La Rivolta della Ragione – Capitolo 4 Logica formale e dialettica – Razionalità e irrazionalità

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La Rivolta della Ragione – Capitolo 4 Logica formale e dialettica – Razionalità e irrazionalità

di Alan Woods e Ted Grant

 

La capacità degli uomini e delle donne di pensare in modo logico è il prodotto di un lento processo di evoluzione sociale. È precedente all’invenzione della logica formale, non di migliaia, bensì di milioni di anni. Locke esprimeva già questo concetto nel XVII secolo quando scriveva “Dio non è stato così parsimonioso con gli uomini da farne puramente dei bipedi e lasciare ad Aristotele il compito di renderli razionali”. Secondo Locke, alla base della logica c’è “una facoltà primitiva di percepire la coerenza o meno delle idee.”1
Le categorie della logica non sono piovute dal cielo; queste forme hanno preso corpo nel corso dello svi­luppo socio-storico dell’umanità. Sono generalizzazioni elementari della realtà, riflesse nella mente degli uomini. Esse derivano dal fatto che ogni oggetto ha certe qualità che lo distinguono da altri oggetti; che tutto esiste in una certa relazione con altre cose; che gli oggetti formano classi più ampie, con le quali condividono proprietà specifiche; che certi fenomeni causano altri fenomeni, e così via.
In qualche misura, osservava Trotskij, perfino gli animali hanno la capacità di ragionare e traggono certe conclusioni da determinate situazioni. Nei mammiferi superiori, ed in particolare nelle scimmie, questa capacità è abbastanza sviluppata, come hanno indubbiamente dimostrato le recenti ricerche sugli scimpanzé bonobo. Tuttavia, se la capacità di ragionare non è monopolio della specie umana, non c’è dubbio, almeno per quanto riguarda il nostro piccolo angolo di universo, che la capacità di pensare in modo razionale ha raggiunto il suo punto più alto con lo sviluppo dell’intelletto umano.
L’astrazione è assolutamente necessaria. Senza di essa, il pensiero in generale sarebbe impossibile. La questione è: quale genere di astrazione? Quando mi astraggo dalla realtà, mi concentro su alcuni aspetti di un dato fenomeno, tralasciando gli altri. Il buon topografo, ad esempio, non è colui che riproduce ogni dettaglio di ogni casa, il selciato e ogni auto parcheggiata. Una tale quantità di dettagli vanificherebbe il vero scopo della carta, fornire cioè lo schema utile di una città o di un’area geografica. In modo simile, il cervello impara presto a ignorare certi stimoli e a concentrarsi su altri. Se non fossimo capaci di farlo, la quantità di informazioni che raggiungerebbe le nostre orecchie da tutte le parti sommergerebbe completamente la nostra mente. Il linguaggio stesso presuppone un alto livello di astrazione.
La capacità di operare astrazioni corrette che riflettano adeguatamente la realtà che intendiamo comprendere e descrivere è un presupposto essenziale per pensare in modo scientifico. Le astrazioni della logica formale sono sufficienti per esprimere il mondo reale solo nell’ambito di limiti piuttosto ristretti. Ma esse sono parziali e statiche e sono irrimediabilmente inadeguate per affrontare processi non lineari, in particolare il movimento, il cambiamento e la contraddizione. La concretezza di un oggetto consiste nella sommatoria dei suoi aspetti e delle interrelazioni determinate dalle sue leggi intrinseche. È compito della scienza scoprire queste leggi e avvicinarsi quanto più sia possibile a questa realtà concreta. Scopo della cognizione è riflettere il mondo oggettivo e l’insieme delle sue leggi interne e delle relazioni necessarie il più fedelmente possibile. Come diceva Hegel, “la verità è sempre concreta.”
Ma qui ci troviamo di fronte a una contraddizione. Non è possibile giungere alla comprensione del mondo concreto della natura senza prima ricorrere all’astrazione. La parola “astrarre” viene dal latino “prendere da”. Nel processo di astrazione, prendiamo dall’oggetto alcuni aspetti che riteniamo importanti, lasciando da parte gli altri. La conoscenza astratta è necessariamente parziale perché esprime solo un aspetto particolare del feno­meno considerato, isolato da ciò che determina la natura specifica dell’insieme. Così, la matematica consi­dera esclusivamente le relazioni quantitative. Dato che la quantità è un aspetto estremamente importante della natura, le astrazioni della matematica ci hanno fornito un potente strumento per penetrarne i segreti. Per que­sto motivo si tende a dimenticarne la vera natura e i limiti, ma, come tutte le astrazioni, esse riman­gono incomplete. Lo dimentichiamo a nostro rischio e pericolo.
La natura conosce la qualità così come la quantità. Determinare l’esatta relazione tra le due e mostrare come, raggiunto un momento critico, l’una si trasforma nell’altra è assolutamente necessario se vogliamo conoscere uno dei processi fondamentali della natura. Questo è uno dei principali concetti di base della dialettica in contrapposizione al pensiero puramente formale, ed è uno dei suoi più importanti contributi alla scienza. La pro­fonda perspicacia derivante da questo metodo, che è stato a lungo bollato come “misticismo”, comincia ad essere compresa ed apprezzata solo oggi. Il pensiero astratto e parziale, come si manifesta nella logica for­male, ha causato molti danni alla scienza scomunicando la dialettica. Invece i risultati effettivi della scienza mo­strano che, in ultima analisi, il pensiero dialettico è molto più vicino al reale processo della natura rispetto al­le astrazioni lineari della logica formale.
È necessario acquisire una comprensione concreta dell’oggetto come un sistema integrato – non come frammenti isolati – con tutte le necessarie interconnessioni; non avulso dal contesto, come una farfalla fissata sulla tavola del collezionista; nel suo processo vitale e dinamico, non come qualcosa di statico e senza vita. Tale approccio è in aperto conflitto con le cosiddette “leggi” della logica formale, la più alta espressione di pensiero dogmatico mai conosciuta, una sorta di rigor mortis mentale. La natura vive e respira e ostinatamente respinge l’abbraccio del pensiero formalista. “A” non è uguale ad “A”. Le particelle subatomiche sono e non sono. I processi lineari finiscono nel caos. L’insieme è maggiore della somma delle sue parti. La quantità diventa qualità. L’evoluzione stessa non è un processo graduale, ma interrotto da improvvisi balzi e catastrofi. Cosa possiamo farci? I fatti sono ostinati.
Senza astrazione è impossibile penetrare l’oggetto in “profondità”, capire la sua natura essenziale e le sue leggi di moto. Attraverso il processo mentale dell’astrazione, siamo in grado di scavare oltre le in­formazioni immediate forniteci dai nostri sensi e andare più a fondo. Possiamo scomporre l’oggetto nelle sue parti, isolarle e studiarle in dettaglio. Possiamo pervenire a una concezione idealizzata e generale dell’oggetto come “pura” forma, spogliato da tutti i fattori secondari. Questo è il lavoro dell’astrazione, un passaggio as­solutamente necessario nel processo della conoscenza.
