Rivoluzione n° 17-18
16 Aprile 2016
Cina, nuovo crocevia della crisi?
18 Aprile 2016
Rivoluzione n° 17-18
16 Aprile 2016
Cina, nuovo crocevia della crisi?
18 Aprile 2016
Mostra tutto

Hobsbawm, un marxista?

di Alan Woods

 

Parte prima

La notizia della morte di Eric Hobsbawm il primo ottobre 2012, ha provocato un’esplosione senza precedenti di elogi e adulazione nei media borghesi. Nelle ultime settimane, il diluvio di necrologi ossequiosi ha superato ogni limite. È stato variamente descritto come “l’intellettuale e storico britannico più letto, influente e rispettato della tradizione marxista”, “lo storico marxista più illustre della Gran Bretagna” e anche “uno degli storici più importanti del XX secolo”.

I militanti di sinistra che sono stati impressionati da questo coro assordante dovrebbero riflettere attentamente sulle parole attribuite al marxista tedesco August Bebel: “che cosa ha fatto di male il vecchio Bebel, da elogiarmi così?”. Bisogna domandarsi: perché il sistema dovrebbe dare tanta importanza a uno storico marxista appena morto?

Già molto tempo prima della sua morte, questo storico britannico era divenuto il beniamino della borghesia. Già nel 2002, Hobsbawm era stato descritto dalla rivista della destra Tory The Spectator come “senza dubbio il nostro più grande storico vivente, non solo della Gran Bretagna, ma del mondo.” Giorgio Napolitano, già leader della destra del Pci e ora finito al Quirinale, ha inviato i suoi auguri per i 95 anni di Hobsbawm, così come con l’ex presidente brasiliano Lula.

È impensabile che la borghesia scriva in termini così entusiastici di qualcuno che ha veramente difeso le idee del marxismo. È sufficiente pensare alla campagna di calunnie velenose e vendicative che anche i più rispettabili “accademici” borghesi hanno riversato su Lenin e Trotskij anche molto tempo dopo la loro morte per rendersene conto.

La soluzione a questo paradosso non è difficile da trovare. Il fatto è che Eric Hobsbawm ha cessato di essere marxista anni fa, se mai lo è stato. Aveva da tempo abbandonato ogni pretesa di lottare per il socialismo e aveva accettato il capitalismo come un fatto della vita di cui ci si può pentire ma che non si può sperare di cambiare.

Il sistema non adulerebbe mai un vero marxista, ma non vede l’ora di promuovere l’immagine di un uomo che da tempo è diventato “rispettabile” dal suo punto di vista. Per la classe dominante, gli studiosi come Hobsbawm sono utili come “marxisti addomesticati” per cui il socialismo e la rivoluzione sono parole da pronunciare seduti comodamente in poltrona.

Queste persone sono utili proprio perché non sono una minaccia per nessuno. Le uniche persone che possono spaventare sono quei vecchi fossili che leggono il Daily Mail (quotidiano conservatore britannico, Ndt) e guardano ansiosi sotto il letto ogni sera prima di andare a dormire per paura di trovarci un comunista.

La classe dominante, che non è così impressionabile e ha naso per queste cose, ha immediatamente riconosciuto in questo ex-comunista un alleato prezioso nella lotta contro il marxismo e il comunismo. È giunto il momento di togliere a questo santo un po’ particolare la sua aura e chiedersi: chi era Eric Hobsbawm e che cosa rappresentava?

I primi anni


Eric Hobsbawm è nato nel 1917 ad Alessandria d’Egitto. I suoi genitori provenivano dalla piccola borghesia ebraica. Suo padre era un commerciante britannico di nome Leopold Obstbaum. Il nome Hobsbawm sembra essere stato il risultato di un errore dell’ufficio dell’anagrafe. Suo padre morì quando aveva dodici anni, e sua madre è morta due anni dopo.

Divenuto orfano, Eric visse per un certo tempo con uno zio a Berlino. Erano tempi burrascosi. Il crollo di Wall Street del 1929 aprì le porte alla depressione in Europa centrale, con la disoccupazione di massa e l’intensificazione della lotta di classe. In Germania, fu il periodo burrascoso che precedette l’ascesa di Hitler al potere.

Nella sua autobiografia, pubblicata quando aveva 85 anni, Eric Hobsbawm scrisse: “appartengo alla generazione per la quale la Rivoluzione d’Ottobre ha rappresentato la speranza del mondo”. Nel 1931, all’età di 14 anni, si iscrisse al Partito comunista o, per essere precisi, alla sua organizzazione studentesca, il Schülerbund Sozialistischer (Associazione degli studenti socialisti).

A quel tempo era logico che molti ebrei, minacciati dal fascismo e dall’antisemitismo, si trovassero in sintonia con il comunismo e l’Unione Sovietica. Il fatto che guardasse alla Rivoluzione russa come una via d’uscita va, naturalmente, a suo merito. Ma ciò che nel pensiero del giovane Eric era “comunismo” era in realtà una caricatura burocratica e totalitaria del comunismo. A questo è stato fedele per il resto della sua vita.

Gli stalinisti svolsero un ruolo disastroso nell’ascesa di Hitler. Il movimento operaio tedesco era il più forte del mondo ma, nel momento della verità, Hitler si potè vantare di aver preso il potere “senza rompere una finestra”. Ciò perché la classe operaia fu paralizzata dalla spaccatura criminale tra i lavoratori socialdemocratici e comunisti. Il risultato fu la sconfitta più catastrofica nella storia della classe operaia tedesca.

Trotskij spiegò instancabilmente che il fronte unico era la sola via per sconfiggere Hitler e preparare la strada per la vittoria della classe operaia. Ma gli stalinisti respinsero sdegnosamente la proposta. Dedicavano le loro energie alla lotta contro i socialdemocratici come il “nemico principale”.

I dirigenti del Pc tedesco incitavano i lavoratori comunisti a picchiare i lavoratori socialisti e disperdere le loro riunioni, anche arrivando all’assurdo di incitare i bambini ad attaccare i figli dei socialdemocratici (“Picchia i piccoli Zoergiebel1 nelle scuole e nei parchi giochi”).

Come diretta conseguenza di questa politica criminale, nel 1933 i nazisti salirono al potere. Eppure il giovane Eric aveva un atteggiamento acritico verso lo stalinismo, che vedeva erroneamente come la continuazione delle tradizioni della Rivoluzione d’Ottobre. In un periodo in cui l’Europa e gli Stati Uniti erano devastati dalla disoccupazione di massa, i primi piani quinquennali registravano successi impressionanti.

Essendo molto giovane, Hobsbawm non aveva probabilmente mai sentito parlare di Trotskij ed era a mala pena consapevole delle politiche disastrose del Pc tedesco, o del ruolo criminale che Stalin e la burocrazia di Mosca giocarono nella catastrofe tedesca.

Hobsbawm storico



Poco dopo la salita al potere di Hitler, Eric lasciò Berlino per una più sicura Londra. Nel 1935 vinse una borsa di studio a Cambridge, dove il Partito comunista aveva molti simpatizzanti. Erano gli anni in cui Mosca reclutava spie poi famose come Philby, Burgess e MacLean. Al King’s College Eric venne coinvolto nelle attività della sezione universitaria del partito.

Il Pc britannico aveva nei suoi ranghi molti intellettuali di talento: gli storici Christopher Hill, George Thomson e EP Thompson, il classicista Benjamin Farringdon, l’artista Anthony Blunt, il poeta Christopher Caudwell, il famoso biologo JBS Haldane e molti altri. Erano attratti dagli ideali dell’Ottobre e dagli impressionanti progressi economici e culturali dell’Unione Sovietica.

Dopo aver ottenuto un dottorato di ricerca a Cambridge, nel 1947 Hobsbawm venne nominato docente di storia al Birkbeck College di Londra. Ebbe la fortuna di garantirsi questo posto poco prima della crisi di Berlino del 1948 che produsse una intensificazione della guerra fredda. Pubblicò il suo primo libro nel 1948. Il suo primo lavoro importante, “I Ribelli. Forme primitive di rivolta sociale”, nel 1959, sui banditi dell’Europa meridionale, fu pubblicato con lo pseudonimo di Francis Newton.

In tutto, Hobsbawm ha scritto più di trenta libri e questi lavori gli sono valsi la sua reputazione e la sua considerevole posizione a sinistra. Questa reputazione non è del tutto immeritata. Vediamo qui un uomo che scriveva di storia non in termini di re, regine e uomini di Stato, ma di forze economiche e sociali che in ultima istanza sono le forze motrici della storia. Questo va a suo merito e spiega la sua fama negli ambienti di sinistra a livello internazionale.

Tuttavia, va detto che i suoi libri sono di qualità e interesse alterni. Nella sua opera più tarda si vede un netto calo. Anche nelle sue opere migliori, tuttavia, ci sono alcune debolezze. Come succede a molti storici stalinisti, la sua versione della storia tende a sopravvalutare l’elemento economico e a presentarlo come un fattore causale diretto del processo storico, cosa contro cui Marx ed Engels hanno ripetutamente messo in guardia.

Piuttosto che un marxista, Hobsbawm era un prodotto della scuola empirista inglese, con i suoi punti forti e deboli. La scuola empirista è caratterizzata da un ampio uso di fatti e cifre, che è la sua forza. È probabile che la ricchezza di fatti e cifre nei suoi libri sia in gran parte responsabile del suo successo nei paesi latini, dove non c’era la stessa tradizione rigorosa di presentare dati e numeri in opere accademiche. Non per nulla Marx caratterizzava la Gran Bretagna come “il paese delle statistiche”.

Per citare solo un esempio, Hobsbawm ha fornito un sostegno statistico all’idea di Marx che la rivoluzione industriale avvenne a spese del tenore di vita della classe operaia, una visione che contraddiceva la linea prevalente degli accademici borghesi che affermavano che l’industrializzazione lo avesse migliorato. In questo senso, si può dire che il suo lavoro è stato influenzato dal marxismo, e ha dato un contributo utile, almeno nel primo periodo.

Tuttavia, la debolezza anche delle sue opere migliori è abbastanza tipica della scuola storica britannica e della tradizione intellettuale del paese a cui manca la visione ampia e dinamica che nasce da una profonda comprensione della dialettica. Lo stesso metodo meccanico e non dialettico è stato una caratteristica comune a molti vecchi storici stalinisti; esso produce l’impressione di un processo graduale e ininterrotto, e totalmente privo di qualsiasi spirito rivoluzionario. In tal modo si sottolineavano i fattori economici, mentre la lotta di classe era presentata in modo accademico, dal di fuori, non da uno che vi partecipi, ma come un osservatore passivo, ciò che Hobsbawm era, e rimase per tutta la vita.

Almeno nei suoi primi lavori, almeno, si poneva da un punto di vista rivoluzionario.Nelle sue ultime opere, invece, ha sparso generosamente uno scetticismo dannoso. Questo ex stalinista ha concluso la sua vita come membro rispettabile dell’establishment, esplicitamente ostile alla rivoluzione in tutte le sue manifestazioni.

Un processo di degenerazione


Hobsbawm cominciò la sua carriera lavorando sul XIX secolo. Le sue opere più note sono quelle che si occupano di quel periodo, come “L’Età della Rivoluzione. 1789-1848” (1962), “Il Trionfo della Borghesia. 1848-1875” (1975) e “Studi di storia del movimento operaio”2. Questi sono diventati libri di testo per tutti i docenti di storia di sinistra. Hanno creato la sua reputazione, e se non avesse più scritto, tale reputazione sarebbe stata, almeno in parte, meritata.

Questi primi libri forniscono un’introduzione accettabile allo sviluppo del capitalismo nel XVIII e XIX secolo e hanno certamente fornito un’introduzione alla comprensione materialistica dello sviluppo del capitalismo del XIX secolo a diverse generazioni di studenti di storia, e in questo senso, li raccomandiamo. Ma da quel momento in poi la qualità è andata crollando.

Un decennio più tardi, quando uscì “L’età degli imperi” (1987), si era al culmine del periodo della Thatcher. Anche se vi sono riferimenti sporadici alle idee di Lenin, il libro è caratterizzato da scetticismo, pessimismo e cinismo. In altre parole, è una chiara esternazione di un intellettuale che si accinge a rompere con il socialismo, ma non è ancora pronto ad ammetterlo.

I suoi scritti più recenti non hanno alcun valore, sia come opere di storia che di politica o anche di letteratura. In particolare, “Il secolo breve” (1994), che pretende di coprire gli otto decenni dalla Prima guerra mondiale al crollo dell’Urss, e che naturalmente è stato acclamato dalla stampa borghese, è del tutto inutile. È scritto male e completamente privo di una seria analisi di nessuno dei grandi temi che cita.

Ciò che colpisce del libro non è solo ciò che viene detto, ma ciò che non viene detto. È, infatti, una raccolta di aneddoti impreziositi da giudizi superficiali del tipo più filisteo. In una parola, appartiene al tipo di storiografia fatta di gossip che Hobsbawm disprezzava nella sua giovinezza.

