La Rivolta della Ragione – Capitolo 2 Filosofia e religione – Razionalità e irrazionalità

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La Rivolta della Ragione – Capitolo 2 Filosofia e religione – Razionalità e irrazionalità

di Alan Woods e Ted Grant

 

Abbiamo bisogno di una filosofia?

Prima di cominciare, può sorgere spontanea la domanda: “ma ne vale proprio la pena?”. È davvero indispensabile interessarsi ai complessi problemi della scienza e della filosofia? A tale domanda si possono dare due risposte: se con essa intendiamo chiederci se sia proprio necessaria una tale conoscenza per affrontare al meglio la nostra esistenza quotidiana, la risposta non può essere che negativa; se invece il nostro scopo è quello di costruire per noi stessi una comprensione razionale del mondo in cui viviamo e dei processi fondamentali in atto in natura, nella società e nel nostro pensiero, allora le cose appaiono sotto una luce diversa.
Può sembrare strano, ma tutti hanno una propria “filosofia”, se definiamo la filosofia come un particolare modo di vedere il mondo. Tutti noi siamo convinti di saper distinguere il giusto dall’ingiusto, il buono dal cattivo; queste sono invece problematiche talmente complesse da aver impegnato a fondo, nel corso della storia, le più grandi menti. Molte persone, poste di fronte alla tremenda realtà di avvenimenti come le guerre fratricide nell’ex Jugoslavia, la diffusione della disoccupazione di massa o i massacri del Ruanda, ammetteranno di non essere in grado di comprendere tali avvenimenti e mostreranno una certa propensione a ricorrere a vaghi accenni alla “natura umana”. Cosa rappresenta dunque questa misteriosa “natura umana”, considerata da molti la suprema fonte dei nostri mali, inalterabile per l’eternità? Si tratta di una questione profondamente filosofica, cui non molti si azzarderebbero a rispondere. Quelli dotati di una mentalità religiosa potrebbero senz’altro rispondere che Dio nella Sua saggezza ci ha creati così. Perché mai chiunque sia tenuto ad adorare un’entità capace di perpetrare uno scherzo di tale perfidia alle proprie creature, questo è un problema completamente diverso.
Si sbaglia chi si ostina a sostenere di non avere una propria filosofia. La natura aborrisce il vuoto; chi è sprovvisto di un proprio punto di vista filosofico elaborato coerentemente è destinato inevitabilmente a riflettere e a far proprie le idee e con esse i pregiudizi della società e dell’ambiente in cui vive. Ciò significa, in questo contesto, che avrà la testa infarcita di idee inculcategli dai giornali, dalla televisione, dal pulpito o dalla cattedra, idee che sono il riflesso degli interessi e della morale della società presente.
La maggior parte della gente riesce, di solito, ad arrangiarsi nel corso della propria vita, fino al momento in cui un grande sconvolgimento non la costringe a riconsiderare il tipo di idee e i valori nei quali era cresciuta e immersa. La crisi della società la costringe a porre in discussione molte cose che aveva dato per scontate. In tali momenti, idee che sembravano lontane assumono improvvisamente una urgente rilevanza. Chiunque desideri comprendere la vita e non concepirla come una serie di eventi casuali senza significato, o subirla come una logorante routine a cui non si presta attenzione, deve occuparsi di filosofia, cioè elevare il pensiero oltre i problemi immediati dell’esistenza quotidiana. Solo in questa maniera possiamo cominciare a realizzare il nostro potenziale di esseri umani coscienti, dotati di volontà e capaci di prendere controllo del proprio destino.
Tutti noi siamo coscienti del fatto che nella vita le cose che contano richiedano un certo sforzo. Lo studio della filosofia, per sua stessa natura, comporta certe difficoltà, in quanto tratta argomenti lontani dall’esperienza ordinaria; anche la terminologia presenta delle difficoltà perché le parole assumono un significato che non corrisponde necessariamente all’uso corrente, ma questo discorso vale per la filosofia come per gli altri settori specializzati del sapere, dall’ingegneria alla psicanalisi. Un secondo ostacolo è più rilevante. Nel secolo scorso, quando Marx ed Engels pubblicarono per la prima volta i loro scritti sul materialismo dialettico, essi potevano supporre che molti tra i loro lettori avessero per lo meno una conoscenza di base della filosofia classica, compresa quella di Hegel. Oggigiorno non sarebbe possibile partire dallo stesso presupposto: la filosofia non occupa più il posto che aveva in passato, dato che la funzione di riflettere sulla natura dell’universo e della vita è da tempo ricoperto dalle scienze. L’esistenza di potenti radiotelescopi e di astronavi rende, ad esempio, ridondanti le congetture sulla natura e sulle dimensioni dcl nostro sistema solare. Persino i misteri dell’animo umano vengono messi a nudo, a poco a poco, dai progressi della neurobiologia e della psicologia. La situazione è molto meno soddisfacente nel regno delle scienze sociali perché in questo campo l’amore per la conoscenza esatta non di rado perde d’intensità mano a mano che i progressi della scienza minacciano d’intaccare i potenti interessi materiali che governano la vita della gente.
I grandi progressi compiuti da Marx ed Engels nella sfera dell’analisi sociale, della storia e dell’economia non rientrano nell’ambito del presente lavoro. Basti rilevare a questo proposito che le teorie del marxismo in campo sociale hanno rappresentato il fattore decisivo di sviluppo delle scienze sociali moderne, nonostante gli attacchi, sferrati con costanza e non di rado con malignità, a cui esse sono state sottoposte fin dall’inizio. Per inciso, il fatto che tali attacchi non solo continuino, ma tendano ad aumentare d’intensità col passare del tempo è una prova indiretta della vitalità del marxismo.
Nelle epoche passate lo sviluppo della scienza, sempre legato strettamente allo sviluppo delle forze produttive, non aveva raggiunto un livello sufficientemente alto da permettere agli uomini di capire il mondo in cui vivevano. In mancanza di conoscenze scientifiche, o dei mezzi materiali per ottenerle, essi erano costretti a fare affidamento sull’unico strumento che possedevano e che potesse aiutarli a capire il mondo e quindi ad acquisire potere su di esso: la mente umana. La lotta per capire il mondo era associata strettamente alla lotta che l’umanità conduceva per emanciparsi da un livello d’esistenza puramente animale, impadronirsi delle cieche forze della natura e diventare libera nel senso reale, e non solo formale, di questa parola. Questa lotta è un filo rosso che attraversa tutta la storia umana.