Il pensiero, salendo dal concreto all’astratto, non si allontana – quando sia corretto (e Kant, come tutti i filosofi, parla del pensiero corretto) – dalla verità, ma si avvicina a essa. L’astrazione della materia, della legge di natura, l’astrazione del valore, ecc., in breve, tutte le astrazioni scientifiche (corrette, serie, non assurde) rispecchiano la natura in modo più profondo, fedele e compiuto. Dalla vivente intuizione al pensiero astratto e da questo alla prassi: ecco il cammino dialettico della conoscenza della verità, della conoscenza della realtà oggettiva.2
Una delle caratteristiche fondamentali del pensiero umano è di non limitarsi a ciò che è, ma di occuparsi anche di ciò che deve essere. Facciamo continuamente ogni tipo di ipotesi sul mondo in cui viviamo; è una logica che non viene appresa dai libri, ma è il prodotto di un lungo periodo di evoluzione. Esperimenti accurati hanno mostrato che i rudimenti della logica vengono acquisiti da un bambino attraverso l’esperienza già nei primi anni di vita. Ne deduciamo che, se una cosa è vera, allora un’altra cosa, della quale non abbiamo prove immediate, deve essere anch’essa vera; tali processi logici del pensiero si verificano milioni di volte al giorno in una mente umana in modo del tutto incosciente. Essi acquisiscono la forza di un’abitudine e perfino le azioni più semplici nella vita non sarebbero possibili senza di essi.
Le regole basilari del pensiero sono date per scontate dalla maggior parte delle persone. Sono una componente familiare della vita e si riflettono in molti proverbi, come “non puoi avere la botte piena e la moglie ubriaca”. Ad un certo punto, queste regole furono scritte e sistematizzate; è l’origine della logica formale, il merito della quale, come di molte altre cose, spetta ad Aristotele. Questo è stato molto importante, dato che senza la conoscenza delle leggi elementari della logica, il pensiero rischia di diventare incoerente. È necessario distinguere il bianco dal nero e sapere la differenza tra un’affermazione vera e una falsa; il valore della logica formale non è perciò messo in discussione. Il problema è che le categorie della logica formale, desunte da una gamma di esperienze e osservazioni piuttosto limitate, sono valide solo entro questi limiti. Esse si occupano infatti di gran parte dei fenomeni della vita quotidiana, ma sono assolutamente inadeguate per af­frontare processi non lineari più complessi che implicano movimento, turbolenza, contraddizione e cambiamento della quantità in qualità.
In un articolo interessante dal titolo The origins of inference (Le origini della deduzione), apparso nell’antologia Making Sense, a proposito della costruzione infantile del mondo, Margaret Donaldson pone l’attenzione su uno dei problemi della logica ordinaria, il suo carattere statico:
“Il ragionamento verbale appare comunemente rivolto allo ‘stato delle cose’; il mondo visto come statico, come una fotografia. E considerato in questo modo l’universo sembra non contenere alcuna incompatibilità; le cose sono esattamente così come sono. Quell’oggetto laggiù è un albero; il cappello è blu; quell’uomo è più alto di quell’altro. Nauralmente questi stati di cose ne precludono molti altri, ma come ne diveniamo coscienti? Come sorge nella nostra mente l’idea di incompatibilità? Di sicuro non direttamente dalle nostre impressioni delle cose così come sono.
Nella stessa opera si osserva giustamente che il processo della conoscenza è attivo e non passivo:
Noi non ce ne stiamo ad aspettare in modo passivo che il mondo imprima la sua ‘realtà’ in noi. Invece, come oggi è ampiamente riconosciuto, apprendiamo gran parte della nostra conoscenza di base attraverso l’azione“.3
Il pensiero umano è essenzialmente concreto. La mente non assimila facilmente concetti astratti. Ci sen­tiamo molto più a nostro agio con quello che è immediatamente davanti ai nostri occhi, o almeno con le cose che possono essere rappresentate in forma concreta. È come se la mente avesse bisogno dell’immagine come di una specie di stampella. A questo proposito Margaret Donaldson osserva che:
Perfino i bambini in età prescolare sono spesso capaci di ragionare bene riguardo agli eventi delle storie che ascoltano. Tuttavia, quando andiamo oltre i limiti del senso comune, la differenza diventa drammatica. Il pensiero che supera questi confini, e pertanto non agisce più entro un contesto di eventi significativi che lo sostiene, viene spesso definito ‘formale’ o ‘astratto’“.4
Il processo iniziale si sposta in tal modo dal concreto all’astratto. L’oggetto viene smembrato, analizzato, in modo da ottenere una conoscenza dettagliata delle sue parti. Ma in questo ci sono dei pericoli; le parti possono non essere correttamente analizzate indipendentemente dalle loro relazioni con l’insieme. È necessario tornare all’oggetto come sistema integrale e comprendere le dinamiche interne che lo condizionano come intero. In questo modo il processo della conoscenza torna dall’astratto nuovamente al concreto. È l’essenza del me­todo dialettico, che combina analisi e sintesi, induzione e deduzione.
La truffa dell’idealismo deriva da una scorretta comprensione della natura dell’astrazione. Lenin affermava che il rischio dell’idealismo è insito in ogni astrazione. Il concetto astratto di una cosa viene contrapposto artificialmente alla cosa stessa. Non solo vi si attribuisce un’esistenza propria, ma questa è ritenuta superiore alla rude realtà materiale. Il concreto viene ritratto come qualcosa di carente, imperfetto e impuro, in contrasto con l’Idea che è perfetta, assoluta e pura. Così la realtà viene capovolta.
La capacità di pensare in modo astratto costituisce una conquista colossale dell’intelletto umano. Non solo la scienza “pura”, ma anche l’ingegneria sarebbe impossibile senza il pensiero astratto che ci solleva al di sopra della realtà immediata e finita degli esempi concreti e dà al pensiero un carattere universale. Il rifiuto ir­razionale del pensiero astratto e della teoria indica una mentalità ristretta e filistea che si ritiene “pratica”, ma in realtà è impotente. In definitiva, grandi progressi nella teoria portano a grandi progressi nella pratica. Ad ogni modo, tutte le idee derivano, in un modo o nell’altro, dal mondo fisico e in ultima istanza devono essere applicate di nuovo a questo. La validità di una teoria va dimostrata prima o poi nella pratica.
Negli ultimi anni abbiamo assistito a una sana reazione contro il riduzionismo meccanicistico, che gli ha contrapposto l’esigenza di un approccio olistico alla scienza. Il termine olistico è una scelta infelice a causa delle sue implicazioni mistiche. Tuttavia, nel suo tentativo di vedere le cose nei loro processi dinamici e interconnes­sioni, la teoria del caos indubbiamente si avvicina alla dialettica. Il vero rapporto tra logica formale e dialettica è quello tra il tipo di pensiero che smembra le cose per osservare le parti separatamente, e quello che è anche in grado di rimetterle insieme e farle funzionare. Se il pensiero deve corrispondere alla realtà, deve essere in grado di considerarla come un intero vivente, con le sue contraddizioni.