Il titolo stesso è sufficiente per capire il suo significato essenziale, la visione piccolo-borghese che tutti gli “estremi” sono cattivi. Vedremo più avanti dove questa prospettiva portò Hobsbawm alla fine della sua vita. Per il momento, ci limiteremo a una critica di Hobsbawm come storico.

Per esempio, nell’opera si parla della vittoria di Hitler, ma è impossibile comprendere il motivo per cui il potente movimento operaio tedesco rimase paralizzato di fronte al nazismo se non si spiega il ruolo disastroso della leadership sia della socialdemocrazia sia, soprattutto, degli stalinisti che deliberatamente divisero la classe operaia. A questo proposito, tuttavia, il “professore rosso” si barcamena in modo molto attento:

Il rafforzamento della destra radicale è stato facilitato, almeno durante il periodo peggiore della recessione, dalle spettacolari battute d’arresto della sinistra rivoluzionaria. Lungi dall’avviare un periodo di rivoluzione sociale, come si aspettava l’Internazionale comunista, la depressione indebolì il movimento comunista internazionale al di fuori dell’Urss a livelli senza precedenti. Questo è certamente dovuto in qualche misura alla politica suicida del Comintern, che non solo sottovalutò gravemente il pericolo del nazionalsocialismo in Germania, ma perseguì una politica di isolamento settario che sembra quasi incredibile, a posteriori, ritenendo che il suo nemico principale fossero le organizzazioni di massa socialdemocratiche e i partiti operai (descritti come ‘social-fascisti’)”.

Con queste poche righe, che appaiono quasi come una nota a piè di pagina o un ripensamento, Hobsbawm cerca di minimizzare il ruolo del Partito comunista nel consegnare la vittoria ai nazisti. Non fu la depressione economica a “ridurre il movimento comunista internazionale al di fuori l’Urss a uno stato di debolezza senza precedenti”, ma la linea criminale ultra-sinistra del Comintern, a sua volta dettata da Stalin come parte della sua lotta contro il “trotskismo” in Russia.

Così non fornisce alcuna spiegazione della teoria stalinista del “socialfascismo” o del “Terzo Periodo”. Dice solo che “sembra abbastanza incredibile a posteriori” e che “in qualche misura” è stata responsabile per la sconfitta degli operai tedeschi. Questo è estremamente disonesto. In effetti, Hobsbawm sta cercando di sminuire il ruolo disastroso dello stalinismo in Germania, la cui politica è stata la causa centrale (non solo “in qualche misura”) della vittoria di Hitler. Questa piccola “caduta” non è un caso isolato. Ce ne sono in ogni pagina.

Per quanto riguarda il suo ultimo libro, apparso nel 2011 con il titolo, modesto, “Come cambiare il mondo”, meno ne parliamo meglio è.

Hobsbawm e la Spagna

Ne “Il secolo breve” Hobsbawm sostiene la tesi stalinista sulla rivoluzione spagnola e il fronte popolare in Francia, per non parlare dei movimenti di resistenza in Grecia e in Italia. In particolare, l’analisi della rivoluzione spagnola del 1930 è un caso molto chiaro di distorsione stalinista della storia. Attaccando il film di Ken Loach “Terra e libertà”, scrive:

“Oggi è possibile vedere la guerra civile, il contributo della Spagna alla tragica storia del più brutale dei secoli, il ventesimo, nel suo contesto storico. Non fu, come ha scritto il neoliberista François Furet, una guerra sia contro l’ultra-destra sia contro il Comintern – una visione condivisa, da un punto di vista settario trotskista, nel potente film di Ken Loach Terra e libertà (1995). L’unica scelta era tra due parti, e l’opinione pubblica liberal-democratica ha scelto a stragrande maggioranza l’antifascismo.” (La guerra delle idee, 17 febbraio 2007, The Guardian).


Questo giudizio è una distorsione storica e un completo abbandono del marxismo. Possiamo far rispondere l’autore a se stesso. Ne “L’età della rivoluzione”, scritto in un momento in cui i suoi libri avevano ancora una vaga parvenza di marxismo, si legge quanto segue:

Più e più volte vedremo moderati riformatori borghesi mobilitare le masse contro una forte resistenza o la contro-rivoluzione. Vedremo le masse che si spingono al di là delle finalità dei moderati verso una rivoluzione sociale e i moderati, a loro volta, suddividersi in un gruppo conservatore che comincia a fare causa comune con i reazionari, e un gruppo di sinistra determinato a proseguire gli obiettivi moderati ancora irrealizzati con l’aiuto delle masse, anche a rischio di perdere il controllo su di esse. E così via attraverso ripetizioni e variazioni del modello di resistenza – mobilitazioni di massa, svolte a sinistra, rotture con i moderati e spostamenti a destra–, fino a quando la maggior parte della classe media passava al campo conservatore o era sconfitta dalla rivoluzione sociale. Nella maggior parte delle rivoluzioni borghesi successive, i liberali moderati dovettero tirarsi indietro e allearsi molto presto con i conservatori. Infatti nel XIX secolo vediamo sempre (soprattutto in Germania) che non vogliono affatto iniziare la rivoluzione, per paura delle sue conseguenze incalcolabili, preferendo un compromesso con il re e l’aristocrazia.” (“L’età della Rivoluzione” 1789-1848).

Scriveva bene Hobsbawm nel 1962! Capiva bene le dinamiche interne delle rivoluzioni che si sono verificate in un lontano passato! Ma come possiamo far quadrare questa accurata analisi con ciò che ha scritto dopo la rivoluzione in Spagna, che si riduce a una semplice scelta tra fascismo e il sostegno per i repubblicani borghesi liberali?

Non solo Marx ma soprattutto Lenin hanno spiegato molte volte che, dopo il 1848, i liberali borghesi hanno sempre svolto un ruolo nefasto e hanno tradito la rivoluzione, per paura del proletariato. Non avevano che disprezzo per i piccolo-borghesi “progressisti”, da essi considerati nella migliore delle ipotesi come alleati inaffidabili e nel peggiore come traditori della causa rivoluzionaria.

Lenin attaccava continuamente i borghesi liberali russi per i loro tradimenti e la loro vigliaccheria. Ha sempre invocato una totale separazione da tali correnti come condizione preliminare per il successo della rivoluzione. E qui Lenin non si riferiva alla rivoluzione socialista, ma alla stessa rivoluzione democratica borghese.

Occorre ricordare che i compiti della rivoluzione democratico-borghese in Russia sono stati assolti non attraverso l’alleanza con i liberali borghesi, ma contro di loro. La Rivoluzione d’Ottobre è stata condotta dalle sole forze autenticamente rivoluzionarie in Russia: gli operai e i contadini poveri. Non i bolscevichi ma i menscevichi sostenevano l’alleanza con i liberali borghesi. La politica degli stalinisti in Spagna nel 1930 era semplicemente un’orrenda caricatura del menscevismo.

La vittoria di Franco in Spagna non era un risultato scontato. I lavoratori spagnoli avrebbero sicuramente potuto sconfiggere i fascisti – come hanno fatto in Catalogna – e intraprendere il compito di trasformare la società a una condizione: che i loro leader avessero avuto una politica rivoluzionaria.

La condizione necessaria per la vittoria in Spagna era che la condotta della guerra fosse tolta dalle mani dei politici borghesi traditori e che le risorse del paese – la terra, le fabbriche, le banche – passassero nelle mani degli operai e dei contadini. Le masse dovevano essere armate per difendere le conquiste sociali e la direzione della lotta avrebbe dovuto essere nelle mani di rappresentanti noti e di fiducia della causa dei lavoratori.

Proviamo a confrontare quello che è successo in Spagna con la guerra civile russa, quando la Russia sovietica fu invasa da 21 eserciti stranieri. I bolscevichi non avevano nemmeno un esercito. Eppure hanno combattuto e sconfitto gli eserciti bianchi e i loro alleati stranieri. Trotskij ha organizzato l’Armata rossa praticamente dal nulla.

A un certo punto l’area controllata dai bolscevichi non era superiore ai confini del vecchio stato della Moscovia. Sembrava una situazione senza speranza, ma i bolscevichi combinarono la politica militare con misure rivoluzionarie e la propaganda internazionalista. Gli operai e i contadini combatterono come tigri perché sapevano che stavano combattendo per la loro emancipazione sociale. Questo, e solo questo, ha garantito la vittoria dei bolscevichi nella guerra civile.

In realtà i ministri borghesi liberali hanno preferito consegnare la Spagna legata e imbavagliata ai fascisti piuttosto che permettere che gli operai e i contadini prendessero il potere. La mancanza di volontà e l’incapacità completa dei repubblicani di combattere i fascisti era chiara dall’inizio. I leader repubblicani si rifiutarono di armare i lavoratori, che lo chiedevano. Hanno anche cercato di oscurare la notizia del colpo di Stato fascista.

Si trattava di capire come si poteva vincere. Trotskij rispose in questo modo:

Avete ragione a combattere contro Franco. Dobbiamo sterminare i fascisti, ma non in modo da avere la stessa Spagna come prima della guerra civile, perché Franco è il prodotto di questa Spagna. Dobbiamo sradicare le basi di appoggio di Franco, le basi sociali di Franco, ossia il sistema sociale del capitalismo.” (“La rivoluzione spagnola 1931-1939”).

Stalin e la Spagna


I dirigenti del partito “comunista” hanno svolto il ruolo più nefasto, prendendo ordini da Mosca. I dirigenti del Partito comunista spagnolo divennero i più strenui difensori della legalità e dell’ordine capitalisti. Con lo slogan “prima vincere la guerra, poi fare la rivoluzione”, hanno sistematicamente sabotato tutti i movimenti indipendenti degli operai e dei contadini.

La loro scusa era la necessità di mantenere l’unità con i repubblicani borghesi nel fronte popolare. Ma in realtà, il fronte popolare era una finzione. La maggior parte della borghesia spagnola era passata dalla parte di Franco allo scoppio della guerra civile. Unendosi con i repubblicani, gli stalinisti si univano, non alla borghesia, ma solo alla sua ombra.

L’unica forza sociale che era rimasta a combattere contro il fascismo erano operai e contadini. Per che cosa stavano combattendo? Per la “repubblica”? Ma la repubblica capitalista non era riuscita a risolvere nemmeno uno dei problemi fondamentali degli operai e dei contadini. Non a caso i fascisti utilizzavano demagogicamente lo slogan: “Que te da a comer la Republica?” (“Che cosa ti dà da mangiare la repubblica?”).

Non è questa la sede per fornire un resoconto dettagliato di come gli stalinisti hanno aiutato la borghesia a schiacciare la rivoluzione in Catalogna e a ricostruire il vecchio Stato capitalista. Basti dire che questo atto controrivoluzionario, lungi dal rafforzare la repubblica, l’ha fatalmente compromessa e ha consegnato la vittoria ai fascisti.

Stalin era terrorizzato della possibilità di una rivoluzione operaia vittoriosa in Spagna. L’esempio di una democrazia operaia sana in Spagna avrebbe esercitato un potente effetto sui lavoratori russi, che erano sempre più insofferenti delle imposizioni del regime burocratico totalitario.

Non è un caso che Stalin abbia scatenato le infami purghe proprio in quel momento. Dopo aver abbandonato la politica rivoluzionaria internazionalista di Lenin, che basava la difesa dell’Unione Sovietica fondamentalmente sul sostegno della classe operaia mondiale e sulla vittoria del socialismo internazionale, la burocrazia russa tentò di ottenere il sostegno degli stati capitalisti “buoni”, “democratici” (Gran Bretagna e Francia) contro Hitler. A un certo punto, hanno anche sostenuto il fascismo “buono” italiano contro la “cattiva” variante tedesca!

La vittoria di Hitler nel 1933 fu il risultato di una politica sbagliata, ma in Spagna Stalin ha deliberatamente strangolato la rivoluzione. Così facendo, ha anche garantito la sconfitta della repubblica spagnola e la vittoria di Franco. Così Hobsbawm tratta la questione:


“Il conflitto tra l’entusiasmo libertario e un’organizzazione disciplinata, tra rivoluzione sociale e vincere una guerra, rimase acceso durante la guerra civile spagnola, anche supponendo che l’Unione Sovietica e il Partito comunista volessero che la guerra finisse in una rivoluzione e che le sezioni dell’economia socializzata dagli anarchici (cioè passate sotto il controllo dei collettivi operai locali) funzionassero abbastanza bene. Le guerre, per quanto flessibili siano le catene di comando, non si possono combattere, né si possono gestire le economie di guerra, in modo libertario. La guerra civile spagnola non poteva essere condotta, e tanto meno vinta, secondo linee orwelliane” (La guerra delle idee, 17 febbraio 2007, The Guardian).

Questa è un ragionamento capzioso del genere più vile. Hobsbawm giustappone due cose come se fossero tra loro incompatibili: o si fa la rivoluzione o si vince la guerra civile. Ma in realtà il fatto è che alla fine non si è avuta nessuna delle due. Distruggendo la rivoluzione, gli stalinisti e i loro alleati borghesi del fronte popolare hanno anche minato il morale degli operai e dei contadini spagnoli preparando così il terreno per la vittoria militare dei fascisti.

