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Perché studiare la storia del bolscevismo?

Di Alan Woods

E’ stato pubblicato il primo volume dell’edizione italiana del libro di Alan Woods “Bolshevism, the Road to Revolution” con il titolo “Storia del bolscevismo”.

Il libro è acquistabile al prezzo di 12 euro scrivendo a [email protected]

Di seguito pubblichiamo l’introduzione dell’autore alla prima edizione del libro del 1999

Perché studiare la storia del bolscevismo?

“Nell’anno 1917 la Russia stava attraversando un’enorme crisi sociale. Si può però dire con certezza, in base a tutte le lezioni della storia, che se non ci fosse stato un Partito bolscevico, l’incommensurabile energia rivoluzionaria delle masse si sarebbe dissipata infruttuosamente in esplosioni sporadiche, e queste grandi sollevazioni sarebbero finite nella più dura dittatura controrivoluzionaria. La lotta di classe è il principale motore della storia. Esso necessita di un programma corretto, un partito risoluto, una direzione coraggiosa e degna di fiducia – non di eroi da salotto e dal frasario parlamentare, ma di rivoluzionari disposti ad andare fino in fondo. Questa è la più grande lezione della rivoluzione d’ottobre.”1

Una rivoluzione, per definizione, rappresenta un punto di svolta tale da imprimere una nuova, potente spinta al processo dello sviluppo umano. Qualsiasi opinione si abbia della rivoluzione russa dell’ottobre 1917, non si può negare la sua colossale importanza storica. Il XX secolo ne viene interamente dominato per più di tre quarti della sua durata. Persino oggi, all’alba del nuovo millennio, il mondo è ancora profondamente interessato dalle sue onde d’urto. Lo studio della rivoluzione russa non richiede dunque né spiegazioni né giustificazioni. Essa appartiene alla categoria delle svolte di importanza storica che ci obbligano a distinguere un prima e un dopo, al pari della rivoluzione di Cromwell in Inghilterra o della grande rivoluzione francese del 1789-93.
Ci sono molti punti di contatto tra la rivoluzione d’ottobre in Russia e le grandi rivoluzioni borghesi del passato. In momenti determinati questi parallelismi sembrano quasi inspiegabili, arrivando persino a toccare le personalità delle principali dramatis personae, come ad esempio Carlo I d’Inghilterra, Luigi XVI di Francia e lo zar Nicola II, insieme alle loro mogli straniere. Ma nonostante tutte le somiglianze, c’è una differenza fondamentale tra la rivoluzione bolscevica e le rivoluzioni borghesi del passato. Il capitalismo, a differenza del socialismo, può sorgere e in effetti sorge spontaneamente dallo sviluppo delle forze produttive. Come modo di produzione non richiede l’azione cosciente di uomini e donne. I mercati funzionano allo stesso modo dei formicai o di una qualsiasi altra comunità sorta e organizzatasi spontaneamente nel mondo animale, cioè in maniera cieca e automatica. Il fatto che ciò avvenga anche in maniera anarchica, convulsa e caotica, in un sistema immensamente dispendioso e inefficiente, provocando le sofferenze umane più mostruose, è irrilevante ai fini di questa considerazione. Il capitalismo “funziona” – senza bisogno di controllo o pianificazione umana – e ha continuato a funzionare così per circa duecento anni. Per realizzare un sistema del genere non sono richieste particolari conoscenze o intuizioni. Questo fatto è di fondamentale importanza nel distinguere tra rivoluzione borghese e rivoluzione socialista.
Il socialismo differisce dal capitalismo perché, a differenza di quest’ultimo, esso richiede il controllo cosciente e l’amministrazione del processo di produzione da parte della classe lavoratrice stessa. Non può funzionare e non funziona senza l’intervento consapevole di donne e uomini. La rivoluzione socialista è qualitativamente diversa dalla rivoluzione borghese perché può essere realizzata solo dal movimento consapevole della classe lavoratrice. Il socialismo o è democratico o non è socialismo. Fin dai primi inizi, durante periodo di transizione dal capitalismo al socialismo, la gestione delle imprese, della società e dello Stato deve essere saldamente nelle mani dei lavoratori. È necessario il più alto grado di partecipazione delle masse all’amministrazione e al controllo. Solo così è possibile prevenire l’ascesa della burocrazia e creare le condizioni materiali per muovere in direzione del socialismo, quella forma più alta di società caratterizzata dalla totale assenza di sfruttamento, oppressione e coercizione, e dunque dalla graduale scomparsa di quella mostruosa reliquia della barbarie che è lo Stato.
C’è inoltre un’altra differenza: per conquistare il potere, la borghesia doveva mobilitare le masse contro il vecchio ordine. Ciò sarebbe stato inconcepibile in base allo scopo dichiarato di creare le condizioni necessarie affinché Rendita, Interesse e Profitto potessero regnare. La borghesia si propose invece come rappresentante dell’intera umanità sofferente. Nel caso dell’Inghilterra del XVII secolo, essa presumeva di lottare per realizzare il regno di dio in terra; nella Francia del XVIII secolo si proclamò la portatrice del dominio della Ragione. Senza dubbio molti di coloro che lottarono sotto queste bandiere credevano sinceramente in questi ideali. Donne e uomini non lottano contro forze soverchianti, rischiando ogni cosa, senza quella speciale motivazione che nasce da una ardente certezza della giustizia della loro causa. Gli scopi dichiarati si rivelarono in ogni caso essere delle mere illusioni. Il vero contenuto delle rivoluzioni inglese e francese era borghese e, in quella data epoca storica, non avrebbe potuto essere altrimenti. E dato che il sistema capitalista funziona nel modo prima descritto, non faceva poi molta differenza che le persone ne capissero o meno il meccanismo.
L’opera presente, a differenza di molte altre sullo stesso argomento, non parte dal presupposto che le rivoluzioni siano un ricordo del passato, al contrario. La situazione mondiale odierna fornisce ulteriori prove che il ruolo progressista del capitalismo è ormai del tutto esaurito. Le condizioni materiali per il socialismo sono da lungo tempo mature a livello planetario. Esiste la possibilità di creare un mondo di abbondanza mai sognata prima, eppure masse innumerevoli vivono nella povertà assoluta. Guardandosi intorno nel mondo di oggi, il libro di Lenin Imperialismo, fase suprema del capitalismo acquista un sapore particolarmente moderno. Il potere delle grandi banche, dei monopoli e delle multinazionali non è mai stato così esteso, ed esse non sono disposte a cederlo pacificamente più di quanto non lo fossero i monarchi assoluti del passato. La prima condizione per lo sviluppo dell’umanità è di spezzare il potere di queste moderne signorie. Perché ciò succeda è per prima cosa necessario rovesciare e sconfiggere la resistenza di quella classe che detiene il potere nella società odierna: i banchieri e i monopolisti, che non solo esercitano il loro dominio attraverso il loro potere economico, ma anche tramite il controllo dello Stato e il monopolio della cultura.
Per portare a termine questi compiti, è necessario che la classe lavoratrice si doti di un partito e di una direzione adeguati. A differenza dei rivoluzionari francesi e inglesi del XVII e XVIII secolo, i lavoratori di oggi possono trasformare la società solamente sulla base di una comprensione scientifica dei suoi meccanismi. Questa comprensione può essere fornita solo dal marxismo, che è l’unico socialismo di tipo scientifico e coerente. La storia del bolscevismo ci offre un modello per ottenere tutto ciò. Negli annali della storia intera è difficile trovare un altro esempio di un partito che crebbe alla stessa incredibile velocità di quello bolscevico nel 1917, quando passò da 8.000 membri a più di un quarto di milione nell’arco di nove mesi. Eppure questa impresa non fu il risultato di una combustione spontanea, ma di decenni di lavoro paziente, a partire da piccoli circoli di attivisti e attraverso tutta una serie di passaggi, in cui grandi passi avanti furono seguiti da amare sconfitte, delusioni e disperazione. La vita di ogni uomo o donna conosce momenti simili. La somma del totale di queste esperienze è la vita stessa, e il modo in cui un individuo supera le difficoltà della vita e apprende da ogni tipo di circostanze è ciò che gli permette di crescere e trasformarsi. Lo stesso vale per un partito. Ma gli individui possono anche apprendere dall’esperienza e dalla saggezza altrui. Quanto sarebbe difficile la vita se ci ostinassimo a disdegnare le conoscenze accumulate da coloro che ci circondano! Allo stesso modo è quindi imprescindibile studiare le esperienze collettive della classe lavoratrice in diverse nazioni e quindi saper evitare errori già commessi, poiché, come osservò una volta George Santayana, “chi non impara dalla storia è condannato a ripeterla”.