Che cos’è un sillogismo?

“Il pensiero logico e il pensiero formale in generale” – dice Trotskij – “si costruiscono sulla base del metodo deduttivo, procedendo da un sillogismo più generale attraverso un numero di premesse fino alla conclu­sione necessaria. Una tale catena di sillogismi è chiamata ‘sorite’.”5
Aristotele fu il primo ad attuare una descrizione sistematica sia della dialettica che della logica formale come metodi di ragionamento. Lo scopo della logica formale era fornire un utile strumento per di­stinguere gli argomenti validi da quelli non validi; lo fece attraverso il sillogismo. Ci sono diverse forme di sillogismo che sono in realtà variazioni dello stesso tema.
Aristotele nel suo Organon identifica dieci categorie – sostanza, quantità, qualità, relazione, luogo, tempo, posizione, stato, azione, passione – che formano le basi della logica dialettica, la quale più avanti avrà piena espressione negli scritti di Hegel. Questo aspetto del lavoro di Aristotele sulla logica viene frequentemente ignorato. Bertrand Russell, per esempio, considera queste categorie insensate. Ma, dato che positivisti logici come Russell hanno scartato praticamente tutta la storia della filosofia (tranne quei piccoli pezzi che coinci­dono con i loro dogmi) in quanto “priva di significato”, non ce ne dobbiamo stupire né preoccupare eccessivamente. Il sillogismo è un metodo di ragionamento logico che può essere descritto in diversi modi. La defini­zione data da Aristotele stesso era la seguente: “Un discorso nel quale, essendo affermate certe cose, altre cose rispetto a quanto affermato conseguono necessariamente per il loro essere tali.” La definizione più semplice è data da A. A. Luce:
Un sillogismo è una triade di proposizioni connesse, in una relazione tale per cui una di loro, chiamata Conclusione, necessariamente deriva dalle altre due, dette Premesse.6
Gli Scolastici medievali focalizzarono la loro attenzione su questo tipo di logica formale sviluppata da Aristotele negli Analitici primi e negli Analitici secondi. È in tale forma che la logica di Aristotele ci per­viene dal Medioevo. In pratica il sillogismo consiste in due premesse e una conclusione. Il soggetto e il pre­dicato della conclusione si trovano ognuno in una delle premesse, insieme ad un terzo termine (il termine me­dio) che si trova in entrambe le premesse, ma non nella conclusione. Il predicato della conclusione è il termine maggiore; la premessa nella quale è contenuto è la premessa maggiore; il soggetto della conclusione è il ter­mine minore; e la premessa nella quale è contenuto è la premessa minore. Per esempio:
a) Tutti gli uomini sono mortali. (Premessa maggiore)
b) Cesare è un uomo. (Premessa minore)
c) Quindi, Cesare è mortale. (Conclusione)
Questa è detta dichiarazione categorica affermativa. Dà l’impressione di essere una catena logica di argomenti, nella quale ogni livello deriva inesorabilmente dal termine precedente. Ma in effetti non è così perché “Cesare” è gia incluso tra “tutti gli uomini”. Kant, come Hegel, considera il sillogismo (quella “dottrina tediosa”, come lo definisce) con disprezzo. Per lui non è “niente più che un artificio” nel quale la conclusione era già stata furtivamente introdotta nella premessa per dare una falsa apparenza di ragiona­mento.
Un altro tipo di sillogismo è condizionale nella forma (se… allora), per esempio: “Se un animale è una tigre, allora è carnivoro”. Questo è solo un altro modo per dire la stessa cosa della dichiarazione categorica affermativa, cioè che tutte le tigri sono carnivore. La stessa cosa avviene con la forma negativa: “Se è un pesce, non è un mammifero” è solo un altro modo di dire “Nessun pesce è un mammifero”. La differenza formale nasconde il fatto che non abbiamo fatto nessun passo avanti.
In realtà questo rivela le connessioni interne tra le cose, non solo nel pensiero, ma nel mondo reale. “A” e “B” sono in una certa relazione con “C” (il termine medio) e la premessa, quindi sono in relazione tra loro nella conclusione. Con grande profondità e perspicacia Hegel dimostrò che il sillogismo mostrava la relazione del particolare con l’universale. In altri termini, il sillogismo stesso è un esempio di unità degli opposti, la contraddizione par excellence, e in realtà tutte le cose sono un “sillogismo”.
L’età dell’oro del sillogismo fu il Medioevo, quando gli Scolastici dedicarono la loro intera vita a dispute infinite su tutta una serie di oscure questioni teologiche, come il sesso degli angeli. La costruzione labirintica della logica formale dava l’impressione che essi fossero veramente impegnati in discussioni profonde mentre in realtà non discutevano di niente. La ragione di questo risiede nel carattere stesso della logica formale. Come suggerisce il nome, si occupa solamente di forma. Le questioni di contenuto non c’entrano. È precisamente questo il difetto maggiore della logica formale ed il suo tallone d’Achille.
Durante il Rinascimento, quel grande risveglio dello spirito umano, si diffuse una grande insoddisfazione verso la logica aristotelica. Ci fu una crescente reazione contro Aristotele che non era esattamente equa nei confronti del grande pensatore, poiché derivava dal fatto che la Chiesa aveva soppresso tutti gli elementi validi della sua filosofia preservandone solo una sterile caricatura. Per Aristotele il sillogismo era solo una parte del ragionamento e non necessariamente quella più importante. Aristotele scrisse anche sulla dialettica, ma questo aspetto è stato dimenticato. La logica fu privata di tutta la sua vitalità e trasformata, usando le parole di Hegel, nelle “ossa inanimate di uno scheletro”.
La reazione contro questo sterile formalismo si tradusse nella tendenza verso l’empirismo, che ha dato un enorme contributo all’indagine scientifica e alla sperimentazione. Tuttavia non è possibile fare a meno di tutte le forme di pensiero; l’empirismo, dal suo esordio, aveva in sé i semi della propria distruzione. L’unica alternativa valida ad un metodo di ragionamento scorretto e inadeguato consiste nello svilupparne uno corretto e adeguato.
Alla fine del Medioevo il sillogismo era screditato in ogni campo e veniva ridicolizzato e scartato. Rabelais, Petrarca e Montaigne lo denunciarono. Ma il sillogismo continuava a rimanere in ballo, specialmente in quei paesi cattolici non toccati dal vento rinnovatore della Riforma. Alla fine del XVIII secolo la logica si trovava in una stato così precario che Kant si sentì obbligato a lanciare una critica generale alle vecchie forme di pensiero nella sua Critica della ragion pura.
Hegel fu il primo a sottoporre le leggi della logica formale ad un’analisi critica approfondita, completando con ciò il lavoro iniziato da Kant. Ma mentre Kant si era limitato a dimostrare le insuf­ficienze e le contraddizioni inerenti alla logica tradizionale, Hegel si spinse molto più avanti, sviluppando un approccio alla logica completamente diverso, un approccio dinamico che includesse il movimento e la contraddi­zione che la logica formale è incapace di affrontare.

La logica insegna a pensare?

La dialettica non pretende di insegnare a pensare. Questa è una pretesa arrogante della logica formale, alla quale Hegel rispose in modo ironico affermando che la logica non insegna a pensare più di quanto la fisiologia insegni a digerire! L’uomo pensava, anche in modo logico, molto prima di sentir parlare di logica. Le categorie della logica e anche della dialettica derivano dall’esperienza reale. Con tutte le loro pretese, le categorie della logica formale non si elevano al di sopra del rude mondo materiale, ma sono solo vuote astrazioni prese dalla realtà, interpretate in modo parziale e statico e poi riapplicate arbitrariamente alla realtà stessa.
Al contrario, la prima legge del metodo dialettico è l’assoluta oggettività. In tutti i casi è necessario sco­prire le leggi di moto di un dato fenomeno studiandolo da tutti i punti di vista. Il metodo dialettico è di grande valore in quanto affronta le cose correttamente, evitando errori filosofici elementari e facendo solide ipotesi scientifiche. Vista l’incredibile quantità di misticismo che è emersa dalle ipotesi arbitrarie, soprattutto nella fisica teorica, questo vantaggio non è di poco conto. Ma il metodo dialettico cerca sempre di ricavare le sue categorie da uno studio accurato dei fatti e dei processi e di non costringere i fatti in una rigida camicia di forza preconcetta:
Siamo tutti d’accordo – scrisse Engels – sul fatto che in ogni campo della scienza, nella natura così come nella storia, bisognava prendere le mosse dai fatti a noi dati, nelle scienze naturali quindi dalle diverse forme oggettive e di movimento della materia; che quindi i nessi, anche nella scienza teorica della natura, non debbono essere introdotti bell’e costruiti nei fatti, ma debbono essere scoperti partendo da essi, e, una volta scoperti, debbono essere dimostrati sperimentalmente, per quanto è possibile.7

