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Cina, nuovo crocevia della crisi?

di Claudio Bellotti

 

La crisi della borsa cinese dell’agosto 2015, innescata da una piccola svalutazione della moneta e accompagnata da una fuga di capitali, ha generato grandi preoccupazioni sui mercati e pone la domanda se ci si trovi di fronte alla semplice esplosione di una “bolla” speculativa o se la seconda economia del mondo si stia avviando a una vera e propria recessione.
Per rispondere è necessario considerare lo sviluppo cinese nella sua relazione con l’economia mondiale.
Per la Cina la crisi del 2008 è apparsa solo un episodio, tanto che il Pil ha continuato a crescere a ritmi elevatissimi (tra il 9 e il 10,4 per cento annuo) fino al 2011, e ancora nel 2012-2014 la crescita si è assestata oltre il 7 per cento.
Nel 2014 la crescita cinese da sola costituiva il 40 per cento della crescita del Pil mondiale. In altre parole, senza la Cina e le economie trascinate nella sua scia, il mondo avrebbe visto una depressione profonda e generalizzata.
Tuttavia per mantenere questo alto tasso di crescita, necessario ad assorbire la crescita della popolazione e il continuo spostamento dalle campagne alle città, l’economia cinese si è messa sulla stessa strada che dopo la crisi del 2001 ha portato le economie occidentali alla crisi del 2008, ossia quella della crescita basata sull’espansione del debito.
La crisi in Usa e in Europa infatti ha significato una riduzione importante degli sbocchi delle esportazioni cinesi, facendo crollare l’attivo commerciale che da oltre il 9 per cento del Pil (2008) è sceso attorno al 2 per cento (2012-2014).
Per compensare questa mancata domanda le autorità hanno incoraggiato un massiccio aumento della spesa pubblica e favorito con fiumi di denaro facile l’indebitamento di tutti i soggetti economici (governo centrale e governi regionali, imprese e famiglie). Ne è scaturita una crescita in gran parte drogata, fatta di spesa pubblica, investimenti crescenti quando gli sbocchi di mercato si stavano invece riducendo, esplosione del mercato finanziario. Secondo una stima dell’americana McKinsey, tra il 2007 e il 2014 il debito totale dell’economia cinese è passato da 7.000 a 28.000 miliardi di dollari.
Gli investimenti, base del trentennale boom cinese, sono arrivati a costituire oltre il 48 per cento del Pil (2010-2011) e tutt’ora superano il 45: una percentuale enorme che, in un mercato mondiale calante, implica necessariamente la sovrapproduzione. Infine il settore finanziario, grazie a fiumi di denaro facile, ha visto l’esplosione della Borsa di Shanghai. L’indice Shanghai Composite era poco sopra i 2000 punti nel 2014, è balzato a oltre 5000 a inizio 2015 per crollare sotto i 3000 a fine agosto. Circa 75 milioni di investitori individuali (altre stime parlano di 90 milioni) si sono gettati in massa a comprare e vendere azioni, spesso con denaro preso a prestito. Nell’insieme il settore dei servizi finanziari è arrivato a comporre un quinto della crescita cinese (inizio 2015) (Ft 28.9.2015), a conferma del carattere squilibrato e fittizio di buona parte del boom cinese.
Con il crollo di agosto sarebbero circa 25 milioni gli investitori che hanno dovuto lasciare il mercato borsistico.
Date queste premesse sono inevitabili nuove crisi. Il livello attuale di investimenti è incompatibile con una crescita che rallenta. Secondo le stime di Martin Wolf (Financial Times, 1 settembre) un livello più equilibrato sarebbe scendere dal 45 al 35 per cento del Pil. Se questo avvenisse bruscamente sarebbe già sufficiente a causare una recessione profonda. Anche il settore finanziario ridurrà sensibilmente il suo apporto alla crescita. Infine, considerata la modesta crescita del mercato mondiale non è probabile che dalle esportazioni possa venire un rilancio della crescita, piuttosto il contrario.
Dai quattro angoli del mondo economisti e leader politici si affannano a consigliare al governo cinese i modi migliori per superare la strettoia. In particolare si dice che la Cina deve alzare i salari e investire sul welfare, sull’ambiente e sul miglioramento dei consumi e delle condizioni di vita della massa della popolazione. Non si capisce perché i leader occidentali non applichino questi eccellenti consigli a casa propria e si affannino invece a tagliare salari, pensioni e stato sociale.…
Il rallentamento dell’economia cinese trascina con sé i paesi fornitori, in particolare di materie prime e semilavorati. Se alla crisi cinese si affiancano quella profonda del Brasile, le difficoltà della Russia e il rallentamento del Sudafrica si vede facilmente come l’idea che i “Brics” potessero trascinare l’economia mondiale si dimostri illusoria.