Il ruolo della religione

L’ uomo è proprio matto; non saprebbe creare un verme, eppure crea dèi a dozzine” (Montaigne).
“Tutta la mitologia supera e domina e plasma le forze della natura nell’immaginazione e attraverso l’immaginazione; quindi scompare con l’avvento di una vera padronanza su di esse” (Marx, Grundrisse)

Gli animali non conoscono la religione: nel passato si diceva che questa fosse la principale differenza fra esseri umani e “bruti”, ma questo è solo un altro modo per dire che solo gli esseri umani possiedono una coscienza nel pieno senso della parola. In tempi più recenti c’è stata una generale reazione contro l’idea che l’uomo sia frutto di una Creazione speciale ed unica. Ciò è indubbiamente corretto, nel senso che gli esseri umani si sono evoluti dagli animali e, in molti aspetti importanti, animali rimangono. Molte funzioni biologiche ci accomunano agli altri animali e la differenza genetica fra l’uomo e lo scimpanzé è pari a meno del due per cento del corredo genetico. Questo solo fatto di per sé fornisce una risposta schiacciante alle frottole dei creazionisti.
Recenti ricerche sugli scimpanzé bonobo hanno dimostrato oltre ogni dubbio che i primati più vicini agli esseri umani sono capaci di un livello di attività mentale simile, sotto certi aspetti, a quello di un bambino. È una prova rilevante della parentela genetica fra esseri umani e primati superiori. La validità dell’analogia però si esaurisce entro questi limiti; nonostante tutti gli sforzi degli sperimentatori, i bonobo in cattività non sono arrivati a parlare o a formare un attrezzo che assomigli anche lontanamente ai più semplici utensili creati dagli ominidi primitivi. Questo due per cento di differenza fra uomo e scimpanzé segna il salto qualitativo da animale ad essere umano, conseguito non tanto grazie all’intervento di un supposto Creatore, quanto in base allo sviluppo del cervello per mezzo del lavoro manuale.
L’abilità di produrre anche il più semplice utensile di pietra comporta un alto livello di capacità mentale e di pensiero astratto. La capacità di selezionare pietre del tipo giusto e di scartarne altre, la scelta dell’angolo corretto a cui colpire la pietra e l’uso della forza esattamente necessaria, sono tutte azioni intellettuali di grande complessità che presuppongono un livello di pianificazione e di previsione non riscontrabili nemmeno nei primati più avanzati. Tuttavia, l’uso e la produzione di utensili di pietra non furono risultato di una pianificazione cosciente ma furono imposti ai remoti antenati dell’uomo dalla necessità. Non fu la coscienza a generare l’umanità, semmai furono le condizioni necessarie all’esistenza umana che condussero ad un cervello più grande, al linguaggio e alla cultura, religione compresa.
L’esigenza umana di capire il mondo era intimamente intrecciata alla necessità di sopravvivere. Quegli uomini primitivi che scoprirono l’uso di raschiatoi di pietra per macellare animali dalla pelle spessa ottennero un considerevole vantaggio sulle altre genti cui era negato l’accesso ad una così ricca fonte di grassi e di proteine. Chi perfezionava i propri utensili di pietra ed era capace di individuare i giacimenti dei materiali migliori aveva maggiori probabilità di sopravvivere rispetto a chi non faceva altrettanto. Allo sviluppo della tecnica si accompagnarono lo sviluppo della mente e l’esigenza di spiegare i fenomeni della natura, che governavano l’esistenza di ogni essere vivente. Nell’arco di milioni di anni, grazie ai tentativi e agli errori, i nostri antenati iniziarono a stabilire relazioni fra le cose, cominciando in questo modo a concepire astrazioni, ovvero generalizzazioni a partire dall’ esperienza e dalla pratica.
Per molti secoli il rapporto fra pensiero ed essere è stato il tema centrale della filosofia. La maggior parte della gente conduce la propria vita tranquillamente senza neppure porsi questo problema; pensa e agisce, parla e lavora senza la minima difficoltà; neppure lontanamente verrebbe a sfiorare la sua mente il pensiero che queste due attività umane fondamentali, che nella pratica sono tra loro intrecciate indissolubilmente, siano incompatibili. Anche l’azione più elementare richiede una certa attività mentale, se escludiamo le reazioni semplici determinate biologicamente. In una certa misura questo è vero non solo per gli esseri umani ma anche per gli animali, come un gatto che tende un agguato ad un topo. Nell’uomo però la natura del pensiero e della pianificazione hanno un carattere qualitativamente superiore a qualsiasi altro essere vivente, comprese le scimmie più avanzate.
La capacità di pensiero astratto consente agli esseri umani di trascendere la situazione immediata percepita dai sensi. Ciascuno di noi può visualizzare non soltanto situazioni passate (anche gli animali hanno memoria, come prova il cane che abbassa la testa per paura quando vede un uomo prendere un bastone) ma anche future; possiamo prevedere situazioni complesse, pianificarle e quindi stabilirne l’esito, possiamo quindi determinare il nostro destino, almeno in una certa misura: una conquista di portata enorme, tale da creare una distinzione netta tra l’umanità e il resto della natura.
Quello che distingue il ragionamento umano – rileva il celebre studioso della preistoria Gordon Childe – è che può andare immensamente più lontano, dalla situazione di fatto presente, di quanto pare possa mai giungere il ragionamento di qualsiasi altro animale.”1
