegamenti con Bonn che con Londra, sebbene occasionalmente usi la Gran Bretagna come il suo burattino per difendere i propri interessi in Europa se necessario.
Come il rospo nella favola di Esopo, i capitalisti britannici si stanno facendo grandi, vantandosi dei loro presunti successi sul fronte economico. Questa è una bugia palese. Sotto il governo conservatore, la base industriale britannica è stata parzialmente distrutta. È stato trasformato in bassi salari, pochi qualificati, economia arretrata, sebbene la storia dimostra che un’economia basata su bassi salari non potrà mai prevalere contro un’economia basata su alti salari, alta produttività e macchinari moderni. La classe dominante totalmente reazionaria sta provando a trasformare i lavoratori britannici nei coolies d’Europa (i coolies erano i lavoratori non specializzati, indiani o cinesi, utilizzati all’epoca dell’Impero britannico, Ndt). Hanno smantellato sistematicamente lo stato sociale e hanno diminuito il tenore di vita, soprattutto dei settori più poveri della società. Per alcuni aspetti, stanno tornando velocemente alle condizioni salariali, di orario e al trattamento brutale di disoccupati, malati e senzatetto dei tempi di Dickens. Ciò è stato identificato come un modello attraente da molti dei padroni europei, che, tuttavia, sono spaventati dalle conseguenze sociali di una tale politica. Da parte loro, la nuova razza di dirigenti conservatori, parvenu di una classe media, ignorante e avida, è cieca davanti le conseguenze delle proprie azioni che stanno accumulando contraddizioni su contraddizioni, preparando un’esplosione sociale nei prossimi anni.
Il vero equilibro di forze, comunque, è stato rivelato duramente quando la Bundesbank senza troppe cerimonie espulse la sterlina e la lira dallo Sme e costrinse la Gran Bretagna e l’Italia a svalutarle nel 1992. Ciò significa che la Bundesbank ha mostrato chi è il capo! Comunque, un settore composto dagli elementi più reazionari e ottusi della classe dominante britannica non sopporta l’idea di inginocchiarsi davanti alla potenza del capitalismo tedesco in Europa. Soffrono della delusione della passata grandezza del ruolo della Gran Bretagna in Europa e nel mondo. Questa settore, rappresentata dalla così detta ala euroscettica del partito conservatore, non può riconciliarsi con la perdita del potere e l’influenza della Gran Bretagna. Sognano un ritorno alle vecchie glorie imperialiste, e sono ciechi davanti al fatto che questo potere fosse basato sul monopolio britannico dell’industria, che adesso è inesistente. Il desiderio di diventare “indipendenti” dall’Europa  nasconde semplicemente la realtà della dipendenza britannica dagli Usa.
Tuttavia rimane il fatto che, avendo perso sia le sue basi industriale che le sue colonie, la Gran Bretagna ora dipende completamente dal mercato europeo. L’idea di ritirarsi è completamente utopistica. Sarebbe un disastro ancora più grande per il capitalismo britannico. Ciò è compreso dal settore decisivo dei grandi monopoli che ancora domina la leadership del partito conservatore e sta resistendo alle pressioni dell’ala euroscettica.
Questa divisione nel partito conservatore è la divisione più seria da 150 anni. L’ala industriale della classe capitalista britannica (e parte del capitale finanziario in connessione con l’Europa) capisce che non c’è futuro per la Gran Bretagna fuori dall’Europa al momento. I vecchi mercati nelle ex colonie sono del tutto spariti, sostituiti da quello statunitense e giapponese. Il collasso della base manifatturiera britannica è tale che una grande parte dell’industria ora è in mani straniere. I conservatori ne vanno fieri, e ciò in realtà deriva da due fattori – i salari tipo “coolie” e l’accesso della Gran Bretagna al mercato europeo.
Paesi come la Corea del Sud e il Giappone vogliono usare la Gran Bretagna come trampolino da lancio per far arrivare i propri prodotti in Europa, quindi aggirando le barriere doganali dell’UE. Di fatti, c’è un’aspra disputa con la commissione europea su fino a che punto le auto giapponesi e coreane “prodotte in Gran Bretagna” possano essere considerate britanniche. Chiaramente, se la Gran Bretagna uscisse dall’UE, o si rifiutasse di aderire all’UE, almeno parte del capitale andrebbe perso. Gran parte delle esportazioni britanniche vanno all’UE, incluso il 60% dei suoi beni industriali. La Gran Bretagna vende più merci alla Germania di quanti ne venda agli Usa; più in Olanda che nelle sei “tigri” asiatiche, la Cina e le Filippine assieme; più in Svezia che in tutta l’America Latina; più in Irlanda che in Canada, Australia, Nuova Zelanda e Sud Africa uniti.
È vero che, dato il terribile declino della sua base industriale, il futuro per il capitalismo britannico nell’UE è cupo. Ma non c’è un futuro per esso neanche fuori. Uscirne ora sarebbe un disastro, causando una seria recessione economica, aggravando tutte le contraddizioni e addirittura mettendo in discussione l’unità stessa del Regno Unito, con effetti in Scozia, Galles e Irlanda del Nord. Siccome non si può escludere del tutto che ciò possa accadere durante una profonda crisi, è più probabile che resteranno assieme, per paura di essere schiacciati separatamente. La ragione principale è sempre la stessa – nessuno stato europeo può sopravvivere da solo nell’economia mondiale attuale. Per proteggere loro stessi dalla competizione con gli Usa e il Giappone, sono condannati a rimanere insieme in un’unione scomoda. Ma tutto ciò è molto lontano dall’idea di un’Europa federale prevista dai fondatori dell’Unione.

Gli stati minori

Fino ad ora la Germania ha firmato all’Ue un assegno molto oneroso per le sue casse. Gli stati più poveri (Grecia, Spagna, Portogallo, per certi versi anche Italia ed Irlanda) hanno beneficiato da tale situazione. Questo spiega il loro entusiasmo per “l’ideale europeo”. Ma ora tale situazione cambierà. L’unificazione della Germania ha avuto degli effetti contraddittori. Da una parte, ha rafforzato l’imperialismo tedesco, creando un potente stato al centro dell’Europa. Ma dall’altra parte, ha anche indebolito la Germania, ponendo sotto pressione le sue finanze. La decisione, di fatto, di acquisire la Germania dell’Est un cambio di uno a uno tra il marco dell’Est e quello dell’Ovest, si è dimostrata estremamente costosa. In più, il costo dell’integrazione economica dell’Est, della modernizzazione delle infrastrutture ecc… ha prosciugato in maniera serie addirittura le enorme risorse della Germania.
Nonostante tutte queste spese, i problemi dell’Est non si sono risolti. C’è una disoccupazione di massa e un risentimento crescente per il trattamento fornito ai tedeschi dell’est come fossero cittadini di seconda classe. È quasi come una colonia, o anche più, come il Mezzogiorno italiano. Nei primi tempi, la spesa per la rete fognaria, le strade e i telefoni diede vita ad un boom edilizio che nascondeva il vero stato degli affari. Ma ora è tutto finito. C’è un alto tasso di disoccupazione sia nell’Est che nell’Ovest. Per la prima volta da Hitler, ci sono 4,5 milioni di disoccupati in Germania. I capitalisti tedeschi devono anche affrontare il bisogno di tagliare le spese statali. Ciò significa che non si possono permettere di essere generosi con i loro contributi al bilancio dell’UE. In futuro si assicureranno che i loro contributi siano legati ai loro stessi interessi. Questo è già il caso della Grecia, dove i soldi dell’UE per i progetti di infrastrutture sono legati a contratti alle imprese tedesche.