Globalizzazione in stallo

La crisi cinese mette anche in luce lo stallo subito dal processo di “globalizzazione” che è stato una delle chiavi della crescita del capitalismo negli ultimi decenni. Tale processo si è fondato su tre aspetti: 1) la crescita del commercio mondiale; 2) la crescita degli investimenti esteri; 3) l’enorme sviluppo del capitale finanziario.
Elaborando le cifre pubblicate dal Fmi possiamo vedere delle fasi ben distinte. Negli anni 1981-90 il Pil mondiale cresce del 39,18 per cento, mentre il commercio mondiale di merci cresce del 59,81; sono gli anni della ripresa capitalistica dopo le crisi degli anni ’70, anni segnati dal riflusso del movimento operaio nei paesi avanzati e delle lotte di liberazione nel mondo ex-coloniale.
Negli anni 1991-2000 la globalizzazione prende slancio, in particolare con il crollo del blocco sovietico e le ulteriori “riforme” economiche che aprono l’economia cinese al capitale privato. La crescita cumulata del Pil nel decennio è del 37,95 per cento mentre quella del commercio mondiale è del 99,05 per cento: oltre due volte e mezza. La crisi asiatica del 1997-98 interrompe solo temporaneamente il processo.
Dopo la crisi del 2001 il processo continua, sia pure a ritmo ridotto, fino al 2008, con una crescita cumulata del Pil del 39,3 per cento mentre il commercio mondiale cresce del 59,01 per cento.
Gli anni 2009-2015 vedono un netto cambiamento: il crollo del 2008 (che vede il commercio mondiale calare del 10,32 per cento in un solo anno) apre una fase nella quale la crescita – nella misura in cui si possa parlare di una vera crescita – non è più trainata dal commercio mondiale. Il Pil cumulato sale del 25,26 per cento, il commercio solo del 22,03: ossia per la prima volta gli scambi commerciali a livello mondiale procedono più lentamente della produzione. (Elaborazione dal World Economic Outlook database. Imf.org)
Uno studio della Banca d’Italia (A. Borin, R.Cristadoro, Gli investimenti diretti esteri e le multinazionali, ottobre 2014) mette in luce due lati dello stallo del processo di globalizzazione, ossia il commercio internazionale e gli investimenti diretti all’estero (Ide).1
Il volume accumulato degli Ide passa da circa l’8 per cento del Pil mondiale nel 1990 a circa il 33 per cento nel 2007. Dopo il 2007 c’è un crollo repentino, poi una parziale ripresa che però non si spinge oltre il livello pre-crisi. Analogo, anche se meno marcato, l’andamento delle esportazioni mondiali di beni e servizi. Il processo è ancora più visibile se si considerano i flussi annuali (vedi grafico).

Questo non significa che si stia tornando verso il capitalismo nazionale: l’integrazione degli scorsi decenni è un fatto strutturale, segmentare su base nazionale il sistema capitalistico oggi equivarrebbe ad amputare gambe e braccia da un corpo vivo. Significa invece che la concorrenza tra le grandi multinazioanali e gli Stati che le sostengono si fa ancora più spasmodica e caotica; che le contraddizioni assumono un carattere ancora più esplosivo e ingovernabile; che al posto del “pianeta piatto” (flat earth) sognato dagli apologeti del capialismo, nel quale merci e capitali avrebbero potuto fluire liberamente senza incontrare ostacoli di sorta, si sviluppa una lotta selvaggia da parte di ciascuna potenza per definire i propri mercati di riferimento dai quali escludere i concorrenti.
“Si è venuta modificando, con l’affermarsi delle cosiddette global value chain (Gvc) la divisione internazionale del lavoro e con essa – almeno in alcuni settori – la natura stessa delle imprese multinazionali che sono al centro di questo processo. Ne è conseguita anche una regionalizzazione degli scambi e degli investimenti di natura intra-industriale che ha interessato soprattutto gruppi di economie emergenti, portanto alla formazione di tre “poli” internazionali per le Gvc: il cosiddetto hub asiatico (o factory Asia) al quale si affiancherebbero factory Europe e factory North America.” (cit.).
I paesi avanzati raccoglievano nel 1990 il 75,3 per cento del totale degli Ide, la percentuale scende al 62,3 nel 2012. Viceversa le economie “emergenti” passano dal 24,8 al 33,7 per cento. Queste percentuali vanno rapportate all’esplosione degli Ide che nel 2011 sono arrivati a sommare 20.438 miliardi di dollari, pari al 29,3 per cento del Pil mondiale. A partire dal 2012 il flusso annuo degli Ide si dirige maggioritariamente verso i paesi emergenti.
La crisi tuttavia non è superata neanche qui. Nel caso della Cina, che con Hong Kong raccoglie circa un terzo del flusso complessivo (2010-11) il contributo degli Ide agli investimenti complessivi cala dal 15 per cento del 1995 al 3,3 per cento del 2012.