“Il governo della vittoria”

La testa d’ariete della controrivoluzione in Catalogna era rappresentata dal Partito “comunista”. La vecchia macchina statale capitalista in Catalogna era stata distrutta dai lavoratori nel luglio del 1936. Gli stalinisti del Psuc hanno in seguito aiutato i nazionalisti catalani borghesi a ricostruire la loro base di potere. Per fare questo, gli operai anarchici e del Poum dovevano essere schiacciati. Gli stalinisti si assunsero la responsabilità principale per il compito del boia.

Sul ruolo degli stalinisti in Spagna, Hobsbawm scrive semplicemente che “i pro e i contro continueranno a essere discussi nella letteratura politica e storica”. Ma i crimini della Gpu in Spagna erano conosciuti e documentati già ai tempi con la testimonianza diretta di George Orwell in Omaggio alla Catalogna. Questo fatto spiega l’atteggiamento al vetriolo di Hobsbawm verso Orwell, a cui si riferisce con disprezzo come “agiato inglese di nome Eric Blair”.

La guerra civile spagnola vide la determinazione di Stalin a liquidare ogni tendenza di sinistra che non fosse sotto il suo controllo. Che cosa ha da dire il professore rosso su questo?

In breve, ciò che fu messo ed è tuttora in discussione in questi dibattiti è quello che divideva Marx da Bakunin. Le polemiche sull’organizzazione dissidente marxista Poum sono irrilevanti in tal caso, data la sua ridotta dimensione e il ruolo marginale giocato nella guerra civile, appena visibile. Essi appartengono alla storia delle lotte ideologiche all’interno del movimento comunista internazionale o, se si preferisce, alla guerra spietata di Stalin contro il trotskismo con cui i suoi agenti (a torto) lo identificavano.” (La guerra delle Idee, 17 febbraio 2007).

Hobsbawm vuole stendere un velo pietoso sulle attività degli stalinisti in Spagna, e in particolare sulla liquidazione del Poum, un partito di sinistra il cui leader Andreu Nin era stato vicino di Trotskij. Nin fu rapito dalla Gpu di Stalin, brutalmente torturato e ucciso. La stessa sorte è toccata a molti attivisti del Poum, ad anarchici e ad altri che non erano disposti a seguire ciecamente i dettami di Mosca.

La sconfitta del proletariato di Barcellona scatenò un’orgia di controrivoluzione. Gli stalinisti cominciarono a imprigionare anarchici e Poumisti e a disarmare gli operai. I collettivi e i consigli dei lavoratori furono distrutti. Il Poum fu messo fuori legge con il pretesto menzognero di aver complottato con Franco. Nin e altri dirigenti furono brutalmente torturati e assassinati da agenti di Stalin in Spagna.

Largo Caballero, il leader della sinistra socialista, che tentò di resistere agli stalinisti, venne sostituito con il destro Juan Negrin, descritto da Hugh Thomas come “un uomo della grande borghesia, un difensore della proprietà privata e persino del capitalismo” (La guerra civile spagnola). Gli stalinisti soprannominarono il governo Negrin come “il governo della vittoria”. In realtà era il governo della sconfitta.

Gli stalinisti avevano contribuito a ricostruire lo Stato capitalista e a riconsegnare l’esercito al controllo della vecchia casta degli ufficiali. Avendoli usati per fare il lavoro sporco, l’esercito procedette dunque a mettere da parte i “comunisti” prendendoli a calci, e a effettuare un colpo di Stato alle loro spalle. I generali Casado e Miaja (con ancora una tessera del Pc in tasca) cospirarono con Negrin per mettere fuori legge il Partito “comunista” e tentare di fare un accordo con Franco.

Casado si offrì di arrestare e consegnare a Franco molti leader e lavoratori del Pc. La Pasionaria e altri leader stalinisti dovettero fuggire in Francia, lasciando i militanti di base del partito al loro destino. A tutto ciò Hobsbawm non fa nemmeno cenno.

Le politiche di collaborazione di classe che Hobsbawm presenta come l’unico modo per assicurare la vittoria sul fascismo hanno di fatto preparato la strada a una sconfitta schiacciante. I fascisti si presero una terribile rivincita sui lavoratori. Quasi un milione di persone furono uccise nella guerra civile e migliaia ancora furono uccise nel periodo immediatamente successivo alla sconfitta. La classe operaia spagnola pagò un prezzo terribile per le politiche sbagliate, la viltà e il tradimento totale dei suoi leader, in particolare, del Partito comunista. Questo è ciò che Hobsbawm ha cercato di giustificare fino alla fine della sua vita.

Ne “Il secolo breve” difende le azioni della burocrazia stalinista. Scrive che l’alleanza di Stalin con Churchill e Roosevelt “sarebbe stata impossibile senza un certo allentamento delle ostilità e dei sospetti reciproci tra i campioni e gli avversari della Rivoluzione d’Ottobre”. Pertanto, la rivoluzione spagnola doveva essere sacrificata sull’altare dell’“alleanza antifascista”. Secondo questa contorta logica stalinista, la sconfitta della rivoluzione spagnola era un prezzo che valeva la pena pagare per consolidare l’alleanza tra l’Unione Sovietica e le democrazie “europee”, aprendo così la strada a una “democrazia di tipo nuovo”:

La guerra civile spagnola ha reso questo [l’allentamento delle ostilità tra l’Unione Sovietica e le democrazie occidentali] molto più facile. Anche i governi anti-rivoluzionari non potevano dimenticare che il governo spagnolo, sotto un presidente e un primo ministro liberale, godeva di piena legittimità costituzionale e morale quando ha lanciato un appello per ricevere aiuti contro i suoi generali ribelli. Anche gli statisti democratici che l’hanno tradita, perché temevano per la propria pelle, avevano una cattiva coscienza (!). Sia il governo spagnolo e, più precisamente, i comunisti che erano sempre più influenti nei suoi affari, hanno insistito sul fatto che non volevano una rivoluzione sociale, e in effetti, hanno chiaramente fatto quello che potevano per controllare e invertire processi rivoluzionari con grande orrore dei rivoluzionari esagitati. La rivoluzione, ripetevano tutti e due, non c’entrava nulla, si trattava di difendere la democrazia”.

Questo è sbagliato dall’inizio alla fine. La sconfitta della classe operaia spagnola di fatto rimosse l’ultimo ostacolo alla Seconda guerra mondiale. La cosiddetta alleanza delle democrazie occidentali con l’Urss è stata sempre una finzione. È un dato di fatto che la Gran Bretagna, in particolare, incoraggiò per tutto il tempo Hitler nella sua politica estera aggressiva, nella speranza che avrebbe attaccato l’Unione Sovietica.

Questo è il vero significato della politica di “appeasement” di Chamberlain. Solo in extremis, quando si resero conto che Hitler avrebbe attaccato la Francia, questi signori di Londra cambiarono posizione. L’idea che gente come Chamberlain e Churchill si sentisse la coscienza sporca perché avevano facilitato la vittoria di Franco è semplicemente ridicola. I loro calcoli non si sono mai basati su considerazioni sentimentali o morali, ma solo sugli interessi dell’imperialismo britannico.

Anche quando Hitler attaccò l’Unione Sovietica nel 1941, una parte significativa della classe dominante britannica aveva l’idea di lasciare che la Germania e la Russia si sfinissero a vicenda per poi intervenire e distruggere entrambi. Questa è la vera ragione per cui Churchill, formalmente alleato dell’Urss, si oppose a lungo all’apertura di un secondo fronte in Francia. L’unico motivo per cui ha alla fine accettò l’invasione della Francia nel 1944 fu l’avanzata spettacolare dell’Armata Rossa che minacciava di raggiungere il Canale della Manica.

Parte seconda – L’apostolo de blairismo

Con il passaggio dagli anni ’60 agli anni ’70, Hobsbawm smise di difendere l’economia nazionalizzata e pianificata e aderì alla tendenza dell’Eurocomunismo all’interno del Partito comunista. Fornì giustificazioni teoriche non solo per il dissolvimento del Partito comunista ma anche per la svolta di destra del Partito laburista in Gran Bretagna, cosa che gli valse l’epiteto di “marxista preferito di Kinnock”.

La rottura di Hobsbawm con lo stalinismo


Nel 1956 Kruscev espose i crimini dello stalinismo al XX Congresso del Pcus. La relazione cadde come una bomba su coloro che, come Hobsbawm, avevano difeso servilmente lo stalinismo per anni.

Anche se aveva formalmente rotto con lo stalinismo, Hobsbawm persistette nel giustificare il suo passato stalinista, nascondendo i propri errori fino alla fine. In uno dei suoi ultimi libri, ironicamente intitolato “Come cambiare il mondo”, scrive quanto segue sui processi delle famose purghe:

È impossibile capire la riluttanza degli uomini e delle donne di sinistra a criticare, o anche spesso ad ammettere a se stessi quello che stava succedendo in Urss in quegli anni, o l’isolamento dei critici di sinistra dell’Urss, senza comprendere che, nella lotta contro il fascismo, il comunismo e il liberalismo erano, in un senso profondo, in lotta per la stessa causa. Per non parlare del fatto più evidente che, nelle condizioni degli anni ’30, quello che faceva Stalin era un problema russo, per quanto sconvolgente, mentre ciò che faceva Hitler era una minaccia per il mondo intero” (“Come cambiare il mondo”).

Gli infami processi di Mosca non furono altro che una guerra civile unilateralmente condotta da Stalin contro il Partito bolscevico. Al fine di consolidare il suo regime burocratico totalitario, Stalin fu costretto a sterminare tutti i compagni di Lenin, come farebbe un criminale che non vuole lasciare in giro testimoni a suo carico.

Questi processi farsa furono mostruosamente costruiti sulla base di confessioni estorte con ricatti, torture e pestaggi. Le accuse a carico degli imputati erano così palesemente false che molte persone al tempo ebbero dubbi sulla loro veridicità. Inoltre, è stato dimostrato in maniera rigorosa come fossero una gigantesca frode da parte della Commissione Dewey.

Eminenti stalinisti inglesi come Campbell e Pritt scrissero libri interi per cercare di dimostrare che i processi di Mosca erano completamente legali e corretti. Prendendo ordini da Mosca, il Daily Worker faceva titoli a caratteri cubitali come: “fucilare i rettili”. Descrivevano gli imputati nei termini più ingiuriosi: “sono una piaga piena di pus, un vero e proprio cancro e noi facciamo ferventemente eco al verdetto dei lavoratori: fucilare i rettili!” (Daily Worker, 24 agosto 1936).

Su tutto questo il nostro amico non ha assolutamente niente da dire. La sua unica preoccupazione non è quella di denunciare queste mostruosità, che possono essere paragonate solo alle attività criminali dell’Inquisizione spagnola, ma solo di giustificare la complicità di persone come Hobsbawm, Pritt e Campbell pronte a sostenere ogni crimine di Stalin.

Al giorno d’oggi, quando tutti sono ben consapevoli dei crimini di Stalin, Hobsbawm non li può più difendere, ma è pronto a giustificare il suo comportamento passato. Era giusto sostenere i processi farsa “per la necessità di combattere il fascismo.” Anche sull’opuscolo che scrisse insieme a Raymond Williams per difendere il patto Hitler-Stalin non ha nulla da dire. Presumibilmente, anche questo faceva parte della “lotta contro il fascismo”!

Le rivelazioni di Kruscev provocarono immediatamente un fermento rivoluzionario in Europa orientale, con proteste di massa in Polonia e la rivolta della classe operaia in Ungheria. Nell’ottobre 1956, la rivoluzione ungherese venne brutalmente repressa dai carri armati sovietici. Questo provocò una grave crisi nei partiti comunisti, anche in Gran Bretagna, dove molti si dimisero in segno di protesta.

Hobsbawm dichiarò in seguito che aveva denunciato l’invasione russa dell’Ungheria e aveva scritto al giornale del Pc per protestare. Questo è al massimo solo una mezza verità. Questo è ciò che in realtà scrisse nella lettera che il Daily Worker ha pubblicato il 9 novembre 1956:

Tutti i socialisti dovrebbero essere in grado di capire che l’Ungheria di Mindszenty [Mindszenty era il cardinale cattolico di Budapest], che probabilmente sarebbe diventata una base per la controrivoluzione e  l’intervento occidentale, sarebbe un pericolo grave e immediato per l’Unione Sovietica, la Jugoslavia, la Cecoslovacchia e la Romania che confinano con il paese. Se fossimo stati nella posizione del governo sovietico, saremmo dovuti intervenire, se fossimo stati nella posizione del governo jugoslavo, avremmo dovuto approvare l’intervento”.