Il movimento operaio

La crescente polarizzazione sociale avrà dei profondi effetti sulla classe lavoratrice. Si aprirà un abisso tra le classi. Lungo tutto un periodo, la coscienza dei lavoratori si trasformerà. Tutte le vecchie illusioni saranno distrutte, preparando un enorme spostamento a sinistra. Ad un certo punto, ciò si rifletterà nelle organizzazioni di massa della classe lavoratrice.  Nell’ultimo periodo, i leader dei partiti dei lavoratori e dei sindacati si sono spostati molto a destra. Non capiscono la profondità della crisi del capitalismo e non hanno alcuna prospettiva o alternativa. I leader della destra del movimento operaio, come sempre, fanno semplicemente eco alle opinioni della classe dominante. Sono quasi indistinguibili dai politici borghesi di “sinistra”. Nel periodo di ripresa del capitalismo, potrebbero almeno offrire la prospettiva di piccole riforme, ma ora non possono neanche fare ciò. Il loro programma è fondamentalmente lo stesso dei partiti capitalisti – gli stessi, tagli, austerità, degrado del tenore di vita. Pertanto vediamo il completo fallimento del riformismo.
Tuttavia, nemmeno l’ala sinistra del riformismo non ha una vera alternativa. Non capiscono neanche loro la vera natura della crisi, e non possono rispondere alle argomentazioni della destra del movimento operaio, le quali hanno almeno una loro coerenza. Se accetti l’esistenza del capitalismo, allora devi anche accettare le sue leggi. I riformisti di sinistra non sostengono l’abolizione del capitalismo, ma parlano in modo confuso di un’economia mista, con qualche nazionalizzazione, più spesa pubblica e più riforme. Nel periodo attuale, questo è un sogno. Il vecchio modello keynesiano è collassato ovunque e non si può riprendere. Qualsiasi tentativo di portare avanti una politica a metà strada causerebbe un’esplosione di inflazione, un collasso degli investimenti e della moneta e una situazione peggiore di quella precedente. Nessuno prende in considerazione seriamente queste idee. È da dubitare se addirittura molti dei riformisti di sinistra davvero ci credano, che è la ragione principale del motivo per cui sono stati sconfitti dall’ala destra ovunque, sebbene questa situazione cambierà nel prossimo periodo.
È ironico che, appena il “mercato” viene screditato ovunque, i leader riformisti si affrettino a farlo proprio. Avranno una bella sorpresa. Particolarmente nell’eventualità di una nuova recessione, che è inevitabile nei prossimi anni, queste organizzazioni saranno scosse da cima a fondo, iniziando dai sindacati. I leader attuali dei sindacati, così come i loro corrispondenti politici, si sono spostati molto a destra, rispecchiando le pressioni del capitalismo. Nicole Notat in Francia, Antonio Gutierrez in Spagna, John Monks in Gran Bretagna e Hubertus Schmoldt in Germania sono rappresentati tipici di questo nuovo tipo di dirigenti sindacali che sono ansiosi di mostrare le loro qualità “diplomatiche”, cedendo tutte le vittorie passate e lottando per un “consenso” da parte del capitale, precisamente quando le basi oggettive per tale consenso hanno cessato di esistere. Lontano dall’essere i grandi realisti che credono di essere, sono il peggior tipo di utopisti. Provano a basarsi su un capitalismo che non esiste più. Guardano indietro e non avanti. Inoltre, le loro così dette politiche pratiche hanno il risultato opposto a quello sperato. La debolezza invita all’aggressione. Per ogni passo indietro che fanno, i padroni ne pretendono altri due. Non sono neanche capaci di adempiere i compiti più elementari di un dirigente sindacale – difendere il livello esistente di salari e le condizioni lavorative. Nonostante ciò, l’offensiva del padronato sta preparando un contraccolpo che preparerà anche il terreno per una trasformazione radicale dei sindacati paese dopo paese. L’ala destra dei dirigenti sindacali sarà obbligata a guidare la lotta, o sarà emarginata per fare strada ad altri che saranno pronti a farlo al suo posto.
Il futuro è già chiaro, delineato dagli eventi in Francia. In seguito ai grandi scioperi nel 1995, il dissenso è cresciuto nella CFDT. In Italia, Cofferati sostiene un “compromesso” con Dini sulla questione pensioni. I leader della CCOO e dell’UGT spagnole firmano un accordo con l’ala destra del governo del PP per la flessibilità del lavoro – cioè, per dare la possibilità ai padroni di licenziare i lavoratori. Questo in un momento dove il tasso di disoccupazione ufficiale in Spagna è del 23%. Anche i sindacalisti tedeschi esprimono la loro volontà di collaborare con i tagli proposti dal governo Kohl, prima dell’ondata di scioperi e proteste. Questo è tipico della condotta dei sindacalisti a livello internazionale. Tutti loro ora accettano la necessità di una “riforma” dello stato sociale, cioè di tagli.

Ci sarà l’unione monetaria?