Il partito è necessario?

L’intera storia della lotta di classe negli ultimi cento anni ci fornisce una risposta. Il marxismo non nega affatto l’importanza del ruolo degli individui nella storia, ma si limita a spiegare che il ruolo che individui e partiti possono giocare è delimitato dal livello dato dello sviluppo storico e dal contesto sociale oggettivo che, in ultima analisi, è a sua volta determinato dallo sviluppo delle forze produttive. Ciò non significa – come è stato insinuato dai critici del marxismo – che donne e uomini siano semplici marionette manovrate ciecamente dal “determinismo economico”. Marx ed Engels hanno spiegato che gli uomini e le donne fanno la propria storia, ma non in quanto agenti completamente liberi, bensì dovendo cominciare a costruire a partire dal tipo di società che si trovano di fronte. Le qualità personali dei personaggi politici – preparazione teorica, abilità, coraggio, determinazione – possono essere decisive per il risultato di una determinata situazione. Ci sono momenti critici nella storia dell’umanità nei quali la qualità dei dirigenti può essere il fattore decisivo che fa pendere l’ago della bilancia da una parte o dall’altra. Momenti come questi non sono la norma, ma si manifestano solamente quando tutte le contraddizioni latenti sono lentamente maturate per un lungo periodo di tempo fino al punto in cui, nelle parole della dialettica, la quantità si trasforma in qualità. Sebbene gli individui non possano determinare lo sviluppo della società attraverso la sola forza di volontà, è però vero che il ruolo del fattore soggettivo è alla fine decisivo nella storia dell’umanità.
La presenza di un partito e di una direzione rivoluzionaria non è meno determinante per il risultato della lotta di classe di quanto non lo siano la qualità di un esercito e dei suoi generali nella guerra tra nazioni. Il partito rivoluzionario non può essere improvvisato su due piedi, proprio come i generali non possono essere scelti allo scoppiare della guerra. Deve essere sistematicamente costruito nel corso di anni, di decenni. Questa lezione è resa evidente da tutta la storia del XX secolo. Rosa Luxemburg, grande rivoluzionaria e martire della classe lavoratrice, sottolineò sempre come l’intraprendenza rivoluzionaria delle masse fosse la forza motrice di una rivoluzione. In questo, aveva assolutamente ragione. Nel corso di una rivoluzione le masse imparano molto velocemente. Ma una situazione rivoluzionaria, per sua stessa natura, non può protrarsi a lungo. La società non può essere mantenuta in uno stato di fermento permanente, né la classe lavoratrice in uno stato di attività sempre incandescente. Se non viene mostrata per tempo una soluzione, il momento sarà perso. Non c’è abbastanza tempo perché i lavoratori imparino per esperienza dai loro errori. In una situazione di vita o di morte, gli errori si pagano a un prezzo molto caro! Perciò è necessario combinare il movimento “spontaneo” delle masse con l’organizzazione, con un programma, prospettive, strategia, tattica – in una parola, con un partito rivoluzionario guidato da quadri esperti.
Un partito non è un semplice modello organizzativo, un nome, una bandiera, un conglomerato di individui o un apparato. Un partito rivoluzionario, per un marxista, è innanzitutto programma, metodo, idee e tradizioni e solo in un secondo momento (nonostante siano indubbiamente importanti) un’organizzazione e un apparato che portino queste idee ai più ampi strati della classe lavoratrice. Il partito marxista fin dall’inizio deve basarsi sulla teoria e sul programma, che è la somma di tutta la memoria storica del proletariato. Senza di questo, non è nulla. La costruzione di un partito rivoluzionario comincia sempre con il lento e laborioso lavoro della raccolta e formazione dei quadri, che costituiscono la spina dorsale del partito per tutta la sua esistenza. Questa è la prima metà del problema, ma solo la prima metà. La seconda metà è più complicata: come raggiungere le masse dei lavoratori con il nostro programma e le nostre idee? Questo è un problema nient’affatto semplice.
Marx spiegò come l’emancipazione della classe lavoratrice sia un compito di cui si può fare carico solo la classe lavoratrice stessa. Le masse dei lavoratori imparano solo dall’esperienza. Non imparano dai libri, non perché manchi loro l’intelligenza, come immaginano gli snob della classe media, ma perché manca loro il tempo, l’accesso alla cultura e l’abitudine alla lettura, che non è un automatismo, ma va coltivata. Un lavoratore che torna a casa dopo un turno di otto, nove, dieci ore in un cantiere o alla catena di montaggio è stanco non solo fisicamente, ma anche mentalmente. L’ultima cosa che desidera è mettersi a studiare o partecipare a una riunione. Molto meglio lasciare queste cose a “quelli che se ne intendono”. Ma se c’è uno sciopero, l’intero modo di ragionare si trasforma. Una rivoluzione è come un’enorme sciopero che coinvolge tutta la società. Le masse vogliono capire quello che succede, vogliono imparare, riflettere e agire. Prive di esperienza e abilità tattiche, di strategia e di prospettive, nell’azione si trovano ovviamente svantaggiate nell’affrontare la classe dominante, la quale, attraverso i suoi rappresentanti politici e militari, ha accumulato una lunga esperienza ed è ben attrezzata per situazioni del genere. Essa ha nelle sue mani un’intera serie di armi: il controllo dello Stato, della polizia, dell’esercito e della magistratura, della stampa e dei mass media – strumenti potenti per plasmare l’opinione pubblica, per diffamare, calunniare e distruggere gli avversari; ha anche molte forze ausiliarie: il controllo delle scuole e delle università, un esercito di “esperti”, professori, economisti, filosofi, avvocati, preti e altri ancora, disposti a ingoiare il rospo dei propri scrupoli morali per sollevarsi in difesa della “civiltà” (cioè i propri privilegi e quelli dei loro padroni) contro il “caos” e “la folla”.
La classe lavoratrice non trae automaticamente conclusioni rivoluzionarie. Se così fosse, il compito di costruire un partito sarebbe superfluo. Porsi l’obbiettivo di trasformare la società sarebbe cosa facile, se il movimento della classe lavoratrice fosse una linea retta ascendente. Ma così non è. Dopo un lungo periodo storico le masse arrivano a comprendere il bisogno di un’organizzazione propria. Attraverso la fondazione di organizzazioni, sia sindacali che, a livello più alto, di natura politica, la classe lavoratrice inizia a esprimersi in quanto tale, come entità indipendente. Nelle parole di Marx, passa da classe in sé a classe per sé. Questi sviluppi avvengono durante un lungo periodo storico, attraverso lotte di ogni tipo, che coinvolgano non solo una minoranza di attivisti più o meno consapevoli, ma anche “masse politicamente non istruite” che, in generale, si attivano per la prima volta nella vita politica (o persino sindacale) solo sulla base di grandi eventi. Sulla base di avvenimenti di portata storica, la classe lavoratrice inizia a creare organizzazioni di massa per difendere i propri interessi. Queste organizzazioni, frutto della storia, – i sindacati, le cooperative, i partiti operai – rappresentano il seme di una nuova società in seno alla vecchia. Servono a mobilitare, organizzare, formare ed educare la classe.
Le masse, da poco destatesi alla vita politica, devono rivolgersi a quel particolare partito politico che sia il più capace di difendere i loro interessi; il partito più risoluto e audace, ma anche quello che si dimostri il più lungimirante, il più capace di indicare ad ogni bivio la via da seguire, utilizzando di volta in volta parole d’ordine corrispondenti alla situazione reale. Ma come decidere quali sono il partito e il programma corretti? Ce ne sono così tanti! Le masse devono mettere alla prova i partiti e i loro dirigenti, non c’è altra soluzione. Il processo per approssimazioni successive costa tempo ed energie, ma è l’unico possibile. In ogni rivoluzione – non solo in Russia nel 1917 ma anche in Francia nel XVIII secolo e in Inghilterra del XVII – osserviamo un processo simile, nel quale attraverso l’esperienza, le masse rivoluzionarie, per approssimazioni successive, si aprono la via verso l’ala rivoluzionaria più coerente. La storia di ogni rivoluzione è caratterizzata dall’ascesa e dalla caduta di partiti e leader politici, un processo in cui le tendenze più estreme si sostituiscono sempre a quelle moderate, finché il movimento non ha svolto il suo corso.
In tutte le voluminose cronache del movimento operaio mondiale, è impossibile trovare una storia ricca e variegata quanto quella del Partito bolscevico prima del 1917. Una storia che si estende per tre decenni e include tutti gli stadi di sviluppo da piccolo circolo a partito di massa, attraverso la lotta legale e clandestina, tre rivoluzioni, due guerre e il confronto con una vasta gamma di complessi problemi teorici, non solo sulla carta ma nella pratica: il terrorismo individuale, la questione nazionale, la questione agraria, l’imperialismo e lo Stato. Sarebbe inoltre impossibile trovare altrove un tesoro di letteratura marxista così vasto e ricco, che tratta i problemi sotto ogni possibile angolazione, con la stessa sorprendente profondità, come gli scritti dei due rivoluzionari più grandi del XX secolo – Vladimir Ilič Lenin e Lev Davidovič Trotskij. Nonostante ciò il lettore odierno che desideri impratichirsi di questo materiale si trova di fronte un problema insormontabile. Quasi tutta la letteratura sulla storia del bolscevismo è stata scritta dai suoi nemici accaniti. Con qualche sparuta, lodevole eccezione, come ad esempio il lavoro degli storici marxisti francesi Pierre Broué e Marcel Liebman, è impossibile trovare una storia del Partito bolscevico degna di essere letta. Ma la materia di cui trattano Broué e Liebman è in qualche maniera diversa da quella del presente libro, e le loro opere, per quanto siano consigliabili, si occupano solo parzialmente del problema qui affrontato, ossia come i bolscevichi si prepararono alla presa del potere del 1917.

