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Presentazione del libro “Storia della filosofia” a Cosenza!
12 Febbraio 2025
La presidenza Trump crea turbolenze enormi in tutto il mondo
14 Febbraio 2025di Antonio Erpice
A quarant’anni dalla morte il nome di Michel Foucault si aggira per le università di tutto il mondo. Il filosofo di Poitiers è tra i pensatori più citati nell’ambito delle scienze umane, le sue idee sono di moda e su di lui aleggia un’aura di sacralità. Una biografia a lui dedicata, riedita recentemente in Italia, ha come sottotitolo il filosofo del secolo1 e sicuramente nella crisi generale che attraversa la filosofia Foucault sembra resistere alla prova del tempo. Foucault è dappertutto: gli studi a lui dedicati o ispirati al suo pensiero non si contano. Ci si imbatte di continuo in nuovi testi sulla teoria del discorso, sul potere, sulla storia della sessualità o sui processi di soggettivazione scritti col caratteristico linguaggio per iniziati e un vocabolario esoterico fatto di dispositivi, corpi, regimi di verità, società panoptica e così via, che nella maggior parte dei casi nulla aggiungono a quanto detto dallo stesso filosofo francese ma che valgono come professione di fede.
La sua influenza non è confinata alle aule universitarie e se è vero che Foucault, anche per mezzo delle innumerevoli interviste e dichiarazioni pubbliche, si è sempre presentato come un filosofo dell’attualità, oggi lo ritroviamo più di prima nelle teorie politiche – per non parlare delle “pratiche”, così care ai foucaultiani! – prodotte dall’accademismo di sinistra negli ultimi decenni. Imparentati con Foucault sono, per citare i casi più noti, le politiche identitarie e le teorie postcoloniali (a cominciare da quelle di Edward Said), gli studi di genere di Judith Butler e quelli sul populismo di Laclau e Mouffe: tutte teorie che hanno l’ambizione di condizionare il dibattito politico e le lotte nella società.
Piaccia o meno, a sinistra Foucault è tra i filosofi più utilizzati per liquidare Marx e il marxismo, e questo è parte integrante della sua fortuna. Anche l’idea, abbastanza diffusa, che Foucault possa integrare Marx in modo da cogliere gli aspetti più sofisticati della società contemporanea può basarsi solo sull’incomprensione o lo snaturamento tanto di Marx quando di Foucault2.
Seguiremo quindi la traiettoria del pensatore francese a partire dalla metà degli anni ‘60, quando Foucault emerge come uno dei filosofi più influenti della sua generazione, fino alla sua scomparsa, con l’obiettivo di individuare i limiti del pensiero foucaultiano e sottolinearne le differenze con il marxismo, che resta l’unica teoria in grado di fornirci degli strumenti necessari per lottare contro il capitalismo e la sua crisi. Nella prima parte affronteremo alcune questioni più propriamente filosofiche e gli aspetti principali del metodo usato da Foucault. La seconda parte sarà invece dedicata alle ricadute politiche delle categorie foucaultiane più influenti.
Le parole e le cose: lo strutturalismo e l’archeologia
Le parole e le cose, pubblicato nel 1966, differentemente dai libri precedenti di Foucault, come Storia della Follia o Nascita della clinica, riceve una grande eco. Il libro vende decine di migliaia di copie e Foucault è accolto come il pensatore in grado di scalzare l’egemonia della fenomenologia3 e dell’esistenzialismo4, che insieme al marxismo, imbalsamato e ridotto ad un vuoto formulario dai teorici stalinisti vicini al Partito Comunista Francese (PCF), rappresentano le scuole filosofiche dominanti all’epoca in Francia5.
Foucault, che nei suoi primi scritti è a sua volta influenzato dalla fenomenologia e da Heidegger6, con Le parole e le cose si colloca fermamente nel campo opposto a quello dell’esistenzialismo e del soggettivismo, inserendosi nel filone strutturalista, che diventerà dominante negli anni ‘607. Lo strutturalismo, nato nell’ambito degli studi linguistici, si estenderà a diversi campi, riverberando il dibattito sulla crisi o fine del soggetto. Il punto di partenza dello strutturalismo è infatti che non esiste nessuna libertà soggettiva; i diversi aspetti della società vanno analizzati a partire dalle strutture, ovvero dalle relazioni interne, siano esse quelle di una lingua, della società, di un’opera, ecc. La tesi basilare del materialismo storico secondo cui sono gli uomini a fare la storia a partire da determinate condizioni materiali viene respinta, così come qualsiasi concezione dialettica. È la struttura ad essere il vero soggetto e non gli uomini che occupano un determinato ruolo o posizione, perché la loro funzione è tutta circoscritta all’interno della struttura. Gli uomini in carne ed ossa sono pedine di una scacchiera che non controllano, la loro esistenza è rinchiusa in una gabbia che non può essere rotta.
Se concezioni come quelle di Sartre e di Merleau-Ponty, basate sulla coscienza, sono una forma di idealismo soggettivo, lo strutturalismo è, spogliato dalle vesti di una presunta scientificità, una forma di idealismo diverso, di tipo oggettivo. La successione delle due scuole riflette in realtà il cambio del contesto sociale; l’ascesa dello strutturalismo è comprensibile solo a partire dal processo di stabilizzazione del capitalismo dopo la seconda guerra mondiale. Le aspirazioni inquiete della generazione di Sartre lasciano il posto definitivamente alla disillusione e allo scetticismo degli intellettuali strutturalisti.
Foucault si inserirà nella polemica avviata dagli strutturalisti contro le filosofie basate sul soggetto e in particolare contro la fenomenologia, sviluppando una critica radicale al loro umanesimo. Al centro de Le parole e le cose troviamo un attacco alla concezione dell’uomo elaborata dalle cosiddette scienze umane, di cui il filosofo vuole tracciare un’“archeologia”. Foucault utilizza questo termine non nel suo significato comune, ma per definire il proprio metodo di ricerca, che ha l’obiettivo di portare alla luce le condizioni che hanno reso possibile l’emergere di un determinato sapere.
Cosa possiamo pensare in una determinata epoca dipende da strutture non coscienti storicamente determinate a cui Foucault dà il nome di epistemi. Attraverso le lenti dell’archeologia, vediamo come i discorsi di una specifica epoca si muovono tutti dentro una stessa configurazione epistemica. Ciò che consideriamo come vero o scientifico in un determinato momento storico dipende quindi dall’episteme in cui viviamo8.
Ne Le parole e le cose Foucault prende in esame tre epoche: quella rinascimentale, quella classica (in Francia il periodo che va dal XVII al XVIII secolo governato dal Luigi XIV) e quella moderna, a cui corrisponderebbero tre epistemi differenti. L’episteme rinascimentale si basa sul criterio della somiglianza, quella classica sulla rappresentazione, mentre l’episteme moderna, che emergerebbe chiaramente col soggettivismo kantiano, ha al centro l’uomo. Secondo Kant la conoscenza avviene adeguando la realtà esterna a forme della conoscenza a priori (lo spazio, il tempo e le categorie), che sono quindi innate e non dipendono dall’esperienza. Sono le forme a priori a rendere possibile e comprensibile ciascuna esperienza sensibile e qualsiasi conoscenza. L’uomo diventa così, nota Foucault, sia la condizione a priori di ogni possibile conoscenza sia il risultato delle conoscenze empiriche che lo hanno come oggetto, ed è intorno a questa contraddizione che si muove la polemica fondamentale de Le parole e le cose9. Lo scopo di Foucault è infatti quello di dimostrare che l’uomo come soggetto e oggetto di studio è un’invenzione recente di cui intravede la fine nello sviluppo della linguistica strutturale, della psicanalisi e dell’etnologia che dissolvono l’uomo nella struttura anziché porlo a fondamento della conoscenza. Con lo strutturalismo ci sarebbe il passaggio ad una nuova episteme, in cui “possiamo senz’altro scommettere che l’uomo sarebbe cancellato, come sull’orlo del mare un volto di sabbia”10.
Al di là dell’intento polemico del testo, Le parole e le cose permette di individuare alcuni tratti caratterizzanti del pensiero foucaultiano. Le epistemi si succedono l’un l’altra in modo discontinuo, non è possibile quindi rintracciare nessuna forma di accumulo, evoluzione o progresso della conoscenza umana11. Tutto quello che è stato elaborato in una determinata epoca viene forzato per farlo aderire alla struttura epistemica comune. L’arbitrarietà dell’operazione è coperta dall’erudizione del filosofo ma i risultati sono comunque paradossali. Seguendo lo schema di Foucault, Cuvier, ad esempio, nonostante la sua difesa della fissità delle specie, sarebbe il rappresentante dell’episteme moderna e quindi il fondatore della moderna biologia, mentre l’evoluzionismo di Lamarck sarebbe solo un’illusione retrospettiva, perché la sua concezione apparterrebbe ancora all’episteme classica. L’idea che nella storia del pensiero possano esserci anticipazioni è bandita, così come la possibilità che pensatori rivoluzionari rompano con quanto è “pensabile” nella propria epoca.
Nel campo dell’economia il merito di rompere con l’episteme precedente spetterebbe a Ricardo, di cui Marx non sarebbe che un continuatore: “al livello profondo del sapere occidentale, – scrive Foucault – il marxismo non ha introdotto alcun taglio reale; figura piena, tranquilla, confortevole, e, in fede mia, soddisfacente per un certo periodo (il suo), si è situato senza difficoltà all’interno d’una disposizione epistemologica che lo ha accolto con favore (essendo essa, appunto, che gli faceva posto) e che esso a sua volta non aveva né l’intento di turbare, né soprattutto il potere di alterare, fosse pure di un pollice, dal momento che poggiava interamente su di essa. Il marxismo è nel pensiero del XIX secolo come un pesce nell’acqua: cioè, fuori di lì cessa ovunque di respirare”12. L’influenza esercitata da Ricardo su Marx è nota ma la scoperta economica fondamentale di Marx che rende il suo pensiero più attuale che mai, ovvero quella del plusvalore come appropriazione di lavoro non pagato su cui si fonda lo sfruttamento capitalistico, non poteva venire da Ricardo, che fu l’ultimo grande rappresentante dell’economia politica classica13. Nel trattare Marx come un ricardiano confinato nel sistema di pensiero della sua epoca, Foucault lo inserisce anche a pieno nell’episteme moderna, che nel marxismo prenderebbe le forme di una un’ingenua promessa di liberazione e di vera realizzazione dell’uomo: un retaggio di una concezione idealistica e metafisica. La dialettica, compresa quella marxista, sottintenderebbe l’umanesimo: “lo richiede per diverse ragioni: perché è una filosofia della storia, perché è una filosofia della pratica umana, perché è una filosofia dell’alienazione e della riconciliazione. Per tutte queste ragioni e perché è sempre, in fondo, una filosofia del ritorno a sé stessi, in un certo senso la dialettica promette all’essere umano che egli diventerà un uomo autentico e vero. Promette l’uomo all’uomo e, in questa misura, non è dissociabile da una morale umanistica. In questo senso i grandi responsabili dell’umanesimo contemporaneo sono evidentemente Hegel e Marx”14. La critica all’umanesimo di Feuerbach e la battaglia di Marx contro una visione essenzialistica della natura umana vengono deliberatamente ignorate da Foucault. La concezione materialistica della storia poté nascere in realtà proprio criticando la morale umanistica. Per Marx l’uomo non è un soggetto astratto, un’essenza data una volta per tutte, ma è il frutto di condizioni materiali concrete, di determinati rapporti sociali. A ben vedere la critica di Foucault all’umanesimo di Marx non è altro che la critica all’idea che l’uomo possa liberarsi dal giogo dello sfruttamento e dell’oppressione, così come dall’alienazione prodotta dal lavoro salariato. Avendo decretato ne Le parole e le cose la morte del soggetto e dell’uomo, per Foucault nessuna liberazione è più possibile né necessaria.
L’autonomia del discorso
Le parole e le cose suscita critiche serrate e obiezioni teoriche. Dato l’impianto filosofico foucaultiano, come si spiega il cambiamento del pensiero nelle diverse epoche? Come è possibile una storia del pensiero senza soggetto? Per rispondere a domande di questo genere Foucault scrive L’archeologia del sapere, un testo in cui prova a formalizzare il suo metodo d’indagine. Nell’introduzione al libro vi è un rimando esplicito alle scuole storiche che secondo Foucault contestano la storiografia tradizionale e la sua tendenza ad inglobare gli eventi dentro una visione teleologica, in cui le epoche del passato vengono lette in funzione di quelle successive15. Come nota lo stesso Foucault, è stato Marx a contestare prima di altri questa impostazione, che era alla base della concezione dei giovani hegeliani con cui Marx ed Engels polemizzarono ne L’ideologia tedesca16. Mentre però Marx partendo da questa critica arriva alla concezione materialistica della storia, Foucault oppone alla tradizionale storia delle idee, costruita sulla continuità e il progressivo avanzamento della coscienza e della ragione, una storia del pensiero antidialettica basata sulla discontinuità.
Ne L’archeologia del sapere vi è anche la più compiuta teorizzazione che il filosofo fornisce in merito alla sua concezione del discorso, definito come un “insieme di enunciati in quanto essi appartengono alla stessa formazione discorsiva”17. Il discorso per Foucault va isolato e analizzato nella sua autonomia, considerando solo gli enunciati, cioè quanto è stato effettivamente detto e scritto18, mettendo da parte le intenzioni soggettive e il contesto sociale in cui un certo discorso è stato prodotto. L’archeologia non si interessa del significato o della pretesa di verità che ogni enunciato porta con sé, né si preoccupa del perché si formano determinati enunciati e non altri.