La strada per l’UEM è irta di difficoltà. Di fatti, cinque anni fa, pensavamo fosse improbabile una sua riuscita. La verità è che i termini originali di Maastricht sono estinti come il dodo, sebbene non possono ammetterlo. Possono solo andare avanti con dei trucchetti, “contabilità creativa” e falsata. La scadenza è stata già posticipata dal 1997 al 1999, e in effetti la piena attuazione non ci sarà fino al 2004. Molte cose possono succedere da qui ad allora. Una recessione senza dubbio esacerberebbe tutte le contraddizioni e probabilmente farebbe naufragare il tutto. Anche al momento, l’opposizione a Maastricht sta crescendo pure in Germania.
In un articolo recentemente apparso sul Süddeutcher Zeitung intitolato “Un Euro per Tutti”, vediamo un riflesso di questo sentimento:
“Più ci avviciniamo alla data della decisione e più ci sono dubbi se dovrà essere seriamente presa. I dubbi sono involontariamente seminati dal cancelliere (tedesco, Ndt) e i suoi ministri degli esteri e delle finanze, perché continuano a contraddirsi a vicenda. Da un lato, sottolineano che vogliono assicurarsi che le condizioni siano soddisfatte senza alcun se o ma, e poi allo stesso tempo negano le conseguenze del dire precisamente una cosa: è già troppo tardi perché i criteri della politica fiscale di Maastricht siano rispettati. Pertanto l’unione monetaria dovrebbe essere annullata. Il trattato di Maastricht fa riferimento ad ‘uno stato accettabile di finanze pubbliche nel lungo periodo, riflesso in un budget che non sia eccessivo.’ Ciò significa che un candidato per l’unione monetaria deve dimostrare che è nella posizione di mantenere un disavanzo di bilancio complessivo al di sotto del 3% del PIL. Il debito pubblico non dovrebbe superare il 60%. Oltre al piccolo Lussemburgo, non c’è un paese dell’UE che possa fornire tale prova. Di fatti, è vero l’opposto: dalla conclusione del Trattato di Maastricht, un maggior deficit e maggiori livelli di debito sono diventati la norma. Gli stati membri ora stanno cercando di far scendere i loro deficit entro l’anno della decisione, il 1997, usando tutti i tipi di trucchi contabili e stanno quindi facendo uno strappo alla regola del trattato. Questo non è il modo attraverso cui coloro che hanno formulato il trattato intendevano la convergenza delle politiche di bilancio, modalità che hanno richiesto per arrivare ad una stabile unione monetaria.”
Al momento, Kohl sembra determinato a portare avanti l’unione monetaria. Avendo spinto per l’unificazione tedesca, vuole apparire nei libri di storia come l’artefice dell’Unione Europea. Ma, con le parole di Robert Burns, “I piani più accurati dei Topi e degli Uomini vanno spesso storti” Kohl è preoccupato che qualsiasi ulteriore ritardo delle scadenze previste dal calendario per l’unione monetaria europea potrebbe significare che l’intero affare possa essere annullato. Prima delle elezioni britanniche, John Major (primo ministro conservatore britannico all’inizio degli anni novanta, Ndt), in un tentativo di sedare lo scetticismo dei conservatori, disse che l’UEM non sarebbe stata raggiunta entro il 1999, e che, se fosse successo, si sarebbe sgretolata lo stesso. Ci ha azzeccato per metà. Data l’intensa pressione da Kohl, è possibile – sebbene senza alcun modo di esserne certi- che qualche tipo di accordo possa essere raggiunto per quella data. Ma, essendo basato su una serie di compromessi per loro natura difettosi, ad un certo punto si sgretolerà inevitabilmente.
Ad un punto, realizzando che era impossibile raggiungere i criteri di convergenza, la Germania ha pensato di mettersi alla testa di un piccolo numero di stati che avevano i requisiti per l’UEM (in pratica, Germania, Francia e i paesi Benelux) formando un nucleo ristretto,  lasciando fuori la Gran Bretagna, l’Italia e gli stati più deboli (la cosiddetta “Europa a due velocità”). Sono in atto tutti i tipi di manovra, comprese diverse combinazioni, mentre i diversi stati nazionali lottano ottenere un vantaggio:
C’era anche costernazione alle osservazioni di Carlos Westendorp, il ministro degli esteri spagnolo, che disse che c’era un’intesa segreta tra i governi europei, che l’UEM non potesse continuare comprendendo solo la Francia, Germania e i paesi Benelux. A meno che un altro grande paese – Gran Bretagna, Spagna o Italia – fosse pronto ad unirsi entro il 1999, l’UE dovrebbe “fermare l’orologio” riguardo all’intero progetto, ha detto Westendorp. ‘Siamo in una situazione di crisi di credibilità dell’intero progetto. ’
“Secondo il piano redatto dall’ex presidente francese la performance economica richiesta ai paesi che vogliono  aderire nella moneta unica potrebbe essere più elastica se il ciclo economico dovesse rallentare. Un piano del genere incontrerebbe una ferma opposizione da parte della Germania” (The Independent, 25 gennaio 1996).
Il problema con l’idea della cosiddetta “Europa a due velocità” è stato rivelato immediatamente dopo la rottura dello Sme. Gran Bretagna e Italia furono costrette a svalutare la loro moneta, che fornì alle loro merci prezzi vantaggiosissimi in confronto a quelli di Germania e Francia. Crebbero a scapito di questi ultimi, provocando un coro di proteste dai produttori tedeschi e francesi. Quindi qualsiasi tentativo di formare un Blocco tedesco all’interno dell’UE causerebbe serie tensioni, e potrebbe addirittura portare alla rottura dell’Unione. Questo è il motivo per cui l’idea è stata accantonata. Invece, la Bundesbank vuole che tutte le valute entrino nell’UEM alle proprie condizioni, per escludere qualsiasi possibilità di nuove svalutazioni competitive. Tuttavia, questo creerà soltanto nuove contraddizioni.
Il caso del Belgio è particolarmente lampante. Con un enorme debito pubblico pari al 130% del PIL, come si può discutere se il Belgio abbia le carte in regola per aderire all’UEM? Eppure hanno trovato le ragioni con cui giustificare l’ammissione del Belgio al club. Ovviamente! Non ci possono essere discussioni su una Moneta unica senza almeno il Belgio e l’Olanda (di fatto, satelliti della Germania). Ma il Belgio e l’Olanda non aderirebbero senza la Francia, e gli olandesi in particolare hanno mostrato grande entusiasmo per un maggior coinvolgimento della Gran Bretagna. Tutti loro si sentono a disagio nell’essere completamente oscurati dal loro potente vicino. Qui già vediamo lo schema delle future lotte e divisioni.
La Bundesbank continua a mantenere una linea dura, richiedendo dure leggi e addirittura l’imposizione di multe punitive per gli stati membri che cadono sotto i criteri di convergenza. Vogliono assicurarsi che l’euro sia solido quanto il Marco, ma ciò è un’illusione. Le condizioni stabilite dalla Bundesbank per l’unione monetaria sono estremamente rigorose, perché non vogliono che l’euro sia una moneta debole che debba essere sostenuta dai fondi tedeschi. Questo è il motivo per cui i tedeschi non sono entusiasti sull’adesione nella prima fase dell’Italia all’UME. Non è un segreto che l’Italia ha dovuto ricorrere a vari trucchi per essere ammessa. Con questa base di partenza, non riusciranno a mantenere una moneta forte e stabile a lungo. Come potrebbero mantenere un tasso di cambio fisso tra economie con livelli così diversi tra loro? In realtà Kohl e Chirac hanno concordato di infrangere le regole per impedire il fallimento del processo. La verità è sempre concreta. Poniamo la domanda di come concretamente funzionerebbe l’UEM.
I termini di convergenza per Maastricht in sostanza significano due cose: 1) tassi di cambio fissi e 2) austerità permanente. Le conseguenze economiche e sociali di entrambe sarebbero di ampia portata, creando tutti i tipi di stress e tensioni, non solo per la Germania, ma anche per la Francia, e addirittura in misura maggiore per le deboli economie di Spagna, Italia e Belgio, che in pratica non possono soddisfare i duri termini stabiliti per la convergenza, e stanno ricorrendo a tutti i trucchetti e “contabilità creativa” per dare una falsa apparenza. I risultati immediati del piano di convergenza di Maastricht sono già stati visti – tagliare la domanda e produrre una forte svalutazione. Risultato è stato che c’è addirittura un maggior rischio per l’Europa di entrare in una seria recessione. Sicuramente la disoccupazione aumenterà in tutta l’Europa. Il tenore di vita sarà tagliati in seguito alla politica di controriforme collegata al taglio delle spese statali. Questo è il vero obiettivo dell’operazione, come abbiamo già spiegato. Si applicherebbe con o senza il raggiungimento dell’obiettivo dell’unione monetaria europea. Questo è il motivo per cui l’argomentazione, portata avanti dalla lobby anti-UE in Gran Bretagna e nelle altre nazioni è completamente ipocrita. Dentro o fuori l’UE e l’UEM, su una base capitalista, porteranno avanti lo stesso tipo di politica. Questo non significa che, sotto la pressione del movimento della classe operaia, non ci potrebbe essere alcun tentativo di tornare ai vecchi metodi keynesiani del deficit finanziario. Ma, su base capitalista, porterà al disastro – un attacco al capitale, inflazione galoppante e un crollo della valuta, costringendoli a tornare ad una politica di tagli addirittura più dura. In una situazione di crisi capitalista, tutte le strade portano alla rovina.
Non è escluso neanche ora che, sotto la pressione di una crisi sociale e di grandi mobilitazioni della classe operaia, saranno costretti a posticipare l’introduzione di della moneta unica, o addirittura abbandonarla del tutto. Ma anche se procederanno sulla base di un accordo raffazzonato (nessun altro è possibile), dovranno affrontare molto presto problemi nuovi e insolubili che porterebbero, prima o poi,  alla fine della moneta unica fra recriminazioni reciproche, come è successo precedentemente con la sfortunata Sme. Lungi dal condurre verso una maggiore integrazione europea, avrà l’effetto opposto, aggravando enormemente le tensioni e i conflitti tra gli stati nazionali.
C’è un grande abisso che separa la teoria e la pratica. In teoria, tutto sembra molto bello e logico. Il problema è che il sistema capitalista non ha nulla di logico. In astratto, l’idea di una moneta unica europea è buona. Ci sarebbero grandi risparmi, i commerci sarebbero velocizzati, si faciliterebbero gli investimenti e la pianificazione economica a lungo termine e si eliminerebbero una serie di operazioni non necessarie e inutili. Ma in pratica, su base capitalista, sarebbe un disastro. In teoria significherebbe che tutte le monete nazionali sarebbero rinchiuse in un sistema rigido. A nessun governo nazionale sarebbe concesso di alterare il tasso di cambio concordato. Ciò significa che nessun paese potrebbe uscire da una crisi facendo ricorso alla svalutazione.
La Germania non vuole una replica della situazione in cui l’Italia e la Gran Bretagna hanno ottenuto un vantaggio concorrenziale sleale svalutando le loro monete, quindi rendendo i loro prodotti d’esportazione più economici di quelli tedeschi. Sotto l’UEM, ciò sarebbe da escludere. Negando la possibilità di svalutare la moneta, ogni governo dovrebbe cercare una soluzione in casa propria – il che significa una politica selvaggia di deflazione e disoccupazione, specialmente per le economie più deboli. Significa anche un enorme aumento delle tensioni tra stati diversi e tra le classi di ognuno di essi. Un tale sistema monetario inflessibile non può funzionare. In pratica, fin dall’inizio, ogni stato nazione proverà ad aver un vantaggio sugli altri. Ciò creerà ogni tipo di conflitto, portando ad un’eventuale rottura. Né funzionerà il tentativo di imporre un regime d’austerità permanente.