A proposito di questo lavoro

La presente opera è stata scritta da un marxista impegnato, che ha dedicato la sua vita alla lotta per le idee di Marx, Engels, Lenin e Trotskij. Dichiaro così la mia parzialità considerandola non uno svantaggio, ma l’esatto opposto. Dal mio punto di vista non si può considerare la storia del bolscevismo come un mero interesse accademico, ma come qualcosa di vivo e pertinente alla situazione odierna. La mia conoscenza della storia del bolscevismo non è confinata a ciò che possono offrire i libri, ma proviene da quarant’anni di partecipazione attiva al movimento marxista, cosa impossibile per lo scrittore il cui interesse sia semplicemente accademico. Karl Kautsky, al tempo in cui era ancora un marxista, scrisse un libro che è certamente uno dei migliori esempi del metodo del materialismo storico: L’origine del cristianesimo. In quel libro descrive gli albori del movimento cristiano in un modo possibile solamente per chi avesse vissuto in prima persona l’esperienza della socialdemocrazia tedesca nei suoi primi, gloriosi giorni, quando lottava clandestinamente in condizioni durissime contro le leggi antisocialiste in Germania. Certo, il contenuto di questi due movimenti era radicalmente diverso, così come la situazione storica in cui si svilupparono. Nonostante ciò, i parallelismi tra questi movimenti rivoluzionari dei diseredati contro lo Stato dei ricchi e dei potenti colpiscono non meno delle loro differenze.
Molte delle circostanze affrontate dai pionieri del marxismo russo mi sono molto familiari per esperienza personale: non solamente grazie al lavoro svolto nella lotta per gli ideali del marxismo all’interno del movimento operaio britannico, ma anche per l’esperienza dei moti rivoluzionari in Francia nel 1968, in Portogallo nel 1975, in Spagna durante gli ultimi anni della dittatura franchista e nel movimento clandestino contro la dittatura di Pinochet in Cile. Tutto questo mi ha fornito ampie occasioni di osservare in prima persona esattamente il tipo di situazioni che i bolscevichi dovettero affrontare nella loro lotta contro il regime zarista. Inoltre la mia esperienza personale include lunghi anni di lavoro con rivoluzionari di paesi del terzo mondo in America Latina e in Asia – specialmente in Pakistan, un paese che presenta caratteristiche proprie di una società semifeudale incredibilmente simile a quella russa zarista. Ancora, trent’anni fa, quando ero studente in Unione Sovietica, dove mi sono procurato molto del materiale utilizzato in questo libro, ho incontrato e discusso con ex membri del Partito bolscevico, tra cui, in una particolare occasione, due anziane signore che avevano lavorato come segretarie di Lenin al Cremlino dopo la rivoluzione. Ritengo che queste esperienze mi abbiano offerto una visuale approfondita della vera natura del bolscevismo.
Infine sono fortemente in debito verso Ted Grant, mio compagno, amico e maestro per questi ultimi quarant’anni. Considero Ted non solo come uno dei più grandi esponenti in vita del marxismo, ma anche un legame diretto – uno degli ultimi ancora viventi – con le grandi tradizioni rivoluzionarie del passato: l’Opposizione di sinistra e il Partito bolscevico stesso. Grazie al suo lavoro negli ultimi sessant’anni, le idee di Lenin e Trotskij – i dirigenti teorici e pratici dell’ottobre – sono state tenute in vita, ampliate e sviluppate. Il libro qui presente è concepito come integrazione di Russia, dalla rivoluzione alla controrivoluzione, testo nel quale Ted ripercorre i processi che avvennero in Russia dopo la rivoluzione d’ottobre. Credo che, nel loro insieme, questi due volumi forniscano una storia e un’analisi esauriente del bolscevismo e della rivoluzione russa, dai suoi inizi fino al giorno d’oggi.
Mi rendo conto che non è abitudine degli storici accademici del bolscevismo “prendere posizione” come ho fatto io in questo caso. Ciò è spiacevole, dato che nella loro stragrande maggioranza a dispetto di una superficiale patina di imparzialità sono di fatto chiaramente mossi da pregiudizi, se non addirittura da una chiara ostilità, nei confronti dei bolscevichi e della rivoluzione in generale. Aggiungo che assumere una posizione definita non preclude affatto l’oggettività nell’analisi. Un chirurgo può essere ardentemente impegnato nel salvare la vita al paziente, e per questa stessa ragione avrà la massima cura nel distinguere i diversi strati dell’organismo. Io ho tentato di essere obbiettivo nel trattare l’oggetto della mia analisi. Dato che lo scopo di questo libro è di permettere alle nuove generazioni di imparare tutte le lezioni dell’esperienza storica del bolscevismo, glissare sui problemi, le difficoltà e gli errori sarebbe sia stupido che controproducente.
Quando Oliver Cromwell commissionò un suo ritratto, invitò severamente l’artista a “dipingermi come sono – con le verruche e tutto il resto!” Lo stesso atteggiamento sincero, lo stesso franco realismo caratterizzò sempre il pensiero di Lenin e Trotskij. Dove commettevano errori, non cercavano di minimizzarli a parole. Dopo la rivoluzione, Lenin disse in un’occasione che avevano “commesso molte stupidaggini”. Tutto ciò è ben lontano dalle cronache dello stalinismo, che presentano una falsa immagine del partito bolscevico sempre nel giusto e mai in errore. L’opera qui presente delinea i punti di forza del bolscevismo, ma non ne nasconde i problemi. Farlo significherebbe commettere un serio danno alla causa del leninismo non nel passato, ma nel presente e nel futuro. Per permettere alle nuove generazioni di imparare dalla storia del bolscevismo è necessario dipingerlo com’era.
Ho volutamente utilizzato il più possibile fonti non bolsceviche, in particolare autori menscevichi come Dan, Axelrod e Martov, insieme all’economista Akimov. Per lo meno alcuni autori borghesi, seppure critici del bolscevismo, si sono presi il disturbo di citare una gran quantità di materiale pertinente. Libri come quello di David Lane sugli albori della socialdemocrazia russa, o San Pietroburgo tra le rivoluzioni di Robert McKean contengono molto materiale che non è facilmente reperibile altrove. Il libro di McKean aveva certamente lo scopo di porsi come antidoto alla concezione esagerata della forza che i bolscevichi detenevano negli anni prima del 1917, e sarebbe stato molto più prezioso se l’autore non fosse stato influenzato dalla sua ostilità verso il bolscevismo. Il resto è in larga parte di gran lunga peggiore.
Dopo aver studiato questo materiale per più di trent’anni la conclusione a cui sono giunto è la seguente: la migliore fonte per riscoprire la storia del bolscevismo sono gli scritti di Lenin e Trotskij. Sono un tesoro inesauribile di informazioni e idee che, prese nel loro insieme, formano una storia dettagliata della Russia e del mondo durante l’intero periodo in considerazione. Il problema è che si tratta di una vasta quantità di materiale: 45 volumi di Lenin in inglese e dieci ancora in russo. Con ogni probabilità Trotskij scrisse ancora di più, ma la pubblicazione delle sue opere è più sparpagliata. La sua brillante autobiografia La mia vita, la monumentale Storia della rivoluzione russa e il suo ultimo sottovalutato capolavoro, Stalin, forniscono un’ampia ricchezza di materiale sulla storia del bolscevismo. Il problema è che l’aspirante studioso del bolscevismo che tentasse di leggere tutto questo materiale avrebbe bisogno di un’enorme quantità di tempo per farlo. Ho quindi incluso deliberatamente numerose citazioni piuttosto lunghe da queste fonti, anche se ciò ha reso il testo più lungo e voluminoso. Nonostante queste obiezioni, mi è parso necessario per due ragioni: uno, per evitare ogni insinuazione di inesattezze nelle citazioni e, due, per stimolare il lettore a leggere gli originali, perché a conti fatti non esistono adeguati sostituti alla lettura dell’opera di Marx, Engels, Lenin e Trotskij.
Senza il Partito bolscevico, senza la direzione di Lenin e Trotskij, i lavoratori russi, a dispetto di tutto il loro eroismo, non sarebbero mai riusciti a prendere il potere nel 1917. Questo è l’insegnamento centrale di tutta l’opera. Prendendo in esame la storia del movimento operaio internazionale, si notano una lunga serie di sconfitte tragiche e sanguinose. Qui per la prima volta, se si esclude il breve ma glorioso episodio della Comune di Parigi, la classe operaia riesce a rovesciare i propri oppressori e ad avviare il compito della trasformazione socialista della società. Come disse Rosa Luxemburg, furono gli unici che osarono. Osarono, ed ebbero un brillante successo. Questo è il “crimine” che non sarà mai perdonato ai bolscevichi dai borghesi e dai loro apologeti prezzolati. Ancora oggi la classe dominante vive nella paura mortale della rivoluzione e dedica non poche risorse a combatterla. In questo, il loro compito è stato ampiamente facilitato dai crimini dello stalinismo russo. Il tradimento degli ideali di Lenin da parte della burocrazia stalinista in Russia ha infine portato alla sua logica conclusione – la distruzione dell’Unione Sovietica e il tentativo della casta burocratica al potere di muoversi in direzione del capitalismo. Oggi, ottant’anni dopo la rivoluzione, tutte le conquiste dell’Ottobre vengono distrutte e rimpiazzate con la barbarie del “libero mercato”. Ma per la classe dominante non è mai sufficiente rovesciare una rivoluzione; devono sradicarne la memoria, ricoprirla di fango e menzogne. Per compiere questa prodezza hanno bisogno dei servigi di tutta quella schiera di accademici impazienti di farsi paladini dell’“economia del libero mercato” (leggasi: “il dominio delle grandi banche e monopoli”). Questo spiega l’odio cieco verso Lenin e Trotskij che ancora caratterizza gli scritti di tutti gli storici borghesi della rivoluzione russa, malcelato sotto una maschera di falsa imparzialità.