Il filosofo concepisce gli enunciati come “avvenimenti dispersi”, che solo in un secondo momento vengono unificati, fornendo l’illusione della continuità. Foucault così rifiuta quelle che per lui sono unità precostituite in uso nella storia delle idee come i concetti di tradizione, influenza, sviluppo, evoluzione, e così via.
Per l’archeologia a unificare gli enunciati sono le stesse formazioni discorsive. Solo dentro di esse infatti gli enunciati acquisiscono senso e significato. Il discorso viene a configurarsi come un sistema impersonale che si autoregola. È lo stesso discorso quindi a delimitare il proprio campo, attraverso un meccanismo di discontinuità e differenze, emergendo come un insieme di enunciati che sottostà a specifiche regole e che produce autonomamente gli oggetti che descrive, i concetti che utilizza, le strategie che permettono ad un discorso di svilupparsi in una direzione e non in un’altra. Il discorso viene concepito fondamentalmente come una pratica. Si tratta di una pratica anonima di cui i soggetti in carne ed ossa non sono che un’appendice.
Contrariamente a quanto avviene nella concezione materialistica della storia, in cui la realtà materiale è l’elemento prioritario rispetto al discorso, nella concezione foucaultiana è lo stesso discorso a plasmare la realtà materiale di cui parla. Foucault rifiuta, ad esempio, l’idea che il discorso sulla pazzia (ma la tesi è applicabile a qualsiasi discorso) possa basarsi sull’esistenza effettiva della pazzia, perché “la malattia mentale è stata costruita dall’insieme di ciò che è stato detto nel gruppo di tutti gli enunciati che la nominavano, la delimitavano, la descrivevano, la spiegavano, ne raccontavano lo sviluppo, ne indicavano le diverse correlazioni, la giudicavano, ed eventualmente le prestavano la parola articolando in nome suo dei discorsi che dovevano passare per suoi”19.
L’autonomia del discorso implica il rifiuto di una verità oggettiva: se sono le pratiche discorsive di una determinata disciplina a stabilire cosa è vero e cosa no in una determinata epoca non ha senso sostenere che una particolare teoria sia più vera di un’altra, né che una teoria rifletta meglio di un’altra la realtà. Foucault non nega che tra il discorso e la realtà esterna ci sia un legame, parla appunto di autonomia e non di indipendenza, ma a ben vedere questa autonomia è piuttosto bizzarra perché è il discorso ad usare gli altri elementi subordinandoli ad esso20. Ne emerge un assoluto primato del discorso su qualsiasi altro aspetto della realtà.
L’archeologia foucaultiana tenta di descrivere le condizioni a priori che rendono possibile la formazione degli enunciati, avvitandosi in una serie di contraddizioni. Differentemente dall’a priori kantiano, per Foucault queste condizioni non sono formali e universali ma relative a particolari epoche storiche; il tentativo di storicizzare l’a priori crea però solo più confusione e ambiguità. La questione può essere compresa meglio facendo riferimento a quello che Foucault chiama l’archivio, che è tanto l’insieme dei discorsi effettivamente pronunciati, quanto il sistema generale della formazione e della trasformazione degli enunciati. L’archivio è quindi insieme sia sapere empirico positivo che fondamento a priori del discorso, proprio come era l’uomo per Kant. Foucault nei fatti sostituisce all’uomo il discorso, che diventa il nuovo soggetto: ne risulta una concezione altrettanto idealistica.
L’archivio pone però anche un altro problema: quello relativo alla sua composizione. Foucault svilupperà un metodo d’indagine in cui tutto quanto è stato detto e scritto viene posto sullo stesso piano: “bisogna poter leggere tutto, conoscere tutte le istituzioni e tutte le pratiche. Nessun valore riconosciuto tradizionalmente nella storia delle idee e della filosofia deve essere accettato come tale. Abbiamo a che fare con un campo che ignorerà le differenze, le importanze tradizionali. Questo farà sì che si tratterà nello stesso modo Don Chisciotte, Cartesio e un decreto sulla creazione delle case d’internamento di Pomponne de Belièvre. Allo stesso modo ci si accorgerà che i grammatici del XVIII secolo hanno altrettanta “importanza” dei filosofi più rinomati nello stesso periodo”21. L’archivio è, come si intuisce, particolarmente eterogeneo: libri, documenti, lettere, ordinanze, atti polizieschi, ecc. La mancanza di gerarchia nella selezione del materiale rende il tutto particolarmente arbitrario, col risultato che il sapere di un’epoca può essere ricostruito a proprio piacimento, senza che alla conoscenza scientifica venga riconosciuta alcuna superiorità se non quella di essere un sapere che ha raggiunto un certo grado di formalizzazione.
Il minuzioso tentativo di Foucault di descrivere il metodo archeologico si rivelerà un fallimento. L’archeologia del sapere sarà tra le meno lette delle opere del filosofo ed egli stesso ne prenderà le distanze22. Da lì a poco l’archeologia verrà affiancata dalla genealogia, con al centro non più l’autonomia del discorso ma il rapporto sapere-potere.
Sotto il segno di Nietzsche
Nella teoria del discorso, anche se in forma implicita, è già possibile rilevare la grande influenza esercitata da Nietzsche sul pensiero foucaultiano23. Foucault è sostanzialmente un nietzschiano e la sua opera si inserisce a pieno nella riscoperta del filosofo tedesco che si ebbe nella Francia del secondo dopoguerra. Un passaggio fondamentale in questa rilettura da “sinistra” è rappresentato dalla pubblicazione nel 1962 di Nietzsche e la filosofia di Deleuze24, in cui Nietzsche viene recuperato, ripulito da tutti gli aspetti più contraddittori e reazionari, e presentato come il filosofo della differenza: un campione della molteplicità e del pluralismo.
Per Deleuze, Nietzsche è soprattutto l’alternativa più efficace all’hegelismo, in cui le differenze vengono annullate nella contraddizione dialettica. Deleuze contesta tanto la tesi che l’identità sia di per sé mutevole e contraddittoria, quanto l’idea che dalla negazione possa nascere la positività; della contraddizione dialettica rifiuta in particolare l’unità degli opposti: la differenza non è il polo negativo di un positivo ma è essa stessa positiva. All’unità dialettica, considerata totalitaria perché annullerebbe le differenze inglobandole in un discorso unitario, viene opposta la molteplicità. I filosofi post-strutturalisti25 però non faranno altro che sostituire alla metafisica dell’identità una metafisica della differenza, un principio altrettanto speculativo. Il ricorso a Nietzsche in chiave antidialettica sarà per Foucault, come per gli altri esponenti del post-strutturalismo e del postmodernismo26, anche e soprattutto un’arma decisiva nella lotta contro la dialettica marxista, coscientemente sovrapposta a quella hegeliana.
Risulta ad ogni modo paradossale come Nietzsche, che è stato il sostenitore di un anticapitalismo romantico e opponeva alla decadenza dei valori borghesi un ribellismo aristocratico, il filosofo che rivendicava il dominio dell’élite e l’avversione ad ogni forma di egualitarismo, l’annunciatore dell’eterno ritorno e della volontà di potenza come tratto principale del superuomo venga fatto passare per l’apostolo della molteplicità! È un Nietzsche costruito ad uso e consumo. L’idea di forzare il pensiero degli altri, senza preoccuparsene troppo, verrà apertamente rivendicata da Foucault, che in un’intervista del 1975 dirà: “io uso gli autori che mi piacciono. Il solo segno di riconoscenza che si possa testimoniare ad un pensiero come quello di Nietzsche è proprio di usarlo, di deformarlo, di farlo stridere, gridare. Che poi i commentatori dicano se si è fedeli o no, non ha nessun interesse”27.
Da Nietzsche e dalla sua Genealogia della morale, Foucault prende in prestito l’approccio genealogico, che il filosofo francese affianca all’archeologia. La genealogia foucaultiana parte dal presente per risalire la storia a ritroso al fine di individuare quando nel passato si è prodotta una rottura i cui effetti arrivano fino ad oggi, perché è il presente che organizza e dà senso al passato e non viceversa. Il presente non è l’inevitabile approdo di uno sviluppo razionale dei processi storici ma il risultato di uno scontro, lo scopo della genealogia è perciò quello di descrivere il susseguirsi delle dominazioni e di occuparsi dei diversi sistemi di asservimento, delle forze in lotta e del modo in cui combattono, affermandosi quindi come un’alternativa alla tradizionale concezione teleologica della storia.
Secondo Foucault la genealogia di Nietzsche si oppone ad un punto di vista sovra-storico, ad una storia cioè che racchiude la totalità degli eventi e che presuppone un soggetto con una coscienza che rimane invariata nel tempo. Il punto di vista sovra-storico farebbe riemergere la metafisica e l’illusione di una scienza oggettiva. Per Foucault invece bisogna occuparsi della storia “effettiva” che coglie l’avvenimento nella sua unicità.
L’idea che la storia possa avere una razionalità intrinseca è messa apertamente in discussione: al centro ci sarà non un processo ma l’evento, che è uno scontro fortuito, casuale, irrazionale nel senso che rivela l’accadere nella sua concretezza e nessuna dialettica può prevederlo o anticiparlo. Per Foucault bisogna distruggere la concezione della storia come riconoscimento, continuità e conoscenza, perché “il vero senso storico riconosce che viviamo senza punti di riferimento né coordinate originarie, in miriadi d’avvenimenti perduti”28.
Fedele all’assunto nietzschiano per cui i fatti non esistono ma esistono solo interpretazioni, per il filosofo francese la storia non potrà avere un approccio oggettivo, men che mai scientifico, perché è sempre parziale, prospettica e interessata. Vedremo più avanti come a partire da queste premesse Foucault proverà a proporre il metodo genealogico come alternativa complessiva al materialismo storico.
Esiste la verità?
In diversi testi, come La verità e le forme giuridiche, le Lezioni sulla volontà di sapere e Nietzsche, la genealogia e la storia, Foucault riprende ampiamente Nietzsche per sottolineare come nella filosofia occidentale si sia imposta una volontà di verità, un concetto legato alla volontà di potenza del filosofo tedesco29. La ricerca del vero non sarebbe il presupposto della conoscenza ma un avvenimento che si è prodotto storicamente nel discorso filosofico30. Ma anche la conoscenza è considerata un’invenzione: “come punto di partenza – dice Foucault ne La verità e le forme giuridiche – prenderò un testo di Nietzsche del 1873, comparso solo in edizione postuma. Il testo dice «in qualche punto perduto dell’universo, il cui splendore si estende a innumerevoli sistemi solari, ci fu una volta un astro nel quale alcuni animali intelligenti inventarono la conoscenza. Fu quello l’istante più menzognero e arrogante dell’intera storia universale”31.
Considerare la conoscenza un’invenzione significa, commenta Foucault, che essa non ha origine e non è iscritta nella natura umana. La conoscenza è contro-istintiva e contro-naturale, il che vuol dire che non c’è nessuna affinità preliminare tra la conoscenza e le cose che conosciamo. Per Nietzsche tra la conoscenza e il mondo può esserci solo un rapporto di dominio, violenza, forza e potere e non identificazione o riconoscimento. Alla base della conoscenza ci sarebbe la volontà di sapere e non un soggetto in cerca della verità. Foucault così individua in Nietzsche un’alternativa alla tradizione filosofica occidentale che da Cartesio in poi pone il soggetto a fondamento della conoscenza32.
In questo articolo non è possibile approfondire la teoria marxista della conoscenza33, ma è utile richiamarne alcuni degli aspetti principali, necessari a comprendere i limiti della concezione foucaultiana in merito al soggetto e al modo in cui conosce. In Marx la coscienza e le facoltà razionali dell’uomo vengono ricondotte entrambe alla materia: il cervello e il pensiero non sono altro che una particolare forma di organizzazione della materia, prodottasi attraverso un processo di evoluzione millenario. Non esiste quindi una separazione rigida e schematica tra il soggetto e l’oggetto ma questi vengono concepiti dentro un’unità dialettica. Lo sviluppo del pensiero è strettamente legato alla capacità dell’uomo di interagire con la natura e l’ambiente circostante, col risultato che attraverso la propria attività l’uomo modifica l’ambiente in cui vive e nel contempo modifica continuamente anche se stesso. Abbiamo quindi, nella concezione di Marx ed Engels, un soggetto che non è più quello della filosofia tradizionale perché il soggetto e la sua attività sono concepiti solo dentro determinati rapporti sociali. Tanto il soggetto quanto gli oggetti cambiano, si modificano, si scambiano di posto: gli stessi uomini in quanto sottoposti a determinate leggi possono essere considerati oggetti. Un assunto basilare del materialismo è che la realtà esiste indipendentemente da noi ma possiamo conoscerla. La conoscenza assume essa stessa un andamento dialettico, fatto di rotture, rivoluzioni nel campo del pensiero, di nuove acquisizioni alla cui luce vengono riesaminate le vecchie concezioni, e così via. In un processo infinito, e attraverso una serie di approssimazioni successive, possiamo arrivare ad una più precisa comprensione del mondo e della realtà, senza tuttavia che ci sia mai una corrispondenza perfetta con essa, perché nessuna teoria potrà mai racchiudere la complessità del reale. In questa prospettiva la verità, anche se non è considerata come assoluta perché sempre storicamente determinata e legata allo sviluppo della società umana, ha una valenza oggettiva. È possibile rintracciare il nucleo della concezione materialistica della conoscenza e della verità nelle Tesi su Feuerbach, in cui Marx fornirà una spiegazione rivoluzionaria, che rompe con la tradizione filosofica occidentale, superando da un lato il soggettivismo idealistico e dall’altro il materialismo meccanicistico. La verità cessa di essere un oggetto speculativo al centro di un’azione contemplativa basata sul soggetto, perché viene inserita dentro l’attività umana e la pratica sociale. Come spiegherà Marx nella seconda tesi su Feuerbach: “la questione se al pensiero umano spetti una verità oggettiva, non è una questione teoretica bensì una questione pratica. Nella prassi l’uomo deve provare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere immanente del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non-realtà del pensiero – isolato dalla prassi – è una questione puramente scolastica”34.