Anarchia capitalista

Il problema principale potrebbe essere così facilmente esposto: è chiaramente falsa l’idea che economie di carattere così diverso, tutte che spingono in direzioni diverse, possano con successo creare una moneta centrale unica, sostenuta da un fondo comune e da una legislazione vincolante. Il sistema capitalista è anarchico per sua natura. Il tentativo di legare queste economie in un tasso di scambio rigido e comune farà sorgere immediatamente una serie di distorsioni e contraddizioni insostenibili. Quando le condizioni economiche di una stato richiederanno un aumento dei tassi di interessi, quelle degli altri paesi richiederanno una riduzione. Chi decide? Non è difficile prevedere la risposta. Come principale potenza economica europea, la Germania imporrà i suoi criteri attraverso la Bundesbank che controllerà effettivamente le banche centrali. Abbiamo già visto una situazione simile quando la Bundesbank ha aumentato i tassi d’interesse senza preoccuparsi di consultare i propri partner: succedeva dunque anche prima prima dell’introduzione dell’UEM. L’UEM metterebbe solo il timbro ufficiale sull’effettiva relazione di forze che già esistono.
In un tasso di cambio fisso, qualcuno è destinato a perdere. Ciò è evidente nei problemi che sono scaturiti nella corsa per la moneta unica, che sta ponendo un punto interrogativo su come lo schema possa essere attuato entro il 1999 o meno. Il destino dei parametri  originali di Maastricht è già segnato come avevamo previsto dall’inizio. Alcune sembianze di passo avanti posso essere mantenute solo manipolando le cifre e posticipando l’obiettivo. Ma tali manovre indicano che l’intero piano è instabile fin dall’inizio. Sebbene abbiano indicato che vogliono entrare nell’UEM nella prima fase, Spagna e Italia sono troppo deboli per fare ciò senza causare intollerabili contraddizioni interne. La Grecia è automaticamente esclusa, sebbene il governo Simitis sta lanciando un attacco senza precedenti contro il tenore di vita delle masse, nella speranza di rientrare nei requisiti un giorno lontano. Cosi come i socialisti portoghesi stanno facendo il lavoro sporco dei capitalisti. Ciò sta preparando il terreno per un’esplosione di lotta di classe in tutti quei paesi nei prossimi anni.
La verità è che nessuno di loro soddisfa i parametri di Maastricht, ad eccezione del piccolo Lussemburgo. Anche la Germania non rientra bei parametri. Per quanto riguarda il Belgio, con il suo enorme debito pubblico del 130% del PIL, non si avvicina per nulla all’obiettivo del 60%. Ma siccome l’UEM sarebbe impensabile senza il Belgio, chiudono un occhio. La dichiarazione fatta dice che i paesi si possono essere giudicati in regola se “si avvicinano” ai parametri di Maastricht, o se “si stanno avvicinando”, o hanno dei deficit che sono “temporaneamente (?) troppo alti”. Puntano il dito e informano gli stati membri che devono “evitare disavanzi eccessivi”, e così via. In altre parole, si agitano e dimenano, provando a salvare qualcosa da questo casino. Solo attraverso tutti i tipi di trucchetti e “contabilità creativa” possono mantenere la pretesa che i parametri di Maastricht siano monitorati, come la seguente frase da un portavoce dell’UE mostra:
‘Un paese non deve superare del 3% di deficit del PIL (pianificato o effettivo) a meno che non lo abbia ‘ridotto notevolmente’ e si sia ‘avvicinato’ ad esso, o che l’eccesso sia ‘solo un’eccezione e temporaneo’, ha detto” (Financial Times, 17/4/96).
In altre parole, i parametri di Maastricht non esistono più bei fatti. Solo tramite palesi trucchi, paesi come il Belgio possono essere inclusi. Ma ecco che qui c’è un’altra contraddizione. Theo Waigel, il Ministro delle Finanze tedesco, richiede che i parametri debbano essere severamente rispettati, pena una pesante multa. Questo ricorda una frase che Alice nel Paese delle Meraviglie disse al re mentre si lamentava: “Questa non è una regola regolare. Ve la siete inventata ora!” E infatti, stanno inventando nuove regole in ogni momento. Ciò è solo un riflesso del conflitto di interessi di diversi stati capitalisti, che dietro le quinte sono coinvolti in una lotta spietata . Chirac, riflettendo la relativa debolezza della Francia, sta chiedendo un ammorbidimento dei parametri mentre la Bundesbank richiede garanzie di ferro perché tali parametri siano portati avanti alla lettera.
La prova che questa non era una “una regola regolare”, per citare Alice, è stato dimostrato dal fatto che Herr Waigel stesso ha provato a infrangere le regole il momento in cui è diventato evidente che la Germania non avrebbe soddisfatto le condizioni di Maastricht senza falsificare i libri contabili. In combutta con Kohl, l’intrepido Ministro delle Finanze ha trovato un buon stratagemma. Chiederebbero alla Bundesbank di rivalutare le riserve di oro della Germania, ottenendo quindi diversi miliardi di Marchi con cui colmerebbero il buco da 11 miliardi di dollari del bilancio federale. Sfortunatamente per Weigel, la banca non è stata al gioco. Non solo non è riuscito ad avere soldi extra, ma è scampato per poco ad una mozione di sfiducia del parlamento tedesco! I finanzieri senza scrupoli a Francoforte sono irremovibili sul volere un “euro forte”. Se Weigel e Kohl vogliono soldi extra, devono averli con i mezzi “adeguati”- i.e., spremendo il popolo.
I tedeschi sono molto sospettosi per il comportamento degli altri paesi una volta che entreranno nell’unione monetaria,’ ha detto Steven Englander, economista alla Smith Barney Inc. a Parigi” (International Herald Tribune, 5/11/96). Se e quando sarà raggiunta l’UEM, tuttavia, le decisioni più importanti saranno nelle mani dei banchieri centrali, cioè del capitale finanziario europeo, e questo significa di fatto la Bundesbank. L’enorme aumento del potere del capitale finanziario parassitario è una delle più sorprendenti caratteristiche dell’attuale periodo internazionale. Questi banchieri reazionari, dalla mente ottusa, tenteranno di governare con il pugno di ferro, imponendo una “disciplina di bilancio” su tutte le nazioni, indipendentemente dallo stato delle loro economie. Per parafrasare Lenin, quei cuochi prepareranno solo pietanze salate!
La mentalità di questi elementi è riflessa accuratamente nella proposta di infliggere una multa enorme e automatica ad ogni governo che superi il 3% della soglia del disavanzo di bilancio. Vogliono che ogni stato nazionale depositi un’enorme quantità di denaro – quanto lo 0,2% del proprio PIL – in un fondo centrale, che sarà incamerata se verranno sforati i limiti. Come funzionerà nella pratica? Data la natura disequilibrata dello sviluppo capitalista, sarà impossibile per tutti gli stati europei di avere contemporaneamente un bilancio in pareggio. In pratica, alcuni andranno in deficit mentre altri in surplus, riflettendo le forze e le debolezze delle diverse economie, e le diverse fasi del ciclo economico. Il tentativo di costringere tutte queste diverse economie nella camicia di forza di una moneta unica causerà tutti i tipi di distorsioni e tensioni, come sottolineato dall’Economist:
Secondo la formula tedesca (a cui gli altri paesi si oppongono, soprattutto la Francia), i governi che non riescono a mantenere il loro disavanzo di bilancio sotto il 3% del PIL, dovranno inserire ‘un deposito’ con le autorità europee. Se i prestiti eccessivi continuano, i fondi sarebbero confiscati. Le multe potrebbero essere calcolate al tasso dello 0,2% del PIL più un ulteriore 0,1% per ogni punto percentuale che supera il disavanzo del 3% del PIL. Un disavanzo del 6% del PIL attirerebbe la multa massima dello 0,5% del PIL – una somma enorme.
Altrimenti, non sarebbe un patto di stabilità, ma un patto per aumentare la recessione. Mettiamo caso che un paese con un deficit pari al 2% del PIL (piccolo per gli standard europei attuali) inizi ad entrare in recessione. Per prevenire che il deficit superi la soglia del 3%, il governo avrebbe bisogno di tagliare le spese e aumentare le tasse – peggiorando la recessione e imponendo ulteriore pressioni sui prestiti. Pensando alla scala dell’adeguamento fiscale necessario, ricorda il periodo nel quale la Gran Bretagna passò dal boom alla recessione alla fine degli anni ’80, il bilancio del settore pubblico diminuì di 10 punti percentuali: da un surplus del 3% a un deficit del 7%.
Se un governo non riuscisse a mantenere il deficit al di sotto del 3% del Pil, dovrebbe pagare una grossa multa alle autorità europee. Difficilmente sarà permesso di fare ricorso al debito per pagare questa multa. Se si permettesse una mossa del genere, sarebbe come dire in pratica: indebitarsi per pagare i sussidi di disoccupazione è vietato, ma indebitarsi per pagare la multa avuta per essersi indebitati per pagare i sussidi non lo è. Sembra insensato anche per gli standard dell’Ue” (The Economist, 14/12/96).
L’introduzione dell’UEM non farà cessare il ciclo di boom e recessione. Il movimento, verso una fase di recessione, influenzerà inevitabilmente le finanze di ogni paese in modi diversi, in base alle loro relative forze e debolezze. Ma deve significare un declino dell’entrate fiscali e un aumento della spesa relativa alla disoccupazione. Ma quale azione potrebbe intraprendere il governo britannico nel caso appena menzionato? Sotto Maastricht, non sarebbe possibile ricorrere al debito per coprire il proprio deficit. L’unica via di uscita sarebbe tagliare le spese e aumentare le tasse durante la recessione. Se non lo facesse correrebbe il rischio di una pesante multa per aver permesso che il loro deficit di bilancio abbia superato la soglia concordata del 3%. Tale multa, ovviamente, aumenterebbe il deficit e renderebbe la situazione peggiore. Questa è un’economia da manicomio! Infatti, un burlone ha detto che l’UEM in realtà sta per l’”Unione Europea dei Masochisti”. Non può funzionare, e gli strateghi più importanti del capitale lo sanno. Questo è il motivo per cui Chirac richiede “flessibilità” – lo dice nell’interesse della Francia e di tutti gli altri paesi.

L’unione monetaria è possibile?