Come i borghesi “spiegano” l’Ottobre

Lo storico scozzese Thomas Carlyle, quando scrisse sul grande rivoluzionario inglese Oliver Cromwell, si rammaricò che prima di poter cominciare a mettere mano al foglio aveva dovuto disseppellire il cadavere di Cromwell da sotto una montagna di cani morti. La storia in generale non è imparziale, e meno di tutte la storia delle rivoluzioni. Fin dalla rivoluzione d’ottobre il partito bolscevico e i suoi dirigenti sono stati oggetto di un odio particolare da parte di tutte le forze ostili alla rivoluzione. Questo include non solo i borghesi e i socialdemocratici, ma anche ogni sorta di anarchici piccolo borghesi ed elementi semianarchici e, ultimi ma non per importanza, gli stalinisti che salirono al potere sul cadavere del partito di Lenin. È impossibile trovare una sola storia del partito bolscevico dignitosa da una qualsiasi di queste fonti. Nonostante le università occidentali continuino a macinare una serie infinita di libri su questo o quell’aspetto del movimento rivoluzionario russo, l’ostilità nei confronti del bolscevismo e una disposizione velenosa verso Lenin e Trotskij li pervadono dal primo all’ultimo.
La spiegazione più comune della rivoluzione d’ottobre che viene data dai libri di storia occidentali è che non fu affatto una rivoluzione, ma un semplice colpo di Stato compiuto da una piccola minoranza. Ma questa “spiegazione” non spiega proprio un bel nulla. Come spiegare il fatto che una manciata di “cospiratori”, che a marzo si contavano in non più di 8.000 uomini, furono in grado di guidare la classe operaia alla conquista del potere solo nove mesi più tardi? Ciò implicherebbe che Lenin e Trotskij fossero provvisti di poteri miracolosi. Ma ricorrere a presunti poteri miracolosi di alcuni individui come spiegazione di eventi storici ci lascia, di nuovo, senza una spiegazione e spinge il ricercatore verso l’unico luogo da dove il sovrumano (cioè, il sovrannaturale) può originarsi: verso, cioè, il regno della religione e del misticismo. Siamo ben lungi dal negare la vitale importanza dell’individuo nel processo storico. Gli eventi del 1917 sono forse la conferma più lampante del fatto che, in circostanze particolari, il ruolo dell’individuo è assolutamente decisivo. Senza Lenin e Trotskij, la rivoluzione d’ottobre non avrebbe mai avuto luogo. Ma non ci si può limitare a questa osservazione: gli stessi Lenin e Trotskij erano stati attivi nel movimento rivoluzionario per circa un ventennio prima della rivoluzione, eppure per gran parte di quel periodo non ebbero alcun ascendente tra le masse. Attribuire la vittoria dell’ottobre puramente al genio (benevolo o malevolo, a seconda dei punti di vista) di Lenin e Trotskij è chiaramente un’assurdità.