Questa facoltà è la fonte da cui sono scaturite le multiformi creazioni della civiltà, della cultura, dell’arte, della musica, della letteratura, della scienza, della filosofia e della religione. Diamo inoltre per assodato il fatto che tutto ciò non sia caduto dal cielo ma sia il prodotto di milioni di anni di sviluppo.
Anassagora, un filosofo greco vissuto tra il 500 e il 428 a.C., enunciò, in base ad una brillante deduzione, l’idea che lo sviluppo mentale dell’uomo fosse dipeso dalla possibilità di utilizzare liberamente le mani. Engels descrisse con precisione il processo con cui tale transizione si era compiuta e pubblicò le sue idee in un suo articolo di grande importanza, La parte avuta dal lavoro nel processo di umanizzazione della scimmia, dimostrando che la postura eretta, il poter disporre liberamente delle mani per il lavoro, la forma da esse assunta con il pollice opponibile alle altre dita in modo tale da serrarle in una presa, furono le precondizioni fisiologiche per la costruzione di utensili il cui uso rappresentò, a sua volta, lo stimolo principale allo sviluppo cerebrale. Il linguaggio, inseparabile dal pensiero, sorse esso stesso dalle esigenze della produzione sociale, ovvero dalla necessità di realizzare funzioni complesse tramite la cooperazione. Queste teorie avanzate da Engels sono state confermate dalle più recenti scoperte della paleontologia, che dimostrano che le scimmie ominidi comparvero molto tempo prima di quanto si fosse in precedenza ritenuto possibile e che esse erano dotate di un cervello non più grande di quello dello scimpanzé moderno. Vale a dire che lo sviluppo del cervello venne dopo la produzione degli attrezzi e come conseguenza di essa. Non è vero dunque che “In principio era il Verbo”; al contrario, come dichiarava il poeta tedesco Goethe, “In principio era il Fatto”. La capacità di affrontare il pensiero astratto è inseparabile dal linguaggio. Il professor Gordon Childe osserva:
Il ragionare e tutto ciò che noi chiamiamo pensare, compreso quello dello scimpanzé, deve implicare le operazioni mentali con ciò che gli psicologi chiamano immagini. Un’immagine visiva, una pittura mentale, diciamo, di una banana può sempre diventare l’immagine di una particolare banana in una particolare posizione. Al contrario, una parola è, come si è spiegato, più generale e astratta, perché ha eliminato proprio quegli aspetti accidentali che costituiscono l’individualità di ogni banana reale. Le immagini mentali delle parole (rappresentazioni del suono o dei movimenti muscolari necessari per emetterlo) formano dei gettoni molto adatti per pensare. Il pensare col loro aiuto possiede necessariamente proprio quelle qualità di astrattezza e generalizzazione che pare manchino all’animale pensante. Gli uomini possono pensare, come parlare, della classe di oggetti chiamati ‘banane’; lo scimpanzé non va mai oltre ‘quella banana in quel tubo’. In questo modo, lo strumento sociale denominato linguaggio ha contribuito a ciò che è stato descritto enfaticamente come ‘l’emancipazione dell’uomo dalla schiavitù del concreto’.”2
Così, in un arco di tempo molto lungo, gli uomini primitivi furono capaci di concepire l’idea generica, poniamo, di pianta o di animale, sorta dalla concreta osservazione di molte piante e di molti animali specifici. Giunti alla nozione generica di “pianta”, non era più possibile raffigurarsi un determinato fiore o arbusto, bensì ciò che di comune ogni fiore o arbusto presentano, l’essenza di una pianta, il suo essere interno. A suo paragone i tratti peculiari delle singole piante divengono secondari e transitori, mentre ciò che è permanente ed universale è contenuto nella nozione generale. Dunque possiamo immaginare la nozione di pianta, ma non la potremmo mai vedere con i nostri occhi, poiché si tratta di un’astrazione mentale, a differenza di fiori o arbusti determinati, eppure essa esprime in modo più profondo e più fedele ciò che di essenziale costituisce la natura della pianta quando questa è spogliata di tutte le sue caratteristiche contingenti.
Ad ogni modo le astrazioni dei primi esseri umani avevano un carattere tutt’altro che scientifico. Erano il risultato di esplorazioni preliminari, paragonabili alle impressioni di un bambino, intuizioni ed ipotesi, a volte sbagliate, ma sempre audaci e fantasiose. Agli occhi dei nostri remoti progenitori il sole doveva apparire come un grande essere capace di scaldarli, o di bruciarli.
La Terra era un gigante addormentato, il fuoco un animale feroce che mordeva chi osava toccarlo. I primi esseri umani sperimentarono il fenomeno dei tuoni e dei lampi e da esso saranno stati terrorizzati, come ancora oggi succede ad animali ·e persone. Ma, a differenza degli animali, gli uomini sentivano la necessità di cercare una spiegazione generale del fenomeno. Sprovvisti di una qualsiasi conoscenza scientifica, la spiegazione poteva essere solo sovrannaturale, come quella di un qualche dio che colpiva un’incudine col martello. Alle nostre orecchie una tale spiegazione suona solo divertente, come le ingenue spiegazioni dei bambini; tuttavia per l’epoca di cui stiamo parlando si trattava di ipotesi estremamente importanti, in quanto rappresentavano un tentativo di individuare una causa razionale del fenomeno. In essa gli uomini astraevano dalla loro esperienza immediata e vedevano qualcosa di assolutamente separato da essa. La forma più caratteristica della religione primitiva è l’animismo, la nozione che ogni cosa, animata o inanimata, debba essere dotata di uno spirito. Possiamo riconoscere tale intuizione alla base della reazione spontanea del bambino che schiaffeggia il tavolo contro il quale ha sbattuto la testa. Così i primi esseri umani, come certe popolazioni ancora oggi, erano soliti chiedere perdono allo spirito dell’albero che si accingevano ad abbattere. L’animismo infatti appartiene ad un periodo in cui l’umanità non si è ancora separata pienamente dal mondo animale e dalla natura in generale.