La scienza si fonda sulla ricerca di leggi di carattere generale che possano spiegare il funzionamento della natura. Essa parte dall’esperienza, ma non si limita alla semplice raccolta di dati; cerca di estrapolare regole generali sulla base delle prove empiriche, procedendo dal particolare all’universale. La storia della scienza è caratterizzata da un processo sempre più intenso di approssimazione: ci avviciniamo sempre più alla verità, ma senza mai conoscere “tutta la verità”. In ultima analisi, la prova definitiva della verità scientifica è la sperimentazione. “L’esperimento”, dichiara Feynman, “è l’unico giudice della ‘verità’ scientifica”.8
La validità delle forme del pensiero deve dipendere, in ultima analisi, dalla loro corrispondenza o meno alla realtà del mondo fisico. Ciò non può essere stabilito a priori, ma deve essere verificato attraverso l’osservazione e la sperimentazione. La logica formale, in contrapposizione con tutte le scienze naturali, non è empirica. La scienza deriva i suoi dati dall’osservazione del mondo reale. Si suppone invece che la logica sia “a priori”, a differenza di tutte le questioni di cui si occupa. C’è una chiara contraddizione tra forma e contenuto: sebbene la logica non derivi dal mondo reale, essa viene costantemente applicata agli eventi del mondo reale. Qual è la relazione tra le due parti?
Molto tempo fa Kant spiegò che le forme della logica devono riflettere la realtà oggettiva, altrimenti sono completamente prive di senso:
Quando abbiamo motivo di considerare un giudizio necessariamente universale […] dobbiamo conside­rarlo anche oggettivo, cioè che non riflette solamente l’allusione della nostra percezione a un soggetto, bensì la qualità dell’oggetto. Per questo non ci sarebbe ragione per cui i giudizi di altri uomini necessaria­mente si accordino con i miei, se non ci fosse l’unità dell’oggetto ai quali tutti si riferiscono e con la quale concordano; dunque tali giudizi devono concordarsi fra loro.9
Questa idea venne ulteriormente sviluppata da Hegel, il quale rimosse le ambiguità presenti nella teoria kan­tiana della conoscenza e della logica, ed infine fu posta su solide basi da Marx ed Engels:
“Gli schemi logici – spiega Engels – si possono riferire solo a forme di pensiero; qui si tratta invece, solo di forme dell’essere , del mondo esterno, e queste forme il pensiero non può mai crearle nè dedurle da se stesso, ma precisamente solo dal mondo esterno. Ma con ciò tutto il rapporto si inverte; i princìpi non sono il punto di partenza dell’indagine, ma invece il suo risultato finale; non vengono applicati alla natura e alla storia dell’uomo, ma invece vengono astratti da esse; non già la natura e il regno dell’uomo si conformano ai princìpi, ma i princìpi, in tanto, sono giusti, in quanto si accordano con la natura e con la storia.”10

Limiti della legge di identità

È stupefacente che le leggi di base della logica formale sviluppate da Aristotele siano rimaste fon­damentalmente invariate per più di duemila anni. In questo lasso di tempo abbiamo assistito ad un continuo processo di cambiamento in tutte le sfere della scienza, della tecnologia e del pensiero umano, eppure gli scienziati si sono accontentati di servirsi essenzialmente degli stessi strumenti metodologici che venivano usati dagli Scolastici medioevali quando la scienza era ancora al livello di alchimia. Dato il ruolo centrale svolto dalla logica formale nel pensiero occidentale, è sorprendente quanto poca sia l’attenzione rivolta al suo reale contenuto, al suo significato e alla sua storia. Di solito viene considerata come qualcosa di dato, che si dimostra da sé, e fisso nel tempo, oppure è presentata come un’utile conven­zione sulla quale si trovano d’accordo le persone ragionevoli, in modo da facilitare il pensiero ed il discorso, così come fra persone educate vi è accordo sulle buone maniere a tavola. L’idea che viene avanzata è che le leggi della logica siano completamente artificiali, costruite dai logici nella convinzione che potranno avere una qualche applicazione in qualche campo del pensiero dove riveleranno una qualche verità. Ma se le leggi della logica sono solo costruzioni astratte, frutti dell’immaginazione arbitraria del cervello, perché dovrebbero avere una qualche attinenza con il mondo reale?
Trotskij commenta ironicamente in proposito:
“Dire che si è trovato un consenso per quanto riguarda il sillogismo è più o meno come dire o, meglio, è esattamente come dire, che ci si è messi d’accordo per avere narici nel naso. Il sillogismo è un prodotto dello sviluppo organico, cioè biologico, antropologico e sociale dell’umanità così come lo sono i diversi organi, tra i quali quelli olfattivi.”
In realtà la logica formale deriva in ultima analisi dall’esperienza, così come qualsiasi modo di pensare. Dalla loro esperienza gli esseri umani traggono certe conclusioni, che applicano alla loro vita quotidiana. Questo vale anche per gli animali, seppure ad un livello diverso.
Il pollo sa che il grano è in generale utile, necessario e gustoso. Esso sa riconoscere un dato chicco come quel chicco – di frumento – che conosce e dunque trae la conclusione logica per mezzo del suo becco. Il sillogismo di Aristotele è solo un’espressione articolata di queste elementari conclusioni mentali che osserviamo ad ogni livello tra gli animali.11
Trotskij una volta disse che la relazione che intercorre tra la logica formale e la dialettica è simile alla re­lazione tra la matematica inferiore e quella superiore: l’una non nega l’altra e continua ad essere valida entro certi limiti. Allo stesso modo le leggi di Newton, predominanti per oltre un secolo, si sono dimostrate inapplicabili nel mondo subatomico. Più precisamente, la vecchia fi­sica meccanicista, che fu criticata da Engels, si è dimostrata parziale e di limitata applicabilità.
La dialettica – scrive Trotskij – non è né misticismo né finzione, ma una scienza delle forme del nostro pensiero, nella misura in cui non si limita a trattare i problemi quotidiani della vita, ma si sforza di arrivare ad una comprensione di processi più complicati e complessi“.12
Il metodo più comune della logica formale è quello deduttivo, che tenta di stabilire la verità delle sue con­clusioni ponendo due condizioni distinte:
a) la conclusione deve derivare effettivamente dalle premesse;
b) le premesse stesse devono essere vere.
Qualora entrambe le condizioni siano verificate, allora si potrà dire che il ragionamento è valido. Tutto questo è molto confortante; siamo nel regno tranquillo e rassicurante del “senso comune”. “Vero o falso?”, “Sì o no?”. Con i piedi ben saldi a terra, abbiamo in pugno “la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità!” Non c’è molto da aggiungere. Oppure sì?
Dal punto di vista della logica formale, è indifferente che le premesse siano vere o false. Se le con­clusioni possono essere tratte correttamente dalle premesse, sono considerate deduttivamente valide; l’importante è distinguere tra deduzioni corrette e scorrette. In tal modo, dal punto di vista della logica formale la seguente asserzione è deduttivamente valida: Tutti gli scienziati hanno due teste – Einstein era uno scienziato – Dunque Einstein aveva due teste. È evidente come la validità dell’inferenza non dipenda affatto, secondo loro, dall’oggetto in questione. La forma, dunque, viene elevata al di sopra del contenuto. Nella pratica, naturalmente, ogni ragionamento che non dimostri la verità delle sue premesse sarebbe peg­gio che inutile. Bisogna dimostrare che le premesse sono valide, ma questo conduce ad una contraddizione, poiché il processo stesso di verifica porta ad una serie di questioni che a loro volta andranno verificate. Come fa notare Hegel, ogni premessa dà origine ad un nuovo sillogismo, e così via all’infinito, per cui ciò che sembrava molto semplice si rivela estremamente complesso e contraddittorio.