Hobsbawm passa poi a coprirsi le spalle, descrivendo il massacro del popolo ungherese come una ‘tragica necessità’:

Pur approvando, a malincuore, ciò che sta accadendo in Ungheria, diciamo anche francamente che pensiamo che l’Urss dovrebbe ritirare non appena possibile le sue truppe dal paese. Questo dovrebbe dire pubblicamente il Partito comunista britannico se vuole che il popolo britannico abbia fiducia nella nostra sincerità e nel nostro giudizio, e se non è così, come possiamo aspettarci che ci seguano? E se non ci seguono, come possiamo sperare di aiutare la causa degli stati socialisti esistenti da cui sappiamo che il socialismo nel mondo, e in Gran Bretagna, è fortemente dipendente?”.

Questa non può essere presentata come una “denuncia”, ma un modo vigliacco di tenere il piede in più scarpe. Tale atteggiamento disonesto fu assolutamente caratteristico di Hobsbawm, dall’inizio alla fine.

Eurocomunismo

Mentre molti membri del partito stracciarono la tessera disgustati, questo signore restò iscritto al Partito comunista britannico fino a poco prima che fosse sciolto nel 1991. In un articolo su World News, del 26 gennaio 1957, scrisse in risposta al vice segretario del Pc, George Matthews:

Abbiamo presentato malamente i fatti, o non li abbiamo affrontati, e purtroppo, anche se siamo riusciti a imbrogliare ben poche altre persone, abbiamo imbrogliato noi stessi. Non mi riferisco in primo luogo ai fatti rivelati al XX Congresso e altri fatti del genere. Molti di noi avevano sentore che fossero veri, e moralmente ne erano certi, già anni prima che Kruscev ne parlasse, e mi stupisco che il compagno Matthews non ne avesse. C’erano ragioni fortissime, al tempo, per tacere, e abbiamo fatto bene a farlo. No, i fatti che non siamo davvero riusciti ad affrontare riguardano la Gran Bretagna, i nostri compiti e i nostri errori.

La rottura di Hobsbawm con lo stalinismo avrebbe potuto essere un passo in avanti, se fosse stata un ritorno alle autentiche tradizioni di Lenin e del Partito bolscevico. Ma invece di tornare a Lenin, Hobsbawm e gli altri sostenitori del cosiddetto eurocomunismo, decisero di abbandonare del tutto il leninismo. Quanto più indipendenti da Mosca diventavano i partiti comunisti, tanto più diventavano dipendenti dalla propria borghesia nazionale.

Questo sviluppo era stato previsto da Trotskij che nel suo pamphlet del 1928 Critica del progetto di programma dell’Internazionale comunista, metteva in guardia sul fatto che l’adozione della “teoria” del socialismo in un solo paese avrebbe condotto alla degenerazione nazionalista e riformista dei partiti dell’Internazionale comunista. Con un ritardo di alcuni anni, questo è esattamente ciò che successe. I partiti italiano, francese e spagnolo si sono sottratti dal controllo di Mosca, ma così facendo hanno abbandonato ogni pretesa di seguire le idee di Marx, Engels e Lenin.

Hobsbawm è diventato un punto di riferimento della fazione eurocomunista nel Cpgb (il Partito comunista britannico) che iniziò a cristallizzarsi dopo il 1968, quando il partito criticò l’invasione sovietica della Cecoslovacchia. Ma lo fece dal punto di vista di un gretto nazionalismo. Voleva che il partito britannico potesse occuparsi dei suoi affari senza l’intromissione di Mosca. Lo stesso volevano i leader del partito italiano, francese e spagnolo.

In Gran Bretagna, la rivista teorica del Cpgb Marxism Today divenne l’organo della tendenza revisionista. Nel settembre 1978 pubblicò il discorso di Hobsbawm “La classe operaia inglese cento anni dopo Marx”, in cui spiegava che la classe operaia stava inevitabilmente perdendo il suo ruolo centrale nella società, e che i partiti di sinistra non potevano più basarsi su di essa. Questo proprio in un periodo di combattività crescente dei sindacati, quando la Gran Bretagna diveniva teatro di scioperi di massa che scuotevano il sistema, e alcuni membri del Partito comunista avevano un ruolo di primo piano in questo movimento.

Hobsbawm scelse proprio quel momento per una conferenza in memoria di Marx, in seguito pubblicata come “Si è fermata l’avanzata del movimento operaio?”, in cui cominciava a mettere in discussione il ruolo centrale della classe operaia nella rivoluzione socialista. Tali posizioni divennero il punto di raccolta di ogni tendenza piccolo-borghese e revisionista, sia all’interno che al di fuori del movimento operaio. L’ex giornale del Cpgb, il Morning Star, ha pubblicato un suo necrologio il 5 ottobre, in cui si legge:

Scrivendo quando il movimento sindacale era al culmine della sua forza – e la sinistra molto influente al suo interno – Hobsbawm sostenne che la classe operaia manuale era in declino numerico e che il carattere della sua politica era intrinsecamente economicistica, intrappolata nei limiti di una contrattazione salariale corporativa, e che di conseguenza la sinistra doveva guardare in futuro a più ampie alleanze e movimenti sociali. Questa conferenza è diventata un testo fondamentale per quell’ala all’interno del Partito comunista che cercava di allontanarlo da una politica di classe e di sfidare gli elementi chiave del marxismo.

Queste idee revisioniste non cadevano dal cielo. Dopo decenni di politica opportunista, e con le enormi pressioni che il capitalismo poteva mettere in campo nel lungo periodo di crescita nel dopoguerra, si completò il processo di degenerazione nazionalista e riformista dei partiti comunisti. Divennero come tutte le altre organizzazioni riformiste. Rompendo con Mosca, si sentivano sempre più sotto la pressione della propria classe capitalista e dell’opinione pubblica borghese. Questo era il vero significato del cosiddetto eurocomunismo.

Hobsbawm trasse tutte le conclusioni sbagliate possibili dal colpo di Stato del 1973 in Cile. Per lui non si doveva trarre la lezione che Allende non era riuscito a mobilitare e armare la classe operaia per schiacciare la controrivoluzione ma, al contrario, che Allende aveva cercato di andare troppo in là e troppo in fretta. Sostenne, così, la linea riformista del Partito comunista italiano, il “compromesso storico”, cioè la linea della collaborazione di classe.

Negli anni ’60 e ’70 sviluppò legami con l’ala destra del Pci, che era a favore di una rottura con l’Unione Sovietica. Hobsbawm era sempre stato un ammiratore del Pci. Di tutti i partiti eurocomunisti, il Pci era il più degenerato e moderato. Divenne un amico di Giorgio Napolitano, che fin dagli anni ’70 è stato il leader della destra del Pci, il più riformista dei riformisti, un uomo che è stato così utile alla borghesia italiana che ne hanno fatto il Presidente della Repubblica.

Nel 1977 fece una lunga intervista a Giorgio Napolitano, allora segretario internazionale del partito e uno dei leader dell’ala eurocomunista che divenne poi un libro, La via italiana al socialismo. Qui Napolitano dice: “l’unica strada realisticamente aperta a una trasformazione socialista in Italia e in Europa occidentale – in condizioni di pace – è all’interno del processo democratico”.

La politica delle “larghe alleanze” è un ritorno alle politiche dei menscevichi, a cui Lenin si oppose frontalmente e che Stalin riportò in auge nella forma del fronte popolare, portando a una sconfitta dopo l’altra. L’idea di riforme graduali è indistinguibile dalle posizioni della socialdemocrazia. L’idea che sia possibile riformare il capitalismo gradualmente è contraddetta da tutta la storia degli ultimi cento anni. Il risultato di questo “realismo” si può vedere oggi: il Pci, una volta onnipotente è stato completamente liquidato.

Con la caduta dello stalinismo dopo il 1989, questo processo di degenerazione si è ulteriormente intensificato. In Belgio, Gran Bretagna e Norvegia, il partito si è liquefatto come risultato di questo. In Italia, il Pci, una volta fortissimo, è stato trasformato in un partito borghese dai suoi leader eurocomunisti. In Gran Bretagna l’ex teorico del Pc Eric Hobsbawm ha completamente capitolato al capitalismo ed è finito molto a destra dei dirigenti laburisti di sinistra.

Hobsbawm si sposta a destra


Il declino letterario di Hobsbawm è proceduto di pari passo con la sua degenerazione politica ed è strettamente legato ad essa. Ma da dove viene questa degenerazione? Per rispondere a questa domanda bisogna prima capire il contesto storico in cui furono scritti questi libri.

Gli anni ’60 videro un’ondata di radicalizzazione, soprattutto tra gli studenti, che deve aver colpito Hobsbawm. Il processo si approfondì negli anni ’70, che si aprirono con la prima seria crisi economica mondiale dal 1945. Ne seguì un’ondata di rivoluzioni e di fermento rivoluzionario in Portogallo, Spagna, Grecia, Italia e Francia. La stessa Gran Bretagna fu investita da un’ondata di scioperi. Non ci può essere alcun dubbio che questi eventi devono aver avuto un’influenza positiva sugli scritti di Hobsbawm, e non può essere un caso che i suoi migliori libri siano stati pubblicati in questo periodo.

Nell’aprile-maggio del 1974, dopo la caduta della dittatura di Caetano, milioni di lavoratori portoghesi scesero nelle piazze dando vita a un movimento rivoluzionario che spazzò via tutto ciò che incontrava. Il Partito comunista sosteneva il generale Spinola, che in seguito cercò di organizzare un colpo di Stato di destra che fu impedito solo dal movimento dei lavoratori e dei soldati dal basso.

Nel marzo del 1975 il Times intitolò un editoriale “Il capitalismo è morto in Portogallo”. Ed era così. In quel momento, la maggior parte dell’economia era stata nazionalizzata e il potere era, in pratica, nelle mani della classe operaia. Ma tutto ciò venne distrutto dalle politiche dei leader dei partiti socialista e comunista. Lo stesso è avvenuto in Spagna.

La morte di Franco nel novembre 1975 fu il segnale per un tumultuoso periodo rivoluzionario, con scioperi e manifestazioni di massa. C’erano elementi di dualismo di potere. Il movimento aveva un chiaro carattere anti-capitalista. Il Partito comunista era in una posizione molto forte. Aveva nelle sue file una larga maggioranza dell’avanguardia proletaria. Ma, come negli anni ’30, la leadership aveva una politica di collaborazione di classe.

Nel 1973, quando la dittatura stava vacillando, avevano già firmato per la famigerata “Junta democratica”, una coalizione con liberali, vecchi fascisti e anche alcuni partiti monarchici. I lavoratori erano pronti a tutto. Ma il Pce frenava. Al congresso del ’78, il partito abbandonò formalmente il leninismo, anche se, a dire il vero, questo era solo un riconoscimento formale del fatto che il partito aveva da tempo abbandonato ogni posizione veramente rivoluzionaria.

Questo periodo è conosciuto come “la transizione” (che vorrebbe dire dalla dittatura alla democrazia), ma fu in realtà la frode del secolo. L’odiata monarchia venne mantenuta e svolse un ruolo centrale. Si salvarono la Guardia Civile e altri organismi repressivi. Nessuno fu riconosciuto responsabile per i crimini e le atrocità del vecchio regime. Gli assassini e i torturatori se ne andavano liberamente a spasso. Al popolo spagnolo fu detto di dimenticare il milione di morti della guerra civile. Era come se non fosse successo niente.

In quegli anni anche l’Italia veniva scossa alle fondamenta da una grande ondata di scioperi. La situazione stava diventando sempre più rivoluzionaria. Il Pci aveva un dominio schiacciante sul movimento operaio. Ma i leader eurocomunisti come Berlinguer e Napolitano sostenevano il “compromesso storico” con la borghesia e la Democrazia cristiana. Come in Spagna, ciò deragliò e distrusse il movimento. Il problema, come in Spagna negli anni ’30, era fondamentalmente un problema di direzione. I dirigenti “comunisti” giocarono ovunque un ruolo chiave nel far abortire i movimenti rivoluzionari.

I rossi anni ’70, pieni di speranze, alla fine sono sfociati nei grigi anni ’80, un periodo di disillusione, sconforto e disperazione. L’ondata di delusione che ne seguì preparò il terreno per un periodo di semi-reazione che ha avuto inizio nei primi anni ’80. Di conseguenza, il capitalismo è sopravvissuto e la borghesia si è gradualmente ripresa ed è passata all’offensiva. I lavoratori più avanzati sprofondarono in tutto il mondo in un clima di scetticismo e di pessimismo.

Gli scritti di Hobsbawm riflettono la disillusione generale per il socialismo che colpì allora gli intellettuali di sinistra. Già nel 1978 scriveva: “Non abbiamo alcuna chiara prospettiva su come la crisi possa portare a una trasformazione socialista e, ad essere onesti, non abbiamo vere aspettative che lo farà”. Qui c’è l’essenza distillata dell’intellettuale piccolo borghese che, incapace di nuotare contro corrente, abbandona la lotta rivoluzionaria e si ritira dietro un muro di pessimismo.