Fiumi di denaro fittizio

Anche nel mercato finanziario, che è il più fortemente integrato a livello mondiale, sono in atto cambiamenti profondi. Per sorreggere le banche messe in ginocchio dalla crisi e puntellare la montagna di debiti che minaccia periodicamente di precipitare facendo fallire imprese e interi Stati, tutte le banche centrali si sono convertite a politiche che definire espansive è dire poco. I tassi d’interesse reali sono quasi ovunque inferiori a zero (ossia depositando denaro si perdono soldi), i vari programmi di quantitative easing hanno riempito i bilanci della Federal Reserve e della Bce di ogni sorta di titoli, moltiplicandone di due, tre, quattro volte le dimensioni. Infine, la massa monetaria circolante è stata aumentata in misura a dir poco abnorme.
La misura della massa monetaria denominata M2, che include contanti e depositi  tra il 2007 e il 2013 si è accresciuta di quasi 24.000 miliardi di dollari. Di questa crescita, oltre metà (12.900 miliardi) viene dalla Cina (Financial Times, 25 settembre).
Di fatto i cosiddetti “mercati” finanziari galleggiano su un flusso pressoché inesauribile di capitale fittizio continuamente generato dalle banche centrali, che continueranno a fabbricare soldi finti fino a quando il meccanismo non gli scoppierà fra le mani, o meglio nella speranza che scoppi nelle mani del vicino.
In effetti la solidità di questa politica oramai non ha più nulla a che vedere con la presunta “efficienza” dei mercati (ammesso che sia mai stato così). Aziende e Stati non trovano credito in base alle condizioni del mercato e alla credibilità della loro offerta, ma si limitano ad allargare le mani sotto la pioggia di denaro messo in circolazione dalle banche centrali. La sostenibilità a lungo termine di questi castelli di carta si misurerà direttamente sulla forza dei principali Stati e dei blocchi che essi riescono a subordinare a sé. Da questo punto di vista, nonostante l’enorme sviluppo degli ultimi trent’anni, la Cina è in una posizione estremamente rischiosa.
Fino ad oggi l’espansione creditizia cinese poggiava su una solida base, ossia sui sistematici attivi commerciali che facevano affluire enormi quantità di valuta forte nel paese, permettendo così la creazione di una enorme riserva che nel luglio del 2014 superava i 4mila miliardi di dollari. Tuttavia quando durante la crisi di agosto le autorità cinesi hanno tentato di intervenire per sostenere i mercati azionari in tracollo, hanno bruciato circa 200 miliardi di dollari senza riuscire nel loro intento. La fuga di capitali è difficile da quantificare, anche per i numerosi flussi illegali o semilegali, tuttavia la stima è che già tra il giugno del 2014 e il giugno del 2015 le riserve fossero calate di circa 500 miliardi, scendendo a un totale di circa 3.700 miliardi di dollari, previsti in ulteriore calo a 3.300 a fine 2015.
Il progetto di inserire pienamente la valuta cinese, il renminbi, fra le valute di riferimento a livello mondiale aggiungerà ulteriori contraddizioni a questo scenario, contribuendo a generalizzare gli inevitabili shock sul mercato dei cambi e dei titoli. L’osmosi strettissima sviluppata tra l’economia cinese e quella Usa negli ultimi trent’anni significa che nessuna delle due economie è al riparo dalle contraddizioni dell’altra.
Se in futuro la Federal Reserve tornasse ad alzare i tassi d’interesse, questo significherebbe risucchiare capitali da tutto il mondo contribuendo a scatenare crisi a catena nei paesi emergenti e in particolare in Cina, con fughe di capitali, erosione delle riserve, crolli dei mercati borsistici e riduzione degli investimenti. D’altra parte, se la Cina si disimpegnasse in modo consistente dai propri investimenti in titoli Usa – oltre 1.200 miliardi di dollari in titoli di Stato e circa altrettanti in altri titoli di agenzie pubbliche Usa (Fubini, CorrierEconomia, 14 settembre 2015 –, questo a sua volta potrebbe causare una crisi del debito americano costringendo il Tesoro Usa ad offrire rendimenti maggiori (quindi aumentando fortemente il proprio debito pubblico) o, in alternativa la Fed a un nuovo giro di Quantitative Easing, la cui credibilità però potrebbe ad un certo punto venire messa in discussione dai famosi “mercati”.
Da entrambe le parti si tratta di una minaccia di usare una sorta di “arma finale”, un muoia Sansone con tutti i filistei e non a caso la Banca centrale americana in ottobre si è rimangiata il previsto aumento dei tassi, rilasciando dichiarazioni che dimostrano la totale confusione nella quale versano i vertici del capitalismo Usa. Ma anche lasciare le cose come stanno significa semplicemente attendere immobili che la prossima crisi si scateni senza avere strumenti per combatterla.