Le prove che la rivoluzione russa comportò uno slancio delle masse praticamente senza precedenti nella storia sono troppo voluminose per essere citate qui. Trent’anni fa, quando ero uno studente di laurea magistrale a Mosca, ricordo che ebbi una conversazione con una donna, al tempo molto avanti con gli anni, che aveva partecipato come militante del Partito bolscevico alla rivoluzione da qualche parte nella zona del Volga. Non riesco a ricordare il luogo esatto, e nemmeno il suo nome, ma ricordo che ella aveva trascorso 17 anni in uno dei campi di lavoro stalinisti, così come moltissimi altri bolscevichi. Quando le chiesi della rivoluzione d’ottobre, mi rispose con due parole che non possono essere tradotte adeguatamente: “Kakoi pod’yom!” La parola russa “pod’yom” non ha un equivalente inglese, ma significa qualcosa come “slancio spirituale”. “Che elevazione!” sarebbe una debole interpretazione di questa espressione, che, più di una montagna di statistiche, trasmette il trasporto con cui la massa della popolazione abbracciò la rivoluzione – non solo i lavoratori, i contadini poveri e i soldati, ma anche i migliori rappresentanti dell’intelligentsia (quella donna era stata una maestra di scuola). La rivoluzione d’ottobre attrasse tutti gli elementi migliori, vivi, progressisti e vitali della società russa. Ricordo come brillavano gli occhi di quella donna nel riportare alla mente la gioia e la speranza di quegli anni. Ancora oggi, quando la solita risma di cinici di professione si schierano per insozzare la memoria della rivoluzione d’ottobre, ripenso al viso di quella vecchia signora, profondamente segnato da lunghi anni di sofferenze, eppure radioso nei suoi ricordi, a dispetto di tutto quello che accadde in seguito a lei e alla sua generazione.
Un filone della storiografia borghese nell’ultimo periodo ha deciso di attaccare il bolscevismo resuscitando i suoi nemici politici, l’economicismo e in particolare il menscevismo. Uno di questi “resuscitati” è Solomon Schwarz. La sua tesi centrale è che “fondamentalmente il bolscevismo si appoggia sull’iniziativa di una minoranza di attivisti; il menscevismo, sull’attivazione delle masse.” Da questa falsa premessa l’autore deriva la naturale conclusione che “il bolscevismo sviluppò concezioni e pratiche dittatoriali; il menscevismo rimase scrupolosamente democratico.”2 Quest’opera dimostrerà che quest’asserzione è priva di fondamento. Dimostrerà che il Partito bolscevico fu caratterizzato dalla più estesa democrazia interna attraverso tutta la sua storia; la storia di un confronto tra idee e orientamenti in cui chiunque poteva parlare liberamente. La democrazia interna garantì l’ossigeno necessario per lo sviluppo delle idee che assicurarono infine la vittoria. Questo è ben altro rispetto ai regimi totalitari e burocratici dei partiti “comunisti” sotto Stalin.
Il prodotto più recente di questa scuola di storia antibolscevica è il libro di Orlando Figes La tragedia di un popolo. La rivoluzione russa 1891-1924 (Londra, 1996). Ci troviamo qui davanti a una rappresentazione della rivoluzione tratta direttamente dall’Inferno dantesco. Questo accademico rigoroso e imparziale descrive la rivoluzione d’ottobre in varie maniere: una “cospirazione”, un “colpo di Stato”, uno “scatenamento di ubriachi”. Fu “più che altro il risultato della degenerazione della rivoluzione urbana (?), e in particolare del movimento dei lavoratori, in quanto forza organizzata e costruttiva, con episodi di vandalismo, criminalità, violenza generalizzata e folli saccheggi come espressioni principali di questo collasso sociale.”3 Figes è ben consapevole che i disordini e le manifestazioni di ebbrezza perpetrati dagli elementi più arretrati furono rapidamente soffocati dai bolscevichi. Questi costituivano incidenti dalla natura episodica di nessuna importanza, eppure qui l’incidentale è presentato come l’essenza della rivoluzione. Naturalmente per un difensore “scientifico” dell’ordine costituito, l’essenza di ogni rivoluzione deve essere disordine, follia e caos. Cos’altro ci si può aspettare dalle masse? Sono troppo ignoranti e arretrate per ragionare, figuriamoci per governare. No, un compito di tale responsabilità deve essere lasciato a chi tra di noi è dotato di intelligenza. I manovali e gli acquaioli stiano al loro posto e lascino ai laureati dell’università di Cambridge la gestione della società.
Siamo forse ingiusti nei confronti del signor Figes? Forse non comprendiamo il messaggio del suo – alquanto voluminoso – scritto? Lasciamo parlare l’autore. Al congresso dei soviet, una maggioranza decisiva votò per trasferire il potere nelle mani dei soviet stessi. Ciò rappresenta un piccolo ostacolo per la tesi centrale di Figes, che (senza dar mostra di particolare originalità) sostiene che la rivoluzione d’ottobre fu un semplice colpo di Stato. Ma niente paura! Orlando ha la risposta a ogni dilemma. La ragione per cui le masse votarono in favore del potere sovietico fu che esse erano troppo ignoranti: “Le masse dei delegati che – scrive il signor Figes – erano probabilmente troppo ignoranti per comprendere l’importanza politica di ciò che stavano facendo, alzarono la mano per il voto in favore (non erano forse a favore del potere ai soviet?)”.4
Si noti incidentalmente che l’argomentazione secondo cui la maggioranza degli elettori è “probabilmente troppo ignorante” per comprendere le questioni politiche implicate nella votazione è un’argomentazione contro la democrazia in generale. Cosa sta tentando di dire Figes? Che fino al momento in cui i bolscevichi e i loro alleati non conquistarono una maggioranza nei soviet, gli operai e i soldati erano interamente consapevoli di ciò che veniva loro richiesto, ma che in ottobre divennero improvvisamente “probabilmente troppo ignoranti” per capire cosa stavano facendo? Una tesi del genere non convincerebbe nessuno. Che i delegati al congresso dei soviet non fossero laureati a Cambridge, purtroppo va riconosciuto. In compenso, qualcosa avevano imparato nel corso di una guerra sanguinosa e di nove mesi di rivoluzione. Sapevano bene ciò che volevano: pane, terra e pace. E sapevano che il governo provvisorio e i suoi sostenitori menscevichi e socialrivoluzionari non avevano concesso loro ciò che volevano. Impararono anche, nel corso dell’esperienza, che l’unico partito che avrebbe dato loro tutto ciò erano i bolscevichi. E tutto questo lo comprendevano abbastanza bene anche senza aver passato esami.
Ovviamente, chiunque ha diritto di scrivere di storia da un punto di vista controrivoluzionario. Ma in questo caso sarebbe molto meglio dichiarare dall’inizio che il vero intento è dimostrare che la rivoluzione non paga e, di conseguenza, convincere il lettore o la lettrice che farebbero molto meglio ad accettare il sistema capitalista, per paura di mali peggiori. Ma ahimè, le debolezze umane son quel che sono, e un’ammissione del genere sembra molto al di fuori dalla portata di questi storici.