Il marxismo quindi permette tanto di poter superare l’idea di una teoria della conoscenza fondata esclusivamente sul soggetto, quanto di preservare l’idea di una conoscenza valida e di una verità oggettiva. Foucault rifiuta tutto questo, a favore di un sostanziale scetticismo e considera la conoscenza e la verità esclusivamente come strumenti di dominio. Non solo la verità oggettiva non può esistere, essa non è altro che un’invenzione, o meglio una finzione, proprio nella misura in cui divide il vero dal falso. Al massimo è ammessa una verità prospettica, che rivendica la sua non obiettività, dentro un campo di lotta in cui si scontrano le diverse volontà.
Per Foucault la verità sarà il prodotto di determinate pratiche e in particolare, come vedremo, delle pratiche del potere. L’ idea di una verità strettamente connessa al potere, sarà a tal punto al centro della riflessione di Foucault che lui stesso definirà il suo lavoro una storia della verità. Parlerà di regimi di verità, cioè di sistemi di potere che producono e sostengono la verità, e più in generale di una politica della verità. A caratterizzare la genealogia di Foucault sarà proprio la relazione tra potere, verità e discorso sintetizzata nella teoria del sapere-potere, secondo la quale: “non esiste relazione di potere senza correlativa costituzione di un campo di sapere, né di sapere che non supponga e non costituisca al contempo delle relazioni di potere”35. In questa concezione quindi il potere non può essere esercitato senza conoscenza e ogni forma di conoscenza genera potere. I due elementi dipendono uno dall’altro e in questo rapporto trovano la reciproca legittimazione. Al centro troveremo il discorso, perché è attraverso di esso che il potere e il sapere si articolano. È a partire da queste premesse che Foucault proverà a portare avanti un attacco alla conoscenza scientifica in generale e al marxismo in quanto concezione scientifica in particolare.
Contro il marxismo e la scienza
Per sua stessa ammissione, Foucault non è mai stato marxista36. Eppure, nonostante il tentativo portato avanti ne Le parole e le cose di limitare l’efficacia di Marx ad un’epoca ormai passata, nelle sue opere troviamo un confronto costante, quasi sempre polemico, con Marx e il marxismo. Foucault dirà che uno dei suoi giochi è quello di utilizzare il filosofo di Treviri senza citarlo esplicitamente ed effettivamente nei suoi testi è possibile ritrovare diversi riferimenti all’elaborazione di Marx. Ciò che Foucault accoglie però dal pensiero di Marx è sempre filtrato dal suo eclettismo e deformato dal filtro di Nietzsche. In altre parole, l’utilizzo di Marx è finalizzato ad una visione complessivamente antimarxista. Non senza contraddizioni, Foucault da un lato sottolinea l’imprescindibilità di Marx e dall’altro rivendica la necessità di considerarsi liberi rispetto alla sua autorità, in modo da poter indagare i rapporti di potere connessi con “le tre dimensioni del marxismo, vale a dire il marxismo in quanto discorso scientifico, il marxismo in quanto profezia ed il marxismo in quanto filosofia di Stato, o ideologia di classe”37. La presunta visione profetica del marxismo verrà affrontata più avanti, per ora ci concentreremo sulla critica al marxismo in quanto scienza38 e sull’ideologia.
Secondo Foucault il marxismo non fa che riproporre le relazioni di potere e la logica coercitiva insite in ogni discorso scientifico. La scienza è infatti considerata come regolazione e disciplinamento dei saperi, come loro gerarchizzazione. All’opposto, la genealogia è anti-scienza, che si propone di svelare i processi di assoggettamento e dominio prodotti dal sapere-potere. Una concezione di questo tipo non può produrre nessuna teoria organica, anzi, farà dell’asistematicità il proprio punto di forza. Al pari di altri autori post-strutturalisti, Foucault utilizzerà un linguaggio oscuro, contraddittorio, interessato più alle suggestioni che al rigore, e un metodo basato sulla “problematizzazione” di ciò che ci appare ovvio, il cui effetto sarà quello di produrre solo maggiore confusione.
Da un punto di vista materialista, il potere contenuto nel discorso scientifico è prima di ogni altra cosa il potere di conoscere le leggi dei fenomeni naturali o sociali. L’approdo ad un metodo scientifico per analizzare la società e il suo funzionamento è stato un passo in avanti gigantesco nella comprensione della realtà che ci circonda. Questo risultato lo si deve a Marx e a Engels, che con la loro concezione riuscirono a scalzare l’idealismo imperante nelle scienze sociali e nella storia. Per il loro lavoro non solo adottarono un metodo scientifico che fosse in grado di cogliere l’obiettività dei processi e le leggi che li governano ma furono altresì particolarmente attenti allo sviluppo scientifico della loro epoca; difesero le conquiste dovute alle scoperte scientifiche e sottolinearono il merito avuto dalla scienza nella lotta contro l’oscurantismo religioso. Erano ben coscienti del rapporto strettissimo che esiste tra la scienza moderna e lo sviluppo del capitalismo e della relazione tra lo sviluppo scientifico-tecnologico e il processo produttivo, a cui sono dedicate pagine di grande profondità de Il capitale. Che la scienza possa essere usata per esercitare il dominio di una classe sull’altra – si pensi al ruolo della tecnologia ma anche al ricorso a teorie “scientifiche” per giustificare la discriminazione su base razziale o sessuale – non toglie alla conoscenza scientifica il suo potenziale emancipatorio. Nel corso del ‘900 diverse correnti filosofiche, dalla scuola di Francoforte39 al postmodernismo, con un’impostazione completamente idealista hanno individuato nella scienza e nella razionalità le cause fondamentali dell’oppressione e del dominio sugli uomini, approdando in molti casi ad una visione antiscientifica: Foucault si muove su un terreno analogo40. Egli dirà: “liberiamo la ricerca scientifica dalle esigenze del capitalismo monopolistico è forse un eccellente slogan ma nient’altro che questo”41, dal punto di vista marxista si tratta invece proprio di mettere la conoscenza scientifica a disposizione dello sviluppo armonico dell’umanità, sottraendola alla logica del profitto.
La battaglia teorica condotta da Marx ebbe come obiettivo quello di dare un fondamento scientifico e razionale alla lotta per il socialismo, al fine di andare oltre il volontarismo soggettivo e le fantasticherie sul migliore dei mondi possibili. Questo lascito ci permette oggi di analizzare in profondità il sistema capitalistico e il suo funzionamento, di vederne l’irrazionalità e di lottare per abbatterlo, affinché attraverso il pieno dominio degli uomini su se stessi si produca la soppressione di ogni dominio. Come scrive Engels: “compiere questa azione di liberazione universale è il compito storico del proletariato moderno. Studiarne a fondo le condizioni storiche e conseguentemente la natura stessa e dare così alla classe, oggi oppressa e chiamata all’azione, la coscienza delle condizioni e della natura della sua propria azione è il compito del socialismo scientifico, espressione teorica del movimento proletario.”42
Il rifiuto della scienza va di pari passo con la presa di distanza dal concetto di ideologia43, che viene sostituito da Foucault dalla più fumosa nozione di sapere. Foucault rigetterà l’idea che esiste un piano della realtà materiale che possa essere rappresentato attraverso la teoria, perché dal suo punto di vista la realtà materiale emerge come effetto del sapere-potere contenuto nei discorsi. Per Foucault tutti i discorsi, scientifici o meno, stanno sullo stesso piano e di per sé non sono né veri né falsi. L’unica cosa che conta sono gli effetti di verità che producono. Proprio per questo della concezione materialistica della storia, respingerà anche e soprattutto la distinzione tra la struttura economica e la sovrastruttura (politica, giuridica, ideologica)44. Questa separazione permette di analizzare quanto avviene nel mondo delle idee in relazione al modo di produzione di una determinata società e non come qualcosa di isolato e astratto. Come Marx e Engels hanno spiegato più volte, la divisione del lavoro sociale produce una relativa autonomia dei diversi campi ma è la produzione, l’economia, ad essere in ultima analisi determinante e ad essa possono essere ricondotte anche le rappresentazioni ideologiche, in un rapporto che non è di natura meccanica ma dialettica. È questa concezione che ha permesso a Marx ed a Engels di comprendere come nel campo del pensiero economico e in quello delle scienze sociali l’ideologia borghese mistifichi i rapporti di classe al fine di mantenere il proprio dominio45. Per il marxismo la classe dominante non si limita ad un sapere funzionale all’esercizio del potere ma ha bisogno di teorie che hanno lo scopo di difendere e perpetrare i rapporti sociali di un determinato sistema economico, di farli apparire come naturali ed eterni, di rappresentare le idee e gli interessi di una classe particolare come se fossero generali46. In opposizione all’ideologia dominante, il marxismo si considera un’ideologia di classe proprio perché è la più organica e conseguente concezione del punto di vista del proletariato e dei suoi interessi47.
Foucault rinuncia ad una critica generale del capitalismo e limita la sua analisi allo studio di alcune pratiche culturali (le pratiche discorsive, le pratiche del potere e negli ultimi anni della sua vita le pratiche di soggettivazione), concentrandosi in ultima analisi sul sapere che elaborano e disinteressandosi delle condizioni materiali da cui affiorano. Qualsiasi tipo di attività umana andrebbe ricondotta a come gli uomini la producono, a come nasce e si sviluppa, a quali esigenze risponde in relazione al sistema economico e sociale da cui emerge. In Foucault invece le pratiche, sganciate dalla struttura economica, assumono vita propria trasformandosi, come già abbiamo visto a proposito del discorso, nel vero soggetto: è un procedimento tipico dell’idealismo filosofico. Del resto, anche quando Foucault introdurrà nelle sue opere elementi di materialismo, i rapporti tra struttura e sovrastruttura saranno ribaltati. Lo vedremo in particolare quando parlerà del potere disciplinare e della sua relazione col nascente capitalismo industriale.
Genealogia versus materialismo storico
Abbiamo già visto come la genealogia foucaultiana si ponga in opposizione alla dialettica, il cui effetto sarebbe quello di neutralizzare lo scontro e la lotta inglobandoli in una logica della contraddizione. In realtà, ponendo la dialettica su basi materialistiche, Marx la salvò dalla forma speculativa che aveva nella filosofia idealistica di Hegel. La dialettica diventava così un’arma contro l’idea del dominio eterno della borghesia e assumeva un connotato rivoluzionario. Come spiegò Marx: “nella sua forma mistificata, la dialettica divenne una moda tedesca, perché sembrava trasfigurare lo stato di cose esistente. Nella sua forma razionale, la dialettica è scandalo e orrore per la borghesia e per i suoi corifei dottrinari, perché nella comprensione positiva dello stato di cose esistente include simultaneamente anche la comprensione della negazione di esso, la comprensione del suo necessario tramonto, perché concepisce ogni forma divenuta nel fluire del movimento, quindi anche del suo lato transeunte, perché nulla la può intimidire ed essa è critica e rivoluzionaria per essenza”48.
Alla dialettica il filosofo oppone quella che chiama una logica delle strategie, il cui scopo sarebbe quello di portare alla luce la razionalità degli scontri che avvengono all’interno delle relazioni di potere. Fuori da una visione dialettica volta ad individuare i processi nelle loro continue trasformazioni, questa logica meccanicistica scade inevitabilmente o in una metafisica della volontà o in forme di soggettivismo. Foucault rifiuta sia il movimento dialettico che la contraddizione, ma questi sono proprio gli strumenti attraverso cui è possibile l’intelligibilità degli scontri, perché questi ultimi vengono inseriti dentro un processo che permette di spiegarne fino in fondo la genesi e lo sviluppo, cogliendoli nel vivo della lotta. Nell’ambito della storia, come in qualsiasi altro ambito, la dialettica serve per andare oltre l’apparenza dei singoli fenomeni e indagare in profondità il movimento del reale, al fine di individuarne le cause, i nessi e le connessioni interne. In questo modo, ad esempio, le rotture, i salti e le discontinuità non sono analizzate nella loro singolarità, come eventi improvvisi e inspiegabili, ma emergono come salti qualitativi che si producono in seguito ad accumuli quantitativi. Partendo da questa impostazione materialistica è possibile quindi cogliere i possibili sviluppi di un determinato processo, non al fine di profetizzare l’avvenire, come crede di denunciare (con poca originalità) Foucault ma con l’obiettivo di intervenirvi per indirizzarli: la teoria da un punto di vista marxista è in primo luogo una guida per l’azione. Nella concezione di Marx non c’è nessuna teleologia, nessuna logica che spinge in modo automatico verso un fine prestabilito gli eventi, che sono sempre inquadrati nella dialettica tra necessità e libertà, tra processi oggettivi e coscienza soggettiva.