La contraddizione più grande di tutte risiede nelle premesse fondamentali della logica formale. Mentre esige che tutto il resto del mondo vada a giustificarsi di fronte all’Alta Corte del Sillogismo, la logica si trova totalmente disorientata nel momento in cui deve giustificare i propri presupposti. Improvvisamente perde tutte le sue facoltà critiche e ricorre alla fede, al senso comune, all’“ovvio”, o all’ultima scappatoia filosofica, all’“a priori”. Il problema è che i cosiddetti assiomi della logica sono formule non dimostrate, ma nonostante ciò considerate come punto di partenza dal quale derivare tutte le formule (teoremi) successive, proprio come nella geometria classica il cui punto di partenza è fornito dai princìpi di Euclide, supposti esatti, ma indimostrabili, vale a dire accettati in base a un atto di fiducia.
E se gli assiomi della logica formale si dimostrassero falsi? Allora saremmo nella stessa situazione del povero Einstein che si ritrova con due teste. È dunque concepibile che le leggi eterne della logica siano difettose? Analizziamo la questione più da vicino. I principi di base della logica formale sono:
1) Il principio di identità (“A”=“A”)
2) Il principio di contraddizione (“A” non è uguale a “non-A”)
3) Il principio del terzo escluso (“A” non è uguale a “B”)
Queste leggi, a prima vista, appaiono come la personificazione del buon senso. Chi potrebbe metterle in discussione? Ma un’ana­lisi più accurata mostra come queste leggi portino con sé molti problemi e contraddizioni di natura filosofica. Nella sua Scienza della Logica, Hegel sottopone la Legge d’identità a un’analisi accurata, provandone la parzialità, e dunque la scorrettezza.
Innanzitutto osserviamo che la catena di ragionamenti, nella quale uno deriva strettamente da un altro, è totalmente illusoria. La legge di contraddizione semplicemente ribadisce la legge di identità in forma negativa. Lo stesso vale per la legge del terzo escluso. Ciò che resta è la ripetizione della prima legge in forme diverse. Tutto il castello si regge sulla legge d’identità (A = A), che a prima vista è incontrovertibile e quindi fonte di ogni pensiero logico. È il Sancta Sanctorum della Logica e non va messa in discussione; eppure fu messa in discussione, e da una delle più grandi menti di tutti i tempi.
C’è una storia di Hans-Christian Andersen dal titolo Il vestito nuovo dell’imperatore, nella quale ad un im­peratore piuttosto stupido un truffatore vende un vestito che dovrebbe essere meraviglioso, solo che è invisibile agli sciocchi. L’imperatore credulone se ne va in giro con il suo bell’abito nuovo che tutti trovano squisito, finché un giorno un bambino osserva che l’imperatore è, in realtà, nudo come un verme. Hegel ha reso un servizio simile alla filosofia nella sua critica alla logica formale, i cui sostenitori non hanno per ciò mai perdonato.
La cosiddetta legge d’identità è, di fatto, una tautologia; proprio, paradossalmente, l’errore che i logici considerano più grave nella definizione di un concetto.
Si tratta, dunque, di una definizione logicamente insostenibile che semplicemente ripete in altri termini ciò che è già evidente nell’oggetto che si va a definire. Poniamolo più concretamente: un insegnante chiede al suo alunno cosa sia un gatto e questi risponde, pronto, che un gatto è… un gatto! Una risposta simile non sarebbe considerata molto intelligente. Dopo tutto, una frase ha generalmente l’obiettivo di dire qualcosa e questa frase non ci dice assolutamente nulla. Eppure questa definizione poco brillante di quadrupede felino fatta da uno scolaretto è una perfetta applicazione della legge d’identità. Purtroppo, mentre il malcapitato bambino sarebbe andato a finire dietro la lavagna, per oltre duemila anni dotti professori si sono accontentati di considerarla come la più profonda verità filosofica.
Tutto quello che la legge d’identità ci dice a proposito di una cosa è che essa è. Non ci porta avanti neanche di un millimetro; restiamo nel campo astratto della vuota generalizzazione e nulla ci viene svelato della realtà dell’oggetto da analizzare, delle sue pro­prietà e relazioni. Un gatto è un gatto, io sono io, tu sei tu, la natura umana è la natura umana: le cose sono ciò che sono. L’inconsistenza di tali proposizioni si erge in tutta la sua grossolanità, perfetta espressione di pensiero a senso unico, formalistico e dogmatico.
Dobbiamo dunque considerare la legge d’identità scorretta? Non completamente; continua ad avere alcune possibilità applicative, ma di portata molto più limitata di quanto si pensi. Le leggi della logica formale possono essere utili per chiarire alcuni concetti, per analizzarli, classificarli, etichettarli, catalogarli. Possiede le virtù dell’ordine e della semplicità, ma solo per quanto riguarda fenomeni quotidiani, semplici, normali. Non appena si ha a che fare con fenomeni più complessi che comportino movimento, sbalzi improvvisi, mutamenti qualitativi, diventa del tutto inadeguata e, di fatto, fallisce completamente.
Il seguente passo di Trotskij riassume brillantemente le argomentazioni di Hegel sulla legge d’identità:
Cercherò di delineare schematicamente la sostanza del problema in forma molto concisa. La logica aristotelica del sillogismo semplice parte dalla proposizione che «A» è uguale ad «A». Questo postulato viene accettato come assioma per una quantità di azioni umane pratiche e generalizzazioni elementari. Ma in realtà «A» non è uguale ad «A». Ciò è facile provarlo se osserviamo queste due lettere con una lente e constatiamo che sono molto diverse l’una dall’altra. Ma, si può obbiettare, la questione non è quella delle dimensioni o della forma delle lettere, poichè esse sono solo simboli di quantità uguali, come ad esempio una libbra di zucchero. Questa obbiezione è infondata; in realtà una libbra di zucchero non è mai uguale ad una libbra di zucchero, in quanto una bilancia sensibilissima riscontra sempre una differenza fra le due libbre. Si può ancora obbiettare; ma una libbra di zucchero è uguale a sè stessa. Neanche questo è vero, in quanto tutti i corpi mutano ininterrottamente di dimensione, peso, colore etc., e non sono mai uguali a se stessi.
Un sofista risponderà che una libbra di zucchero è uguale a se stessa ‘in ogni dato momento’. Facendo astrazione del valore pratico estremamente dubbio di questo ‘assioma’, non si può negare che anch’esso non resiste alla critica teorica. Infatti, come  dovremmo realmente concepire la parola ‘momento’? Se è un intervallo di tempo infinitesimo, allora la nostra libbra di zucchero è sottoposta, nel corso di tale ‘momento’ a inevitabili mutamenti. Oppure il ‘momento’ è una pura astrazione matematica, vale a dire ‘zero’ tempo? Ma tutto esiste nel tempo; il tempo è di conseguenza un elemento fondamentale dell’esistenza. Così l’assioma ‘A è uguale ad A’ significa che una cosa è uguale a se stessa se non cambia, cioè se non esiste.
Al primo sguardo potrebbe sembrare che queste ‘sottigliezze’ siano inutili, ma in realtà sono di importanza decisiva. L’assioma «A è uguale ad A» sembra essere, da un lato, il punto di partenza di  tutta la nostra conoscenza, dall’altro, come il punto di partenza di tutti i nostri errori di conoscenza. È possibile solo entro certi ‘limiti’ valersi impunemente dell’assioma «A è uguale ad A». Quando i mutamenti quantitativi di A sono trascurabili ai fini prefissati. Questo è, ad esempio, il modo con il quale il venditore e il compratore considerano una libbra di zucchero. Consideriamo la temperatura del sole allo stesso modo. Fino a un periodo recente si considerava il potere d’acquisto del dollaro allo stesso modo. Ma oltre certi limiti i cambiamenti quantitativi diventano qualitativi. Una libbra di zucchero sottoposta all’azione dell’acqua o del petrolio cessa di essere una libbra di zucchero. Determinare al momento giusto il punto critico nel quale la quantità diventa qualità è uno dei compiti più importanti e difficili in tutte le sfere della conoscenza, sociologia compresa […].
Il pensiero dialettico può essere paragonato al pensiero comune nello stesso modo in cui il cinema si paragona alla fotografia. Il cinema non elimina i fotogrammi, ma li combina in serie sulla base delle leggi del movimento. La dialettica non nega il sillogismo, ma c’insegna a combinare i sillogismi in modo tale da portare la nostra comprensione più vicina alla realtà eternamente mutevole. Hegel nella sua Logica precisò una serie di leggi: mutamento di quantità in qualità, svoluppo tramite contraddizioni, conflitto di contenuto e di forma, interruzione della continuità, mutamento di possibilità in inevitabilità, etc., che sono altrettanto importanti per il pensiero teorico come il semplice sillogismo per discorsi più elementari.13
Lo stesso vale per la legge del terzo escluso che asserisce che è necessario affermare o negare, che una cosa deve essere bianca o nera, viva o morta, “A” o “B”, mai entrambe le cose nello stesso momento. Per gli usi quotidiani possiamo accettare questo tipo di ragionamento, poiché senza tali assunti sarebbe impossi­bile pensare in maniera chiara e significativa. Ma quelli che possono sembrare errori insignificanti a livello te­orico possono farsi sentire drammaticamente a livello pratico; una fessura larga quanto un capello sull’ala di un aereo può sembrare insignificante, trascurabile alle basse velocità, ma provocare una catastrofe alle alte. Nell’Anti-Dühring, Engels spiega i difetti della cosiddetta legge del terzo escluso:
Per il metafisico – scrive Engels – le cose e le loro immagini riflesse nel pensiero, i concetti, sono oggetti isolati di indagine, da considerarsi successivamente e indipendentemente l’uno dall’altro, fissi, rigidi, dati una volta e pe sempre. Egli pensa per antitesi, assolutamente immediate; il suo discorso è sì, sì; no, no. Tutto ciò che oltrepassa questo appartiene al maligno. Per lui, una cosa esiste o non esiste; ugualmente è impossibile che una cosa nello stesso tempo sia se stessa ed un’altra. Positivo e negativo si escludono in modo assoluto; causa ed effetto sono in rigida opposizione reciproca. Questa maniera di pensare ci appare a prima vista estremamente plausibile per il fatto che essa è proprio quella del cosiddetto senso comune. Solo che il senso comune, per quanto sia un compagno tanto rispettabile finché sta nello spazio compreso tra le quattro pareti domestiche, va incontro ad avventure assolutamente sorprendenti appena si arrischia nel vasto mondo dell’indagine scientifica; e la maniera metafisica di vedere le cose, giu­stificata e perfino necessaria in campi la cui estensione è più o meno vasta a seconda della natura dell’oggetto, tuttavia, ogni volta, prima o poi, va ad urtare contro un limite, al di là del quale diventa unilaterale, limitata, astratta e si avvolge in contraddizioni insolubili, perché, attenendosi alle cose singole, dimentica il loro nesso, attenendosi al loro essere, dimentica il loro sorgere e tramontare, attenendosi al loro stato di quiete, dimentica il loro movimento, perché stando davanti a grandi alberi, non vede la foresta. Per esempio, per i casi della vita quotidiana, sappiamo e possiamo dire con precisione se un animale esiste o meno; ma se indaghiamo con maggiore precisione, troveremo che alle volte questa è una questione molto complessa, come sanno molto bene i giuristi, che invano si sono tormentati per scoprire un limite razionale a partire dal quale la soppressione del feto nel seno materno è un assassinio; e del pari è impossibile stabilire l’istante della morte, poché la fisiologia dimostra che la morte non è un avvenimento unico ed istantaneo, ma un fenomeno la cui durata è molto lunga. Parimenti ogni corpo organico, in ogni istante è e non è il medesimo; in ogni istante elabora materie tratte dall’esterno e ne segrega delle altre, in ogni istante cellule del suo corpo muoiono e se ne formano di nuove; dopo un tempo più o meno lungo la materia di questo corpo si è completamente rinnovata, sostituita da altri atomi, cosicché ogni essere organizzato è costantemente il medesimo e pure un altro.14