La scuola stalinana delle falsificazioni

L’altra principale fonte per la storia del bolscevismo è l’enorme corpo letterario pubblicato al riguardo lungo i decenni in Unione Sovietica, sparso poi generosamente all’estero da parte dei partiti comunisti stalinizzati del passato. È egualmente impossibile ottenere da tutto questo un quadro veritiero della storia del bolscevismo. Poiché la burocrazia aveva usurpato il potere solo grazie ad una fase di riflusso in cui la classe lavoratrice esausta non era stata capace di mantenere il potere nelle proprie mani, essa a parole era costretta a lodare il bolscevismo e l’ottobre, esattamente come la Seconda internazionale rendeva il suo omaggio verbale al “socialismo” mentre portava avanti politiche borghesi, e il Papa di Roma a parole è un fedele seguace degli insegnamenti dei primi cristiani. La burocrazia al potere in Urss, mentre collocava il cadavere di Lenin in un mausoleo, tradiva tutti i principi fondamentali dell’ottobre e gli ideali di Lenin stesso, gettando sulla bandiera intonsa del bolscevismo sangue e sozzura. Per consolidare la propria posizione di usurpatrice, la casta dominante fu obbligata a sterminare la vecchia guardia bolscevica. Come ogni criminale, Stalin non voleva nessun testimone che potesse deporre contro di lui. Questo fatto bastò a determinare il destino di tutti i libri di storia in Urss.
Si afferma frequentemente che lo stalinismo e il bolscevismo sono in fondo la stessa cosa. In effetti questa è l’idea sottostante a tutte le calunnie degli storici borghesi del bolscevismo. Ma lo Stato operaio democratico di cui Lenin e Trotskij gettarono le basi nell’ottobre del 1917 non aveva nulla a che vedere con quella mostruosità totalitaria e burocratica presieduta da Stalin e dai suoi successori. La vittoria di Stalin e della burocrazia, risultato dell’isolamento della rivoluzione in condizioni di immensa arretratezza, povertà e analfabetismo, comportò l’abbandono in blocco degli ideali, delle tradizioni e dei metodi leninisti, oltre che la trasformazione della Terza internazionale da veicolo della rivoluzione mondiale a semplice strumento di politica estera per la burocrazia moscovita. Nel 1943, dopo essere stata cinicamente sfruttata per portare avanti la linea di Mosca, l’Internazionale comunista fu seppellita con ignominia, senza nemmeno convocare un congresso. Durante tutto questo periodo storico l’eredità politica e organizzativa di Lenin subì un colpo pesante. Questo fatto ha condizionato pesantemente l’opinione che molte persone si sono fatte della storia del bolscevismo. Persino scrittori benintenzionati (per non parlare degli altri) non possono fare a meno di far risalire a un passato precedente questo o quell’elemento degli orrori del successivo regime stalinista, orrori completamente estranei alle tradizioni democratiche del bolscevismo.
Per trionfare, lo stalinismo fu obbligato a cancellare fino all’ultima traccia del regime democratico instaurato dall’ottobre. Il Partito bolscevico aveva inscritto nel suo programma del 1919 le famose quattro condizioni per il potere sovietico:
– Elezioni libere e democratiche con diritto di revoca per tutti i funzionari
– Nessun funzionario deve percepire un salario più alto di quello di un operaio specializzato
– Nessun esercito permanente se non la milizia popolare
– Gradualmente tutti i compiti necessari al funzionamento dello Stato dovrebbero essere svolti da ognuno, a turno. Quando tutti sono burocrati, nessuno è un burocrate.
Queste condizioni necessarie, elencate nello Stato e Rivoluzione di Lenin, sono basate sul programma della Comune di Parigi. Come spiegò Engels, non si trattava più di uno Stato nel comune senso della parola, ma di un semi-stato, un regime di transizione che doveva spianare la strada alla trasformazione verso la società socialista. Questo era l’ideale democratico che Lenin e Trotskij misero in pratica dopo il rivolgimento dell’ottobre, che non aveva assolutamente nulla in comune con la mostruosità totalitaria e burocratica che lo sostituì sotto Stalin e i suoi successori. Di più, quest’ultimo regime poteva essere generato solo da una controrivoluzione politica, il che comportò l’eliminazione fisica del partito di Lenin nella guerra civile unilaterale contro il bolscevismo: i processi-farsa delle purghe degli anni ’30. Citiamo solo una cifra per avvalorare la nostra tesi. Giunti al 1939, del Comitato centrale di Lenin del 1917 erano rimasti vivi solo in tre: Stalin, Trotskij e Alexandra Kollontaj. Gli altri, esclusi Lenin e Sverdlov, morti per cause naturali, erano stati assassinati o spinti al suicidio. Kamenev e Zinovev furono giustiziati nel 1936. Bucharin, che Lenin aveva descritto come “il beniamino del Partito”, fu ucciso nel 1938. Lo stesso destino aspettava decine di migliaia di bolscevichi sotto Stalin. Una singola voce solitaria rimaneva a denunciare i crimini di Stalin e a difendere l’autentica eredità del bolscevismo. Quella voce fu messa a tacere nel 1940, quando Lev Trotskij, rivoluzionario fin dalla gioventù, dirigente dell’insurrezione d’ottobre e fondatore dell’Armata rossa, fu infine assassinato in Messico da uno degli agenti di Stalin.
A coloro che insistono nel voler identificare lo stalinismo con il leninismo abbiamo il diritto di chiedere: se i regimi di Lenin e Stalin erano davvero la stessa cosa, come si spiega che Stalin poté prendere il potere solo tramite l’eliminazione fisica dei militanti del Partito bolscevico?
Sotto Stalin e i suoi successori, tutto ciò che era connesso con la rivoluzione d’ottobre e la storia del bolscevismo fu ammantato da una fitta nebbia di distorsioni in quella mitologia ufficiale che dopo la morte di Lenin nell’Urss veniva fatta passare per storia. Le reali tradizioni del bolscevismo furono seppellite sotto uno spesso strato di menzogne, diffamazioni e alterazioni. Il legame tra il partito e la classe e, ancor più cruciale, tra il partito e i suoi dirigenti, veniva presentato nella forma di una caricatura burocratica. Le storie ufficiali sovietiche presentano un quadro estremamente semplicistico e unilaterale del legame tra il Partito bolscevico e il movimento di massa. Si crea l’impressione che ad ogni passo i bolscevichi fossero la forza al comando che guidava e indirizzava la rivoluzione con la facilità di un direttore che agita la bacchetta di fronte a un’orchestra obbediente e disciplinata. Da racconti del genere non si può imparare nulla, né sul Partito bolscevico, né sulla rivoluzione russa, né sulle dinamiche di una qualsiasi rivoluzione. Questo, ovviamente, non è certo un caso, dato che lo scopo della storiografia sotto il governo della burocrazia stalinista non era certo di insegnare al popolo come fare rivoluzioni, ma di magnificare la casta al potere e di tramandare il mito di una direzione infallibile alla testa di un partito infallibile, che nulla aveva da spartire con il partito di Lenin, eccetto il nome di cui si erano appropriati. Allo stesso modo le monarchie, e in particolare le dinastie che hanno usurpato il trono, tentano di riscrivere la storia per dipingere i propri predecessori come esseri illuminati e quasi sovrumani. È superfluo aggiungere che ogni riferimento a fatti realmente accaduti è puramente casuale.
Le vecchie storiografie staliniste sono virtualmente inutilizzabili come fonti. Dipingere la storia del bolscevismo come faceva questa gente– ossia come una linea retta in perfetta ascesa, lanciata irresistibilmente verso la presa del potere – significa lasciarsi alle spalle il campo della storia analitica e addentrarsi in quello delle agiografie. Io ho utilizzato qui una sola opera sovietica: i volumi della Istoriya KPSS (Storia del Pcus), pubblicata in Urss sotto il regime relativamente “liberale” di Nikita Kruscev a cavallo tra gli anni ’50 e ’60. Questa è probabilmente la storia più dettagliata del partito pubblicata in Unione Sovietica, utile per la quantità di materiale in essa contenuto, in gran parte proveniente da archivi di partito inediti. Ma nella sostanza rimane parziale tanto quanto le altre, e persino le informazioni basate sui fatti dovrebbero essere prese con le pinze.

“Ritiriamo le vostre menzogne usate!”