La vicinanza degli uomini al mondo degli animali è testimoniata dalla freschezza e dalla bellezza dell’arte delle caverne, in cui cavalli, cervi e bisonti sono rappresentati con una naturalezza che non può più essere catturata dall’artista moderno, a simboleggiare l’infanzia della razza umana, scomparsa per non tornare più. Possiamo solo immaginare la psicologia di questi nostri antenati remoti; ad ogni modo, unendo le scoperte dell’archeologia a quelle dell’antropologia è possibile ricostruire, almeno nelle linee essenziali, il mondo da cui siamo emersi. Nel suo classico studio antropologico sull’origine del sentimento magico e della religione, James Frazer scrive:
Il selvaggio concepisce a malapena la distinzione fra naturale e sovrannaturale, comune fra i popoli più avanzati. Ai suoi occhi il mondo appare in gran misura governato da agenti sovrannaturali dotati di personalità propria, che agiscono in base ad impulsi e a motivazioni simili a quelli umani e che sono, come lui stesso, sensibili e vulnerabili e possono essere toccati da appelli ai loro sentimenti di pietà, di speranza e di paura. Nell’ambito di un mondo così concepito egli non scorge limiti al potere di influenzare il corso della natura a proprio vantaggio. Preghiere, promesse o minacce sono le armi a sua disposizione per assicurarsi il bel tempo e un raccolto abbondante per opera degli dèi; e se capitasse, come a volte egli crede, che un dio si incarni nella sua persona, allora non ha bisogno di appellarsi ad un essere superiore: egli, il selvaggio, possiede in se stesso tutti i poteri necessari per assicurare il proprio benessere e quello degli altri uomini.3
La nozione di anima dotata di esistenza separata dal corpo può essere ascritta al periodo più remoto dello stato selvaggio. La base razionale di questa concezione è chiara: nel sonno l’anima sembra lasciare il corpo per peregrinare tra i sogni. L’analogia tra sonno e morte (Shakespeare lo definì “il secondo io della morte”) suggerì per estensione l’idea che l’anima potesse continuare ad esistere anche dopo la morte. Gli esseri umani primitivi conclusero che dovesse esistere qualcosa posto all’interno dei loro stessi corpi, ma allo stesso tempo da questi separato: l’anima, dominatore del corpo e capace di cose incredibili, anche durante il sonno. Essi, notando che dalla bocca degli anziani scaturivano parole di saggezza, dovevano trarre la conclusione che mentre il corpo perisce l’anima sopravvive. Nell’animo di popoli abituati a concepire l’idea della migrazione, la morte era considerata alla stregua di una migrazione dell’anima e, per affrontarla, si ritenevano necessarie provviste di cibo ed un adeguato equipaggiamento per il viaggio.
In una fase precoce tali spiriti non trovavano una dimora fissa ed erravano, di solito causando sciagure e guai, obbligando i vivi ad ogni sorta di pratiche per placarli. Tale dev’essere stata l’origine delle cerimonie religiose. Infine deve essere sorta l’idea che fosse possibile, con la preghiera, conquistare l’appoggio di tali spiriti. In questa fase religione (magia), arte e scienza non erano fra loro distinguibili. Mancando dei mezzi per esercitare un effettivo potere sull’ambiente, gli uomini primitivi tentarono di raggiungere il loro scopo intessendo una rete di relazioni magiche con la natura per assoggettarla alla loro volontà.
L’atteggiamento dei primi esseri umani nei confronti di questi dèi, spiriti e feticci era di natura assai pragmatica: la preghiera era finalizzata ai risultati. Un uomo, plasmata un’immagine con le proprie mani, vi si prostrava davanti. Se il risultato desiderato non veniva conseguito, egli malediceva e colpiva l’idolo, al fine di estorcere con la violenza quello che non era riuscito ad ottenere con la supplica. In questo strano mondo popolato da sogni e fantasmi, questo cosmo dominato dalla religione, la mente primitiva collegava ogni avvenimento all’opera di spiriti invisibili: ogni cespuglio o torrente era un essere vivente e poteva essere amichevole o ostile; ogni evento fortuito, sogno, dolore o sensazione, era prodotto da uno spirito. Le spiegazioni di natura religiosa colmavano il vuoto lasciato dall’inconsistenza delle conoscenze delle leggi naturali. Persino la morte non era considerata un evento naturale, doveva essere il risultato di una qualche offesa agli dèi.
Nel corso di gran parte dell’esistenza della razza umana, il pensiero degli uomini e delle donne è stato dominato da questo genere di concezioni; credenze superstiziose di tale natura continuano a sopravvivere anche al giorno d’oggi, nonostante esse appaiano sotto spoglie diverse. Dietro il sottile velo della civiltà si nascondono tendenze e idee irrazionali e primitive che affondano le loro radici in un remoto passato quasi dimenticato, ma non ancora superato, né potranno mai essere sradicate dalla coscienza umana finché gli uomini e le donne non sapranno stabilire un saldo controllo sulle proprie condizioni d’esistenza.