Il rapporto tra la dialettica e la logica formale può essere paragonato a quello tra meccanica quantistica e meccanica classica; esse non si contraddicono bensì si completano. Le leggi della meccanica classica riman­gono valide per un numero immenso di operazioni, ma non si possono applicare adeguatamente nella fisica delle particelle subatomiche, che studia quantità infinitesimali e velocità fortissime. Allo stesso modo, Einstein non ha sostituito Newton, ma ha semplicemente mostrato i limiti oltre i quali il suo sistema non funziona. Ancora, la logica formale (che ha acquisito la forza del pregiudizio popolare nella forma del “buon senso comune”) è valida per tutta una serie di esperienze quotidiane. Tuttavia le leggi della logica formale, che scaturiscono da una visione essenzialmente statica delle cose, inevitabilmente vengono meno quando si ha a che fare con fenomeni più complessi, mutevoli e contraddittori. Per usare il linguag­gio della teoria del caos, le equazioni “lineari” della logica formale non possono tenere il passo con i processi turbolenti osservabili nella natura, nella società e nella storia. Solo il metodo dialettico è adatto a questo scopo.

Logica e mondo subatomico

I limiti della logica tradizionale sono compresi da altri filosofi molto lontani dal punto di vista dialettico. In generale, nel mondo anglosassone c’è stata tradizionalmente una maggiore inclinazione verso l’empirismo ed il ragionamento induttivo. Nondimeno, la scienza ha ancora bisogno di uno strumento filosofico che le permetta di valutare i propri risultati e guidi i suoi passi attraverso la massa confusa di dati e statistiche, a mo’ di filo di Arianna. Semplici richiami al “buonsenso comune” o ai “fatti”, non basteranno.
Il pensiero sillogistico, il metodo astratto-deduttivo, è molto presente nella tradizione francese, da Cartesio in poi in maniera particolare. La tradizione inglese è completamente diversa, influenzata com’è dall’empiri­smo. Dall’Inghilterra questa scuola di pensiero fu presto esportata negli Stati Uniti dove ha affondato salde radici. Così, il modo di pensare deduttivo formale non è stato affatto caratteristico della tradizione intellettuale anglosassone. Scrisse Trotskij:
Si può dire che questa scuola di pensiero si distingue per il disprezzo squisi­tamente empirista per il sillogismo puro, fattore che però non ha impedito agli inglesi di ottenere risultati im­portantissimi in molti campi della ricerca scientifica. Se si riflette correttamente su questo, è impossibile non arrivare alla conclusione che questa indifferenza empirica verso il sillogismo è una forma primitiva di pensiero dialettico“.
Storicamente l’empirismo ha giocato sia un ruolo progressista (nella lotta contro la religione ed il dogma­tismo medioevale) che uno negativo (un’interpretazione eccessivamente rigida del materialismo ed una resi­stenza verso generalizzazioni teoriche ampie). La famosa frase di Locke, che non c’è nulla nell’intelletto umano che non derivi dai cinque sensi, contiene il germe di un’idea profondamente corretta, ma presentata in maniera sterile che può, come in effetti è accaduto, avere conseguenze negative sullo sviluppo futuro della fi­losofia. Trotskij scrisse in proposito, poco prima di essere assassinato:

“‘Noi non sappiamo niente del mondo tranne ciò che ci deriva dall’esperienza.’ Questo è corretto se non si intende ‘esperienza’ nel senso di gretta testimonianza individuale dei nostri cinque sensi. Se riduciamo la questione dell’esperienza in un’interpretazione strettamente empirista, allora sarà impossibile arrivare a qual­siasi conclusione sull’origine della specie, per esempio, o, tanto meno sulla formazione della crosta terrestre. Affermare che la base di tutto è l’esperienza è dire nello stesso tempo troppo e niente. L’esperienza è l’interrela­zione attiva tra soggetto ed oggetto. Analizzarla al di fuori di questa categoria, cioè al di fuori dell’ambiente oggettivo materiale del ricercatore, che è contrapposto a questo ambiente, ma da un altro punto di vista ne fa anche parte, significa dissolvere l’esperienza in un qualcosa di informe, dove non si distinguono soggetto e oggetto, ma solo una formulazione mistica dell’esperienza. ‘Esperimenti’ o ‘esperienze’ di questo tipo sono peculiari solo di un bambino nell’utero della madre, ma sfortunatamente questi non ha la possibilità di divul­gare le conclusioni “scientifiche” dei suoi esperimenti.15

Il principio di indeterminazione della meccanica quantistica non si può applicare ad oggetti ordinari, ma solo agli atomi ed alle particelle subatomiche. Queste obbediscono a leggi diverse da quelle del mondo “normale”. Per esempio, si muovono a velocità incredibili (1500 metri al secondo) e possono muoversi in direzioni differenti nello stesso momento; le forme di pensiero che si applicano all’esperienza quotidiana non sono più valide. La logica formale è inutile. Le sue categorie manichee, sì o no, prendere o lasciare, non hanno nessun punto di contatto con questa realtà fluida, instabile e contraddittoria. Possiamo solo individuare il movimento più probabile, con un numero infinito di possibilità. Invece di partire dalle premesse della logica formale, la meccanica quantistica viola la legge d’identità affermando la “non individualità” delle singole particelle individuali. La legge d’identità non si può applicare a questo livello perché l’“identità” delle particelle individuali non può essere fissata. Di qui la lunga polemica su “onde” o “particelle”. Per la logica formale un elettrone non può essere entrambe le cose! Qui “A” diventa “non-A” e può essere anche “B”, con la conseguente impossibilità di “fissare” la posizione e la velocità di un elettrone nel modo netto ed assoluto proprio della logica formale. Questo è un problema serio per la logica formale e per il “senso comune”, ma non per la dialettica o per la meccanica quantistica. Un elettrone ha sia le qualità di un’onda che quelle di una particella ed è stato dimostrato per via sperimentale.
Nel 1932, Heisenberg ipotizzò che i protoni all’interno del nucleo fossero tenuti insieme da un qualcosa che egli chiamò forza di scambio. Questo implica che i protoni e i neutroni si scambino continuamente iden­tità. Ogni data particella è in un costante stato di flusso, trasformandosi da protone in neutrone e viceversa. Solo in questo modo il nucleo sta insieme. Prima che un protone possa essere respinto da un altro protone, di­venta un neutrone e viceversa. Questo processo, nel quale le particelle si trasformano nei loro reciproci, av­viene ininterrottamente, cosicché è impossibile dire in un dato momento se una particella sia un protone o un neutrone. Infatti è entrambi, è e non è.
Lo scambio di identità tra elettroni non significa un semplice cambiamento di posizione, ma un processo articolato nel quale l’elettrone “A” si compenetra con l’elettrone “B” per produrre un “misto”, per dire, di 60% di “A” e 40% di “B” e viceversa. Successivamente potrebbero essersi “scambiate” completa­mente le identità con tutto A “qui” e tutto B “là”. Il flusso si invertirebbe poi in un’oscillazione permanente che comporta un interscambio ritmico dell’identità degli elettroni che va avanti indefinitamente. La vecchia e rigida legge d’identità svanisce interamente in questa specie di “identità nella differenza” che caratterizza tutta l’esistenza e ha ricevuto la sua espressione scientifica nel principio di esclusione di Pauli.
Così, dopo due millenni e mezzo, il principio eracliteo del “tutto scorre” si dimostra vero alla lettera. Abbiamo non solo uno stato di moto e di trasformazione ininterrotti, ma anche un processo d’interconnes­sione universale, l’unità e la compenetrazione degli opposti. Non solo gli elettroni si condizionano a vicenda, ma essi entrano l’uno nell’altro e si trasformano l’uno nell’altro. Com’è lontano dall’universo statico, ideali­sta ed integro di Platone! Come si fa a fissare la posizione di un elettrone? Osservandolo! E come se ne de­termina la quantità di moto? Osservandolo due volte! Ma nel frattempo, anche in un tempo infinitesimale, l’e­lettrone è cambiato, non è più quello che era. È qualcos’altro. È sia una particella (una “cosa”, un “punto”), sia un’onda (un “processo”, un “movimento”, un “divenire”). È e non è. Il vecchio metodo del “bianco o nero” della logica formale, usato correttamente nella meccanica classica, non può dare risultati proprio per la natura stessa del fenomeno da studiare.
Nel 1963 fu ipotizzato da alcuni fisici giapponesi che la particella molto piccola chiamata neutrino mutasse continuamente la sua identità mentre viaggiava nello spazio a velocità altissime. Ipotizzarono che in un istante fosse neutrino-elettrone, in quello dopo neutrino-muone, in un altro neutrone-tione e così via. Se que­sto è vero, la legge di identità, già tramortita, riceve il colpo di grazia. Una concezione così rigida è chiara­mente in alto mare di fronte ad uno qualunque dei fenomeni complessi e contraddittori della natura descritti dalla scienza moderna.