Non esistevano meno di cinque unioni monetarie in Europa nel diciannovesimo secolo, ma le uniche di successo erano quelle che hanno condotto alla creazione di uno stato unitario. Quindi, l’unione monetaria avviata dalla Germania negli anni ’30 del 1800 pose le basi per una futura unificazione della Germania. Lo stesso successe per l’Italia che ha portato avanti un processo di unione monetaria come parte del movimento verso l’unificazione nazione negli anni ’70 del 1800. Ciò accadde nel periodo dove il capitalismo era in ascesa e giocava un ruolo relativamente progressista nello sviluppo delle forze produttive. La formazione degli stati nazionali era un corollario necessario dello sviluppo del mercato nazionale. Ma l’unione monetaria stabile procedeva di pari passo  con la creazione di un apparato statale unico, un unico sistema fiscale, barriere doganali, un esercito e forze di polizia, così come una banca nazionale. Dove ciò non succedeva, tutti i tentativi di unione monetaria sono inevitabilmente falliti
La Francia, il Belgio, l’Italia e la Svizzera formarono una zona monetaria  legata all’argento  negli anni ’60 del 1800, ma si è rotta in seguito ad un grande deficit di bilancio italiano e la svalutazione della moneta. Un ulteriore fattore fu il movimento in direzione del sistema aureo internazionale, che guadagnò forza negli anni ’70 del 1800 come conseguenza dello sviluppo dello scambio commerciale mondiale. L’impero Austro-Ungarico partecipò brevemente in una moneta unica con la Prussia. Quel tentativo non andò a buon fine, con la guerra tra Austria e Prussia nel 1866. In entrambi i casi, una potenza stava, di fatti, cercando di stabilire il proprio dominio sulle altre – nel primo caso, la Francia di Luigi Bonaparte, e nel secondo, la Prussia di Bismarck. Anche i paesi scandinavi fecero un tentativo di unione monetaria a partire dal 1870, ma come le altre si ruppe per lo scontro politico tra i differenti stati.
La conclusione è chiara. Su una base capitalista, un’unione monetaria stabile non può essere raggiunta senza uno stato unificato. Inoltre, il dominio devastante del mercato mondiale significa che, per funzionare, qualsiasi valuta regionale deve adattarsi al sistema di tasso di cambio globale. In passato ciò fu raggiunto con l’introduzione del sistema aureo, dagli anni ’70 del 1800 in poi. Tutte le valute nazionali dovevano essere collegate all’oro, che fornisce uno standard oggettivo per misurare la valuta. Dopo la seconda guerra mondiale, la superiorità soverchiante dell’imperialismo statunitense rese possibile l’imposizione del dollaro come moneta internazionale (con la sterlina inglese come valuta secondaria). A quel tempo, oltre alla forza della sua industria, che era intatta, mentre quella europea e giapponese erano in rovina, gli Usa mantenevano due terzi delle riserve di oro mondiali. Quindi, il dollaro era “buono quanto l’oro”. Ma dal collasso del sistema del tasso fisso di Bretton Woods, nessuna alternativa soddisfacente è stata trovata. Il risultato è stato una situazione incredibilmente instabile nel mercati valutari internazionali, con enormi quantità di denaro usate per scopi speculativi, fornendo le basi per crisi periodiche e costringendo svalutazioni che mettono in ginocchio le nazioni in poche ore.
Parte dell’obiettivo dell’UEM è di creare una moneta regionale che agirebbe come protezione contro tale instabilità, in cui ci sarà un tasso di cambio fisso deciso per decreto dalle banche centrali europee che garantiranno “una solida finanza”, come prima del 1914. Nonostante ciò, anche da un punto di vista strettamente economico, questa è un’assunzione arbitraria. Non si suggerisce di collegare la nuova moneta ad uno standard metallico come l’oro o l’argento, come nel periodo in cui in apparenza vorrebbero tanto tornare. Neanche propongono di collegarla ad un accordo globale, come è stato per Bretton Woods. Non è per nulla chiaro come propongano di mantenere un tasso di cambio fisso in un mercato mondiale caratterizzato da tassi di cambio volatili. Gli economisti americani sono apertamente scettici riguardo tale idea. Quanto sarà solido l’Euro? Se i mercati monetari internazionali non saranno convinti che valga che i banchieri europei dicono, allora non sarà più sicura contro gli attacchi speculativi, ad esempio, della lira italiana attualmente.
Contrariamente alla demagogia degli euroscettici, l’UE non è uno stato federale, e non ha alcuna intenzione di diventarlo. Quindi non può funzionare nello stesso modo degli Usa, dicono, che, in una situazione di crisi, possono indirizzare fondi dal centro ad ogni stato che si trova in difficoltà. In Canada, che è anch’esso uno stato federale, il governo federale si fa carico  delle province più povere. Quindi, la provincia di Newfoundland riceve dal governo federale trasferimenti per un ammontare equivalente a quasi il 75% delle proprio entrate. Al contrario, come vedremo, il trattato di Maastricht ha escluso tale aiuto. Tutto il peso di una recessione deve essere a carico di ogni stato membro senza aiuto. L’intenzione è di costringere ogni governo a mantenere “finanza solida” attraverso il buon vecchio metodo di alzare le tasse, tagliare le spese pubbliche e svendere il patrimonio pubblico. Questo stratagemma non prende in considerazione il fatto che prima della prima guerra mondiale i sindacati e i partiti politici dei lavoratori erano relativamente deboli, e la classe operaia era effettivamente la minoranza nella maggior parte dei paesi dell’Europa (la Gran Bretagna era l’eccezione perché era entrata nella fase di sviluppo capitalista molto prima degli altri). Dalla seconda guerra mondiale i rapporti di forza tra le classi in Europa si è trasformato. Le riserve sociali della reazione, in particolare i contadini, sono stati ridotte dallo sviluppo industriale. La classe operaia è diventata la forza dominante nella società, e opporrà resistenza a qualsiasi tentativo di perdere le conquiste ottenute dal 1945.
Il tentativo di tornare al periodo “classico” del capitalismo provocherà una impennata senza precedenti nella lotta di classe, mentre non c’è alcuna garanzia che porterà i benefici che i capitalisti anticipano. Ponendo un peso enorme sulle spalle anche delle economie europee più deboli, corrono il rischio di provocare un collasso. I parametri preposti dell’unione monetaria presumono che ogni paese deve reggersi sulle proprie gambe – per usare una frase amata dai banchieri. Al momento, i governi europei possono ottenere soldi nei mercati finanziari internazionali per coprire i loro debiti, e (ad eccezione della Grecia) sono ritenuti come scommesse sicure. Ma in Italia il rapporto tra il debito pubblico e fondi pensionistici senza copertura è due volte più grande di quello della Germania. Da quando l’Italia non avrà più la propria valuta e una banca centrale, tale debolezza inevitabilmente porterà ad un aumento nel costo del credito. New York qualche volta paga un premio assicurativo maggiore dell’Italia, sebbene il rapporto tra il debito e le entrate sia molto minore. Tuttora le principali agenzie di rating non concordano su come classificare il problema del debito futuro nella nuova moneta, che suggerisce che ci saranno ampie divergenze riguardo il rating dei paesi europei dopo il 1999. I capitalisti in Italia e nelle altre economie deboli saranno costretti a mantenere un tasso di interesse maggiore di altri, che inciderà dunque sul saggio di profitto. Nel lungo periodo, ciò può destabilizzare le finanze di tali stati, aumentando il pericolo di una crisi. Per la prima volta, gli investitori internazionali parlano (in privato ovviamente) del rischio di default in Europa.
Così come il Quebec è ritenuto ad alto rischio e deve mantenere tassi di interesse altissimi per farsi prestare dei soldi, a causa del pericolo di secessione, così il capitale finanziario internazionale sta già contemplando il rischio di una rottura dell’UEM anche prima che sia messo in atto. Calcolano che la politica di tagli permanenti e l’austerità richiesta dall’UEM provocherà un tale fermento sociale che potrebbe portare alla rottura. Partendo da paesi come Italia e Finlandia, le economie più deboli saranno costrette alla rottura. Nel caso di una recessione, tutta la struttura tenderà a frantumarsi. Ad ogni modo, non è ancora certo che avranno riusciranno a raggiungere l’UEM entro il 1999. E se è posticipata, potrebbe non accadere affatto:
Coloro che avvertono una sensazione di disperazione si rifanno all’avvertimento del Santer della settimana scorsa secondo cui la moneta unica morirà se si ritarderà la data di inizio decisa per il 1999. Ricordando che l’esitazione dei governi europei ha seppellito i piani negli anni ’50 per una forza unica di difesa dell’Europa Occidentale, Santer ha riportato ad un giornale svizzero: ‘Questo esempio mostra che ritardare l’unione monetaria significherebbe la sua fine’“ (Financial Times, 13/2/96).
Nonostante ciò, la vera ragione del motivo per cui l’UEM fallirà è che i capitalisti europei non sono capaci di raggiungere tassi di crescita annuali del cinque o sei per centro di cui hanno goduto in passato:
Anche Wim Bergans, portavoce della confederazione europea dei sindacati (CES) a Bruxelles, è positivo ma avverte: ‘Non vogliamo riaprire i negoziati sull’UEM, ma non si può avere l’UEM con 20 milioni di persone senza lavoro in Europa.” (Ibid.)

L’Ue è progressista?