Hobsbawm e la liquidazione del Partito comunista


Hobsbawm si è spostato sempre più a destra. Nei suoi ultimi libri, scompare del tutto anche la minima connessione con il marxismo che si sarebbe potuta trovare prima. “L’età degli imperi” (1987) contiene molto materiale interessante, ma è completamente intriso di un senso di assenza di alternativa al capitalismo – un’idea che ha ossessionato la mente di Hobsbawm fino alla fine e ha condizionato la sua evoluzione politica. La conclusione logica è stata una posizione liquidazionista.

Come molti di sinistra e molti “comunisti”, le prospettive di Hobsbawm sono state influenzate dal lungo periodo di boom capitalista che ha seguito la Seconda guerra mondiale. Sulla base della globalizzazione, più volte la borghesia – e in particolare i piccolo-borghesi apologeti del capitalismo – ha proposto l’argomento che in effetti lo Stato nazionale non ha più importanza.

Lo stesso argomento venne proposto da Kautsky nel periodo della Prima guerra mondiale (la cosiddetta teoria dell’“ultra-imperialismo”) quando spiegava che lo sviluppo del capitalismo monopolistico e dell’imperialismo stavano gradualmente eliminando le contraddizioni del capitalismo. Non ci sarebbero state più guerre, perché lo sviluppo del capitalismo stesso avrebbe reso superflui gli Stati nazionali. La stessa teoria fu sostenuta da Eric Hobsbawm, assieme tutti gli altri revisionisti.

Questo ex-stalinista ha sostenuto che lo Stato nazionale rappresentava solo un periodo transitorio della storia umana, ormai passato. Gli economisti borghesi hanno proposto lo stesso argomento molte volte. Cercano di abolire le contraddizioni insite nel sistema capitalista semplicemente negandone l’esistenza. Eppure, proprio in questo momento, in cui il mercato mondiale è diventato la forza dominante sul pianeta, gli antagonismi nazionali hanno acquisito ovunque un carattere feroce e la questione nazionale, lungi dall’essere scomparsa ovunque, ha assunto un carattere particolarmente intenso e virulento.

Hobsbawm ha cercato di presentare il movimento verso il libero scambio e la globalizzazione come un processo inevitabile e automatico non tenendo conto di tutte le contraddizioni e le tendenze contrarie. In effetti, anche l’esame più superficiale della storia dimostra che i periodi di maggiore libero scambio (ad esempio prima della Prima guerra mondiale) si sono alternati con periodi di guerre commerciali feroci e di protezionismo (come gli anni ’30), e che la borghesia ricorrerà al protezionismo ogni volta che siano minacciati i suoi interessi.

Ciò rimane vero per l’epoca presente così come lo era ai tempi di Marx o di Lenin. Ma Hobsbawm non era più interessato a difendere il marxismo. Negli ultimi decenni della sua vita si è allontanato sempre più dal marxismo, come accecato dai successi del capitalismo e dell’economia di mercato. Il suo vero atteggiamento è stato dimostrato dalla sua affermazione che il comunismo era di “limitato interesse storico” rispetto all’enorme successo dell’“economia mista” capitalista dalla metà degli anni ‘50 al 1973, che descrisse come “la più profonda rivoluzione della società dall’età della pietra”.

Nell’ottobre del 1979, Hobsbawm entrò a far parte della redazione di “Marxism Today”, la rivista teorica del Partito comunista britannico (Cpgb). Insieme a Martin Jacques, cominciò a usare il giornale come una piattaforma per la tendenza eurocomunista del partito. Questi revisionisti di destra non proponevano nient’altro che lo scioglimento del Partito comunista. Già nel 1983, Jacques “riteneva che il partito fosse irriformabile… ma rimase perché aveva bisogno di fondi del partito per continuare a pubblicare Marxism Today”.

Il Partito comunista britannico finì con un fiasco completo, spaccandosi in quattro piccoli gruppi. Il Partito comunista spagnolo, che avrebbe potuto prendere il potere nel 1976-77, è l’ombra di se stesso. Il fallimento ideologico del partito è stato riassunto da Chris Myant, il segretario internazionale del Cpgb, che affermò che la rivoluzione d’ottobre fu “un errore di proporzioni storiche”.

Jacques arrivò alla convinzione che il Partito comunista fosse finito. Senz’altro, da un punto di vista politico, era finito da molto tempo prima. Ma ci voleva gente come Hobsbawm e Jacques ad esserne i becchini ufficiali. Nel 1991, quando ci fu il crollo dell’Unione Sovietica, la direzione eurocomunista del Cpgb, guidata da Nina Temple, dopo aver espulso tutti coloro che non erano d’accordo, decise di sciogliere del tutto il partito.

Lo stalinismo deriva dal leninismo?


Il socialismo, sostiene Hobsbawm, in ultima analisi, è caduto perché, alla fine, “[…] quasi nessuno credeva nel sistema o provava fedeltà verso di esso, neppure coloro che lo guidavano”.

Si tratta di una “spiegazione che non spiega nulla”. Questo uomo che per decenni aveva spudoratamente difeso lo stalinismo, ora giungeva alla conclusione che c’era qualcosa di sbagliato fin dall’inizio nella Rivoluzione d’Ottobre. Così, si è unito al carrozzone borghese che attribuisce tutti i crimini dello stalinismo a qualche peccato originale di Lenin e del Partito bolscevico.

Mentre difende surrettiziamente Stalin, Hobsbawm dà credito alla calunnia più disgustosa inventata dai nemici borghesi della Rivoluzione d’Ottobre, e cioè che le radici dello stalinismo si trovano nel bolscevismo, e che il leninismo e lo stalinismo sono essenzialmente la stessa cosa. Il problema di questa teoria è che è impossibile spiegare perché Stalin, per consolidare il dominio della burocrazia, abbia mai dovuto sterminare tutti i vecchi bolscevichi.

La verità è che stalinismo e leninismo si escludono a vicenda. Non c’è nulla in comune tra il regime di democrazia operaia fondato da Lenin e Trotskij e la mostruosità totalitaria che Stalin eresse sopra il cadavere del Partito bolscevico.

Dopo la Rivoluzione d’Ottobre, il giovane Stato sovietico fu invaso da 21 eserciti stranieri, che immersero il paese in un bagno di sangue. Anche nella più democratica delle repubbliche borghesi, in tempo di guerra i lavoratori accettano alcune limitazioni dei loro diritti. Successe anche nella Russia della guerra civile.

Il problema che affrontavano i bolscevichi nel 1917 era che presero il potere in condizioni di estrema arretratezza. È stato questo fatto, e non un “peccato originale” del bolscevismo leninista, che ha condannato la Rivoluzione russa alla degenerazione burocratica. Ne “L’ideologia tedesca” (1845), Marx aveva già spiegato che in ogni società in cui la povertà è generale, risorge tutta la vecchia merda (“die ganze alte Scheisse”). Con questo voleva dire la disuguaglianza, l’oppressione, la burocrazia, la corruzione e tutti gli altri mali della società di classe.

Già nel 1920 Lenin ammise onestamente che “il nostro è uno Stato operaio con deformazioni burocratiche”, ma si trattava di deformazioni relativamente piccole, niente rispetto al mostruoso regime poi instaurato da Stalin. Nonostante tutto, la classe operaia godeva di maggiori diritti democratici rispetto a qualsiasi altro paese.

È stata la grande conquista storica della Rivoluzione russa l’aver dimostrato senza ombra di dubbio che è possibile sviluppare un’economia vasta come quella dell’Urss senza avere proprietari terrieri, banchieri e capitalisti privati ed ottenere ottimi risultati. Ciò perché è chiaro che nei primi decenni di economia nazionalizzata e pianificata, l’Unione Sovietica ha ottenuto i risultati più notevoli. La storia non ha mai visto nessuna trasformazione simile a quella che si è verificata in Urss nel periodo 1917-1965.

Dopo la morte di Lenin, tuttavia, in condizioni di spaventosa arretratezza, la Rivoluzione russa ha subito un processo di degenerazione burocratica sotto Stalin, che alla fine ha minato l’economia pianificata. Il processo si è concluso definitivamente con il crollo dell’Unione Sovietica.

Già nel 1936 Trotskij spiegò che alla burocrazia russa non sarebbe bastato godere dei suoi enormi privilegi (che, tuttavia, non poteva far ereditare ai propri figli), ma si sarebbe inevitabilmente mossa verso la restaurazione del capitalismo.

Sottolineò che un’economia nazionalizzata e pianificata ha bisogno della democrazia come il corpo umano necessita di ossigeno. Senza il controllo democratico della classe operaia, un’economia nazionalizzata e pianificata sarà inevitabilmente sopraffatta dalla burocrazia, la corruzione e la cattiva gestione. Questo è proprio quello che è successo.

L’orribile caricatura che Hobsbawm si è ostinato a chiamare “socialismo” sino alla fine della sua vita ha fatto danni colossali all’idea di socialismo e comunismo agli occhi dei lavoratori di tutto il mondo. Per decenni Hobsbawm, che non è mai stato un vero marxista, ha giustificato il totalitarismo stalinista e denigrato coloro che hanno combattuto per un ritorno alle politiche di Lenin (i “trotskisti”).

Disgraziatamente, anche nei suoi ultimi scritti, si riferisce ancora ai regimi stalinisti in Russia e in Europa orientale come “socialismo reale” o “comunismo”. E poiché il “socialismo” e il “comunismo” sono falliti, possono fornire una giustificazione “teorica” per la difesa del capitalismo.

Tale trasformazione può apparire contraddittoria. In realtà, è molto semplice. Con la stessa logica, la maggior parte degli ex leader del partito “comunista” dell’Unione Sovietica si sono tranquillamente trasformati in capitalisti e miliardari. Come il Professore rosso, hanno compiuto questa transizione con la stessa facilità con cui si passa da un vagone di seconda classe a uno di prima su un treno. Questa notevole facilità si spiega con il fatto che non sono mai stati comunisti, sin dal principio.

Teorico del New Labour


Anche se il Partito comunista britannico non fu mai neanche lontanamente forte come il suo equivalente italiano, la borghesia è stata comunque felice di ricevere la notizia del suo scioglimento e un ruolo chiave in questo evento è stato svolto dal professor Hobsbawm. Non solo ha partecipato attivamente a distruggere il partito dall’interno, ha anche collaborato attivamente con l’ala destra del Partito laburista per sconfiggere la sinistra. Questo è stato ancora più prezioso per il sistema.

Hobsbawm e Jacques volevano sciogliere il Cpgb nella sinistra “morbida” attorno a Neil Kinnock nel Partito laburista. Non è dunque un caso che, quando Hobsbawm è morto, il dirigente laburista di destra Ed Miliband non ha perso tempo a entrare nel coro degli adulatori. Secondo Miliband, Hobsbawm era:

Uno storico straordinario, un uomo appassionato per le sue idee politiche e grande amico della mia famiglia. (…) Ma non era semplicemente un accademico, si preoccupava approfonditamente della direzione politica del paese. In effetti è stato uno dei primi a riconoscere le sfide per il Labour alla fine degli anni ’70 e negli anni ’80, dettate dal carattere mutevole della nostra società. Era anche un uomo adorabile, con cui ho avuto alcune delle conversazioni più stimolanti e impegnative sulla politica e sul mondo”.

In che modo Hobsbawm “riconobbe le sfide per il Labour alla fine degli anni ’70 e negli anni ’80”? E che ruolo svolse nella creazione del New Labour? Come molti a sinistra, Hobsbawm negli anni ’80 era immerso nel pessimismo. Non aveva fiducia nella classe operaia o nella prospettiva del socialismo. Tale stato d’animo scettico si è riflesso nel suo articolo dell’82 “La situazione della sinistra in Europa occidentale”, che presenta un quadro desolante:

(…) A differenza degli anni ’30, oggi la sinistra non può puntare a una società alternativa immune alla crisi (come sembrava essere l’Urss), né ad alcuna politica concreta che prometta molto per il suo superamento nel breve periodo (come le politiche keynesiane o simili sembravano fare allora)”.

Come abbiamo visto, Hobsbawm aveva ormai completamente cancellato la classe operaia:

La classe operaia manuale, base dei partiti operai socialisti tradizionali, è oggi in contrazione e non in espansione. (…) È stata trasformata e in qualche misura divisa, dai decenni in cui il suo tenore di vita ha raggiunto livelli inimmaginabili anche per i meglio pagati nel 1939. Non si può più pensare che tutti i lavoratori siano pronti a riconoscere che la loro situazione di classe deve portarli nelle fila di un partito operaio socialista, anche se ci sono ancora molti milioni che lo credono”.

Queste idee erano musica per le orecchie della borghesia e della destra laburista (che sono fondamentalmente la stessa cosa) che riconobbero subito nel professor Hobsbawm un alleato molto prezioso. Le sue idee infatti fornivano una giustificazione teorica utile alla destra laburista che affrontava una dura lotta contro le correnti di sinistra del partito. Non è un caso che la stampa, in particolare il Guardian, iniziarono ad esaltarlo proprio in quel momento.