Foucault però non mette in discussione solo la dialettica ma la concezione materialistica della storia nel suo complesso. Marx ed Engels furono i primi a spiegare che il progredire dell’umanità dipende dallo sviluppo delle forze produttive (le innovazioni tecnologiche e scientifiche, la produttività del lavoro, ecc.). Individuando nella produzione materiale la radice dei rapporti sociali, Marx ed Engels posero le basi per uno studio scientifico della storia, che ora poteva essere studiata a partire dalle specifiche leggi operanti in una determinata formazione economica e sociale. Foucault, come si è visto, rifiuta la possibilità di leggi storiche, la storia delle singole lotte non può essere ricondotta a nessuna forma generale e non è possibile individuare analogie e differenze.
La storia, dal punto di vista marxista, nonostante la sua complessità e le sue contraddizioni, è un processo unitario. Proprio perché il marxismo prova a fornire una visione globale dei processi, Foucault lo considera una teoria totalitaria; “non che queste teorie non abbiano fornito e non forniscano ancora, in modo costante, degli strumenti utilizzabili localmente: il marxismo e la psicoanalisi stanno là a provarlo. Ma credo che esse non abbiano fornito questi strumenti localmente utilizzabili se non a condizione, appunto, che l’unità teorica del discorso fosse come sospesa, o comunque ritagliata, lacerata, fatta a pezzi, rovesciata, spostata, messa in caricatura, derisa, teatralizzata”49.
A partire da queste premesse, Foucault potrà usare gli studi storici di Marx a suo piacimento, snaturandoli e spesso e volentieri rovesciandone il senso, spezzando così l’organicità del marxismo. Ed è su questa cannibalizzazione di Marx che i foucaultiani di sinistra fondano il presunto materialismo o marxismo di Foucault. Fuori dalle cosiddette interpretazioni globali, la storia diventa il terreno per descrivere i singoli scontri che si sono prodotti storicamente, la causalità storica viene eliminata e la storia è ridotta a storia dei discorsi. Con questa modalità Foucault vuole liberare i “saperi locali” dagli effetti del discorso scientifico e dello stesso marxismo: “la genealogia sarebbe dunque, rispetto al progetto di una iscrizione dei saperi nella gerarchia del potere proprio della scienza, una specie di tentativo per liberare dall’assoggettamento i saperi storici e per renderli liberi, capaci cioè di opposizione e di lotta contro la coercizione di un discorso teorico, unitario, formale e scientifico”50. La genealogia, in quanto anti-scienza, ha il compito di liberare quei contenuti storici che rappresenterebbero la vera descrizione degli scontri ma che sono stati sepolti dalle sistematizzazioni scientifiche. Foucault rielabora quindi il materiale storico con interpretazioni controcorrente e forzature, al fine di fabbricare una storia alternativa a quella ufficiale, suscitando non poche critiche da parte degli storici. Del resto a Foucault la storia interessa nella misura in cui produce degli effetti su noi stessi; in questo senso la storia è sempre storia del presente ed è sempre una finzione volta ad esercitare un dominio politico. Si capisce come non possa esistere nessuna concezione del progresso storico, perché questo implicherebbe una razionalità interna alla storia stessa.
Da un punto di vista marxista la società è sottoposta ad un cambiamento continuo in cui ritroviamo l’emergere e il declino di diverse formazioni economiche e sociali. Il loro succedersi deriva dallo sviluppo dei mezzi di produzione, e in generale dello sviluppo della società umana: si tratta a tutti gli effetti di un progresso51. Differentemente dalla vera e propria ideologia del progresso che caratterizzava la borghesia in ascesa, il marxismo inquadra questo sviluppo dialetticamente e non attraverso una visione evoluzionista e gradualista. Non esiste cioè una direzione univoca dei processi storici che porterebbero man mano ad un graduale miglioramento per tutti. Al contrario, lo sviluppo capitalistico può avvenire solo a patto di enormi disuguaglianze, sfruttamento e barbarie. Per questo la lotta dei marxisti è finalizzata al superamento di queste contraddizioni e alla creazione di una società che si basi su un livello più alto dello sviluppo economico e sociale. Foucault al pari di altri filosofi della sua generazione nega l’idea di uno sviluppo della società e la stessa idea del progresso storico. Questa sfiducia è un tratto dominante dell’ideologia contemporanea e riflette, così come avvenuto in altre epoche di declino, il fatto che l’attuale sistema economico, il capitalismo, è in un’impasse e ha smesso di giocare qualsiasi ruolo progressista.
Metafisica del potere
Il tema del potere per Foucault diventerà centrale negli anni ‘70, tanto da divenire la questione con cui verrà identificato. Per il filosofo il potere non deve essere concepito come qualcosa che si possa “prendere”, al pari di un oggetto che appartiene ad un gruppo, ad una classe sociale o allo Stato ma deve essere inteso come una relazione. Foucault non tratterà mai il potere come qualcosa di definito e coerente, rifiutando, almeno apparentemente, di delineare una teoria generale: “se si cerca di costruire una teoria del potere si sarà sempre obbligati a considerarlo come qualcosa che nasce in un punto e in un momento dati, bisognerà farne la genesi, e poi la deduzione. Ma se in realtà il potere è un fascio aperto, più o meno coordinato (e senza dubbio coordinato piuttosto male) di relazioni, allora l’unico problema è quello di servirsi di una griglia di analisi che consenta un’analitica delle relazioni di potere”52.
Il suo interesse è tutto focalizzato su come il potere agisce, su come costruisce le proprie strategie e le proprie tecniche, sugli effetti che l’esercizio del potere produce. Foucault sostiene che non esiste un Potere (con la P maiuscola) ma una rete di poteri, in cui tutti siamo inseriti ed essendo, a seconda dei casi, un polo o l’altro della relazione, tutti siamo titolari di un certo potere. Esistono quindi relazioni di potere negli ambiti più diversi: il potere che esercita lo Stato sugli individui ma anche il potere del padre nella famiglia, il potere del medico sul malato, quello del padrone sull’operaio e così via. Il potere è reticolare, coinvolge tutti e funziona attraverso un meccanismo a catena. Ne risulta che gli stessi individui non sono altro che un effetto del potere.
Contro l’idea di un potere basato sulla sovranità53 e inscritto nello Stato, Foucault propone una microfisica del potere, volta a cogliere quelli che definisce i “piccoli esercizi del potere”. Il potere moderno si contraddistinguerebbe per una continua capacità di perfezionamento e soprattutto per la capillarità, per essere un potere decentrato e molteplice, non localizzato in un punto specifico e senza un’origine. Il potere è anonimo e impersonale, eppure le relazioni di potere sono il risultato di un calcolo: sono strategie senza stratega. Per uscire da questo ennesimo paradosso Foucault ricorrerà nuovamente alla centralità delle pratiche, che renderebbero possibile ed efficace l’esercizio del potere.
Per spiegare la pervasività del potere, Foucault affiancherà al concetto di episteme (che utilizzerà sempre meno) quello di dispositivo. Questo racchiuderebbe in sé sia le pratiche discorsive che quelle non discorsive, comprendendo: “discorsi, istituzioni, pianificazioni architettoniche, decisioni regolamentari, leggi, misure amministrative, enunciati scientifici, proposizioni filosofiche, morali, filantropiche”54. Il dispositivo è la rete che si stabilisce tra questi elementi, finalizzata agli obiettivi strategici del potere.
I dispositivi di potere risulterebbero credibili perché si basano sul sapere scientifico e sulla verità che questi producono55. Per Foucault il potere non è solo una forza negativa, che limita o vieta e non va inteso solo come repressione e dominio. Il potere viene esercitato su soggetti liberi e solo nella misura in cui sono liberi, produce norme e condotte, contro-condotte e forme di resistenza. È utile sottolineare che Foucault non attribuisce a quest’ultima nessuna autonomia: essa è parte integrante delle relazioni di potere56, a cui nei fatti è subordinata. I suoi riferimenti alla resistenza saranno per di più sempre generici e sporadici, a testimonianza di un sostanziale pessimismo. Il filosofo porrà sempre di più l’accento sul fatto che il potere è positivo, produttivo, nel senso che è lo stesso potere a produrre la realtà e ovviamente lo fa attraverso il discorso. Ancora una volta sono i discorsi ad essere centrali perché sono sia uno strumento che un effetto del potere, ma anche una possibile fonte di resistenza e di strategia opposta: “il discorso non è semplicemente ciò che traduce le lotte o i sistemi di dominazione, ma ciò per cui, attraverso cui, si lotta, il potere di cui si cerca di impadronirsi”57.
Foucault criticherà tanto la concezione giuridica e liberale del potere che si produce a partire del secolo XVIII, quanto la concezione marxista: entrambe sarebbero basate sull’economicismo. Nella teoria giuridica classica il potere sarebbe considerato come un bene trasferibile o alienabile. Nella teoria marxista “c’è invece qualcosa che si potrebbe chiamare la ‘funzionalità economica’ del potere, e ciò nella misura in cui il potere avrebbe nella sostanza il ruolo di mantenere i rapporti di produzione e insieme di replicare la dominazione di classe che lo sviluppo e le modalità specifiche dell’appropriazione delle forze produttive ha reso possibile. In questo caso, il potere politico troverebbe dunque nell’economia la sua ragion di essere storica”58.
Per Foucault il potere è un rapporto di forza che quindi andrebbe analizzato in termini di lotta, di scontro e di guerra. Proprio la guerra verrà utilizzata da Foucault come modello di relazione del potere. Il potere politico non fa altro che reinscrivere un determinato rapporto di forza, emerso dalla guerra, nelle istituzioni: “il potere è la guerra, la guerra continuata con altri mezzi. Così facendo, si ha il rovesciamento della tesi di Clausewitz e si afferma che la politica è la guerra continuata con altri mezzi”59. In questa ottica, la guerra è una condizione perpetua e anche la pace non sarebbe altro che una manifestazione silenziosa della guerra.
Il modello della guerra è alternativo quindi tanto alla lettura marxista, secondo cui il potere politico dipende dai rapporti tra le classi, quanto alla visione liberale, basata sul diritto. Lo scopo del diritto, inteso come l’insieme delle istituzioni che lo applicano, non è altro che quello di nascondere il rapporto di dominazione, che non è come sostengono i marxisti quello di una classe su un’altra, ma assume molteplici forme.
A partire dalla fine degli anni ’70 Foucault si allontanerà dall’ipotesi della guerra e considererà sempre di più il potere come una questione di “governo degli uomini”, aprendo così il campo nell’ultimo Foucault alla centralità dell’etica, il cui obiettivo sarà quello di essere governati il meno possibile.
L’idea del potere foucaultiana è tutta costruita sulla volontà di potenza di Nietzsche. Il potere è costituente di qualsiasi rapporto e preesiste a qualsiasi relazione sociale: una concezione del potere assolutamente essenzialistica. Sganciato dai rapporti materiali e dalla lotta di classe, il potere diventa un oggetto metafisico, un’essenza nascosta in ogni relazione umana, inafferrabile e impossibile da definire e di cui Foucault non spiega mai l’origine. Il risultato non è solo l’onnipresenza del potere, ma l’idea che ognuno di noi esercita una qualche forma di potere, con l’ovvia conseguenza che siamo tutti oppressori di qualcun altro.
Rapporti di potere e classi sociali
Per Foucault i rapporti di potere avrebbero un’indipendenza rispetto ai rapporti di produzione, anche se solo relativa. Ad ogni modo questa indipendenza è sufficiente per essere contrapposta alla concezione marxista del potere. Secondo il filosofo: “il potere non può dunque più essere compreso soltanto come un garante di un modo di produzione, come ciò che permette di costituire un modo di produzione. Il potere è di fatto uno degli elementi costitutivi del modo di produzione e funziona nel cuore di quest’ultimo”60. Mentre per Marx il potere è uno strumento nelle mani della classe dominante, cioè della classe che detiene i mezzi di produzione, per Foucault i rapporti di produzione sono a loro volta determinati dai rapporti di potere. L’economia, del resto, è analizzata sul piano del discorso, delle tecniche di dominazione e di assoggettamento ma mai sul piano dello sfruttamento e dei rapporti materiali.
Una delle conquiste fondamentali del marxismo è stata quella di stabilire la priorità dei rapporti economici su quelli politici. L’idea foucaultiana di un potere capillare non solo fa venir meno questa relazione ma produce una concezione del potere indipendente da qualsiasi visione di classe. Foucault infatti critica a Marx e ai marxisti di porre l’accento sempre sulla natura della classe e mai su quella della lotta. Il risultato è che i marxisti non si sarebbero mai occupati di definire come si debba effettivamente intendere la lotta di classe. La differenza con Marx dipende dal fatto che Foucault analizza anche questa questione a partire dal discorso e non dall’analisi dei rapporti sociali concreti. Nello specifico egli farà derivare la concezione marxista della lotta di classe dal discorso sulla guerra delle razze, che sarebbe il primo discorso storico-politico volto a spiegare i conflitti sociali e politici all’interno di una società utilizzando la metafora della guerra.