Parte dei motivi dell’esistenza dell’UE è per il proposito di uno sfruttamento continuo delle ex colonie europee in Africa, Caraibi ecc. L’unica differenza è che questo è uno sfruttamento congiunto, a differenza della vecchia relazione biunivoca di una colonia con il suo padrone imperiale, e il saccheggio è ottenuto con un meccanismo di scambio economico, invece della rapina diretta perpetrata da un regime militare. Le ex colonie sono usate come fonte di materie prime e lavoro a basso costo, sebbene con una disoccupazione enorme questo ruolo è meno necessario di quanto lo era in passato. Nel periodo di crescita economica, i capitalisti d’Europa incoraggiavano l’immigrazione di un gran numero di lavoratori dalle ex colonie in Africa, Asia e i Caraibi che erano usati come manodopera a basso costo. Ora, nella recessione, non possono più essere usati. Invece sono diventati i capri espiatori per l’enorme disoccupazione e il bersaglio della demagogia dei politici di destra come Le Pen in Francia. Il razzismo è il partner inseparabile dell’imperialismo e della dominazione di un popolo su un altro.
Lenin sottolineò che una delle caratteristiche dell’imperialismo è la dominazione del capitale finanziario. Il trattato di Maastricht ne è un buon esempio. Sotto il nuovo sistema, tutte le principali leve del potere finanziario saranno (almeno in teoria) nelle mani di una banca centrale europea, sotto il controllo di un consiglio di sei membri (incluso il presidente) e i governatori delle banche centrali aderenti. L’intero schema è stato preparato dalla Bundesbank che dovrebbe essere “indipendente” dal governo tedesco. Infatti, la nuova banca centrale dovrebbe essere ancor più indipendente, siccome non dovrà rispondere ad alcun governo nazionale eletto. Il “parlamento” europeo impotente è, anche più dei parlamenti nazionali, una semplice circolo di discussione che non può decidere nulla se non rispetto alle questioni più marginali. Alla banca centrale sarà solo richiesto di “rendere conto” di tanto in tanto innanzi il parlamento – un’idea divertente abbastanza da far ridere addirittura un banchiere.
In realtà quello che abbiamo qui è un’evidente espressione dello sforzo del capitale finanziario per il dominio incondizionato, per liberarsi da tutti i limiti e costrizioni . Lenin spiegò molto tempo fa che l’essenza dell’imperialismo è la dominazione delle banche e grandi monopoli. Le proposte avanzate rappresentano la conferma più chiara di questa analisi. Su una base capitalista, la cruda realtà di un’“unità europea” è la completa dominazione finanziaria e del capitalismo monopolistico , a discapito degli interessi della maggioranza della popolazione – i lavoratori, i contadini, i disoccupati, i pensionati e i titolari di piccole attività. Si può essere sicuri che questi banchieri e i loro alleati nei consigli di amministrazione dei grandi monopoli perseguiranno un’incessante politica che spremerà fino all’ultima goccia di profitto dalle persone in nome del Capitale, indipendentemente dalle conseguenze sociali.
Questo è precisamente quello che intendiamo quando diciamo che l’idea di un’unità europea su una base capitalista è un’utopia reazionaria. È utopistica perché non può essere portata avanti fino alla fine. L’esistenza di profondi conflitti di interessi tra i capitalisti di diversi stati nazionali, come le linee di frattura in geologia, inevitabilmente causeranno una rottura ad un certo punto. Paradossalmente, i tentativi di instaurare una moneta unica porterà ad una natura anche più convulsiva e amara di queste tensioni. Ma nel momento in cui riusciranno a raggiungere una maggiore integrazione, significherà puramente un maggior grado di dominazione delle banche e dei monopoli sulle vite delle persone. È per questo non è solo un’utopia, ma un’utopia reazionaria. Non c’è nulla di progressivo in questo.
Indipendente in teoria, la banca centrale sarà l’unica al mondo ad essere governata da un trattato firmato da 15 paesi. In pratica, porterà avanti una politica a favore degli interessi degli stati più potenti, e cioè, in primo luogo, della Germania. L’idea di una banca centrale sovranazionale, libera dalle pressioni nazionali, è un’evidente sciocchezza. Allo stesso modo, le grandi aziende multinazionali non possono essere separate dalla loro base nazionale, sebbene le loro operazioni siano mondiali.  C’è davvero qualcuno che crede che la General Motors non sia altro che una compagnia americana? O che la Mitsubishi non sia altro che giapponese? Allo stesso modo, in ultima analisi la banca centrale europea sarà gestita dalla Bundesbank, che di sicuro rispecchierà gli interessi del capitalismo tedesco. Perseguendo una politica finanziaria conservatrice, presumibilmente di sua libertà e volontà, la Banca centrale garantirà al governo di Bonn, e a tutti gli altri, con le scuse adatte, che i tagli e la disoccupazione che ne seguono non hanno nulla a che vedere con loro, ma che sono il risultato inevitabile dei sacri principi delle forze di mercato e dell’”indipendenza” finanziaria. E chi potrà avere qualcosa da ridire? in realtà, ci saranno molte obiezioni, e alcune saranno molto feroci.
Non è assolutamente certo che le intenzioni dei banchieri centrali potranno essere realizzate. Il tentativo di portare avanti una politica che equivalga ad un’austerità permanente non può essere mantenuto a lungo. Condurrà ad un’esplosione dopo un’altra, con scioperi, scioperi generali, manifestazioni di massa, e anche movimenti insurrezionali. Ciò che è successo in Albania è stato un avvertimento. In determinate condizioni, possono esserci nuove “Albanie”. Siamo entrati in un nuovo periodo storico caratterizzato da svolte brusche e repentine degli avvenimenti. La classe dominante europea ha seminato vento per raccogliere tempesta. La situazione sarà molto più simile agli anni ’20 e ’30 che agli ultimi 50 anni.
Tuttavia, le potenze capitaliste avanzate hanno accumulato un notevole strato di grasso negli ultimi 50 anni. Di fronte ad un movimento di massa, potrebbero essere costretti ad abbandonare i loro piani e ad optare per una politica di reflazione ad un certo punto. Già ora, le politiche di monetarismo “neoliberali” hanno mostrato il loro fallimento. L’idea di privatizzare è indigesta anche per i palati della classe media. Stanno preparando una forte protesta contro tutto questo, e un enorme spostamento a sinistra. È ironico come i leader riformisti abbiano abbracciato il “mercato” nel momento in cui sta andando a pezzi. Il tentativo di imporre un’austerità permanente fallirà, insieme a tutti i piani per una moneta unica europea. Un ritorno all’inflazione comprometterà rapidamente l’euro nei mercati internazionali. Ma una caduta del valore dell’euro avrà ulteriori conseguenze. Il boom negli Usa finirà probabilmente proprio quando gli europei proveranno a introdurre una valuta unica. Un fase di recessione negli Usa porrà pressione sul dollaro, particolarmente in vista del persistente disavanzo con l’estero. Questo potrebbe essere il segnale per un nuovo ondata di svalutazioni competitive, con gli americani che lasciano che il dollaro scenda per ridare competitività alle loro esportazioni. È stato proprio questo tipo di svalutazioni competitive che ha danneggiato gli scambi commerciali prima della seconda guerra mondiale, e trasformato la crisi in una depressione mondiale. È del tutto possibile tornare a situazioni simili nel prossimo periodo.
Un punto di vista secondario ma divertente è questa idea messa in circolazione dai nazionalisti, per esempio nei Paesi Baschi e in Scozia, che l’UE in qualche modo rappresenti uno sviluppo progressivo che aiuterà la causa delle piccole nazioni. Cercano di abbellire la realtà dell’Europa del grande capitale parlando di un’“Europa dei popoli”. Che assurdità! Da quando il governo delle grandi banche e dei monopoli agisce nell’interesse delle piccole nazioni? Questo è tipico dei pregiudizi dei leader nazionalisti della piccola borghesia che rifiutano l’analisi di classe della società e quindi cadono inevitabilmente sotto l’influenza delle idee della classe dominante. Lungi dall’aiutare i Paesi baschi, la Scozia e il Galles, un’Europa capitalista calpesterà i loro interessi, distruggendo le loro industrie e impoverendo la popolazione. Il fatto è che un’Europa capitalista rappresenta una trappola per tutti i popoli.