La classe dominante aveva avuto uno shock quando i marxisti erano riusciti a conquistare una significativa influenza nel Partito laburista negli anni ’70. Organizzarono una scissione di destra, il Partito socialdemocratico (Sdp), per danneggiare il Partito laburista e, al tempo stesso, orchestrarono una vasta caccia alle streghe contro la tendenza Militant e la sinistra laburista, in particolare Tony Benn. Il loro agente principale nella campagna per sconfiggere la sinistra laburista e spingere il partito a destra era l’arci-carrierista Neil Kinnock.

Hobsbawm sostenne con entusiasmo la lotta di Neil Kinnock contro la sinistra laburista guidata da Tony Benn, e contro la tendenza del Militant. Da parte sua Kinnock, parlava positivamente (e ironicamente) di Hobsbawm come del suo “marxista preferito”. Questo succedeva nel momento in cui stava organizzando la caccia alle streghe contro i marxisti del Partito laburista.

Obbediente, prendendo ordini dal sistema e dai media, affrontò la lotta contro la sinistra con lo zelo di un crociato, causando una dannosa spaccatura nel partito, demoralizzando i suoi attivisti e disperdendone il sostegno. Di conseguenza, nonostante l’impopolarità del governo Thatcher, riuscì a perdere due elezioni generali.

Questo rumoroso chiacchierone parvenu ha il triste primato di essere stato il più longevo leader dell’opposizione nella storia politica del paese fino ad oggi, e quello che per più a lungo non è mai diventato Primo ministro. Intervistato su Channel Four il giorno dopo la morte di Hobsbawm, Kinnock, nel suo solito stile sfacciato da bullo, si vantava di aver usato gli argomenti di questo “marxista” per combattere “la sinistra di Benn e la tendenza del Militant”, aggiungendo che quando riferì questo ad Hobsbawm, “Eric pensava che fosse una buona idea”.

Dopo la sconfitta elettorale del 1983, Hobsbawm sostenne l’alleanza con i traditori della destra laburista che si erano scissi, il Sdp e i loro alleati liberali, presentandoli come “forze anti-Thatcher”. Questa politica Lib-Lab è stata la base da cui è nato il blairismo. Blair pensava che il Partito laburista non avrebbe mai dovuto essere fondato, e auspicava legami più stretti con i liberali – una posizione ancora difesa dall’ala destra del Labour.

Lo scivolamento a destra di Hobsbawm, lo portò così proprio nel campo del blairismo e dell’ala destra del Partito laburista britannico, per il quale divenne consulente e ideologo. Era il “marxista preferito” di Kinnock per la semplice ragione che non era per nulla un marxista. Il suo unico ruolo era quello di fornire alla destra del Labour “profonde” argomentazioni per giustificare la lotta contro i marxisti del Partito laburista.

Per giustificare il suo sostegno attivo al New Labour, Hobsbawm disse che è “meglio avere un governo laburista piuttosto che non averlo.” Più tardi, quando il nome di Tony Blair puzzava così tanto che non era più possibile difenderlo per chiunque fosse lontanamente di sinistra, Hobsbawm gli rivolse alcune critiche secondarie. Era un tentativo di coprire le tracce e far dimenticare che le sue teorie revisioniste avevano contribuito a preparare il terreno per la Terza via, il New Labour, Tony Blair e tutto il resto.

Alcuni tentano di difendere la sua capitolazione al blairismo facendo notare che era stato critico  sulla “guerra al terrorismo” e aveva accusato gli Stati Uniti di cercare di “ri-colonizzare” il mondo. Non è molto, dato che la stragrande maggioranza delle persone in Gran Bretagna era contraria all’invasione dell’Iraq e  che l’anti-americanismo a buon mercato la più svalutata di tutte le valute nella “sinistra” ex stalinista. L’ala destra laburista ha tutte le ragioni per essere grata a quest’uomo. Ma la sinistra non ne ha alcun motivo.

Parte terza – Il professore aderisce al sistema

Crisi? Quale crisi?


Ho appena letto un’intervista a Eric Hobsbawm fatta da Wlodek Goldkorn, pubblicata da L’Espresso. Come la maggior parte dei suoi scritti recenti, si tratta di una collezione di divagazioni incoerenti senza capo né coda, ma una o due frasi si distinguono in un meraviglioso technicolor. Hobsbawm rassicura i lettori de L’Espresso che non c’è da preoccuparsi per il futuro del capitalismo. Ecco come Goldkorn riassume l’intervista:

La notizia della morte del capitalismo è come minimo prematura, il sistema economico e sociale che ha dominato il mondo per secoli non è neanche malato, basta guardare la Cina per convincersi e vedere il futuro. Nell’Est masse di contadini stanno entrando nel mondo del lavoro salariato, abbandonando quello rurale e diventando proletari. È nato un nuovo fenomeno, senza precedenti nella storia, il capitalismo di Stato, dove la vecchia borghesia illuminata, creativa, anche quando rapace – come la descriveva Marx nel Manifesto del Partito comunista – è stata sostituita da istituzioni pubbliche. In breve, non siamo di fronte all’apocalisse e la rivoluzione non è dietro l’angolo. Il capitalismo sta semplicemente cambiando pelle.

Ogni volta che parla di socialismo, il Professor Hobsbawm è immerso nel più profondo pessimismo, ma quando parla delle prospettive future per il capitalismo, immediatamente si rianima ed esprime la propria completa fiducia nelle prospettive future. Si cercherebbe invano negli editoriali della stampa borghese oggi un tale ottimismo. Infatti, il giornalista italiano non sembra essere del tutto convinto della diagnosi speranzosa del professore, e si avventura a chiedergli se vi è una cura per un sistema che, con il dovuto rispetto, è chiaramente molto malato.

Alla domanda, “C’è una cura?”, il professore risponde:

Sì, a patto che si capisca che l’economia non è fine a se stessa, ma condiziona gli esseri umani [!]. Lo si vede osservando l’andamento della crisi in corso. Secondo le antiquate credenze della sinistra la crisi dovrebbe produrre rivoluzioni. Non le abbiamo viste (se non qualche esplosione di rabbia). E siccome non sappiamo neanche quali sono i problemi che stanno per sorgere, non possiamo nemmeno sapere quali saranno le soluzioni.

Queste parole sono simili a quelle dell’oracolo di Delfi. Suonano misteriose e profonde, ma sono totalmente prive di qualsiasi contenuto concreto. La nostra attenzione è attirata dal fatto che “l’economia non è un fine in sé”. Quando i nostri antenati paleolitici crearono la prima ascia di pietra, sembra che questo non fosse un atto prodotto per un fine in sé, ma in realtà era pensato per qualche scopo. Una scoperta così meravigliosa non può che meritare un  alto riconoscimento.

Seguendo questa grande scoperta, il professore ora ci informa che l’attività economica tocca l’uomo. Questa profonda verità ha un’applicazione universale, e può dirsi vera per ogni aspetto conosciuto dell’attività produttiva umana. Può essere applicata con fiducia, non solo al capitalismo, ma a ogni modo di produzione noto, del passato, del presente o del futuro.

Qualcuno potrebbe far rispettosamente notare che il sistema capitalista, oltre a colpire gli esseri umani, è ben noto per essere basato sulla produzione per il profitto. Tuttavia, ignorando questo fatto ben noto, il Professore rosso continua le sue variazioni sul tema della attività economica “che condiziona gli esseri umani”, da cui trae una conclusione interessante.

Capitalismo di Stato?



Non è scontato che il capitalismo possa funzionare senza istituzioni come il Welfare. E il Welfare è di regola gestito dallo Stato. Penso quindi che il capitalismo di Stato abbia un grande futuro.

Di nuovo, il professore torna a quello spirito di ottimismo che caratterizza da sempre la sua visione del capitalismo. E se il capitalismo normale non funziona, si può sempre avere capitalismo di Stato. Che cosa sia esattamente questo capitalismo di Stato non ci dato sapere ma ha comunque un futuro meraviglioso.

Hobsbawm spiega che il capitalismo di Stato sostituirà il libero mercato. Questa è la sua vera prospettiva. Niente socialismo. Bisogna solo gestire il capitalismo, il capitalismo regolato, ben educato, il capitalismo civile – il capitalismo dal volto umano.

In questo meraviglioso nuovo mondo alla Hobsbawm, lo Stato farà in modo che il capitalismo si comporti bene. Introdurrà norme e regolamenti al fine di evitare quei dissensi innecessari (“lotta di classe”) causati da livelli eccessivi di disuguaglianza. Il sole splenderà. Sorgerà l’era della felicità universale e l’umanità vivrà per sempre felice.

Ora, poiché il professor Hobsbawm ha continuato a definirsi marxista fino alla fine dei suoi giorni, si presume che conoscesse la teoria marxista dello Stato. Marx, Engels e Lenin spiegarono che lo Stato è un organo di coercizione atto a mantenere il dominio di una classe su tutta la società. Non c’è mai stato, e non ci potrà mai essere, uno Stato che esiste in sé e per se stesso.

L’idea che lo Stato possa essere un arbitro neutrale tra le classi, costituendo un organismo imparziale al di sopra della società, è un mito che viene coltivato con cura dalla classe dominante, per nascondere la realtà del proprio dominio. Questa idea mistica dello Stato è stata accettata dai riformisti socialdemocratici come scusa per il loro abbandono di una posizione rivoluzionaria. Furono personaggi come Kautsky e Bernstein a fornire la copertura teorica a questa capitolazione.

Eric Hobsbawm non è nemmeno originale nel suo revisionismo. Si è limitato a ritirare fuori le assurdità riformiste di Bernstein. Si potrebbe sostenere che almeno apparentemente vi fosse una giustificazione per queste idee prima della Prima guerra mondiale, quando il capitalismo era ancora in fase di espansione. L’economia cresceva, il tenore di vita migliorava per molte persone, e la borghesia poteva permettersi di fare concessioni e riforme. Ma oggi non è più così.

Ovunque la borghesia esige un peggioramento del tenore di vita delle masse, hanno saccheggiato gli Stati per salvare le banche private, e sono determinati a far pagare il conto ai lavoratori e ai ceti medi. Lo Stato è in bancarotta, nel senso più letterale del termine. Ci è stato detto più volte che non ci sono soldi per scuole, ospedali, case o pensioni.

Lungi dal battersi per le riforme, i socialdemocratici sono impegnati in tutto il mondo a gestire i tagli richiesti dai banchieri e dai capitalisti. Ma questa politica non fa che aggravare la crisi, creando le condizioni per un nuovo crollo. La borghesia e i suoi economisti addomesticati non hanno idea di come uscire dalla crisi. L’unica cosa su cui sono d’accordo è che ci deve essere austerità per anni, se non decenni. E questa è di una ricetta bell’e pronta per una intensificazione della lotta di classe.

In queste condizioni, immaginare che lo Stato, controllato dalla borghesia, sia in grado di regolare il sistema e risolvere la crisi è peggio che utopico, è semplicemente stupido. Se si accetta il capitalismo, allora se ne devono anche accettare le leggi. Queste leggi sono molto semplici.

Se l’economia è in mano a privati, dai loro investimenti dipenderà il suo funzionamento, ma i capitalisti investiranno solo se possono ottenere quanto considerano un tasso accettabile di profitto. Pertanto il compito dello Stato è quello di creare condizioni favorevoli perché i banchieri e i capitalisti facciano profitti più alti possibili.

Come? Riducendo quanto i capitalisti ritengono oneri e ostacoli inutili al profitto. Il livello di tassazione dei ricchi non deve quindi aumentare ma essere il più basso possibile. Questo significa adottare le dovute misure (leggi tagli) per quanto riguarda tutte le voci inutili di spesa pubblica, come istruzione, edilizia sociale, sanità e pensioni.

È per questo che ogni governo sta tagliando la spesa sociale e da un punto di vista capitalistico, ciò è assolutamente giusto e necessario. È inutile lamentarsene. Se si accetta il sistema capitalista, è inutile protestare per le sue conseguenze. L’idea che si possa avere un capitalismo dal volto umano è più o meno come chiedere a una tigre mangiatrice di uomini di mangiare insalata anziché carne.

Socialismo o barbarie


Hobsbawm continua:

“Ho scritto tempo fa che abbiamo vissuto con l’idea di due vie alternative: il capitalismo da una parte il socialismo dall’altra. Ma è un’idea stramba che Marx non ha mai avuto. Spiegava invece che questo sistema, il capitalismo, un giorno sarebbe stato superato. Se guardiamo la realtà: gli Usa, i Paesi Bassi, la Gran Bretagna, la Svizzera, il Giappone, possiamo arrivare alla conclusione che non si tratta di un sistema unico e coerente. Ci sono tante varianti del capitalismo”.

Marx non parlava affatto solo di capitalismo o socialismo né ha previsto semplicemente un balzo improvviso “da qui a lì”. Ha scritto molto in dettaglio in opere come “Critica al programma di Gotha” che tra il capitalismo e il socialismo vi è un periodo di transizione, uno Stato operaio o, per usare la vecchia espressione, la dittatura del proletariato. Non ha mai parlato di capitalismo di Stato per la buona ragione che si tratta di una formulazione confusa e non scientifica.