Divisione del lavoro

Frazer osserva che la divisione fra lavoro manuale ed intellettuale nella società primitiva è accompagnata inevitabilmente dalla formazione di una casta di sacerdoti, sciamani o maghi:
Il progresso sociale, lo sappiamo, consiste principalmente in una progressiva differenziazione di funzioni, ovvero, in parole più semplici, una divisione del lavoro. Il lavoro, che nella società primitiva è svolto da tutti senza distinzione, e da ciascuno altrettanto malamente, o quasi, viene gradualmente distribuito fra diverse classi di lavoratori ed eseguito in modo sempre più perfezionato; e, nella misura in cui i prodotti, materiali o immateriali, del lavoro specializzato sono condivisi fra tutti, l’intera comunità beneficia della crescente specializzazione. Per l’appunto, maghi e stregoni sembrano costituire la più antica tra le classi artificiali o professionali nel corso dell’evoluzione della società, infatti è possibile incontrare la figura dello stregone in ogni tribù selvaggia a noi nota e fra i selvaggi più primitivi, gli aborigeni australiani, questi rappresentano l’unica classe professionale esistente.4
La concezione dualistica, che separa l’anima dal corpo, la mente dalla materia, il pensare dal fare, ricevette un potente impulso in una determinata fase dell’evoluzione sociale dallo sviluppo della divisione del lavoro. La separazione del lavoro manuale da quello intellettuale è un fenomeno che coincide con la divisione della società in classi e segnò un grande balzo in avanti nello sviluppo umano: per la prima volta era concesso ad una minoranza della società di liberarsi dalla necessità di lavorare per esistere. L’appropriazione di questa preziosa merce, il tempo libero, rese possibile che alcuni uomini potessero dedicare la propria vita allo studio delle stelle; come già aveva spiegato il filosofo materialista tedesco Ludwig Feuerbach, la vera scienza teorica nacque con la cosmologia:
L’animale è sensibile soltanto a quel raggio di luce che può influire immediatamente sulla sua vita; l’uomo invece percepisce la luce, a lui fisicamente indifferente, della stella più remota. Solo l’uomo prova gioie e passioni puramente intellettuali e disinteressate, solo l’occhio umano raccoglie il tripudio teoretico. L’occhio rivolto al cielo stellato fissa quella luce, allo stesso tempo inutile e innocua, che non ha nulla in comune con la terra e le sue necessità; quell’occhio riconosce in quella luce la propria natura, la propria origine. L’occhio è celestiale per sua stessa natura ed è solo grazie ad esso che l’uomo si innalza al di sopra della terra; ne consegue che la teoria trae origine dalla contemplazione dei cieli. I primi filosofi erano astronomi.5
Ciò significava la nascita della civiltà umana, sebbene nelle sue prime fasi tale processo si intrecciasse ancora con la religione e le esigenze e gli interessi di una casta sacerdotale. L’importanza di questo passaggio era intesa già da Aristotele, che scrisse:
(…) Solo quando tutte le arti di tal genere si furono sviluppate, vennero alla luce quelle scienze che non hanno attinenza né col piacere né con i bisogni, e ciò si riscontrò in primo luogo in quei paesi dove gli uomini godevano gli agi della libertà; per questo motivo le arti matematiche fiorirono dapprima in Egitto, giacché colà veniva concessa un’agiata libertà alla casta dei sacerdoti.6
La conoscenza è fonte di potere. Qualsiasi società in cui l’arte, la scienza e il governo sono appannaggio di pochi, vedrà questa minoranza usare il potere, e abusarne, nel proprio interesse. L’alluvione annuale del Nilo era questione di vita o di morte per il popolo d’Egitto, le cui colture da essa dipendevano. La capacità dei sacerdoti egizi di prevedere, in base ad osservazioni astronomiche, quando le acque del Nilo sarebbero straripate, deve aver aumentato di molto il loro prestigio e il loro potere sulla società. L’arte della scrittura rappresentò un’invenzione estremamente potente e fu il segreto gelosamente custodito dalla casta dei sacerdoti. Ilya Prigogine e Isabelle Stengers commentarono a questo proposito:
I sumeri scoprirono la scrittura; i sacerdoti sumeri congetturavano che il futuro potesse essere scritto, in un qualche maniera, negli avvenimenti che ci circondano nel presente. Essi diedero persino una forma sistematica a questa credenza, mischiando tra loro elementi magici e razionali.7
L’ulteriore sviluppo della divisione del lavoro diede origine ad un divario incolmabile fra l’élite intellettuale e la maggioranza dell’umanità, condannata a lavorare con le proprie mani. L’intellettuale, che sia un prete babilonese o un moderno fisico teorico, conosce un solo tipo di lavoro, quello della propria mente. Nel corso dei millenni, la superiorità del lavoro intellettuale sul “rozzo” lavoro manuale si è radicata profondamente ed ha acquisito la forza di un pregiudizio. Al linguaggio, alle parole e al pensiero vengono attribuiti poteri quasi mistici, mentre la cultura diventa appannaggio esclusivo di una casta privilegiata capace di proteggere gelosamente i propri segreti e di usare ed abusare della propria posizione per perseguire i propri interessi.
Nell’antichità l’aristocrazia intellettuale non tentava neppure di nascondere il proprio disprezzo verso il lavoro fisico. Un testo egizio scritto intorno al 2000 a.C., noto come Satira sui commercianti, è presumibilmente l’esortazione di un padre al proprio figlio, il quale è stato mandato in una scuola di scrittura per diventare uno scriba:
Ho visto quanto lavora l’uomo – tu dovresti impegnare tutto te stesso nel conseguimento della scrittura. Ed io ho osservato come uno possa esser salvato dai suoi obblighi [sic!] – bada, non vi è nulla che superi lo scrivere […] Ho visto il fabbro al lavoro, davanti alla bocca della sua fornace. Le sue dita parevano quasi coccodrilli; e puzzava come le uova di pesce […] Il piccolo appaltatore di costruzioni trasporta fango […] È più sporco delle vigne o dei maiali, per quel suo continuo calpestare fango. I suoi abiti sono irrigiditi dall’ argilla […] Il fabbricante di frecce è molto infelice, quando s’incammina per il deserto [in cerca di punte di silice]. Gli costa di più mantenere l’asino, di quanto poi non [gli renda] il suo lavoro […] Il lavandaio lava sulle sponde [del fiume], un vicino del coccodrillo […] Bada, non esiste un mestiere in cui l’uomo sia libero dal padrone, esclusa la professione dello scriba: il padrone è lui […] Bada, non v’è scriba che manchi di cibo proveniente dai beni della Casa Reale – vita, prosperità, salute! […] Suo padre e sua madre lodano dio, poiché egli è deciso a farsi strada nella vita. Osserva tutte queste cose. Io [le ho stabilite] prima di te e dei figli dei tuoi figli.8
Fra i greci prevaleva lo stesso atteggiamento:
Quelle che vengono chiamate arti meccaniche” afferma Senofonte “portano con sé una macchia sociale e non sono giustamente tenute in onore nelle nostre città. Poiché queste arti danneggiano i corpi di quelli che ad esse lavorano o che ad esse sovrintendono, obbligandoli a una vita sedentaria e al chiuso, e anche, in alcuni casi, a passare l’intera giornata vicino al fuoco. La degenerazione fisica si risolve così in deterioramento dell’anima. Inoltre, quelli che lavorano a codesti mestieri si trovano a non poter disporre del tempo necessario a compiere i loro doveri di amici e di cittadini. Perciò vengono considerati come cattivi amici e cattivi cittadini, e in alcune città, specialmente quelle più bellicose, non è legalmente consentito ai cittadini di dedicarsi a un’occupazione meccanica.9
La radicale contrapposizione sorta fra lavoro manuale e mentale rende più forte l’illusione che idee, pensieri e parole abbiano un’esistenza indipendente dalla materia. Questo equivoco costituisce il cuore di ogni religione e dell’idealismo filosofico.
Non fu Dio a creare l’uomo a propria somiglianza bensì, al contrario, furono gli uomini e le donne a modellare gli dèi a propria immagine e somiglianza. Ludwig Feuerbach chiosò con una certa ironia che, potendo gli uccelli concepire una religione, il loro dio avrebbe avuto le ali.
La religione è un sogno, nel quale le nostre nozioni ed emozioni ci appaiono come· esistenze distinte, al di fuori di noi stessi. La mente religiosa non distingue fra soggettivo ed oggettivo; non ha dubbi. Essa non ha tanto la facoltà di discernere ciò che è diverso da essa, quanto di vedere le proprie nozioni come esseri distinti al di fuori di se stessa.10
Questo era già compreso da uomini come Senofane di Colofone, vissuto tra il 565 e il 470 a.C., il quale scrisse:
Omero ed Esiodo hanno attribuito agli dei tutto ciò che per gli uomini è onta e biasimo: e rubare e fare adulterio e ingannarsi a vicenda. […] Gli Etiopi dicono che i loro dei hanno il naso camuso e sono neri, i Traci che hanno gli occhi azzurri e i capelli rossi […]. Se gli animali potessero dipingere e fare opere come gli uomini, anche i cavalli e le pecore raffigurerebbero gli dei a loro somiglianza.11