Marx sul “libero scambio”

Più di cento anni fa, Karl Marx spiegò che, nella battaglia tra i Conservatori e i Liberali riguardo al dibattito su Libero Scambio contro protezionismo, la classe lavoratrice doveva mantenere una posizione indipendente. Non eravamo a favore di nessuna delle due scelte. Era una semplice lotta tra diverse ali della classe dominante (proprietari terrieri e produttori manufatturieri) in cui i lavoratori non avevano alcun interesse da difendere.
Il dibattito attuale sull’UEM presenta una notevole somiglianza con la controversia sul libero scambio dello scorso secolo. Allora come ora, c’era una profonda differenza di opinioni tra le varie fazioni della classe dominante in Gran Bretagna. L’aristocrazia terriera, per i propri scopi, difendeva il protezionismo, mentre la crescente borghesia industriale, difendendo i propri interessi, sosteneva il libero scambio. (Non c’è bisogno di dire che all’epoca le più deboli borghesie di Francia e Germania erano tutte a favore del protezionismo). Nel corso di questo scontro, che diventò estremamente acceso, entrambe le fazioni rivali della classe dominante cercarono di avere il supporto della classe lavoratrice. Quale fu la posizioni di Marx e di Engels? Presero una ferma posizione di indipendenza di classe, e consigliarono con decisione ai lavoratori di negare l’appoggio ad entrambe le fazioni. Ciò nonostante il fatto che, in astratto, qualcuno poteva argomentare che il libero scambio era più progressivo del protezionismo. Tuttavia, questioni di questo tipo non possono mai essere risolte “in astratto”. È necessario porre la questione in modo concreto, cioè, da un punto di vista di classe. Ed è chiaro che gli interessi della classe lavoratrice non erano tutelati da nessuna delle due opzioni politiche. Solo una politica socialista può tutelare gli interessi dei lavoratori. Ciò rimane vero oggi come 150 anni fa, quando Marx fece il suo discorso sul libero scambio. Le tematiche in qualche modo sono diverse, ma i principi sono identici.
La nostra posizione sull’UE è simile alla posizione che Marx prese nella controversia sul libero scambio o protezionismo all’epoca. Spiegò che gli interessi della classe lavoratrice non sono né a favore del libero scambio, né del protezionismo, ma per il socialismo internazionale. Spiegò che il dibattito sul libero scambio rifletteva gli interessi di settori della classe dominante. Era una trappola prendere parte in questa disputa, e il movimento dei lavoratori doveva assumere una posizione politica indipendente. Simile a noi. Non siamo né pro né contro l’uscita dall’UE su base capitalista. Gli interessi della classe lavoratrice non è rappresentata in alcun caso.
Non si può discutere di svalutazione o “reflazione” (inflazione) come modi di risolvere la crisi del capitalismo, come alcuni fanno a sinistra. Questa non è affatto una soluzione. Rappresenta un attacco indiretto al tenore di vita tramite l’aumento dei prezzi, e in ogni caso porterebbe a una deflazione addirittura più grave di prima. Dal punto di vista della classe lavoratrice, non c’è da scegliere tra inflazione e deflazione. È testa e croce della stessa moneta – la scelta tra morte per decapitazione o bruciare sul rogo. Non vogliamo nessuna né l’una né l’altra cosa, ma solo il diritto di vivere e lavorare in condizioni decenti. Ma quel diritto ora è incompatibile con le leggi di Rendita, dell’Interesse e del Profitto. Negli Usa, la mania di tagliare la partecipazione dello stato nell’economia ha alla fine portato ad un tentativo di modificare la costituzione per rendere il deficit di bilancio illegale! Addirittura gli economisti borghesi pensano che questa sia una pazzia.

Per un’alternativa di classe all’Unione Europea

Questo significa che siamo indifferenti alla questione del trattato di Maastricht e dell’Unione Europea? Per nulla. Ma insistiamo che tale questione, come tutti le altre, debba essere affrontata da un punto di vista di classe, e nient’altro. Già i lavoratori d’Europa che sono scesi in decine di migliaia in piazza a protestare contro la perdita dei posti di lavoro in Germania, Francia, Belgio e Spagna. Come ha detto recentemente un metalmeccanico belga: ’’ L’ Europa è per il capitale, è l’Europa che non fa nulla per i lavoratori.’’ Questo sentimento diventerà generalizzato e sta preparando condizioni fertili per una lotta a livello europeo contro la dittatura di banchieri e capitalisti che opprimono tutti i popoli del nostro continente. Per avere successo, tuttavia, è vitale che il movimento operaio non rimanga imprigionato in cosiddette alleanze con le sezioni reazionarie della classe capitalista, ponendosi ipocritamente come i difensori di un’immaginaria “unità nazionale”.
Ciò che è necessaria è una chiara alternativa di classe all’Unione Europea capitalista. Nel porci questioni di questo genere dobbiamo partire da considerazioni fondamentali. I socialisti devono assumere un punto di vista di classe indipendente, e non essere spinti a scelte di difesa degli interessi di una o di un altro settore della classe capitalista.
Il compito del movimento sindacale non è di schierarsi dietro differenti gruppi di capitalisti, bensì di lottare per la trasformazione socialista della società, a livello nazionale ed internazionale, quale unica soluzione ai nostri problemi. Dimenticate ciò e finirete inevitabilmente in un disastro.
Siamo abituati a vedere i leader della destra del movimento operaio che riprendono i i punti di vista del Capitale, dopotutto è questo il loro ruolo. Sfortunatamente però i riformisti di sinistra, anche i migliori e più onesti, affrontano sempre queste questioni su base capitalista, invece di affrontarle dal punto di vista di classe, e per questo finiscono per difendere una posizione reazionaria. Si ritrovano in compagnia di tutti i tipi di elementi sciovinisti di destra e dei nemici dichiarati della classe lavoratrice. Ciò è inevitabile se non si rimane fermi sui principi base di classe e su una prospettiva socialista.
Opporsi all’Europa dei monopoli non significa che dobbiamo appoggiare il tipo di ‘’indipendenza nazionale’’ difesa dagli euroscettici. La politica di autosufficienza nazionale è fallita ovunque sia stata provata, e non può che fallire inevitabilmente nell’epoca moderna dove tutto è deciso dall’economia mondiale. Il tentativo di costruire ’’il socialismo in un solo paese’’ ha condotto al disastro in Russia ed in Cina, sebbene entrambe si basavano economicamente s risorse sub-continentali. Che futuro potrebbe esserci per i piccoli stati isolati come la Gran Bretagna, la Francia o addirittura la Germania?
L’idea di unire le risorse economiche dell’Europa- e del mondo intero- è un obiettivo progressista che mostra l‘unica via d’uscita seria dall’attuale crisi dell’umanità. I due principali ostacoli che impediscono l’ulteriore sviluppo di industria, agricoltura, scienza, tecnologia su scala mondiale, sono la proprietà privata dei mezzi di produzione e lo stato nazionale. Solo eliminando questi ostacoli la società può spezzare le catene che frenano il suo sviluppo. Inoltre la reale alternativa all’Unione Europea capitalista non è ’’l’indipendenza nazionale’’ ma gli Stati uniti socialisti d’Europa. L’idea di un’Europa capitalista unita, come spiegò tanto tempo fa Lenin, è un’utopia reazionaria. Da una parte, è impossibile raggiungere un’Europa unita su base capitalista. Gli interessi nazionali distinti di ogni classe capitalista escludono tale ipotesi. In realtà, ciò che è proposto dall’UE e Maastricht è molto lontana da ciò. Ma anche se riuscissero nell’intento, allora sarebbe completamente reazionario, in quanto può essere solo realizzato coi mezzi più brutali. Hitler ci provò per mezzo della conquista militare e l’occupazione.