Non è questa la sede per trattare degli eventi in Russia dalla morte di Lenin ad oggi. Questo argomento è il tema del volume complementare all’opera presente, Russia, dalla rivoluzione alla controrivoluzione, cui già abbiamo fatto riferimento. Qui basti dire che l’isolamento della rivoluzione russa in condizioni di spaventosa arretratezza economica e culturale inevitabilmente portò dapprima all’ascesa di una casta dominante di burocrati privilegiati, che sradicò completamente le tradizioni del bolscevismo e annientò fisicamente il Partito bolscevico, e infine alla liquidazione delle uniche conquiste progressiste dell’ottobre che ancora resistevano: la nazionalizzazione dell’economia e la sua pianificazione. Il risultato, come era stato predetto da Trotskij nel 1936, è stato il più terribile collasso delle forze produttive e della cultura. Il popolo russo ha pagato un prezzo spaventoso in seguito al tentativo della burocrazia di trasformarsi in classe dominante e di consolidare i propri poteri e privilegi orientandosi verso il capitalismo.
Come già è stato anticipato, questo processo, raggiunta una certa fase, si scontrerà inevitabilmente con la resistenza della classe lavoratrice. Certo, questo scontro è stato ritardato. Come potrebbe essere altrimenti? I lunghi anni di regime totalitario, e di conseguenza il discredito per lo meno parziale delle idee comuniste e socialiste; l’enorme confusione e il disorientamento causati dal collasso dell’Urss; il tracollo senza precedenti delle forze produttive che ha stordito i lavoratori per tutta una fase; infine, cosa ancora peggiore, la mancanza di un reale partito comunista basato sul programma, sul metodo e sulle tradizioni di Lenin e Trotskij: tutti questi fattori hanno trascinato indietro il movimento. Oggi però le cose stanno cambiando in Russia. Nonostante la mancanza di direzione, la classe lavoratrice sta gradualmente tirando le somme della sua esperienza. Prima o poi il movimento operaio ridarà ferma priorità al bisogno di costruire sulla base di un programma, di una politica e di una direzione genuinamente leninista.
Con la caduta dello stalinismo, le vecchie storiografie sono cadute nell’oblio che meritavano, ma al loro posto è nata una nuova e ancora più odiosa forma di falsificazione contro il bolscevismo. Il movimento della Russia verso il capitalismo ha generato una nuova razza di “storici” impazienti di mettersi agli ordini dei nuovi padroni pubblicando ogni tipo di supposte “rivelazioni” sul passato. Il fatto che ciò che scrivono oggi contraddica interamente ciò che scrivevano ieri non sembra infastidirli in minima parte, dato che l’obbiettivo non è arrivare alla verità (né lo è mai stato), ma guadagnarsi il pane e far felice il Capo (che in questo caso è praticamente la stessa cosa). Per decenni queste creature hanno sfornato una dopo l’altra storiografie contraffatte del bolscevismo e della rivoluzione russa, ritraendo Lenin proprio come la chiesa ortodossa ritrae i suoi santi, con tanto di miracoli, e con altrettanta attendibilità scientifica. Hanno adulato quella burocrazia stalinista che li pagava profumatamente per produrre su ordinazione questa spazzatura, comportandosi in generale come servitori modello del regime totalitario. Ora il padrone è cambiato, ed essi fanno nuove acrobazie con l’entusiasmo di una bestia esibita al circo. Dallo sfornare panegirici di Stalin, Brežnev e Gorbacëv, oggi si sono invece specializzati nel cantare le lodi del “mercato”.
Questi moderni scrittori russi condividono i valori e la morale di tutti i “nuovi russi” – la morale del mercato, ovverosia della giungla. Per salvaguardare le nuove ricchezze, ottenute tramite il semplice espediente del saccheggio ai danni della popolazione russa, è necessario infangare il passato rivoluzionario della Russia, per paura che possa diventarne nuovamente il futuro. Proprio come si apre un promettente mercato in Russia per la pornografia e le Mercedes Benz, si possono fare soldi facili diffamando Lenin e la rivoluzione d’ottobre. E quando si parla di denaro, gli intellettuali “nuovi russi” non sono meno entusiasti di tutto il serraglio di ladri, speculatori e affaristi che oggi la fanno da padroni a Mosca. Sta nascendo un intero nuovo filone letterario composto dai seguenti elementi: un ex galoppino del partito o del Kgb “scopre” negli archivi una qualche “sorprendente nuova rivelazione” in relazione a Lenin. Questa viene poi presentata al vasto pubblico sotto forma di uno studio “erudito”, provvisto della firma di un qualunque accademico che possa investire il saggio di un’aura di “obiettività scientifica”. Dopo qualche mese, le “sorprendenti rivelazioni” vengono pubblicate in Occidente, dove vengono accolte da un coro d’approvazione. Infine, i commenti dei media occidentali sono riportati sulla stampa russa, ma non prima di essere stati abbelliti a dovere da aggiunte succose e interamente fittizie. In realtà, quasi nessuna di queste “rivelazioni” è una novità, e assolutamente nessuna è sorprendente, se non per la credulità dimostrata da certe persone nel voler prestar fede a qualsiasi cosa.
Tra le altre cose, Lenin viene accusato di avere proopugnato il ricorso alla violenza – durante la guerra civile! Cos’è la guerra, se non l’utilizzo della violenza per uno scopo o per l’altro, la continuazione della politica secondo il famoso aforisma di Clausewitz? Certo, la Bibbia ci informa che togliere la vita ad un uomo è peccato mortale. Ma questo comandamento non ha mai impedito a monarchi e politici cristiani di utilizzare i mezzi più violenti in favore dei loro interessi. Chi piange lacrime di coccodrillo sulla sorte dello zar Nicola dimentica opportunamente la crudeltà sanguinaria che fu il segno distintivo del suo governo fin dal primo giorno. Forse costoro saranno sorpresi di apprendere che la rivoluzione d’ottobre fu un evento relativamente pacifico, e che il terribile bagno di sangue che ne scaturì occorse solo in seguito alla ribellione degli schiavisti delle Guardie bianche, con l’appoggio dalle potenze imperialiste mondiali. Nei tre anni successivi alla rivoluzione d’ottobre, la Russia fu invasa da non meno di 21 eserciti stranieri: britannici, francesi, tedeschi, americani, polacchi, cechi, giapponesi e così via. Come sempre, quando si tratta di reprimere una rivolta degli schiavi, la classe dominante agisce con la crudeltà più agghiacciante. Ma questa volta andò diversamente; gli ex schiavi non si arresero docilmente, ma contrattaccarono e vinsero.
La violenza dei latifondisti e dei capitalisti fu affrontata con la violenza dei contadini e dei lavoratori oppressi. È questo che non possono perdonare. Trotskij organizzò la classe operaia nell’Armata Rossa e unendo abilità militare, coraggio e una politica internazionalista e rivoluzionaria, trionfò e sconfisse tutte le forze della controrivoluzione. Questo comportò senza dubbio l’utilizzo della violenza, deviando quindi purtroppo dai dettami del Sermone della Montagna. I nemici della rivoluzione se ne fingono orripilati. Le stesse persone che diffamano il ricordo di Lenin e Trotskij non battono ciglio nel menzionare un presidente americano che ordina di sganciare una bomba atomica sulla popolazione civile di Hiroshima e Nagasaki, o un Primo ministro inglese che ordina di incenerire uomini, donne e bambini nel bombardamento a tappeto di Dresda. Azioni del genere non solo sono perfettamente accettabili, ma anche degne di elogio (“abbreviarono la durata della guerra e ridussero le perdite alleate…”). Gli organizzatori della campagna contro Lenin e i bolscevichi sono perfettamente consapevoli che la rivoluzione d’ottobre combatteva una disperata guerra di autodifesa. Sono consapevoli che, se avessero vinto i Bianchi, essi avrebbero instaurato in Russia la più feroce dittatura e i lavoratori e i contadini ne avrebbero pagato il terribile prezzo. Pertanto le ciance sulla cosiddetta violenza di Lenin devono essere riconosciute per quello che sono: cinismo e ipocrisia del più infimo ordine.
Non valgono di più gli storici che dipingono i bolscevichi come agenti pagati dall’“oro tedesco”. Queste calunnie non sono solo infondate, ma francamente stupide. Se Lenin fosse davvero stato un agente dell’imperialismo tedesco sarebbe impossibile spiegare il comportamento sia di Lenin che dell’esercito tedesco nel periodo successivo all’ottobre. In realtà, non erano Lenin e i bolscevichi a sperare in un intervento militare tedesco in Russia nel 1917, ma la stessa borghesia russa. Ci sono testimonianze in abbondanza ad affermare che la classe possidente in Russia avrebbe preferito consegnare Pietrogrado ai tedeschi piuttosto che vederla cadere nelle mani dei bolscevichi.
Certo, i generali tedeschi speravano che il ritorno di Lenin in Russia avrebbe contribuito a destabilizzare lo zarismo e a indebolirlo militarmente. Non è insolito per le potenze imperialiste vedere nei disordini interni un mezzo per indebolire il nemico. Allo stesso modo è dovere dei rivoluzionari volgere a proprio favore tutte le contraddizioni tra gli imperialisti per portare avanti la causa rivoluzionaria. Lenin era ben consapevole delle macchinazioni di Berlino. Fu questa la ragione per cui, quando la Francia e la Gran Bretagna gli negarono il passaggio attraverso i territori alleati, e fu quindi costretto a tornare in Russia attraverso la Germania, impose le condizioni più severe, specificando che nessuno avrebbe potuto salire o scendere dal suo treno durante il viaggio. Sapeva che i nemici del bolscevismo l’avrebbero bollato come “agente dei tedeschi”, e prese dunque le necessarie precauzioni per anticipare e rispondere a questa menzogna.
Come Trotskij spiegò anni dopo di fronte alla Commissione Dewey: “Parlò francamente agli operai, durante la prima riunione del soviet a Pietrogrado: ‘La mia situazione è questa. L’unica via possibile era attraverso la Germania. Quel che spera Ludendorff è affar suo, io ho i miei obiettivi, completamente diversi. Vedremo chi sarà vincitore.’ Spiegò ogni cosa. Non nascose nulla. Lo disse di fronte al mondo intero. Era un rivoluzionario onesto. Naturalmente, gli sciovinisti e i patrioti lo accusarono di essere una spia tedesca, ma nel suo rapporto con la classe lavoratrice fu assolutamente irreprensibile.”5
Durante tutta la Prima guerra mondiale non solo i tedeschi, ma anche gli Alleati usarono i loro lacchè all’interno del movimento operaio per comprarsi l’appoggio di gruppi di sinistra all’estero. Ma asserire che i tedeschi si erano comprati i bolscevichi pagandoli in oro e che esisteva una effettiva alleanza tra i bolscevichi e l’imperialismo tedesco non solo è mostruoso, ma estremamente stupido. È in completa contraddizione con ogni singolo fatto conosciuto riguardo la condotta politica dei bolscevichi sia durante che dopo la guerra. Ad esempio, Volkogonov tenta di dimostrare che il denaro tedesco raggiunse i bolscevichi tramite la Svezia, quando è facilmente dimostrabile che Šljapnikov, il rappresentante dei bolscevichi in Svezia, denunciò pubblicamente le attività dell’ala filotedesca della socialdemocrazia svedese e si rifiutò di avere contatti con l’agente tedesco Troelstra, mentre l’atteggiamento di Lenin nei confronti di Parvus durante la guerra è documentato nel capitolo relativo all’argomento di questo libro. Si potrebbe proseguire a lungo in merito alle menzogne e alle distorsioni del signor Volkogonov, ma, come dice il proverbio russo, uno sciocco può fare più domande di quante risposte non possano dare cento uomini saggi. C’è del vero in questa osservazione, valida per gli sciocchi come pure per le persone con intenzioni meno candide.