I miti della Creazione, ricorrenti in quasi tutte le religioni, invariabilmente traggono le loro immagini, come quella del vasaio che plasma l’argilla, dalla vita reale. Secondo l’opinione di Gordon Childe, la versione della Creazione riportata nel primo libro della Genesi riflette il fatto che nella Mesopotamia la terra venne “in principio” davvero divisa dalle acque, ma non certo grazie all’intervento divino:
Il territorio sul quale dovevano poi sorgere le grandi città della Babilonia dovette essere letteralmente creato dal nulla: il precursore preistorico della biblica Erech fu costruito su una specie di piattaforma di canne incrociate su fango alluvionale. Il libro ebraico del Genesi ci ha reso familiari molte antiche tradizioni risalenti alle condizioni originarie dei Sumeri: un ‘caos’ nel quale i confini tra acqua e terraferma erano ancora fluidi. Uno degli eventi essenziali della ‘Creazione’ è la separazione di questi elementi. Eppure non fu un dio a creare quella terra, furono i Sumeri: essi scavarono canali per irrigare i campi o prosciugare le paludi, costruirono dighe e piattaforme per proteggere uomini e animali dalle acque e sollevarli al disopra delle piene; aprirono le prime brecce nell’intrico delle felci e dei canneti, esplorarono i canali che li attraversavano. La tenacia con cui la tradizione ricorda questa lotta, dà un’idea dello sforzo che costarono queste opere agli antichi Sumeri. La ricompensa fu costituita dall’approvvigionamento costante di datteri nutrienti, da un raccolto abbondante offerto dai campi prosciugati, e da pascoli permanenti per le greggi e le mandrie.12
I primi tentativi dell’uomo di spiegare il mondo e di capire quale ruolo gli fosse riservato in esso si confondevano con la mitologia. I babilonesi credevano che il dio Marduk avesse fatto scaturire l’Ordine dal Caos separando la terra dall’acqua e il cielo dalla terra. Gli ebrei mutuarono il mito biblico della Creazione dai babilonesi e, successivamente, anche la cultura cristiana. La vera storia del pensiero scientifico inizia solo quando gli uomini imparano a disfarsi della mitologia e cercano una comprensione razionale della natura, senza ricorrere all’intervento degli dèi. Da quel momento inizia la vera lotta per l’emancipazione dell’umanità dalle proprie catene, materiali e spirituali.
L’avvento della filosofia ha rappresentato un’autentica rivoluzione del pensiero umano; di ciò siamo debitori agli antichi greci, come di tanta parte degli aspetti caratteristici della civiltà moderna. Anche se è corretto ricordare che importanti progressi furono realizzati da indiani e cinesi e successivamente anche dagli arabi, furono i greci a sviluppare la filosofia e la scienza fino al loro livello massimo prima del Rinascimento. La storia del pensiero greco nei quattro secoli a partire dalla metà del VII secolo a.C. costituisce uno dei capitoli più importanti degli annali della storia umana.