La logica moderna

Nel diciannovesimo secolo ci sono stati molti tentativi di “aggiornare” la logica (George Boole, Ernst Schroder, Gotlob Frege, Bertrand Russel e A. N. Whitehead), ma oltre all’introduzione di simboli e a una messa in ordine generale, non c’è stata nessuna innovazione sostanziale. Si fanno vanti gran­diosi da parte, ad esempio, dei filosofi linguistici, ma senza basi reali. La semantica (che si occupa della vali­dità di un’argomentazione) fu separata dalla sintassi (che si occupa della deducibilità della conclusione dagli assiomi e dalle premesse). Sembrerebbe qualcosa di nuovo, ma in realtà è solo una riedizione della vecchia divisione, ben nota agli antichi greci, tra logica e retorica. La logica moderna si basa sulle relazioni logiche tra intere proposizioni. Il centro dell’attenzione si sposta dal sillogismo verso argomenti ipotetici e disgiuntivi. Non è affatto un mutamento ardito, tant’è che già Hegel, nella Logica, partiva da proposizioni (giudizi) piut­tosto che dal sillogismo. Più che una grande rivoluzione sembra piuttosto che si rimescolino le carte di uno stesso mazzo. Grazie ad un’analogia inesatta e superficiale con la fisica, il cosiddetto “metodo atomico” sviluppato da Russell e da Wittgenstein (poi ripudiato da quest’ultimo), cercò di suddividere il linguaggio nei suoi “atomi”. L’atomo base del linguaggio sarebbe la frase semplice, con la quale si formano le composte. Wittgenstein so­gnava di sviluppare un “linguaggio formale” per ogni scienza: fisica, chimica, biologia, perfino psicologia. Le proposizioni vengono sottoposte ad una “verifica di veridicità”, basato sulla vecchie leggi di identità, di con­traddizione e del terzo escluso. In realtà, il metodo di base rimane esattamente lo stesso, poiché il “valore di veridicità” è una questione di “o… o”, “sì o no”, “vero o falso”. La nuova logica viene chiamata calcolo proposizionale, ma la realtà è che questo sistema non può affrontare nemmeno gli argomenti precedentemente trattati dal più basilare sillogismo (categorico). La montagna ha partorito un topolino.
Di fatto non viene compresa nemmeno la frase semplice, per quanto questa dovrebbe essere l’equivalente linguistico dei “mattoni della materia”. Perfino il giudizio più semplice, come fa notare Hegel, contiene una contraddizione. “Cesare è un uomo”, “Fido è un cane”, “l’albero è verde”, tutte sostengono che il partico­lare sia l’universale. Frasi di questo tipo sembrano semplici, ma non lo sono. È un libro chiuso per la logica formale, determinata sempre a bandire ogni contraddizione, non solo dalla natura e dalla società, ma anche dal pensiero e dal linguaggio. Il calcolo proposizionale parte dagli stessi postulati sviluppati da Aristotele nel IV secolo a.C., cioè la legge di identità, la legge di (non) contraddizione e la legge del terzo escluso, alle quali si aggiunge la legge della doppia negazione. Invece di essere espresse a parole si usa una simbologia:
a) p = p
b) p = ~p
c) pV = ~p
d) ~ (p ~ p)
Tutto questo è molto carino, ma non cambia nulla per quanto riguarda il contenuto del sillogismo. Inoltre, la logica simbolica stessa non è un’idea nuova. Negli anni ’80 del secolo XVII la fertile mente del filosofo te­desco Leibniz aveva già creato una logica simbolica, anche se non l’aveva mai diffusa pubblicamente.
L’introduzione di simboli non ci fa avanzare di un millimetro per la semplice ragione che, prima o poi, tali simboli andranno tradotti in parole e concetti. Essi hanno il vantaggio di essere una sorta di stenografia, più comoda per certe operazioni tecniche, per i computer ecc., ma il contenuto rimane esattamente quello di prima. La vastissima gamma di simboli matematici è accompagnata da un vero e proprio eloquio bizantino, che sembra scelto apposta per rendere la logica inaccessibile ai comuni mortali, proprio come facevano i sa­cerdoti egizi e babilonesi per mantenere in una cerchia ristretta la conoscenza. La sola differenza è che loro effettivamente sapevano cose che valeva la pena conoscere, cosa che non può proprio dirsi dei “logici” mo­derni.
Termini come “predicato monadico”, “quantificatore”, “variabile individuale”, e così via sono scelti per dare l’impressione che la logica formale sia una scienza da tenere in considerazione in quanto è incompren­sibile alla maggioranza della gente. Triste dirlo, il valore scientifico di un insieme di convinzioni non è diret­tamente proporzionale all’oscurità del suo linguaggio. Se così fosse, ogni mistico religioso di ogni epoca sa­rebbe un Newton, un Darwin e un Einstein messi insieme.
Nella commedia di Molière Il borghese gentiluomo, il M. Jourdain si sorprende quando gli dicono che ha parlato in prosa per tutta la sua vita, senza saperlo. La logica moderna semplicemente ripete le vecchie cate­gorie, buttandoci dentro un po’ di simboli e parole fascinose, per nascondere il fatto che non c’è assoluta­mente niente di nuovo. Aristotele usava “predicati monadici” (espressioni che attribuiscono una proprietà ad un individuo) molto tempo fa. Senza dubbio, come il M. Jourdain, egli sarebbe stato felice di scoprire che stava usando predicati monadici da sempre, senza saperlo, ma la sua analisi non sarebbe cambiata di una vir­gola. L’uso di nuove etichette non cambia il contenuto di un vasetto di marmellata, così come l’uso di un gergo non accresce la validità di forme di pensiero superate.
La triste verità è che nel XX secolo la logica formale ha raggiunto i suoi limiti. Ogni nuovo passo avanti della scienza le assesta un nuovo colpo. Nonostante tutti i cambiamenti formali, le leggi di base rimangono le stesse. Una cosa è chiara. Gli sviluppi della logica formale negli ultimi cento anni, prima con il calcolo propo­sizionale (c.p.), poi con il calcolo del predicato inferiore (c.p.i.), hanno talmente raffi­nato la logica formale che non è possibile alcuno sviluppo ulteriore. Si è ottenuto un sistema di analisi com­pleto, tale da vanificare ogni nuova aggiunta. La logica formale ha detto quello che aveva da dire, anche se, per la verità, l’aveva già detto un po’ di tempo fa.
Recentemente, il campo di analisi non è più la proposizione, ma la deduzione di conclusioni. Come si de­rivano i teoremi della logica? Questo è un terreno abbastanza traballante. Nel passato le basi della logica for­male sono sempre state date per scontate. Una ricerca approfondita sulle basi teoriche della logica formale avrà inevitabilmente il risultato di stravolgerle. Arend Heyting, il fondatore della scuola matematica intuizio­nista, nega la validità di alcune dimostrazioni usate dalla matematica classica. Comunque, la maggior parte dei logici si aggrappa disperatamente alle vecchie leggi della logica formale, come il naufrago al fuscello:
Non crediamo che esista una logica non aristotelica, nel senso nel quale esiste una geometria non-eucli­dea, cioè un sistema logico nel quale si assumano come veri i contrari dei principi aristotelici di contraddi­zione e del terzo escluso, per trarne inferenze valide“.16
Ci sono due rami principali della logica formale di oggi, calcolo proposizionale e calcolo predicativo. Entrambi procedono per assiomi, la cui validità è assunta “in tutti i mondi possibili” e in ogni circostanza. Il test fondamentale rimane l’assenza di contraddizioni. Qualsiasi cosa contraddittoria è ritenuta “non valida”. Questo ha alcune applicazioni, per esempio nei computer che sono attrezzati per pro­cedure semplici del tipo sì o no. In realtà, comunque, tali assiomi sono tautologie, forme vuote che possono essere riempite di qualsiasi contenuto, applicate in modo meccanico a qualsiasi argomento. Se si tratta, dunque, di processi lineari, allora funzionano abbastanza bene, cosa importante poiché molti processi naturali funzionano così, ma se ci occupiamo di fenomeni più complessi, contraddittori, non lineari, le leggi della logica formale non tengono più. Diventa immediatamente evidente che, ben lungi dall’essere verità universalmente valide, sono, come spiegava Engels, piuttosto limitate nell’applicazione; in tutta una serie di cir­costanze sono facilmente coinvolte in livelli di analisi che non possono affatto penetrare. Inoltre, questi sono precisamente i tipi di circostanze che hanno occupato l’attenzione della scienza, specialmente nelle sue com­ponenti più innovative, per buona parte del XX secolo.

Capitolo 5 Rivoluzione nella fisica

Indice dei Capitoli

Note

1. Citato in Luce A. A., Logic, pag. 8.

2. Lenin, Opere Complete, Vol 38, pag. 157.

3. Donaldson Margaret, Making Sense, pagg. 98-99.

4. Donaldson Margaret, Come ragionano i bambini, pag. 85.

5. Lev Trotsky, Writings, 1939-40, pag. 400.

6. Luce A. A., Logic, pag; 83.

7. Friedrich Engels, Dialettica della Natura, pag. 61.

8. Feynman R. P., La fisica di Feynman.

9. Kant, Prolegomeni a ogni futura metafisica.

10. Friedrich Engels, Anti-Dühring, pag. 44.

11. Lev Trotsky, Writings, 1939-40, pagg. 399-400.

12. Lev Trotsky, In Difesa del Marxismo, pag. 110.

13. Lev Trotsky, In Difesa del Marxismo, pag. 110-111-112.

14. Friedrich Engels, Anti-Dühring, pag. 27.

15. Lev Trotsky, Writings, 1939-40, pagg. 401 e 403.

16. Cohen e Nagel, An Introduction to Logic and the Scientific Method, pag. vii.

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