Secondo Foucault l’idea di una guerra perpetua che attraversa la società si trova prima nei discorsi dei rivoluzionari inglesi del XVII secolo e poi nella Francia alla fine del regno di Luigi XIV, questa volta nelle lotte di retroguardia degli aristocratici contro la monarchia. La guerra è intesa come guerra delle razze perché in questi discorsi il conflitto, sotterraneo o manifesto, che attraversa la società è spiegato ricorrendo alla storia delle invasioni e delle dominazioni passate dei due paesi (la conquista dei normanni sui sassoni e quella dei franchi di origine germanica sui gallo-romani). Per Foucault la teoria della guerra delle razze, dopo essere passata per gli storici della restaurazione come Guizot e Thierry, sarà la matrice sia del razzismo biologico, usato per squalificare le razze inferiori da colonizzare, che di tutte le ipotesi di scontro di classe e guerra sociale.
L’importanza avuta dagli storici della restaurazione per l’analisi della società divisa in classi, fu riconosciuta dallo stesso Marx, che tuttavia su questo aspetto ha fornito un contributo più che originale61. La conclusione a cui arriva Foucault è ad ogni modo sorprendente: il socialismo del XIX secolo sarebbe stato – e il marxismo meno dell’anarchia e del blanquismo – un razzismo, un social-razzismo. Per Foucault quando il socialismo ha insistito sulla lotta contro il nemico, sul problema dell’eliminazione dell’avversario il problema del razzismo è sempre emerso. È inutile dire che la ricostruzione è assolutamente strumentale e ha come unico obiettivo quello di squalificare il socialismo e con esso il marxismo.
Nei suoi scritti Foucault parla, tra le tante forme di potere, anche del potere e del dominio di classe, ma nella sua produzione teorica non c’è chiarezza su questo aspetto, che per sua stessa ammissione è uno dei punti più oscuri del suo discorso. Come conseguenza della sua concezione antidialettica e idealista troviamo che le stesse classi sociali sono il frutto di determinate pratiche e non sono stabilite in base al ruolo che hanno nel processo produttivo, come invece spiega Marx. In un’intervista dal titolo Il gioco di Michel Foucault, il filosofo dirà che non ci sono soggetti immediatamente dati, uno dei quali sarebbe il proletariato e l’altro la borghesia. Tutti stiamo combattendo contro tutti e c’è in ciascuno di noi sempre qualcosa che combatte contro qualcos’altro, una concezione del soggetto frammentato e molteplice che sarà un tratto caratteristico del postmodernismo.
La mancanza di un’analisi basata sull’esistenza oggettiva delle classi sociali62 apre la strada ad ogni forma di soggettivismo. Possono infatti costituirsi innumerevoli processi di soggettivazione politica, senza che nessuno di questi possa essere considerato centrale. Non è un caso che Foucault sia visto come uno dei padri delle politiche identitarie63 e più in generale della “sinistra” accademica postmoderna, secondo le quali l’oppressione non va analizzata a partire dal sistema capitalistico che la produce e la alimenta ma solo dal punto di vista soggettivo di chi subisce una particolare discriminazione. Il diritto a parlare dell’oppressione spetterebbe solo ed esclusivamente a chi ne ha fatto esperienza diretta, così l’identità è innalzata a fattore di differenza e divisione. Applicando l’approccio intersezionale, le identità possono essere moltiplicate all’infinito, perché ognuno di noi può subire diverse forme di oppressioni che si intersecano (classe, genere, etnia, ecc.), esasperando ulteriormente il soggettivismo e l’individualismo. Nelle politiche identitarie la linea di demarcazione non sarà più tra sfruttati e sfruttatori ma tra chi gode o meno di determinati privilegi (su basi etniche, religiose, sessuali, ecc.) e i “privilegiati” saranno considerati essi stessi parte del problema, perché si avvantaggiano di una posizione di dominio sugli altri. Mentre ci si limita a rivendicare più spazio all’interno della società capitalista per le comunità o i singoli discriminati, le cause materiali che provocano la diseguaglianza e le discriminazioni vengono oscurate e la possibilità di rimuoverle non viene minimamente presa in considerazione. Anche quando provano a rivendicare una maggiore vicinanza alla tradizione rivoluzionaria dei paesi ex coloniali, come nel caso del postcolonialismo, le politiche identitarie lo fanno da un punto di vista altrettanto idealistico. Così ad esempio Edward Said, richiamandosi esplicitamente alle teorie di Foucault, individua nel discorso razzista dell’occidente nei confronti dell’oriente, la premessa fondamentale per lo sviluppo dell’imperialismo e del colonialismo, che così vengono ridotti ad uno strumento finalizzato allo scontro culturale tra due diverse civiltà.
Nel quadro delle politiche identitarie una lotta generale finalizzata ad un percorso di liberazione collettivo è impossibile: nella migliore delle ipotesi possono prodursi alleanze tra soggetti che sono costitutivamente diversi. L’emancipazione diventa un’azione individuale, limitata il più delle volte ad atti simbolici e circoscritta al modo in cui ci si riappropria della propria identità culturale o si riconosce quella altrui. Marx ed Engels avevano già polemizzato ne L’ideologia tedesca con chi pensava di cambiare la realtà modificando il proprio pensiero: un approccio tipico dell’idealismo soggettivo.
Il risultato più evidente delle politiche identitarie è l’adozione di un approccio che crea divisione e fa il gioco della classe dominante, interessata a rompere l’unità degli sfruttati. Così la borghesia e le burocrazie del movimento operaio utilizzano strumentalmente queste politiche per promuovere gli esponenti delle comunità oppresse che difendono le idee più reazionarie, presentando questa operazione come un’azione inclusiva, quando invece è palese per chiunque voglia vederlo che ciò non ha nessuna incidenza sulla condizione generale delle minoranze e degli oppressi.
Lottare contro le discriminazioni e contro ogni forma di oppressione è un compito fondamentale per qualsiasi rivoluzionario. Per farlo però è necessaria una teoria che unifichi gli oppressi e gli sfruttati attorno ad una prospettiva rivoluzionaria, in grado di eliminare le cause dell’oppressione. Non è per un presunto riduzionismo di classe che il marxismo attribuisce centralità alla classe operaia nella lotta per il rovesciamento del capitalismo, come erroneamente sostiene la vulgata antimarxista. La centralità della classe operaia deriva dal ruolo che riveste nella produzione, dal suo potere di bloccare l’estrazione del plusvalore e quindi i profitti, oltre che dal fatto di essere abituata a lavorare e a lottare collettivamente e non a livello individuale. Essa può essere la leva per il rovesciamento della società, ed è per questo che attorno alla classe lavoratrice è possibile unire gli sfruttati e gli oppressi in una lotta comune.
Come è evidente, invece, nella concezione foucaultiana e nel postmodernismo scompare inevitabilmente anche qualsiasi soggetto rivoluzionario. Del resto, se il potere è un rapporto in cui siamo sempre immersi, che è sempre esistito e che caratterizza l’insieme delle relazioni umane, la rivoluzione, che non è nient’altro che il passaggio del potere dalle mani di una classe ad un’altra, non ha senso. E infatti Foucault avverserà tenacemente qualsiasi prospettiva rivoluzionaria, considerandola illusoria.
Il potere, lo Stato e la rivoluzione
Con la sua concezione del potere microfisico, Foucault si oppone all’idea che il potere abbia un centro individuabile nella classe dominante o nello Stato. Una delle conseguenze del potere capillare è infatti che lo Stato e i suoi apparati non sono funzionali al mantenimento del dominio della classe dominante, ma sono strumenti di disciplinamento e di assoggettamento di cui il potere si serve. Queste tecniche, anche se stanno dentro una strategia globale del potere, sono eterogenee e non possono essere ricondotte ad un’unità. Foucault considera i processi di centralizzazione dello Stato e il suo ruolo nell’esercizio del potere politico nient’altro che effetti delle strategie del potere. Concepire il potere come qualcosa che può essere ricondotto allo Stato, come fa il marxismo, significa per Foucault riproporre al pari della borghesia l’idea di un potere basato sulla sovranità e sul diritto, ma la teoria marxista dello Stato non si basa certo su questo!
Per Marx ed Engels lo Stato è in primo luogo l’espressione politica del dominio di classe: è una conseguenza del potere e del dominio economico della classe dominante. Affinché le classi in lotta fra loro non giungano a distruggersi, sorge la necessità di una potenza, formalmente al di sopra delle parti, che ha lo scopo di attenuare il conflitto mantenendolo nei limiti dell’ordine. Come scrive Engels: “questa potenza che emana dalla società, ma che si pone al di sopra di essa e che si estranea sempre più da essa, è lo Stato”64. E ancora: “lo Stato, poiché è nato dal bisogno di tenere a freno gli antagonismi di classe, ma contemporaneamente è nato in mezzo al conflitto di queste classi, è per regola lo Stato della classe più potente, economicamente dominante, che, per mezzo suo, diventa anche politicamente dominante e così acquista un nuovo strumento per tener sottomessa e per sfruttare la classe oppressa. Come lo Stato antico fu anzitutto lo Stato dei possessori di schiavi al fine di mantener sottomessi gli schiavi, così lo Stato feudale fu l’organo della nobiltà per mantenere sottomessi i contadini (…) e lo Stato rappresentativo moderno è lo strumento per lo sfruttamento del lavoro salariato da parte del capitale”65.
Da un punto di vista marxista lo Stato moderno non è la semplice cristallizzazione di determinate relazioni di potere ma il garante dell’ordine e del potere borghese, un organo di dominio che legalizza e consolida l’oppressione di una classe nei confronti di un’altra. La rivoluzione quindi, insieme alla conquista dei mezzi di produzione, deve distruggere l’apparato del potere statale della borghesia e sostituirlo con uno Stato di transizione, che eserciti la dittatura del proletariato. Nelle mani del proletariato lo Stato è per la prima volta non uno strumento di oppressione della minoranza sulla gran parte della popolazione ma è utilizzato per imporre gli interessi della maggioranza della società. Scopo di questo Stato è quello di eliminare gli stessi presupposti della società divisa in classi; venendo meno le premesse della sua esistenza, lo Stato si estingue aprendo le porte ad una società senza Stato. Come spiegherà Lenin in Stato e rivoluzione, la questione dello Stato sarà la linea di demarcazione all’interno delle organizzazioni del movimento operaio tra i rivoluzionari e i riformisti.
Foucault slega l’analisi dello Stato da una visione di classe; questa concezione ha ovviamente degli effetti anche su come si concepisce eventualmente una rivoluzione66. Del resto, se i rapporti di potere prescindono dallo sfruttamento e dal modo di produzione, una rivoluzione non modificherà i rapporti di potere, che come abbiamo visto, passano per una molteplicità di relazioni.
Lo Stato invece va compreso dentro la dinamica dello scontro tra le classi fondamentali e proprio per questo il suo ruolo come strumento di conservazione e di oppressione non può essere sottovalutato, come sa chiunque lotti per cambiare la società e si scontra con la brutalità della repressione statale. Ne Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte ad esempio, Marx spiega come dopo ogni rivoluzione lo Stato francese abbia perfezionato il suo funzionamento e accentrato il potere, venendo a configurarsi come una macchina inutilizzabile per il dominio politico della classe operaia, è infatti da qui che discende la necessità per i rivoluzionari di spezzare l’apparato di Stato borghese.
Alla domanda: lei non trascura il ruolo dello Stato? Foucault risponde: “In effetti, i movimenti rivoluzionari marxisti o influenzati dal marxismo, a partire dalla fine del XIX secolo, hanno privilegiato lo Stato come bersaglio della lotta. […] la presa dell’apparato di Stato – questa fu una grande discussione all’interno dello stesso marxismo – deve esser considerata come una semplice occupazione con eventuali modificazioni, o deve esser piuttosto l’occasione della sua distruzione? Sapete come alla fine questo problema è stato regolato: bisogna minare l’apparato, ma non completamente poiché quando la dittatura del proletariato si stabilirà, la lotta di classe non sarà per questo terminata. […] Per far funzionare quegli apparati statali che saranno occupati ma non distrutti, conviene fare appello ai tecnici e agli specialisti. E per fare ciò, si utilizza la vecchia classe familiarizzata con quest’apparato, cioè la borghesia. Questo è probabilmente quel che è accaduto in Unione Sovietica. Non pretendo affatto sostenere che l’apparato di Stato non sia importante, ma mi sembra che fra tutte le condizioni che si devono riunire per non ricominciare l’esperienza sovietica, perché il processo rivoluzionario non s’insabbi, una delle prime cose che va capita è che il potere non è localizzato nell’apparato di Stato e che niente cambierà nella società se i meccanismi di potere che funzionano al di fuori di esso, al di sotto o a fianco ad esso, a un livello molto più basso, quotidiano, non sono modificati”67.