Lo scontro politico

La crisi di agosto ha anche fatto riemergere lo scontro di fondo tra Usa (e alleati) e Cina. Nonostante le multinazionali abbiano fatto e continuino a fare affari d’oro investendo in Cina, la borghesia si rende conto che lo Stato cinese mantiene un controllo sull’economia e una autonomia dai dettami dell’imperialismo che preoccupano. Nonostante gli investimenti occidentali in Cina abbiano molti tratti in comune con quelli effettuati in altri paesi ex-coloniali, la Cina mantiene la sua indipendenza, l’apparato statale non è sotto il controllo dell’imperialismo e anzi i successi economici ottenuti anche grazie a questi investimenti, se da un lato hanno alimentato la crescita vertiginosa della nuova borghesia cinese, dall’altro hanno rafforzato anche la burocrazia statale, che gode di una indipendenza di manovra sconosciuta a paesi quali il Brasile, l’India o il Messico (per citare alcuni dei paesi che hanno visto un maggiore afflusso di capitali esteri).
La burocrazia cinese del Partito comunista (Pcc) è certamente divisa, e nello scontro che si è condotto nel 2012-13 l’ala vincitrice guidata da Xi Jin Ping ha impugnato la bandiera di ulteriori liberalizzazioni e di nuovi passi verso la piena integrazione nel mercato mondiale, mandando in galera con accuse di corruzione alcuni burocrati oppositori (Bo Xi lai, condannato all’ergastolo, era la figura più nota).
Ma alle parole sono seguiti pochi fatti e molte frenate e marce indietro.
Nel mirino della borghesia internazionale ci sono le 155.000 imprese di proprietà statale, che con oltre 64 milioni di dipendenti costituiscono tutt’ora un settore chiave nell’economia cinese e che sono completamente fuori dall’influenza del capitale straniero.
Negli anni ’90 una prima “riforma” delle imprese statali aveva portato a un pesante ridimensionamento, con la perdita di circa 25 milioni di posti di lavoro. Ma il Pcc non ha alcuna intenzione di smantellare o svendere queste imprese. Al contrario, 190 di esse, veri e propri giganti, sono oggi gestite direttamente dal governo centrale e godono di priorità e privilegi in fatto di credito, imposte, ricerca, ecc. Nella classifica Fortune delle 500 maggiori imprese al mondo, ben 98 sono cinesi o di Hong Kong, e solo 22 di queste sono private. Le maggiori 12 sono tutte statali.
La promessa riforma del settore aveva solleticato gli appetiti e quando ne sono state pubblicate le linee guida, la frustrazione del Financial Times parlava da sé: “La pubblicazione del piano da tempo atteso per la ristrutturazione delle pesanti imprese statali si è dimostrata una nuova vittoria per gli interessi consolidati contro l’economia nel suo insieme. (…) L’ultimo piano punta ad incrementare l’efficienza e la competitività delle imprese statali senza puntare su una privatizzazione generale. Il suo approccio riflette le contraddizioni implicite nelle linee di riforma del 2013, che facevano appello al ‘ruolo decisivo’ del mercato nell’allocazione delle risorse pur preservando un ‘ruolo dominante’ per il settore statale. (…) All’appello a promuovere la ‘proprietà mista’ nelle imprese statali – eufemismo per privatizzazione parziale – segue la cautela nel proteggersi contro il ‘dissanguamento delle risorse statali’ (…) Il piano vuole aumentare la redditività, ma chiama anche a un rafforzamento del controllo del Partito.”
Nella sostanza si apre alla quotazione in Borsa di quote minoritarie del capitale (generalmente il 20 per cento), dalla quale peraltro spesso vengono tenute fuori le attività più redditizie e strategiche.
“Una questione largamente evasa dal piano è se si permetterà alle imprese statali di fallire. (…) Il piano cita di passaggio le possibili ‘uscite’, ma non approfondisce. L’accento viene posto sul rafforzamento del settore statale, non sulla sua riduzione” (Financial Times, 14 settembre 2015).
Un compromesso, quindi, nel quale tuttavia la burocrazia sta bene attenta a non farsi sfuggire le leve fondamentali.
Ed è questo il punto che viene messo nel mirino dai portavoce dell’imperialismo: di fronte a una crisi che erode le basi economiche dei compromessi precedenti, devono tornare a porsi la domanda “chi comanda in Cina?”.
L’ex presidente della Banca Mondiale Robert Zoellick commenta così: “Gli avvenimenti di questa estate hanno scosso la fiducia globale nell’impegno della Cina per riforme economiche strutturali. (…) Quando i mercati sono caduti le sue reazioni casuali sono apparse controproducenti. Il partito sembrava deciso a comandare ai mercati come comanda alle persone. Alcuni si sono domandati cosa significassero questi interventi – con il loro affidamento alle imprese statali, a regolamenti dirigisti e a un massiccio finanziamento pubblico – per le future riforme cinesi. L’imposizione di controlli è apparsa in conflitto con i piani per l’apertura dei mercati finanziari per una migliore allocazione del capitale, e con l’espansione del settore privato che è stato il motore della crescita cinese” (Financial Times, 7 settembre 2015).
Sorvolando per un momento sulla faccia di bronzo di chi nell’Anno Settimo della crisi parla di “allocazione efficiente delle risorse” e recita sermoni contro l’intervento statale dopo che la finanza mondiale è stata salvata con circa 14mila miliardi di dollari di risorse pubbliche, emerge chiaramente la preoccupazione per lo scontro implicito con la burocrazia cinese.
Sulla stessa linea, Martin Wolf dopo avere ripetuto le solite ricette, chiude la sua analisi con queste parole: “Una discontinuità nella crescita cinese è ora più probabile che mai da decenni; tale discontinuità (delicato eufemismo! – ndr) potrebbe non essere breve e la sfida per i governanti è enorme. Devono ristrutturare una economia in rallentamento senza andare a sbattere.
Soprattutto, la sfida non è solo e neppure principalmente tecnica. Una grande domanda è se un’economia guidata dal mercato sia compatibile con la crescente concentrazione del potere politico. La prossima fase dell’economia cinese è un enigma. La sua soluzione plasmerà il mondo.” (Financial Times, 1 settembre 2015).