Il leninismo e il futuro

Dopo la caduta del muro di Berlino, i critici borghesi del marxismo hanno sperimentato un periodo di giubilo, ma tutta la loro euforia è finita rapidamente in cenere. La crisi del capitalismo si riflette, allo stadio odierno, nel pessimismo dei suoi strateghi. Con l’approfondirsi della crisi, però, essa si rifletterà anche nella crisi delle organizzazioni di massa del movimento operaio, che negli ultimi decenni sono state attraversate da un processo di degenerazione burocratica ancora peggiore di quello che colpì la Seconda internazionale nel periodo precedente al 1914. Per lungo tempo questi dirigenti hanno trattato il marxismo come un cadavere, accogliendo a braccia aperte il mercato e tutte le ultime ricette economiche della borghesia. La vitalità apparente del riformismo di destra nel dopoguerra, per lo meno nelle nazioni a capitalismo avanzato, è stata un mero indice del fatto che il capitalismo attraversava un periodo di espansione prolungata, simile a quello del ventennio precedente alla Prima guerra mondiale. Ma questa fase è oggi agli sgoccioli. Oggi, proprio mentre ultimiamo il capitolo conclusivo, giungono da ogni dove le notizie di una crisi incipiente del capitalismo a livello mondiale.
È dal 1945 che il mondo non si trova in un simile stato di fermento. Molto tempo fa Marx ed Engels predissero che il capitalismo si sarebbe sviluppato come sistema a livello mondiale. Oggi questa previsione si è rivelata corretta, con una precisione prossima a quella di un esperimento di laboratorio. Il dominio schiacciante del mercato mondiale è il tratto più impressionante della nostra epoca. Il trionfo della globalizzazione è stato annunciato come la vittoria definitiva dell’economia di mercato. Ma questa vittoria porta dentro di sé i germi della catastrofe. Piuttosto che superare le contraddizioni insite nel capitalismo, la globalizzazione si limita a creare un palcoscenico infinitamente più grande dove queste contraddizioni possono manifestarsi. In Asia la recessione profonda si manifesta come un’accumulazione senza precedenti di merci invendute (sovrapproduzione, o “sovraccapacità”) ed è accompagnata dalla paralisi di quello che una volta era il motore primario della crescita economica mondiale, il Giappone. Dall’altra parte del mondo, l’impennata fuori controllo della Borsa fa serpeggiare la paura di un crollo finanziario negli Stati Uniti. L’inquietudine della borghesia trova la sua espressione nei continui campanelli d’allarme nelle Borse del globo.
La vecchia disputa sulla presunta superiorità dell’“economia di libero mercato” oggi suona come una battuta di pessimo gusto alle orecchie di milioni di persone. Dietro la parola d’ordine della “privatizzazione”, grandi banche e monopoli si danno al saccheggio dello Stato; dietro quella della “liberalizzazione” costringono la debole borghesia dei paesi ex coloniali in Asia, Africa e America Latina ad aprire i mercati alle esportazioni occidentali, con le quali non è in grado di competere. è questa la vera causa del cronico indebitamento del Terzo mondo e della crisi permanente che affligge due terzi della popolazione mondiale. Dovunque assistiamo a guerre, conflitti per il controllo di mercati e di frontiere arbitrarie, pagate a caro prezzo dai popoli trascinati nella crisi mondiale del capitalismo. La situazione attuale ricorda molto più da vicino quella in cui si trovava il mondo cento anni fa, che non il periodo di relativa stabilità successivo alla Seconda guerra mondiale. Le convulsioni in Asia, Africa e America Latina non sono così distanti come sembrano dall’Europa o dall’America del Nord. Lo smembramento della Jugoslavia e le sue disastrose conseguenze dimostrano che questi stessi processi possono coinvolgere i popoli dell’Occidente “civilizzato”, a meno che la legge della giungla del capitalismo non venga eliminata e rimpiazzata con un sistema armonioso su scala mondiale.
Paradossalmente, il principale detonatore della crisi attuale è stato lo spettacolare fallimento delle politiche di “libero mercato” in Russia. Ciò rappresenta un punto di svolta importante non solo per la Russia in sé, ma per il mondo intero. La temporanea atmosfera di euforia che si respirava tra gli strateghi del capitale dopo la caduta del muro di Berlino si è sciolta come neve al sole; al posto delle vecchie odi alla morte del marxismo, del socialismo e del comunismo, oggi la musica è ben diversa. Gli scritti degli economisti e politici borghesi sono pieni zeppi di presagi e tetri moniti sulla minaccia di un ritorno al passato. In Russia si prepara un’esplosione sociale che porrà all’ordine del giorno il ritorno alle tradizioni del 1917; su scala mondiale, la crisi del capitalismo è prossima ad entrare in una nuova e più convulsa fase. La rivoluzione in Indonesia è solo il primo atto di un dramma che si dipanerà nei prossimi mesi e anni e toccherà non solo l’Asia, l’Africa e l’America Latina, ma anche l’Europa e il Nord America.
La Russia non sarà il fanalino di coda di questo risorgimento rivoluzionario. Lenin amava citare il proverbio russo “la vita insegna”. Il tentativo di passare ad un’economia capitalista in Russia è stato una lezione brutale, ma oggi il pendolo comincia a oscillare nella direzione inversa. Le preoccupazioni dei capitalisti e dei loro sostenitori occidentali sono giustificate: se i dirigenti del Pcfr (Partito comunista della federazione russa) fossero veri leninisti, i lavoratori russi sarebbero oggi alla vigilia della presa del potere. La classe lavoratrice odierna è cento volte più forte che nel 1917. Una volta che si metterà in moto, nulla potrà fermarla. Il problema, come nel febbraio 1917, è la mancanza di dirigenti adeguati. Il ruolo che Zjuganov riveste è peggiore di quello giocato dai menscevichi nel 1917. In tutti i discorsi e gli articoli dei dirigenti del Pcfr non c’è un granello delle idee di Lenin e del Partito bolscevico. È come se non fossero mai esistiti. Questo è l’indice di quanto la reazione stalinista contro l’ottobre abbia fatto arretrare le posizioni del movimento. Si può indurre una rigenerazione del movimento operaio russo solamente attraverso un ritorno alle genuine tradizioni del bolscevismo. La storia del bolscevismo rimane il modello classico dove studiare la teoria e la pratica marxista nella loro lotta per la conquista delle masse. È necessario tornare a Lenin, e anche alle idee dell’uomo che, insieme a Lenin, fu alla testa della rivoluzione d’ottobre e ne garantì il successo, Lev Trotskij.
La condotta della direzione non può arginare il movimento per sempre. I lavoratori si sforzano di trovare una via d’uscita alla crisi attraverso la loro azione di classe. Così facendo, riscoprono le tradizioni rivoluzionarie del passato – le tradizioni del 1905 e del 1917. Il riemergere dei soviet, seppure sotto diversi nomi, comitati d’azione, comitati di sciopero, comitati di salvezza, è una chiara prova che il proletariato russo non ha dimenticato il proprio retaggio rivoluzionario. Il movimento avanzerà e crescerà, a dispetto di Zjuganov e compagnia – con i suoi inevitabili alti e bassi. Non è forse sempre stato così? Questo è precisamente l’insegnamento di questo libro. C’è anche un’altra lezione che non bisogna mai dimenticare. Nulla può spezzare la volontà inconscia della classe lavoratrice di trasformare la società. Il bolscevismo è semplicemente l’espressione cosciente degli sforzi, inconsapevoli o semiconsapevoli, del proletariato di cambiare le proprie condizioni basilari di esistenza. Nessuna forza al mondo può impedire il risveglio inevitabile dei lavoratori russi. Dovrà passare un certo arco di tempo, ma la nuova generazione riscoprirà attraverso l’esperienza la via per tornare al bolscevismo. Le tradizioni sono ancora presenti e la rivoluzione troverà la sua strada.

Giugno 1999

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