Materialismo e idealismo

Tutta la storia della filosofia, dai greci fino al giorno d’oggi, consiste in una lotta fra due scuole di pensiero diametralmente opposte: materialismo e idealismo. Queste due parole ci forniscono un magnifico esempio di come i termini usati nella filosofia si discostino fondamentalmente dal significato loro attribuito nel linguaggio quotidiano.
Quando diciamo che una persona è “idealista”, di solito abbiamo in mente una persona di alti ideali e di moralità pura; il materialista è al contrario concepito come persona senza principi, avida di denaro ed egoista, schiava dei suoi bassi appetiti di cibo e di chissà quant’altre cose… in breve, un personaggio del tutto deprecabile.
Tali connotazioni non hanno nulla a che spartire con il materialismo e l’idealismo filosofici. Nel senso filosofico, l’idealismo parte dal concetto che il mondo è solo il riflesso delle idee, della mente, dello spirito, o, più correttamente, dell’Idea, che preesiste al mondo fisico. Le cose nude e materiali che conosciamo attraverso i nostri sensi, secondo questa scuola, non sono che copia imperfetta di questa Idea perfetta. Nell’antichità il fautore più coerente di questa filosofia fu Platone, anche se l’idealismo non fu concepito per la prima volta da quest’ultimo, ma esisteva già prima.
I pitagorici credevano che l’essenza di tutte le cose fosse il Numero (opinione condivisa, a quanto pare, da alcuni matematici moderni). Essi mostravano disprezzo verso il mondo in generale e in particolare verso il corpo umano, che consideravano alla stregua di un carcere nel quale l’anima era intrappolata. Un tale atteggiamento ricorda in modo singolare quello dei monaci nel Medioevo, né deve sorprendere che la Chiesa abbia potuto accogliere nella sua dottrina molte idee propugnate dalle scuole di pensiero idealiste quali pitagorici, platonici e neoplatonici, dato che tutte le religioni partono da una visione idealista del mondo. La differenza risiede nel fatto che la religione si orienta alle emozioni e pretende di offrire una comprensione mistica ed intuitiva del mondo (“Rivelazione”), mentre la maggior parte dei filosofi idealisti tenta di dimostrare la fondatezza delle proprie teorie per mezzo della logica.
Ad ogni modo, tutte le forme di idealismo filosofico affondano le proprie radici nella religione e nella mistica e di esse si alimentano. Il disprezzo per il “rozzo mondo materiale” e l’innalzamento dell'”Ideale” nascono direttamente dai fenomeni che abbiamo appena considerato in relazione alla religione. Non a caso l’idealismo platonico si sviluppò ad Atene nel momento in cui il sistema schiavista era al suo apice; a quel tempo il lavoro manuale era considerato letteralmente un segno di schiavitù. L’unico lavoro degno di rispetto era quello intellettuale. Essenzialmente l’idealismo filosofico è prodotto dalla divisione estrema tra lavoro intellettuale e lavoro manuale che è esistita dall’alba della storia scritta fino al giorno d’oggi.
La storia della filosofia occidentale però non inizia con l’idealismo ma col materialismo. Il materialismo afferma l’esatto opposto: il mondo materiale, che ci è noto ed è esplorato dalla scienza, è reale; l’unico mondo reale è quello materiale; i pensieri, le idee e le sensazioni sono prodotto della materia organizzata in un certo modo (sistema nervoso e cervello); il pensiero non può derivare le proprie categorie da se stesso, ma solo dal mondo oggettivo che si rivela ai nostri sensi.
I primi tra i filosofi greci furono chiamati “ilozoisti”, dal greco, ovvero “chi crede che la materia sia viva”, una folta schiera di eroi pionieri nello sviluppo del pensiero. I greci scoprirono che il mondo è rotondo molto tempo prima di Colombo e sostennero, molto prima di Darwin, che gli uomini si erano evoluti dai pesci. Fecero scoperte straordinarie nel campo della matematica, specialmente nella geometria, discipline che a stento registrarono dopo di allora pochi progressi rilevanti per i successivi millecinquecento anni. Inventarono la meccanica e costruirono persino un motore a vapore. Di radicalmente nuovo in questo modo di vedere il mondo vi era il fatto che esso non era religioso; in completo contrasto con gli egizi e i babilonesi, dai quali pure avevano imparato molto, questi pensatori greci non ricorrevano a dèi o dee per spiegare i fenomeni naturali. Per la prima volta, gli uomini e le donne cercavano di spiegare i meccanismi della natura puramente nei termini della natura stessa. Questo fatto rappresentò un punto di svolta, tra i più importanti nella storia, per tutto il pensiero umano; qui iniziò la vera scienza.
Aristotele, il più grande dei filosofi antichi, può essere a ragione considerato un materialista, sebbene non lo fosse in modo così coerente come gli ilozoisti che lo avevano preceduto. Egli fece una serie di importanti scoperte scientifiche che furono le fondamenta delle maggiori conquiste della scienza greca nel periodo alessandrino.
A confronto il Medioevo fu un deserto in cui il pensiero scientifico languì per secoli, un periodo non a caso dominato dalla Chiesa. L’unica filosofia ammessa era l’idealismo, nella forma di una caricatura del platonismo o, peggio ancora, di una lettura distorta del pensiero di Aristotele.
Nel periodo del Rinascimento la scienza riemerse trionfante. Essa fu costretta a condurre una battaglia feroce contro l’influenza della religione (non solo quella cattolica, per inciso, ma anche quella protestante). Furono molti i martiri che pagarono con la vita il prezzo della libertà scientifica. Giordano Bruno fu messo al rogo; Galileo fu processato due volte dall’inquisizione e fu costretto sotto minaccia di tortura ad abiurare le sue idee.
La tendenza predominante del Rinascimento fu il materialismo. In Inghilterra, questo prese la forma dell’empirismo, quella scuola di pensiero che afferma che tutta la conoscenza deriva dai sensi. I pionieri di questa scuola furono Francis Bacon (1561-1626), Thomas Hobbes (1588-1679) e John Locke (1632-1704). La scuola materialista passò poi dall’Inghilterra in Francia, dove acquisì un nuovo contenuto rivoluzionario. Nelle mani di Diderot, Rousseau, Holbach ed Helvetius, la filosofia divenne uno strumento per criticare tutta la società esistente. Questi grandi pensatori prepararono la strada all’abbattimento rivoluzionario della monarchia feudale, nel 1789-93.