Questo articolo era stato già completato quando c’è stata la firma del trattato Tpp (Trans Pacific Partnership) tra 12 paesi dell’area del Pacifico, fortemente promosso dalla presidenza di Obama. Il Tpp conferma la sua natura di trattato rivolto contro la Cina, ispirato dalla logica di “arginare la crescente influenza della Cina, fuori dall’intesa, premendo perché acceleri il suo cammino verso trasparenza e free market” (il Sole 24ore, 6 ottobre). Considerati i diversi punti deboli del Tpp (a partire dall’assenza della Corea del Sud) e il protagonismo cinese attraverso la New Development Bank, promossa assieme ai Brics, e la Asian Infrastructure Investment Bank, promossa dalla Cina con la partecipazione di 50 paesi asiatici e non, è tutto da dimostrare che il Tpp possa raggiungere questo scopo.

Novembre 2015

 

Note
1. Si considerano investimenti diretti, a differenza di quelli di portafoglio, quelli volti a stabilire un “interesse duraturo” in un’impresa residente in un paese straniero. Convenzionalmente si usa la soglia del 10 per cento del capitale dell’impresa interessata. Gli Ide assumono forme molto diverse, dalle fusioni e acquisizioni di imprese esistenti, ai reinvestimenti nelle filiali estere delle multinazionali, fino ai cosiddetti greenfield, ossia quelli volti a costruire dal nulla nuovi insediamenti produttivi.

 

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