La citazione è lunga ma l’abbiamo riportata quasi per intero perché è un piccolo manifesto del pensiero di Foucault. Sulla questione dello Stato e della rivoluzione la distanza tra Foucault e Marx è massima, perché il filosofo francese contesta l’idea che i lavoratori debbano e possano organizzarsi per prendere il potere e dar vita ad uno Stato operaio. Foucault non riconosce le conquiste prodotte dalla rivoluzione d’Ottobre, né i giganteschi avanzamenti che si ebbero ad ogni livello. Il rovesciamento del vecchio regime fece sì che nei primi anni della rivoluzione si determinasse uno slancio senza precedenti in ogni campo: ovunque i tradizionali rapporti venivano messi in discussione, con l’obiettivo di costruire una società libera dallo sfruttamento e dall’oppressione. La degenerazione della rivoluzione russa, prodottasi per ragioni molto concrete, come l’arretratezza della Russia e l’isolamento della rivoluzione a livello internazionale, non giustifica le conclusioni che ne trae Foucault, e con lui tanti intellettuali della sua generazione. È nell’ambito del marxismo che possiamo trovare una spiegazione materialista di quanto avvenne, senza dover rinunciare ad una prospettiva rivoluzionaria, così come fece Trotskij nella sua analisi dello stalinismo. Scavando più a fondo, il nostro archeologo avrebbe trovato le tracce di una lotta che ha visto migliaia di rivoluzionari opporsi all’ascesa dello stalinismo per difendere il primo tentativo su larga scala di esercizio del potere da parte della classe operaia ma evidentemente Foucault ha preferito lasciarli sottoterra.
Il filosofo militante?
Foucault non è stato l’intellettuale militante che sì è soliti rappresentare. L’impegno propriamente politico riguarderà brevi stagioni mentre la sua biografia intellettuale sarà costellata da continue svolte. Non un intellettuale controcorrente quindi, ma un pensatore camaleontico che si è adattato continuamente al contesto dell’epoca e ai suoi mutamenti.
La sua generazione sarà troppo giovane per partecipare alla Resistenza ma si formerà tuttavia nel quadro politico e sociale emerso nell’immediato dopoguerra. Sono anni caratterizzati da un generale processo di radicalizzazione: nel 1947 la Francia è attraversata da scioperi insurrezionali e molti intellettuali si orientano al marxismo e alle organizzazioni della classe operaia. All’École normale supérieure si forma una cellula del Partito Comunista Francese che si compone di 40-50 iscritti su un totale di 200 studenti. Tra questi c’è anche Michel Foucault che, influenzato da Althusser, nel ’50 aderisce al PCF. Non è un militante particolarmente attivo e lascerà il partito pochi anni dopo, nel ’53. Foucault transita per il Partito Comunista Francese senza che da parte sua vi sia né una conoscenza approfondita del marxismo né un’analisi compiuta dello stalinismo68. Ad ogni modo, secondo Eribon, uno dei suoi biografi, una volta uscito dal partito e dopo essere stato costretto a lasciare Varsavia69 per la sua omosessualità, Foucault è furiosamente anticomunista.
Dopo la rottura col PCF, Foucault abbandona qualsiasi impegno politico e si inserisce pienamente nell’accademia francese. Fa proprie le logiche di potere che caratterizzano quel mondo e grazie al sostegno di professori influenti riesce ad entrare al Collège de France, il più prestigioso tempio della cultura francese, dove terrà corsi dal ’70 fino alla sua morte, avvenuta nel 1984.
Negli anni ’60 non disdegna neanche i rapporti col governo gaullista, anzi! Nel 1965 partecipa alla riforma universitaria del ministro dell’istruzione Christian Fouchet, che ha l’obiettivo di creare un legame tra le università e il mercato del lavoro. Foucault si dedicherà a questo incarico senza sollevare mai punti di criticità o di dissenso, eppure mobilitazioni e contrarietà alla riforma non erano mancate già a partire dagli anni precedenti. La riforma entrerà in vigore nel 1967 e sarà una delle cause scatenanti del Maggio ’68.
Quando nel 1966 esce Le parole e le cose, col suo furioso attacco al marxismo, il testo viene accolto come un libro di destra, espressione di un pensiero conservatore. Il filosofo reagirà a queste accuse provando a dipingere, senza grande successo, lo strutturalismo come una corrente più a sinistra sia dell’esistenzialismo che del marxismo. Sarà proprio l’opposizione al marxismo ad essere al centro dei commenti foucaultiani alle mobilitazioni studentesche della fine degli anni ‘60. Spostatosi per lavoro a Tunisi fino alla fine del 1968, assisterà alle lotte tenaci dei giovani tunisini e le userà per esaltarne lo spontaneismo in contrapposizione al Maggio francese, di cui lamenterà “l’iper-marxistizzazione” dei discorsi e lo “scatenamento di teorie, anatemi, gruppuscolarizzazioni, veramente sconcertante e molto poco interessante”70.
Sarà proprio il movimento rivoluzionario del Maggio ’68 a determinare un cambio nelle ricerche di Foucault. È a partire infatti dalle questioni poste dal Maggio francese che comincerà ad interessarsi al tema del potere. Al pari di altri intellettuali, Foucault vira bruscamente a sinistra e adotta un linguaggio pseudorivoluzionario, partecipa alle lotte all’università sperimentale di Vincennes nel ‘69 e sarà tra i principali animatori del Gip (Gruppo d’informazione sulle prigioni)71, attraverso cui si costruirà la sua immagine di intellettuale militante.
Il Gip interviene nel contesto infuocato prodottosi nelle carceri francesi, attraversate da diverse rivolte. Il gruppo elabora dei questionari da far arrivare ai detenuti e ha l’obiettivo di divulgare informazioni su quanto accade in prigione, dando la parola a esponenti che conoscono il mondo delle carceri e soprattutto ai detenuti, affinché “nessuno parli per loro”72: una formula che i foucaultiani ripeteranno all’infinito e che sarà alla base dei disastri delle politiche identitarie e del soggettivismo postmoderno imperante negli ultimi decenni. Il Gip non elabora nemmeno un vero programma rivendicativo né lega le lotta nelle carceri alla lotta rivoluzionaria per la trasformazione della società. L’esperienza del Gip naufragherà di fronte alla sconfitta del movimento. Foucault constatando la mancanza di risultati prodotti ne traccerà un bilancio negativo, mettendo così fine alla sua attività militante73.
Come gli altri nietzschiani di sinistra Foucault presenta le proprie idee come un’alternativa politica al marxismo, spacciandole come più radicali74: un’operazione che trova uno spazio anche a causa del riformismo e del moderatismo del PCF stalinizzato. Secondo Foucault le lotte cominciate a partire dal ’68, interessandosi alla vita quotidiana, avrebbero aperto questioni nuove, facendo segnare il passo al marxismo. Nuove concezioni avrebbero messo fine: “alla tirannia dei discorsi globalizzanti con le loro gerarchie e tutti i privilegi delle avanguardie teoriche”75. Al di là del linguaggio pirotecnico e dell’estremismo verbale però non viene fornita nessuna proposta politica complessiva. Foucault lo teorizzerà, dichiarando più e più volte che non è suo compito quello di dare indicazioni sul da farsi76. Il marxismo inteso come una teoria che guidi l’azione è considerato un ferro vecchio e i programmi e le proposte politiche strumenti di oppressione. Il piano delle rivendicazioni è sempre, volutamente, fumoso; alla lotta rivoluzionaria viene contrapposta la predilezione per azioni locali e circoscritte, un pensiero pienamente compatibile col capitalismo proprio perché si rifiuta di porsi sul terreno della conquista del potere. Ne viene fuori un generico ribellismo basato su un’estetica della rivolta. Si capisce quindi come, passata l’ondata rivoluzionaria degli anni ’70, le concezioni foucaultiane abbiano potuto trovare sempre di più uno spazio dentro e fuori le accademie, arrivando ad essere particolarmente di moda tra un settore dell’establishment universitario.
Alla centralità della classe operaia della teoria marxista, Foucault contrappone una visione policentrica delle lotte. Di fronte all’attivazione politica di nuovi soggetti, ripropone la tesi (falsa) secondo la quale il marxismo non si sarebbe interessato agli esclusi e agli emarginati: i detenuti, il sottoproletariato, i folli. In particolare Foucault esalta il ruolo della plebe, che è per lui “l’elemento sfuggente del potere”, mentre il proletariato avrebbe introiettato i valori e la morale della borghesia. Foucault non comprende che fu proprio la rottura rivoluzionaria del ’68 e la grande conflittualità messa in campo dai giovani e dai lavoratori a trascinare nella mobilitazione altri settori sfruttati e oppressi della società. Questa visione ribellistica porta con sé l’esaltazione dello spontaneismo e l’idea che le lotte e i movimenti produrrebbero di per sé un sapere da contrapporre alle organizzazioni politiche o ai sindacati77. Invece di criticare l’inadeguatezza della direzione delle organizzazioni sindacali e dei partiti della sinistra, Foucault esprime nei loro confronti un’ostilità di principio perché sarebbero strumenti gerarchici ed espressioni di potere. I partiti sono definiti l’invenzione politica più sterile del XIX secolo e ad essi viene contrapposta una concezione individualistica basata sul coraggio dei singoli: una riproposizione del più classico volontarismo. A partire da queste idee Foucault indirizzerà il suo interesse sempre più verso l’etica e le scelte individuali, mentre le lotte saranno circoscritte nella migliore delle ipotesi ad una generica e astratta resistenza al potere ed al suo esercizio.
Dopo la sconfitta del ’68 Foucault riprenderà con più ferocia la polemica contro il marxismo e il comunismo. Sono gli anni in cui la borghesia conduce una massiccia campagna mediatica contro il cosiddetto totalitarismo, in cui si fa di tutto per screditare il marxismo identificandolo con l’esperienza stalinista78. Insieme alla pubblicazione di Arcipelago Gulag di Solženicyn nel 197479, in Francia viene dato particolare risalto all’operazione portata avanti dai cosiddetti nuovi filosofi, ex maoisti fulminati sulla via del capitale e convertiti al liberalismo borghese. Foucault accoglierà con grande entusiasmo questa operazione, recensendo elogiativamente su Le Nouvel Observateur, I padroni del pensiero di Glucksmann nel ‘77, condividendo con l’autore la critica ai totalitarismi e alle filosofie che ne sono responsabili. La grande campagna d’opinione che si mette in campo attorno ai nuovi filosofi ha lo scopo di sradicare il marxismo e l’idea stessa della rivoluzione dal dibattito politico nei paesi occidentali80. In questo contesto, Foucault è ancora una volta allineato al pensiero dominante e ha quindi gioco facile nel portare avanti il suo attacco al marxismo. Ora che gli intellettuali hanno smesso di fare riferimento alla rivoluzione, Foucault ci spiega che essa non è più desiderabile, mentre il marxismo è accusato di essere responsabile dell’impoverimento e dell’inaridimento dell’immaginario politico81.
L’ approccio libertario del filosofo ha notevoli punti di contatto con la propaganda liberale e anticomunista, compresa l’equiparazione tra fascismo e stalinismo82. Non sorprende, pertanto, che nel contesto generale del riflusso, Foucault polemizzerà contro la visione “statalista” delle organizzazioni socialiste e comuniste e svilupperà un rapporto a dir poco subalterno al liberismo, così come vedremo più avanti.
Sorvegliare e punire: la prigione è ovunque!
Sorvegliare e punire è un testo decisivo per cogliere a pieno le differenze tra Foucault e Marx. Il libro racchiude l’elaborazione teorica foucaultiana sul tema delle carceri e descrive il nuovo potere di punire emerso con la nascita della moderna prigione. Secondo Foucault le nuove modalità della pena si basano sullo sviluppo di una nuova tecnologia di potere: la disciplina, ed è solo per mezzo del potere disciplinare che il dominio capitalista si è potuto affermare storicamente, sostituendo il potere sovrano operante durante il medioevo, costruito attorno alla figura del monarca83. La trasformazione delle forme punitive dimostrerebbe il passaggio da un potere all’altro. Proprio all’inizio di Sorvegliare e punire, Foucault paragona due esecuzioni, avvenute a pochi decenni di distanza una dall’altra. Quella del parricida Damiens, che nel 1757 viene suppliziato e letteralmente squartato vivo davanti al popolo parigino, e quella del regicida Fieschi, condotto al luogo dell’esecuzione coperto da un velo nero e immediatamente giustiziato dopo la lettura della sentenza nel 1836. La tesi di Foucault è che in pochi anni la pena si è trasformata: si passa dal rituale politico del supplizio, atto a ristabilire il dominio del re sul corpo del condannato, al potere disciplinare, che punisce in maniera più diffusa ed efficace ma meno plateale.
Più che in ogni altro testo, in Sorvegliare e punire vi sono riferimenti allo sviluppo materiale dei processi storici ma vengono sempre ricondotti alla storia filosofica del potere che viene elaborata. Mentre Foucault interpreta le torture e le pene fisiche come espressione della potenza sovrana volta a riaffermare il dominio del re sul corpo dei suoi sudditi, Marx spiega come la brutalità delle pene, le marchiature a fuoco e i supplizi siano stati l’espressione della violenza con cui la borghesia ha imposto il proprio dominio nella fase della cosiddetta accumulazione originaria. In questo processo grandi masse di uomini vengono separate con la forza dai loro mezzi di sussistenza e gettati sul mercato del lavoro. Gli uomini scacciati dalla terra per lo scioglimento dei vincoli feudali e per l’espropriazione violenta si trasformarono “in massa, in mendicanti, briganti, vagabondi, in parte per inclinazione, ma nella maggior parte dei casi sotto la pressione delle circostanze. Alla fine del secolo XV e durante tutto il secolo XVI si ha perciò in tutta l’Europa occidentale una legislazione sanguinaria contro il vagabondaggio. I padri dell’attuale classe operaia furono puniti, in un primo tempo, per la trasformazione in vagabondi e in miserabili che avevano subito. La legislazione li trattò come delinquenti «volontari» e partì dal presupposto che dipendesse dalla loro buona volontà il continuare a lavorare o meno nelle antiche condizioni non più esistenti”84. E ancora, continua Marx: “così la popolazione rurale espropriata con la forza, cacciata dalla sua terra, e resa vagabonda, veniva spinta con leggi fra il grottesco e il terroristico a sottomettersi, a forza di frusta, di marchio a fuoco, di torture, a quella disciplina che era necessaria al sistema del lavoro salariato”85.