I marxisti e l’Ue

L’Unione Europea non è altro che un club per capitalisti, una splendida unione doganale, creata per promuovere gli interessi delle grandi imprese europee. Non ha nulla in comune con gli interessi della classe lavoratrice. Questo è il nostro punto di partenza. La nostra opposizione all’UE è esattamente la stessa opposizione al capitalismo in generale. Prendiamo una chiara posizione di indipendenza di classe. L’unica alternativa ad un’UE capitalista sono gli Stati Uniti Socialisti d’Europa.
Questa è la nostra posizione generale. Tuttavia, è necessario collegare le richieste generali ai programmi concreti di lotta contro tutti i tentativi che mettono il peso della crisi del capitalismo sulle spalle della classe lavoratrice, degli anziani, dei disoccupati, dei malati, delle donne e dei giovani. C’è una crescente opposizione nel movimento operaio, specialmente a sinistra, contro i parametri di Maastricht per l’unione monetaria. Ci opponiamo a Maastricht, così come ci opponiamo a tutte le misure capitaliste contro la classe lavoratrice. Non di meno, non dovremmo illuderci, come succede a sinistra, che le misure di austerità siano dovute solo a Maastricht. Maastricht è usata come scusa o come una cortina fumogena per i tagli e gli attacchi che avvengono in Europa. Questi attacchi ci sarebbero stati con o senza Maastricht. Secondo l’Economist, settimanale economico di destra “il costo del lavoro è troppo alto”. Deve essere ridotto per rimettere in sesto il capitalismo europeo. Questa situazione deriva dalla crisi del capitalismo stesso. Questo è il motivo per cui le misure di austerità sono attuate simultaneamente nel mondo capitalista, dall’Europa al Giappone fino agli Stati Uniti.
Nonostante tutte le contraddizioni, le principali potenze capitaliste in Europa, specialmente quella tedesca e francese, sono determinate dall’obiettivo di una moneta europea. Il piano è di introdurla per l’inizio del 1999. Ma questa scadenza può essere facilmente rimandata dall’avvento di una nuova recessione mondiale. Qual è la nostra visione rispetto a una moneta europea? In primis, non possiamo pensare in astratto. Chi la sta introducendo e perché? Sotto il capitalismo, dobbiamo opporci all’introduzione di una moneta unica, in quanto verrà usata per tagliare il tenore di vita delle masse. Ovviamente, in un’Europa socialista, una moneta unica sarebbe introdotta per facilitare la pianificazione e lo scambio. Ma sotto il capitalismo è una questione differente. Non è un problema astratto dell’essere pro o contro il principio di una moneta unica – dobbiamo mettere in conto concretamente come la sua introduzione sarà usata per portare avanti gli attacchi al tenore di vita, ecc. In altre parole, dobbiamo valutare tutte le implicazioni e conseguenze per la classe lavoratrice dell’adozione di una moneta unica su basi capitaliste. In qualsiasi referendum sosterremo di votare ‘No’ alla moneta unica, e difenderemo la necessità di un’Europa socialista.
Anche quando l’UE dice di essere dalla parte degli interessi dei lavoratori (la Carta Sociale Europea), non c’è una reale protezione contro lo sfruttamento capitalista. L’unica vera difesa è l’unità, l’organizzazione e la coscienza di classe dei lavoratori, e la loro voglia di lottare. È un dato di fatto che questa esiste e sta crescendo, come dimostrato dalla lotta dei lavoratori in Germania, Belgio, Francia e altri paesi negli ultimi anni. In questi casi i lavoratori non sono stati protetti dalla Carta Sociale contro i tagli, le chiusure e i licenziamenti. Il governo belga si è lamentato che la Renault non abbia voluto “consultare” i lavoratori a Vilvoorde prima di annunciare la chiusura dello stabilimento. Come se ciò risolvesse il problema. Nessun tipo di “consultazione” risolverà i problemi creati dall’attuale crisi del capitalismo.
Addirittura dove i lavoratori hanno avuto successo nel lottare contro i tagli (e dobbiamo supportare attivamente tutte queste battaglie), la vittoria si dimostra essere solo temporanea. I padroni e i loro governi presto torneranno all’attacco, riprendendosi con la mano destra ciò che hanno dato con quella sinistra. La ragione di tutto ciò non sta nel capriccio di uno o dell’altro ministro, ma nell’impasse del sistema capitalista. I leader dell’ala destra del partito laburista e dei sindacati, avendo abbandonato tempo fa l’idea del socialismo, agiscono solo come grancassa delle grandi aziende.  Ma le sinistre, in realtà, non hanno alcuna politica sostenibile. Le loro richieste di riforme e di aumento della spesa pubblica sono alquanto utopistiche dal punto di vista del capitalismo moderno. Stanno provando a basarsi su un capitalismo che non esiste più. Nelle condizioni attuali, una politica che si fermi a metà strada è inutile. Qualsiasi tentativo di tornare ai metodi keynesiani causerebbe un’esplosione di inflazione, un crollo degli investimenti e della valuta, e una situazione peggiore di prima. Nessuno più prende seriamente in considerazione tali idee. Solo i riformisti di sinistra credono ancora in esse, e di conseguenza non sono capaci di avanzare un discorso convincente a difesa del socialismo contro l’UE, che è la ragione principale per cui sono stati sconfitti ovunque dall’ala destra, sebbene questa situazione cambierà nel prossimo periodo.
È ironico che, appena il “mercato” sia iniziato ad essere screditato ovunque, i sindacalisti riformisti si affrettino a sostenerlo. Stanno per avere una bella sorpresa. In particolare con lo scoppio di una nuova recessione, che è inevitabile nei prossimi anni, queste organizzazioni saranno scosse da capo a piedi, iniziando dai sindacati. I sindacalisti attuali, così come i loro corrispondenti politici, si sono spostati a destra, come riflesso delle pressioni del capitalismo. Nicole Notat in Francia, Antonio Gutierrez in Spagna, John Monks in Gran Bretagna e Hubertus Schmoldt in Germania sono tipici rappresentanti di questa nuova razza.  Affrontano queste questioni su basi capitaliste invece che da un punto di vista classista, e quindi finiscono col difendere una posizione reazionaria. Si ritrovano in compagnia di tutti i tipi di elementi sciovinisti dell’ala destra e i nemici dichiarati della classe lavoratrice. Ciò è inevitabile se non rimaniamo fermi sulle basi dei principi di classe e di una prospettiva socialista.
Solo una politica marxista, basata sull’internazionalismo dei lavoratori e su un programma di una trasformazione socialista della società, può armare il movimento operaio in una battaglia decisa contro l’Europa dei padroni. È necessario combattere per l’espropriazione delle banche, delle società finanziare e dei monopoli ed un piano economico socialista sotto la gestione democratica e il controllo dei lavoratori. Dobbiamo avere una prospettiva internazionalista, basata sul bisogno di unire l’enorme potenziale produttivo dell’Europa intera in modo armonico, abolendo le frontiere – questi residui di barbarie – con la creazione di condizioni per il libero movimento e la fraternizzazione dei popoli. Un piano di produzione democratico socialista, che si avvale di vaste risorse economiche, materiali e umane esistenti in Europa, ci consentirebbe di porre fine all’incubo della disoccupazione. L’immediata introduzione delle 32 ore lavorative a settimana è la condizione preliminare per riportare 18 milioni di europei al lavoro. Libera dalle restrizioni artificiali della produzione per il profitto e dagli angusti confini dello stato nazione, la produzione volerebbe a livelli mai visti prima. Questo è il modo per “creare un’economia libera” e non la pazzia di un’anarchia capitalista! Partendo da ciò, non parleremmo più di un misero obiettivo del 2 o 3% all’anno come ora, ma di un tasso di crescita del 10% minimo.
Un tale obiettivo – molto modesto per un’economia pianificata sostenuta dalle risorse unite d’Europa- significherebbe che nel giro di alcuni piani che andrebbero dai 2 ai 5 anni, il benessere dell’Europa raddoppierebbe. Non si parlerebbe più di austerità, tagli e chiusura di ospedali e scuole. Al contrario. Sarebbe possibile lanciare i programmi più ambiziosi di lavori pubblici mai visti prima nella storia. Invece dei tagli al tenore di vita e orari di lavoro più lunghi, saremmo nella posizione di aumentare i salari e le pensioni di anno in anno, e ridurre progressivamente i giorni lavorativi, aumentando la produzione generata da un maggior benessere. In poco tempo potremmo abolire povertà e miseria, anche nelle regioni d’Europa più arretrate.
Ciò, a sua volta, renderebbe il problema nazionale un qualcosa che appartiene solo al passato. Nel quadro di una confederazione socialista democratica e fiorente, a tutti sarà garantita piena uguaglianza ed autonomia nel controllo delle proprie vite, nell’utilizzo della propria lingua e nello sviluppo della propria cultura. lungi dall’opprimere e strangolare le piccole nazioni, un’Europa socialista darebbe loro piena libertà di svilupparsi e prosperare. Ma al posto del vecchio, reazionario e claustrofobico nazionalismo, e con l’angusta xenofobia, la sua inevitabile compagna, sorgerà un nuovo spirito, in linea con le richieste dell’età moderna – uno spirito di fraternità e cooperazione tra i popoli nella realizzazione di un’Europa piena di potenzialità. Sarà un punto di riferimento per i popoli dell’Africa, Asia e del resto del mondo, lanciando le basi per la creazione di una federazione mondiale socialista.
Questa non è utopia, ma è una visione del tutto realistica – e anche modesta – di quello che sarebbe possibile partendo dalle basi dell’attuale capacità di produzione dell’industria, dell’agricoltura e della tecnologia europea. Ma tale potenziale non può essere realizzato fin quando l’Europa rimane divisa e sotto la dominazione di un manipolo di banche e grandi monopoli. Bisogna rompere questa stretta reazionaria e cominciare una trasformazione radicale della società. Questo è l’unico obiettivo davvero valido per i lavoratori e i giovani alla vigilia del 21esimo secolo – la lotta per l’emancipazione dell’umanità dalle barbarie del capitalismo e la creazione di un mondo in cui possano vivere degnamente i popoli.

No a Maastricht! Niente più tagli!

No ai banchieri e capitalisti europei!

Nazionalizzazione di banche e monopoli sotto il controllo operaio!

Per gli Stati Uniti Socialisti d’Europa!

Londra, 4 Giugno 1997

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