Le nuove idee filosofiche stimolarono lo sviluppo della scienza, incoraggiando l’esperimento e l’osservazione. Il ‘700 vide un grande avanzamento della scienza, specialmente la meccanica. Questo processo presentava un aspetto negativo a fianco di quello positivo. Il vecchio materialismo del ‘700 era ristretto e rigido e rifletteva lo sviluppo limitato della scienza stessa. Newton espresse le limitazioni proprie dell’empirismo con la sua celebre frase: “non faccio ipotesi”. Questa visione meccanicistica e unilaterale risultò infine fatale al vecchio materialismo e, paradossalmente, dopo il 1700 i grandi progressi nella filosofia furono realizzati da filosofi idealisti.
Sotto l’impatto della rivoluzione francese, l’idealista tedesco Immanuel Kant (1724-1804) sottopose tutta la filosofia precedente ad una critica esauriente. Kant fece importanti scoperte non solo nel campo della filosofia e della logica, ma anche nella scienza. La sua ipotesi nebulare sulle origini del sistema solare (per la quale Laplace sviluppò in seguito una base matematica) è oggi generalmente accettata e condivisa. Nel campo della filosofia, il capolavoro di Kant, la Critica della Ragion Pura, fu la prima opera ad analizzare le forme della logica, praticamente immutate dalla sistematizzazione di Aristotele. Kant dimostrò le contraddizioni insite in molte delle proposizioni fondamentali della filosofia; tuttavia egli non riuscì a risolvere queste contraddizioni (“antinomie”) e trasse infine la conclusione che una vera conoscenza del mondo fosse impossibile. Mentre possiamo conoscere le apparenze, non possiamo mai sapere come siano le cose “in sé”.
L’idea non era nuova; è un tema che ricorre molto spesso nella filosofia e viene identificato generalmente con quello che chiamiamo idealismo soggettivo. Prima di Kant un tale approccio fu proposto dal vescovo e filosofo irlandese George Berkeley e ripreso dall’ultimo degli empiristi classici inglesi, David Hume. L’argomentazione fondamentale si può riassumere così: “Io interpreto il mondo attraverso i miei sensi. Dunque, l’unica cosa che so che esiste sono le mie impressioni sensibili. Posso affermare, ad esempio, che questa mela esiste? No. Posso dire solo che la vedo e che la sento con la mano, il naso e la lingua. Dunque, non posso affatto affermare che esista il mondo materiale”. La logica dell’idealismo soggettivo è “se chiudo gli occhi, il mondo cessa di esistere”; una tale concezione è l’anticamera del solipsismo (dal latino solus ipse – “io solo”) cioè l’idea che solo io esisto.
Tali idee possono sembrarci sciocchezze pure e semplici, ma si sono dimostrate stranamente persistenti. In un modo o nell’altro, i pregiudizi propri dell’idealismo soggettivo hanno penetrato non solo la filosofia ma anche la scienza pervadendole per gran parte del ‘900. In seguito tratteremo più specificamente questa tendenza.
La più grande innovazione avvenne nei primi decenni dell’800 per opera di George Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831). Hegel fu un filosofo tedesco di scuola idealista, un uomo dall’intelletto straordinario, che nei suoi scritti presentò una summa di tutta l’evoluzione del pensiero filosofico fino ai suoi tempi.
Hegel dimostrò che l’unico modo per superare le “antinomie” di Kant era quello di accettare che le contraddizioni effettivamente esistono non solo nel pensiero, ma anche nel mondo reale. Da idealista oggettivo qual era, Hegel non perse tempo inutilmente sulla tesi dell’idealismo soggettivo che la mente umana non potesse conoscere il mondo reale, sostenendo che le forme del pensiero dovessero riflettere il più fedelmente possibile il mondo oggettivo. Il processo della conoscenza consiste nel penetrare sempre più profondamente questa realtà, procedendo dall’astratto al concreto, dal noto all’ignoto, dal particolare all’universale.
Il metodo di pensiero dialettico aveva svolto un ruolo importante nell’antichità, come è possibile riscontrare in particolare negli aforismi ingenui ma brillanti di Eraclito (c. 500 a.C.), ma anche in Aristotele e in altri. Esso fu abbandonato nel Medioevo, quando la Chiesa trasformò la logica formale di Aristotele in un dogma rigido e privo di vita, e non sarebbe ricomparso finché Kant non gli riattribuì un posto d’onore. Tuttavia, in Kant, la dialettica non ebbe uno sviluppo sufficiente e toccò ad Hegel portare la scienza del pensiero dialettico al suo massimo punto di sviluppo.
La grandezza di Hegel è dimostrata dal fatto che egli da solo fu disposto a sfidare la dominante filosofia meccanicistica. La filosofia dialettica di Hegel si occupa dei processi e non di avvenimenti isolati. Tratta le cose nella loro vita, non nella loro morte, nei loro rapporti reciproci e relazioni e non separatamente, una dopo l’altra. Si tratta di un modo singolarmente moderno e scientifico di guardare il mondo, tanto che, sotto diversi aspetti, Hegel era chiaramente in anticipo rispetto alla sua epoca.
Eppure, nonostante le sue grandi intuizioni, la filosofia di Hegel risultava in ultima istanza inadeguata; il punto di vista idealista adottato da Hegel fu precisamente il suo difetto principale, tale da impedirgli di applicare il metodo dialettico al mondo reale in modo coerentemente scientifico. Al posto del mondo materiale sorgeva il mondo dell’Idea Assoluta, dove le cose, i processi e le persone reali sono sostituiti da ombre inconsistenti. Nelle parole di Friedrich Engels, la dialettica hegeliana fu il più eclatante aborto di tutta la storia della filosofia: idee corrette appaiono capovolte. Per porre la dialettica su fondamenta salde era necessario rovesciare la logica hegeliana come un guanto per poter trasformare la dialettica idealista in materialismo dialettico: questa fu precisamente la grande conquista di Karl Marx e Friedrich Engels. Il nostro studio inizia con un breve resoconto delle leggi fondamentali della dialettica materialista da essi elaborate.

Capitolo 3 Il materialismo dialettico

Indice dei Capitoli

Note

1. ChildeV. Gordon, Il progresso nel mondo antico, pag. 16.

2. Childe V. Gordon, op. cit., pagg. 16-17.

3. James Frazer, Il ramo d’oro, pag. 10.

4. James Frazer, op. cit., pag. 105.

5. Ludwig Feuerbach, L’essenza del cristianesimo.

6. Aristotele, Metafisica, pag. 6.

7. I. Prigogine e I. Stengers, La nuova alleanza, metamorfosi della scienza.

8. Donaldson Margaret, Come ragionano i bambini pag. 94.

9. Farrington Benjamin, Storia della scienza greca, pag. 38.

10. Ludwig Feuerbach, L’ essenza del cristianesimo.

11. Bum A. R, Storia dell’antica Grecia, pag. 142.

12. Childe V. Gordon, L’uomo crea se stesso, pagg. 184-185.

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