Il passaggio dalle pene corporali alla pena detentiva si spiega proprio con l’imporsi del capitalismo. Il carcere per come lo conosciamo oggi, ovvero l’internamento come privazione della libertà, è un fenomeno inconcepibile nei sistemi precapitalistici. Nella società feudale esisteva il carcere per debiti o quello di custodia in attesa della condanna ma non l’idea dell’incarceramento come pena.
L’origine del carcere moderno può essere rintracciata nelle workhouse (case di lavoro o di correzione), che sono insieme case per poveri, istituzioni penali e case di lavoro dedite alla manifattura. Lo scopo di queste strutture è quello di rendere utile una forza lavoro ribelle, che dunque va disciplinata per la produzione capitalistica e spinta ad accettare qualsiasi condizione. L’utilizzo del lavoro in queste istituzioni ha anche degli effetti sul mercato del lavoro, tra cui quello di tenere bassi i salari. La tendenza del capitalismo mercantile a sfruttare la forza lavoro dei detenuti attraverso le deportazioni e i lavori forzati sopravviverà per lungo tempo ma Foucault non dà la minima importanza a questo aspetto.
Il carcere moderno emerge come evoluzione delle case di correzione del capitalismo mercantilistico. I riformatori illuministi del diritto penale del ‘70086 denunciano le condizioni dei detenuti e chiedono un rapporto proporzionale tra delitto e pena e una minore arbitrarietà nel sistema penale. La critica illuminista, al di là degli elementi ideologici, trova spazio anche perché lo sviluppo del capitalismo industriale mette in crisi il lavoro produttivo nelle case di correzione. Venuto meno il lavoro, restano solo gli elementi di terrore e gli atti intimidatori mentre la rieducazione promessa dal diritto borghese rimarrà lettera morta87. Si tratta di un processo che dura fino ai primi decenni dell’Ottocento, quando il carcere, con i suoi diversi modelli, si imporrà come pena dominante88.
Foucault però non è interessato alla storia del carcere o alla sua funzione nel capitalismo ma alle pratiche di imprigionamento, che avrebbero come scopo principale la produzione di soggetti sottomessi al potere, docili e utili. La prigione metterebbe in opera un nuovo potere, quello disciplinare, che ritroviamo nelle scuole, nelle fabbriche, negli eserciti, negli ospedali: viene a formarsi una vera e propria società disciplinare. In questo processo di dominazione un ruolo centrale è giocato dalle scienze sociali: la psicologia, la psichiatria, la criminologia ma anche la pedagogia e la medicina, che Foucault non critica sulla base del loro contenuto ideologico ma in quanto scienze intimamente connesse alla disciplina. Il vero bersaglio polemico di Foucault è il sapere-potere creato dalle scienze che fabbrica gli individui sia come soggetti conformi a determinati comportamenti che come oggetti di conoscenza.
La società disciplinare ha reso possibile il processo di normalizzazione della società contemporanea89. Scrive Foucault: “noi siamo nella società del professore-giudice, del medico-giudice, dell’educatore-giudice, del lavoratore sociale-giudice; tutti fanno regnare l’universalità del normativo”90. A Foucault non interessa indagare come la norma venga stabilita o in che rapporto sia con la società divisa in classi e l’ideologia dominante ma solo descrivere un oscuro potere normalizzatore che pervade ogni relazione sociale. Il risultato è che nella società disciplinare il soggetto perde ogni autonomia e con essa qualsiasi possibilità di liberarsi o emanciparsi tramite la lotta.
È a partire da questa impostazione che nella concezione del potere foucaultiano il corpo assume una particolare centralità (un’altra eredità nietzschiana). Egli afferma che è sempre sul corpo e sulle sue forze che il potere punitivo agisce: “ma il corpo è anche direttamente immerso in un campo politico […]. Questo investimento politico del corpo è legato, secondo relazioni complesse e reciproche, alla sua utilizzazione economica. È in gran parte come forza di produzione che il corpo viene investito da rapporti di potere e di dominio, ma, in cambio, il suo costituirsi come forza lavoro è possibile solo se viene preso in un sistema di assoggettamento”91. Foucault civetta col linguaggio marxista ma questo non rende la sua concezione del corpo più materialista. Nei suoi scritti non troveremo mai la materialità del corpo, né individui in carne e ossa nella concretezza dei loro rapporti sociali92. Il corpo è nell’impostazione foucaultiana una costruzione astratta del potere. È un oggetto che non esiste a prescindere dal discorso che lo crea: una concezione completamente idealista.
Nella società disciplinare una particolare forma di controllo risiede nella sorveglianza. In Sorvegliare e punire Foucault si richiama al panopticon di Bentham93. Nel modello del pensatore inglese, in cui un singolo sorvegliante può vedere i detenuti senza che questi ne siano a conoscenza, per Foucault vi sarebbe l’idealizzazione di un modello di controllo generalizzato, una metafora del potere disciplinare94. A differenza delle galere con i detenuti ammassati, la cella isolata sempre visibile dalla torre centrale spingerebbe all’assoggettamento e al disciplinamento dei comportamenti proprio mentre il potere diventa invisibile. Il panopticon è il collegamento tra il carcere e la società disciplinare. Al centro del processo di assoggettamento dei detenuti ci sarebbe non la forza ma la sorveglianza. L’esercizio del potere si attua attraverso l’interiorizzazione di un rapporto subordinato. A seguire il ragionamento di Foucault, le carceri potrebbero tranquillamente fare a meno del filo spinato perché nessuno evaderebbe ma evidentemente non è così. Il carcere resta un sistema basato sulla forza e sulla coercizione, diretta in primo luogo contro gli sfruttati ed espressione del dominio di classe della borghesia.
Foucault adatta il modello del panopticon alle sue esigenze senza tener conto di quanto effettivamente Bentham si promette di realizzare col suo progetto di riforma carceraria, la cui esigenza prioritaria era quella di ridurre la sorveglianza per contenere i costi95. L’eco e il successo della lettura foucaultiana si basano sulla riproposizione di un’idea non nuova, quella del controllo sociale assoluto. Foucault dà l’illusione di avere la chiave d’accesso ai meccanismi di sorveglianza operanti nel regime capitalistico (ma anche nel fascismo e nei paesi stalinisti). Oggi gli stessi temi vengono riproposti denunciando il controllo esercitato sulla popolazione attraverso le telecamere a circuito chiuso, i satelliti, gli algoritmi96, utilizzati di volta in volta come esempi della pervasività del potere, da cui sarebbe impossibile liberarsi. Ma nessuna tecnologia potrà mai impedire alle persone di lottare e sollevarsi contro le ingiustizie che questo sistema produce.
Va sottolineato un ultimo paradosso: cosa ne è dell’esaltazione della molteplicità del potere così cara a Foucault se tutto è subordinato ad un unico processo di razionalizzazione come quello disciplinare? La risposta è ovvia: si annulla in una visione riduzionistica e totalizzante, priva di contraddizioni. Il potere disciplinare stride con l’idea del potere capillare che Foucault difende perché semplicemente dappertutto troveremo sempre e solo il carcere: “la prigione porta all’intensità massima tutte le procedure che si trovano negli altri meccanismi disciplinari”97. Se fosse come dice Foucault, le carceri in fin dei conti non sarebbero più necessarie, basterebbe intensificare il ruolo delle altre istituzioni, ma non è così98. La generalizzazione di Foucault non è altro che la reazione alla sconfitta delle rivolte delle carceri e del post ’68. Foucault da un lato abbandona il campo della mobilitazione e dall’altro trasforma il carcere in una metafora universale.
Foucault, Marx e il riduzionismo economico
Al pari di altri pensatori idealisti, da Max Weber ai teorici della scuola di Francoforte, Foucault si concentra sui processi di razionalizzazione operanti nella società contemporanea, che sarebbero essenziali per l’esercizio del potere nel sistema capitalistico. Lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, centrale nell’analisi marxista, da Foucault viene sostituito dal disciplinamento, che a sua volta negli anni successivi verrà rimpiazzato prima dal controllo biopolitico e poi dal governo dei viventi.
In Sorvegliare e punire Foucault opera un confronto costante con Marx e i suoi studi sulla formazione del modo di produzione capitalistico. Affrontando la relazione tra la nascita della società disciplinare e quella del capitalismo industriale, vuole fornire un’alternativa al cosiddetto riduzionismo economico marxista, col risultato che la disciplina di fabbrica, analizzata così efficacemente da Marx, viene arbitrariamente generalizzata e applicata allo stesso modo a qualsiasi campo. Che il sistema capitalistico abbia bisogno della disciplina per funzionare è fin troppo ovvio, ma il capitalismo ha al proprio centro determinati rapporti di produzione che costituiscono il fondamento della società. Se si perde di vista questo aspetto, come fa Foucault, e si assolutizza il disciplinamento, ci ritroveremo di fronte ad un potere disciplinare impersonale che sovrasta questi rapporti e annulla il dominio di una classe sull’altra. Le cose nella realtà sono rovesciate rispetto a come le presenta Foucault: le discipline non vivono di vita propria, la loro centralità discende dall’uso che ne fa la borghesia per esercitare il proprio dominio. Esiste chiaramente un rapporto dialettico tra i due aspetti e i marxisti sono ben lontani dal non riconoscerlo.
Il punto quindi non è il presunto riduzionismo economico marxista ma l’idealismo dell’impostazione foucaultiana, che riduce la formazione del capitalismo a quelle che chiama tecnologie politiche99.
Questa impostazione non è un’integrazione del marxismo, come sostengono i foucaultiani, ma una sua negazione. Visto che sono le discipline a rendere possibile l’assoggettamento della forza lavoro, Foucault polemizza col marxismo e sostiene che il legame dell’uomo con il lavoro è un legame politico, operato dal potere e non un legame economico, derivato dalla produzione. Fa quindi discendere il lavoro salariato dalle tecniche disciplinari e dagli effetti che queste producono sui soggetti, disinteressandosi del processo reale attraverso cui il capitalismo si afferma come sistema economico e sociale.
Non è casuale che avendo posto l’accento esclusivamente sui rapporti di potere, Foucault debba criticare uno dei capisaldi della concezione materialistica della storia e cioè il ruolo che ha il lavoro, inteso come aspetto specifico dell’attività dell’uomo, nello sviluppo e nell’evoluzione del genere umano.
“Non penso – spiega Foucault – che si possa accettare puramente e semplicemente l’analisi marxista tradizionale, secondo la quale, visto che l’esistenza concreta dell’uomo è il lavoro, è il sistema capitalistico a trasformare questo lavoro in profitto, in plusprofitto o in plusvalore. In effetti il sistema capitalistico penetra ben più in profondità nella nostra esistenza. Nella forma in cui è stato instaurato nel XIX secolo, questo regime è stato obbligato a elaborare un insieme di tecniche politiche, di tecniche di potere mediante le quali l’uomo si trova legato a una cosa come il lavoro”100.
Per Foucault, quindi, non c’è nulla di naturale nel lavoro, tant’è che la classe operaia ha dovuto subire un forte processo di moralizzazione affinché la borghesia potesse arrivare a dominarla. Marx, al contrario, spiega che: “il lavoro, come formatore di valori d’uso, come lavoro utile, è una condizione d’esistenza dell’uomo, indipendente da tutte le forme della società, è una necessità eterna della natura che ha la funzione di mediare il ricambio organico fra uomo e natura, cioè la vita degli uomini”101. Anche nelle società precapitalistiche, come è ovvio in una concezione materialistica, il lavoro umano svolgeva un ruolo decisivo. Quello che c’è di nuovo nella società capitalistica è il lavoro salariato e la compravendita della forza lavoro. È a partire da questa concezione, del resto, che è possibile una lotta politica per liberare l’uomo dalla schiavitù del lavoro salariato, una prospettiva che Foucault rigetta.
In ultima analisi, l’alternativa foucaultiana a Marx si riduce alla tesi che le tecniche disciplinari siano una precondizione per la formazione del capitalismo, ma questa tesi antidialettica oltre ad essere sbagliata è molto più povera e generica di quanto non sia l’elaborazione marxista. Ne Il capitale Marx spiega come il capitalismo concretamente si impose, disciplinando la classe operaia e rendendola subalterna dal punto di vista economico, sino a far risultare un modo di produzione storicamente determinato come qualcosa di naturale:
“Non basta – scrive Marx – che le condizioni di lavoro si presentino come capitale a un polo e che all’altro polo si presentino uomini che non hanno altro da vendere che la propria forza-lavoro. E non basta neppure costringere questi uomini a vendersi volontariamente. Man mano che la produzione capitalistica procede, si sviluppa una classe operaia che per educazione, tradizione, abitudine, riconosce come leggi naturali ovvie le esigenze di quel modo di produzione. L’organizzazione del processo di produzione capitalistico sviluppato spezza ogni resistenza; la costante produzione di una sovrappopolazione relativa tiene la legge dell’offerta e della domanda di lavoro, e quindi il salario lavorativo, entro un binario che corrisponde ai bisogni di valorizzazione del capitale; la silenziosa coazione dei rapporti economici appone il suggello al dominio del capitalista sull’operaio. Si continua, è vero, sempre ad usare la forza extraeconomica, immediata, ma solo per eccezione. Per il corso ordinario delle cose l’operaio può rimanere affidato alle «leggi naturali della produzione», cioè alla sua dipendenza dal capitale, che nasce dalle stesse condizioni della produzione, e che viene garantita e perpetuata da esse”102.