Tuttavia, Marx ed Engels si occuparono della tendenza immanente che ha lo Stato nel capitalismo a invadere l’economia, un fatto che dimostra indirettamente i limiti dell’economia di mercato. Il fatto che oggi in ogni paese le grandi banche siano completamente dipendenti dagli aiuti di Stato per la loro sopravvivenza è un’indicazione molto plastica di come il sistema capitalista abbia esaurito il suo potenziale e debba essere “superato”, o per dirla più terra terra, rovesciato e sostituito con qualcosa di meglio.

Ma il nostro Eric non vuole rovesciare nulla. Ha un’idea ben migliore. Dal momento che il capitalismo esiste in una molteplicità di forme, si può presumibilmente scegliere il miglior tipo di capitalismo, lasciando da parte il cattivo capitalismo neoliberista e selezionando invece quello buono, keynesiano, civilizzato. È come un enorme buffet, dove si possono assaggiare i bocconi più gustosi, lasciando perdere i pezzi meno appetitosi.

È un quadro confortante che però purtroppo non ha nulla a che fare con la realtà della situazione attuale. Ovunque la borghesia sta chiedendo profondi tagli alla spesa pubblica. Lungi dall’espandere e perfezionare lo stato sociale, sono determinati a eliminarlo del tutto. La profonda verità universale che “l’economia condiziona l’uomo” non può aiutarci a rispondere alla domanda che occorre farsi: se vi è un rimedio alla crisi attuale del capitalismo.

Invece di dirci quale potrebbe essere la cura, il professore si affretta a dirci che cosa non lo è. Respinge con forte sdegno “le credenze antiquate della sinistra”, vale a dire che la crisi sia in grado di produrre rivoluzioni. L’uomo che ha scritto così lungamente (e in modo molto efficace) delle rivoluzioni del passato ora ci assicura che non ci saranno rivoluzioni in futuro, ma dato che una rivoluzione altro non è se non un cambiamento fondamentale nella società, nel modo di produzione e distribuzione e nei rapporti di proprietà che ne derivano, quello che intende è che, con il capitalismo, la storia si è di fatto fermata.

Perché il capitalismo dovrebbe essere diverso da altri sistemi socio-economici che lo hanno preceduto non si sa, e il professore non fa alcun tentativo di illuminarci. La sua sola logica è la seguente: dato che il capitalismo esiste e non è ancora stato rovesciato, deve continuare ad esistere nel futuro prevedibile.

Il fatto che sia in crisi, che stia affondando e trascinando con sé la società nel baratro, tutto questo lascia nella totale indifferenza il professore, ma non i milioni di persone che ne soffrono le conseguenze e cercano di agire di conseguenza. L’alternativa reale che ha l’umanità non è tra il capitalismo “cattivo” (“neo-liberismo”) e il capitalismo “buono” (keynesismo), ma tra socialismo e barbarie, come spiegava Marx.

Il principio della felicità


Il professore continua la sua lezione:

Si guardi la storia. L’Urss ha tentato di eliminare il settore privato ed è stata una sonora sconfitta. Dall’altro lato, il tentativo ultraliberista è pure miseramente fallito. La questione non è quindi come sarà il mix del pubblico con il privato, ma quale è l’oggetto di questo mix. O meglio qual è lo scopo di tutto ciò. E lo scopo non può essere semplicemente la crescita economica. Non è vero che il benessere è legato all’aumento del prodotto totale mondiale“.

Ci scusiamo con il lettore per queste frasi incomprensibili e incoerenti ma è ciò che ha detto effettivamente il professore. Qual è allora il vero scopo dell’economia? L’intervistatore pungola utilmente l’anziano intellettuale nella giusta direzione:

lo scopo dell’economia è la felicità?

Certo”.

Qui la profondità dell’argomento raggiunge il suo zenit (o forse dovremmo dire il suo nadir?). Lo scopo dell’economia è la felicità! Ma questo lo sapevamo già da molto tempo, da quando Jeremy Bentham, il filosofo arci-borghese che Marx disprezzava con tutto se stesso, ha inventato il suo “principio della felicità”.

Ora, è un fatto che il sistema capitalista è già progettato per produrre la felicità, e ci riesce molto bene. I banchieri, i proprietari terrieri e i capitalisti sono in generale molto felici di questo sistema. Fanno sempre favolosi profitti anche quando la maggior parte della gente si impoverisce. È anche vero che la loro felicità è inversamente proporzionale a quella della grande maggioranza del genere umano.

Tutto questo non è sorprendente in quanto, come ha spiegato Marx, la felicità di una classe è ottenuta a costo della miseria della maggioranza. Questo è ciò che porta alla lotta di classe, su cui il professor Hobsbawm scriveva una volta in modo così eloquente, ma di cui nella sua vecchiaia ha solo un vago ricordo.

È purtroppo un po’ tardi per chiedere al vecchio Eric una cosa, ma vorremmo porre lo stesso la questione, a beneficio di quelle anime fuorviate che ancora credono che fosse una specie di marxista. Com’è possibile realizzare un’economia basata sulla realizzazione della “massima felicità per il maggior numero di persone” (per citare il vecchio Jeremy Bentham), lasciando la terra, le banche e i grandi monopoli nelle mani dell’un per cento della popolazione?
La si può rigirare come si vuole, ma è impossibile rispondere a questa domanda se non in senso negativo. In altre parole, non è possibile arrivare alla “massima felicità per il maggior numero di persone” a meno che le leve fondamentali del potere economico non siano tolte dalle mani di pochi e poste sotto il controllo e la direzione della maggioranza, le persone che effettivamente producono la ricchezza della società – la classe lavoratrice.

Ma qui sorge subito un problema. Dato che le persone dell’un per cento dominante sono estremamente soddisfatte della propria situazione, non sono affatto ansiose di cambiare e sarebbero estremamente infelici se qualcuno proponesse una cosa del genere. Inoltre, dal momento che questi pochi si ritrovano ad avere in mano i mezzi di comunicazione di massa, un sacco di soldi e lo Stato, si può immaginare che userebbero tutto questo per proteggere la loro felicità contro la maggioranza infelice.

Questo ci riporta direttamente al punto di partenza. Hobsbawm nega ogni possibilità di rivoluzione. Eppure tutta la storia dimostra (anche i suoi libri) che nessuna classe o casta dominante ha mai ceduto il potere, la ricchezza e i privilegi senza combattere – il che di solito significa una lotta senza esclusione di colpi.

Perché dovrebbe essere diverso ora? Si ritiene sinceramente che l’attuale classe dominante sia diversa da chi governava la Francia nel 1789 o la Russia nel 1917? Sono più gentili, più saggi, più democratici, più umani? Evidentemente questo è ciò che credono i riformisti come Hobsbawm, e hanno pure il coraggio di descrivere i marxisti come utopisti!

C’è bisogno di crescita economica?


Abbiamo già citato le parole di Hobsbawm:

Lo scopo non può essere semplicemente la crescita economica. Non è vero che il benessere è legato all’aumento del prodotto totale mondiale”.

Queste parole non hanno alcun senso. Certamente non hanno nulla in comune con il marxismo. Quando si parla di un’economia nazionalizzata e pianificata non stiamo parlando del “prodotto totale mondiale”, ma solo dell’economia nazionale, almeno in prima battuta. Perché è da essa che dipende il benessere prima di tutto.

Gli economisti e i politici borghesi (e anche i riformisti) dicono sempre ai lavoratori e ai ceti medi: “vedete, non possiamo darvi più scuole, ospedali e pensioni perché c’è la crisi. Dobbiamo prima appianare il deficit. Tutti dobbiamo fare dei sacrifici”. In una situazione del genere, è impossibile parlare di benessere. Al contrario, ci troviamo di fronte ad anni, se non decenni, di tagli, austerità e crollo del tenore di vita.

Quando Hobsbawm sostiene che il benessere non dipende dalla crescita economica, dice una sciocchezza. È esattamente ciò da cui dipende. A meno che non siamo in grado di spiegare come realizzare un alto tasso di crescita economica, come aumentare la ricchezza della società, non avremo alternativa che quella di accettare la logica dei tagli e dell’austerità che scaturisce inevitabilmente dalla crisi del capitalismo.

Perché abbiamo bisogno di nazionalizzare i mezzi di produzione? Non è perché siamo vendicativi verso la borghesia, né per ragioni sentimentali o dogmatiche, è perché l’unica cura per la disoccupazione è un’economia basata su un piano razionale non subordinato agli interessi di un piccolo gruppo di profittatori.

Una volta che le leve fondamentali dell’economia siano nelle nostre mani, saremo in grado di pianificare l’economia nel suo insieme in modo armonico e razionale. Inizieremmo a utilizzare i disoccupati in un piano immediato per costruire case, ospedali, scuole e università. Si metterebbe in moto tutto il potenziale produttivo inutilizzato, in modo tale che la ricchezza della società si svilupperebbe più liberamente che mai. In tali circostanze, il problema dei deficit scomparirebbe immediatamente.

Si tratta di una strategia e di un programma chiari e coerenti per uscire dalla crisi. Non c’è un atomo di utopismo. Tutto questo sarebbe facilmente possibile sulla base dell’apparato produttivo e della tecnologia già esistenti. Il problema non è che la base produttiva per il progresso non ci sia. Esiste e da tempo, ma è paralizzata dalla ormai antiquata camicia di forza della proprietà privata e dello Stato nazionale.

Eppure, per il nostro Eric è un’utopia impossibile, mentre, al contrario, si considerava un vero realista. In che cosa davvero consiste la sua ricetta realistica? Citiamo le sue parole:

Abbiamo l’obbligo morale di provare a costruire una società con più uguaglianza. Un paese in cui vi è maggiore equità è probabilmente un paese migliore, ma dove possa fissarsi il grado di uguaglianza di una nazione non è del tutto chiaro”.

Qui ci troviamo nella più pura delle utopie pure. Diventiamo viaggiatori del tempo sbarcati di nuovo nel mondo ideale di Robert Owen, Saint-Simon e Fourier. O meglio (perché non vogliamo fare un torto a quei grandi pensatori), siamo tornati a duemila anni fa e ci ritroviamo ad ascoltare il discorso della montagna.

In questo particolare mondo fra le nuvole non siamo motivati da condizioni oggettive, quali la crisi del capitalismo, ma da un “obbligo morale”, che suona più come Kant (l’imperativo categorico) che come Marx. Il nostro compito non è quello di lottare per il socialismo (che è utopico), ma “costruire una società con più uguaglianza”. Questa società sarebbe “probabilmente migliore” (non siamo proprio sicuri). Né siamo proprio certi di “quanta uguaglianza la società potrà sostenere” (si può avere troppo anche di qualcosa di buono…).

Tutto questo è limpido come il fango. Quello che è veramente sorprendente è come una persona seria possa prendere sul serio queste chiacchiere su “moralità” e “uguaglianza”. Il capitalismo è ineguale per sua stessa natura. La morale non c’entra.

Economia mista?

Seguiamo ora il professore dall’Italia alla Gran Bretagna. In un’intervista con il Guardian, pubblicata con il titolo “Il socialismo è fallito. Ora il capitalismo è in bancarotta. Quindi ora che cosa succede?”, Hobsbawm spiega:

“L’impotenza dunque colpisce sia quelli che credono in ciò che equivale a un capitalismo di mercato puro, senza Stato, una sorta di anarchismo borghese internazionale, sia coloro che credono in un socialismo pianificato incontaminato dalla ricerca del profitto privato. Entrambi hanno fallito. Il futuro, come il presente e il passato, appartiene alle economie miste, in cui pubblico e privato sono intrecciati insieme in un modo o nell’altro. Ma in che modo? Questo è il problema che tutti devono affrontare oggi, soprattutto a sinistra” (The Guardian, 10 aprile 2009).

Questa è la posizione comoda di un uomo che se ne sta in piedi (o meglio sdraiato supino) ai margini delle cose ed emette un severo giudizio sulla razza umana. Non è per il capitalismo né per il socialismo. È al di sopra di tutto. Ripete le parole di saggezza del re Salomone: “vanità, vanità, tutto è vanità”.

Giustapporre un’economia mista al capitalismo è tanto ignorante quanto sciocco. Tutte le economie capitaliste sono “miste”, nel senso che c’è sempre un certo grado di partecipazione dello Stato nella vita economica. Ci sono alcuni settori che sono inutili e di nessun interesse per gli investitori privati, ma allo stesso tempo sono necessari per il funzionamento dell’economia nel suo complesso. Ad esempio, la nazionalizzazione delle poste in Gran Bretagna è stata effettuata dai conservatori nel XIX secolo. La politica della borghesia e dei riformisti è: nazionalizzare le perdite e privatizzare i profitti. I marxisti, al contrario, sostengono la nazionalizzazione dei punti chiave della vita economica sotto il controllo democratico e la gestione dei lavoratori. Non pensiamo di nazionalizzare le piccole imprese e aziende agricole, comunque. Non è affatto necessario, dal momento che sotto il capitalismo non hanno un’esistenza indipendente, ma dipendono dalle banche, dai monopoli, dai supermercati, ecc.

Solo eliminando la proprietà privata di questi mezzi di produzione sarà possibile porre fine all’incubo dell’anarchia capitalista e cominciare a pianificare la produzione su linee razionali, a beneficio della maggioranza e non dei profitti di pochi.

Il problema più grave della sinistra è che non propone un’alternativa al capitalismo decadente e questo perché è in gran parte dominata da ex-stalinisti come Hobsbawm che hanno completamente abbandonato il socialismo, e il cui più ardente desiderio è quello di garantire che i giovani non intraprendano la strada verso il socialismo.

Tutti, vedete, sono “impotenti” – tutti fatta eccezione del professor Hobsbawm, che ha una profonda comprensione di tutto quanto si muove sotto il sole e anche di più. In realtà, le persone più impotenti sono proprio gli eroi da seminario universitario, che si considerano al di sopra della storia, della società, della lotta di classe e della razza umana in generale, mentre in realtà, si situano a un livello infinitamente più basso.

Attendiamo con impazienza crescente la soluzione del professore ai problemi dell’umanità sofferente. Dicci, o professore, qual è la risposta? Ma, come le ostriche nel racconto del tricheco e del carpentiere, “risposta non vi fu”.

Un apologeta del sistema


L’11 maggio 2006 Repubblica pubblicò un’intervista con Hobsbawm su Giorgio Napolitano. Il giornalista, Enrico Franceschini, inizia informando il professore che il suo vecchio amico Giorgio Napolitano è stato eletto Presidente della Repubblica. Hobsbawm è in estasi:

Che notizia meravigliosa!”, esclama al telefono dalla sua casa di Londra a Hampstead. “Il mio amico Giorgio, Presidente! Sono contento per lui, per il suo partito e per l’Italia. Si tratta di una scelta eccellente”. E ancora: “Penso che sia la migliore scelta possibile. Napolitano ha un’immagine molto positiva e sarà un grande presidente. È molto più di un ex-comunista, come lo chiamate: ha avuto un ruolo centrale negli affari politici del suo partito, ma è stato anche una figura politica di alto livello, apprezzato da tutti per il suo ruolo di Presidente della Camera e Ministro degli interni. Direi che rappresenta la migliore tradizione dell’Italia”.

Il professore non si è mai fermato a pensare perché l’establishment italiano avesse deciso di fare di questo ex “comunista” il Presidente della Repubblica. La risposta non è difficile da capire. È stato un grato riconoscimento per i servizi resi alla borghesia da Napolitano, l’uomo che, insieme ad altri dirigenti “comunisti”, aveva trasformato quello che una volta era il potente Pci in un partito borghese – il Partito Democratico (Pd). In altre parole, Giorgio Napolitano, come Eric Hobsbawm, è diventato parte del sistema.

Nel 1998, in segno di gratitudine per i servizi resi, Eric Hobsbawm è stato fatto Companion of Honour (un ordine cavalleresco, Ndt) dalla regina. Questo poco dopo che Tony Blair è diventato Primo ministro e lo stesso Blair deve aver avuto un ruolo nella faccenda.

Un anno prima della sua morte, questo ex “comunista” ha consacrato definitivamente la sua degenerazione politica strisciando di fronte alla monarchia:

La monarchia costituzionale senza potere esecutivo si è dimostrata un quadro di riferimento affidabile per i regimi liberal-democratici, come nei Paesi Bassi, in Belgio, in Gran Bretagna e in Spagna. È probabile che continui a giocare un ruolo utile, se non altro perché rimuove la politica dal problema della successione (immaginate di dover scegliere un membro dei governi presenti e passati come presidente). Non fa male a un monarca praticare una religione, ma non c’è bisogno di identificare un paese dove si professano più religioni o senza religione con un monarca che è il capo di una fede unica. La monarchia ha cessato di essere rilevante per la maggior parte degli abitanti del Commonwealth. Ciò diventerà chiaro dopo la morte della attuale regina”.

Lo stesso Hobsbawm che elogiava i giacobini che tagliarono la testa a Luigi XVI ci spiega oggi che la monarchia costituzionale in generale “si è dimostrata un quadro di riferimento affidabile per i regimi liberal-democratici” ed “è probabile che continui a giocare un ruolo utile”. Questa chicca era all’interno in un articolo opportunamente intitolato God save the Queen (Prospect, 23 marzo 2011). Si può immaginare un esempio più disgustoso di inchinarsi e strisciare di fronte al potere – anche nelle sue manifestazioni più retrograde e reazionarie?

Apostasia

In un’intervista pubblicata su La Stampa il primo luglio 2012, a Hobsbawm è stato chiesto se fosse ancora comunista e ha risposto come segue:

Il comunismo non esiste più. Sono leale alla speranza di una rivoluzione anche se non credo che succederà più. Non so se basta per essere comunista, io sono marxista perché penso che non ci sarà stabilità finché il capitalismo non si trasformerà in qualcosa di irriconoscibile dal capitalismo che conosciamo oggi.

In un’intervista su Bbc2 all’inizio del 2012, al professore è stato chiesto da Jeremy Paxman se il capitalismo fosse compatibile con la giustizia sociale. Ha risposto: “si può fare in modo che lo sia”. Alla fine dell’intervista ha confessato di essere pessimista, che non pensava ci fosse una soluzione e che, di conseguenza, siamo di fronte a “un periodo burrascoso per i prossimi 20-30 anni”.

Può colpire un po’ che un uomo che ha trascorso la prima metà della sua vita a scrivere libri sulla lotta di classe (certo nei secoli XVIII e XIX) possa passare la seconda metà a spiegare come la lotta di classe sia una cosa del passato. È ancora più sorprendente che arrivi a una conclusione del genere proprio in un momento in cui la lotta di classe è in aumento in tutto il mondo.

Ovunque vediamo gli inizi di una resistenza: scioperi generali, manifestazioni di massa, occupazioni, gli indignados, ma il bravo professore non riesce a vedere che qualche “esplosione di rabbia”. Il suo atteggiamento verso la rivoluzione è sorprendentemente rivelato dal suo disprezzo per il maggio 1968 in Francia. Nel suo necrologio l’“Economist” ha preso atto con malcelata soddisfazione della cosa:

La più famosa manifestazione moderna di furia sinistroide, a Parigi nel maggio 1968, gli sembrava un affare da Club Med per i figli viziati della classe media [sic]”.

Basta questa sola frase sprezzante per vedere non solo il completo abbandono di ogni prospettiva socialista, ma il disprezzo assoluto per il potenziale rivoluzionario dei lavoratori e dei giovani. Questa sfiducia organica per le masse è sempre stata un segno distintivo dello stalinismo, anche in passato, quando ancora parlava di socialismo e di comunismo.

Karl Marx una volta scrisse che il poeta tedesco Goethe, nonostante i suoi successi, aveva ancora la coda del filisteo appesa al suo di dietro. Nonostante abbia fatto di tutto per negarlo, Hobsbawm si è portato penzoloni una coda stalinista fino alla fine dei suoi giorni. La mancanza di fiducia nella classe operaia e un arrogante disprezzo per le masse sono sempre stati parte della psicologia burocratica. Ma ai giorni nostri, nel periodo di apostasia che è seguito alla caduta dell’Urss, questa mentalità si è rivelata completamente marcia.

Da bambino, in Galles, sono cresciuto sulle rive dell’Atlantico. C’erano belle spiagge con lunghe distese di sabbia dorata. Quando si camminava lungo queste spiagge con la bassa marea, si potevano vedere tutti i tipi di una curiosa fauna, pesci morti e moribondi. Ma sempre tornava la marea, le onde spazzavano via tutto questo ciarpame, e le acque portavano con sé ossigeno e nuova vita.

C’è un’analogia tra le maree oceaniche e la lotta di classe. Anche in quest’ultima ci sono flussi e riflussi, per l’ovvia ragione che la classe operaia non può lottare in continuazione. Quando la lotta di classe ripiega, lascia dietro di sé tracce di demoralizzazione. Si sparge confusione nelle menti di uomini e donne, che sono preda di stati d’animo di pessimismo, scetticismo e cinismo corrosivo.

Gli uomini e le donne stanchi che hanno abbandonato ogni pretesa di combattere per il socialismo diventano professionisti del cinismo, il cui unico scopo nella vita è quello di infettare le giovani generazioni con il loro scetticismo velenoso. Li possiamo trovare nei caffè di tutte le capitali d’Europa, che piangono sul loro tè alle erbe lamentandosi della presunta apatia dei giovani mentre sono presi nei loro ricordi sentimentali di quando erano giovani e credevano ancora in qualcosa.

Questa categoria è quella che io chiamo dei pesci morti, e un pesce morto inizia a marcire dalla testa. Eric Hobsbawm apparteneva a tale categoria. Peggio ancora, ha cercato di teorizzare la sua apostasia con ogni genere di pretenziosi argomenti pseudo-marxisti. Si nascondeva dietro la fama di studioso “marxista” per seminare confusione e disperazione nella mente dei giovani. Qualunque sia il merito che può aver avuto in passato come scrittore è stato completamente distrutto da questo.

Gente come Hobsbawm ha pervicacemente difeso lo stalinismo per decenni. Poi, quando alla fine hanno abbandonato la nave, sono saltati sul carro del capitalismo e del riformismo, fornendo ragioni erudite sul perché il socialismo non potesse funzionare e perché fosse impossibile abbattere il capitalismo, raccomandando, pertanto, di accettare l’inevitabile e cercare semplicemente di riformare il sistema per renderlo un po’ più digeribile.

Hobsbawm arrivò infine alla conclusione che la Rivoluzione russa è stata un terribile sbaglio. Come spiegava gongolante l’Economist nel suo necrologio pubblicato il 5 ottobre,

Il comunismo è così ‘completamente’ fallito – [Hobsbawm] ha scritto – che ora deve essere evidente che il fallimento era insito in questa impresa fin dal principio”.

In un necrologio sul Manifesto, il giornale italiano, l’autore riporta un discorso di Hobsbawm dopo la caduta del muro di Berlino, in cui disse: “Forse nel 1917 sarebbe stato meglio non prendere il potere”. Questa frase riassume molto bene il suo pensiero, così che tutti i politici borghesi, i corrotti riformisti e accademici controrivoluzionari del mondo grideranno in coro: Amen!

È un’affermazione falsa dall’inizio alla fine. Ciò che è fallito in Unione Sovietica non è stato il socialismo così come lo intendevano Marx o Lenin ma una caricatura burocratica e totalitaria del socialismo. Ma qual è l’alternativa di Hobsbawm? Eccola:

C’è ancora spazio per la speranza più grande di tutte, quella di creare un mondo in cui uomini e donne liberi, emancipati dalla paura e dal bisogno materiale, vivranno insieme una bella vita in una buona società? Perché no? Il XIX secolo ci ha insegnato che il desiderio di una società perfetta non è soddisfatto da qualche schema prestabilito per la vita, mormone, owenisti o di qualsiasi altro tipo; e possiamo immaginare che, anche se un tale nuovo schema dovesse essere la forma del futuro, non saremmo in grado oggi di determinare che cosa sarebbe. La funzione di ricercare la società perfetta non è di fermare la storia, ma di aprire le sue possibilità sconosciute e inconoscibili agli uomini e alle donne. In questo senso la strada per l’utopia, fortunatamente, non è bloccata per il genere umano”. (The Guardian, 10 aprile 2009).

Leggendo queste righe, ci viene in mente un epitaffio perfetto per Hobsbawm: “Dal nulla, attraverso il nulla, fino al nulla.” Questo è il genere di vuote farneticazioni senza senso che oggi passano per pensieri profondi nei circoli accademici e tra la gente di sinistra che ha dimenticato come pensare.

È sufficiente confrontare queste sciocchezze alla chiarezza cristallina degli scritti di Marx, Engels, Lenin e Trotskij per vedere in che abisso spaventoso sono affondati gli intellettuali post-moderni. Vengono alla mente le parole di Hegel nella Fenomenologia dello spirito: “Da quel poco che può così soddisfare le esigenze dello spirito umano, siamo in grado di misurare l’entità della sua perdita”.
In molti hanno da tempo abbandonato la lotta per il socialismo ma molti di più stanno arrivando alla conclusione che bisogna rovesciare il capitalismo. A coloro che sono troppo stanchi, vili o demoralizzati per combattere chiediamo solo una cosa: fatevi gentilmente da parte, fateci continuare la lotta!

19 ottobre 2012

 

Note

1. Karl Friedrich Zoergiebel (1878-1961), socialdemocratico tedesco, fu questore di Colonia, Berlino e Dortmud nella Repubblica di Weimar.

2. Per quanto riguarda le opere di Hobsbawm, sono riportati i titoli nella traduzione italiana lasciando tuttavia l’anno di edizione dell’originale inglese. La traduzione è sempre dall’originale inglese

Condividi sui social