Non solo la centralità della produzione in Marx non implica nessun riduzionismo economico, ma permette di inquadrare la disciplina come un elemento essenziale per l’estrazione del plusvalore dalla forza lavoro senza che l’intero sistema economico e sociale venga ridotto a questo singolo aspetto. La disciplina, come dimostra la storia del movimento operaio, se utilizzata per gli interessi della classe operaia fornisce ai lavoratori anche la possibilità di organizzarsi in sindacati e partiti, e in ultima analisi di battersi contro la classe dominante per un sistema economico e sociale alternativo. Ma questa concezione dialettica per Foucault è un libro chiuso.
Il mito della biopolitica
Solamente un anno dopo la pubblicazione di Sorvegliare e punire, Foucault già adotta un’altra categoria: la biopolitica. Negli anni ‘90 e agli inizi degli anni 2000, la biopolitica è stata una categoria particolarmente di moda, un passepartout utile a spiegare qualsiasi cosa: dalla bomba atomica alle biotecnologie, dai campi di sterminio nazisti alle guerre “umanitarie”, dalle politiche migratorie alle tecniche di clonazione103.
Pur nelle loro differenze, gli epigoni “biopolitici” si richiamano tutti all’elaborazione foucaultiana contenuta nei corsi al Collège de France nella seconda metà degli anni ‘70 e ne La volontà di sapere. Foucault si concentra ancora una volta sulle trasformazioni del potere, in questo caso si tratta di quelle avvenute nel XIX secolo. Tradizionalmente il potere sovrano sarebbe caratterizzato dal diritto del re di disporre della vita e della morte dei sudditi. Questo potere però concretamente si esercitava nel diritto di “mandare a morire”. Ora invece, un nuovo diritto (o meglio un nuovo potere) affiancherebbe e rovescerebbe quello vecchio: “se il vecchio diritto di sovranità consisteva nel diritto di far morire e di lasciar vivere, il nuovo diritto che viene istaurandosi sarà quello di far vivere e di lasciar morire”104. Il potere quindi non ha più come prerogativa principale quella di dare la morte ma al contrario prende in carico la vita stessa e ne diventa garante. Una diversa tecnologia del potere, che incorpora e integra quella disciplinare, emergerebbe già a partire dalla seconda metà del XVIII secolo per poi affermarsi nel secolo successivo. Mentre la disciplina riguarda il corpo dei singoli individui, questa nuova tecnica di potere si applicherebbe agli uomini in quanto specie e produrrebbe un’attenzione particolare ai processi che sono specifici della vita biologica: la nascita, la riproduzione, la malattia, la morte, ecc105. “In sostanza, – scrive Foucault – il problema diventa quello di prendere in gestione la vita, i processi biologici dell’uomo-specie, e di assicurare su di essi non tanto una disciplina, quanto piuttosto una regolazione”106. La normalizzazione, che abbiamo già visto all’opera nei meccanismi disciplinari, riguarderà anche la popolazione e assumerà un ruolo centrale nella biopolitica, che è l’insieme di discipline dei corpi e di regolazioni delle popolazioni107.
Nasce un nuovo sapere: i rilievi demografici, le misurazioni statistiche e lo stesso concetto di popolazione. Lo Stato inizia ad occuparsi non solo della natalità e della mortalità ma anche delle malattie endemiche, che vengono studiate in quanto fattori che sottraggono forze al lavoro e alla produzione e per di più implicano un costo per le cure. Da questi fenomeni nasce anche la medicina, la cui funzione primaria sarà quella dell’igiene pubblica, attuata attraverso le campagne di medicalizzazione della popolazione. Anche in questo caso l’enfasi è tutta posta sugli effetti di potere che ha il sapere medico e la funzione di controllo che la medicina esercita tanto sulla popolazione quanto sui singoli individui108, senza tener minimamente conto del ruolo progressista che la medicina, pur tra mille contraddizioni dovute alla divisione in classi della società, ha potuto giocare negli ultimi secoli. La biopolitica produce interesse verso le diverse forme di inabilità al lavoro: gli infortuni, gli incidenti, le infermità e la vecchiaia. Ne deriva la critica della funzione normalizzatrice dello stato sociale e della razionalità che lo muove: l’interesse per la “cura” fa parte dei dispositivi di sicurezza e di controllo dello Stato sulla vita degli individui109. Le politiche per la sanità, per la casa o la scuola sono forme per regolare la popolazione al fine di massimizzare la produttività e minimizzare i rischi. Che lo stato sociale sia servito anche a garantire la stabilità e lo sviluppo del capitalismo è senz’altro vero, ma questo non toglie niente al fatto che sia stato in primo luogo il frutto delle lotte operaie, volte ad ottenere condizioni di vita degne per i lavoratori e le classi subalterne.
Risulta evidente che la biopolitica foucaultiana non è altro che una categoria aprioristica che si applicherebbe indiscriminatamente alla storia degli ultimi tre secoli. Il metodo del filosofo francese ormai lo conosciamo: prendere una categoria, farla assumere vita propria e leggere la storia reale come una sua articolazione. Foucault evidentemente proietta sui secoli scorsi le peculiari condizioni dello sviluppo capitalistico del secondo dopoguerra, che alimentarono le illusioni nello Stato regolatore e nelle possibilità di mitigare la brutalità del capitalismo, idealizzando questo processo e presentandolo come privo di contraddizioni.
Possiamo facilmente cogliere l’inefficacia della categoria biopolitica osservando come anche le società precapitalistiche si siano parimenti poste il problema di tutelare la vita attraverso forme di controllo e regolazione della popolazione, quelli che semmai sono cambiati sono gli strumenti che la società ha a disposizione per poterlo fare. Lo sviluppo scientifico e tecnologico negli ultimi secoli ha permesso di debellare alcune malattie endemiche, di garantire almeno sulla carta migliori condizioni di salute ma questo non si traduce affatto in un’attenzione generalizzata alla preservazione della vita nel capitalismo. Anche se i padroni hanno bisogno di lavoratori in forze, la logica del profitto “manda a morire” ogni giorno migliaia di persone per fame, con la guerra, al lavoro, per malattie di cui esiste la cura da decenni ma che non sono accessibili economicamente ai paesi più poveri e attraverso ogni altra forma di barbarie. Il paradosso fondamentale del nostro tempo è che queste forme distruttive si amplificano proprio quando ci sarebbero le condizioni per ridurle drasticamente. Questo non avviene perché c’è un disegno cosciente del potere ma perché il capitalismo è un sistema anarchico, che ha come unico interesse quello del profitto. Piuttosto, ci si dovrebbe domandare come rendere possibile un effettivo controllo da parte dell’insieme della popolazione sulla propria vita, un esito impossibile in questo sistema economico, perché è il mercato il vero potere che pervade tutti i settori della società, comprese le scienze legate alla vita e agli aspetti biologici dell’uomo.
Quanto appena detto è talmente più evidente oggi rispetto agli anni passati che non ha bisogno di grandi argomentazioni. Dopo la crisi del 2008 in alcuni paesi della civile Europa l’aspettativa di vita è diminuita. La crisi pandemica ha prodotto morti che potevano essere evitati se solo non fossero stati smantellati i sistemi sanitari nazionali pubblici. La polarizzazione sociale e l’impoverimento generalizzato fanno riemergere condizioni di vita che sembravano appartenere ad un’altra epoca, considerata non senza ingenuità come ormai superata.
Nel romanzo filosofico foucaultiano il potere avrebbe colonizzato i corpi e l’intera vita degli esseri viventi, tanto da essersi trasformato in un bio-potere110. Come era già accaduto per il potere disciplinare, ora Foucault considererà il bio-potere la premessa fondamentale per l’affermazione del capitalismo111. A partire da questa impostazione diversi marxisti accademici, primo fra tutti Toni Negri, hanno trattato lo stesso Marx come un antesignano della biopolitica112, ma anche in questo caso l’incompatibilità non potrebbe essere maggiore. Marx non ha mai utilizzato categorie idealiste e astratte come quelle foucaultiane e basta leggere i suoi scritti per comprendere che il capitale non ha nessun interesse per la vita della classe lavoratrice ma è interessata solo alla sua forza lavoro. Con una immagine molto efficace Marx scrive che: “il capitale è lavoro morto, che si riavviva, come un vampiro, soltanto succhiando lavoro vivo e più vive quanto più ne succhia. Il tempo durante il quale l’operaio lavora è il tempo durante il quale il capitalista consuma la forza-lavoro che ha comprato”113.
Da questa affermazione Marx però non fa discendere affatto una concezione generale secondo la quale il potere avrebbe “preso in carico la vita”. Le opere sue e quelli di Engels sono piene di denunce delle condizioni di sfruttamento disumane degli operai, del lavoro fisico dei fanciulli e degli adolescenti, delle operaie ma anche dell’enorme mortalità presente tra i figli degli operai nei primi anni di vita, altro che biopolitica!
Le categorie biopolitiche quando non sono usate per spiegare l’impossibilità della lotta politica, servono a sostituire la lotta di classe e la rivoluzione con una generica resistenza dei corpi al controllo biopolitico. Una lotta che fa del proprio centro la mistica del corpo perché il potere agirebbe direttamente su di essi senza passare per la rappresentazione114. Con questa fraseologia roboante e incomprensibile gli attivisti influenzati da Foucault (si pensi all’area politica dei disobbedienti in Italia) hanno provato a riempire il vuoto della loro analisi e a nascondere l’opportunismo delle loro pratiche. Una modalità che ha ormai fatto il suo tempo: quando la sua eco finirà non ne sentiremo certo la mancanza.
Contro la liberazione sessuale
Foucault dalla seconda metà degli anni ‘70 elabora una teoria della sessualità che avrà grande influenza nei decenni successivi. Sarà infatti alla base di alcune scuole femministe e soprattutto della teoria queer115.
Per il filosofo francese la sessualità è diventata così centrale nella società contemporanea perché è strettamente intrecciata al bio-potere e alla biopolitica, essa infatti è funzionale tanto al disciplinamento degli individui quanto alla regolazione della popolazione116. Nel caso della sessualità diventa ancora più evidente come per Foucault il potere sia riconducibile a nient’altro che al discorso. La sua Storia della sessualità è una storia dei discorsi che si sono prodotti attorno al sesso, perché sono questi a stabilire cosa è vero e cosa no.
Il punto di partenza dell’analisi foucaultiana è la critica all’idea che attorno alla sessualità ci sia stata una repressione crescente negli ultimi secoli. L’idea che la morale borghese e il cristianesimo abbiano represso la sessualità viene contestata e ancor di più viene respinta l’idea che sia necessaria una lotta contro il capitalismo come premessa per una completa liberazione sessuale117. Considerando che del sesso se ne parla fin troppo, anzi si parla del sesso più di ogni altra cosa, non è possibile che ci sia o ci sia stata repressione sessuale. A bene vedere, agli occhi di Foucault, è proprio il potere che fa di tutto per incentivarci a parlare del sesso. L’argomentazione è curiosa e dimostra tutta l’inconsistenza del suo approccio idealista. Visto che nessuno ci proibisce di parlare, dovremmo dedurne che non esistono sessualità represse né il riemergere, come vediamo negli ultimi anni, di idee reazionarie e bigotte in merito alla sessualità, ai diritti civili, alla famiglia, ecc. ma il fatto che se ne parli non elimina per nulla la discriminazione e la repressione, né le condizioni materiali che le producono.
Mentre in Sorvegliare e punire il carcere e la disciplina erano il centro attorno a cui costruire il potere disciplinare, ne La volontà di sapere, il primo volume della Storia della sessualità, è il sesso a diventare l’elemento totalizzante e l’asse attorno a cui ruota l’esercizio del potere118. È infatti attorno al sesso che Foucault elabora la sua teoria del potere produttivo, di un potere cioè che anziché proibire o negare, produrrebbe esso stesso la realtà che ci circonda. Non abbiamo a che fare con divieti né con leggi: il potere non fissa limiti alla sessualità, anzi lavora per moltiplicare le sessualità non conformi, produce esso stesso la norma e la devianza sessuale, divide il sesso in normale e patologico e così via.
Secondo Foucault il potere estrae dal corpo degli uomini e dai loro piaceri dei comportamenti specifici che vengono isolati al fine di considerarli come il tratto caratterizzante della sessualità di un individuo. Anche l’omosessualità sarebbe nata nello stesso modo, tanto che Foucault può datarne con esattezza la creazione, che sarebbe avvenuta con la pubblicazione di un articolo dello psichiatra Westphal nel 1870119. In altre parole l’omosessualità nasce quando viene considerata una malattia. Vediamo qui all’opera la modalità tipica del post-strutturalismo e del postmodernismo in cui il discorso, in questo caso il discorso medico-scientifico, diventa il dio creatore che stabilisce cosa è vero e reale. Per Foucault in occidente attorno alla sessualità si è prodotta una vera e propria scienza del sesso al fine di controllare e regolare la sessualità. Questo è stato possibile perché si è utilizzata una nuova tecnologia: la confessione. Dopo essere nata in ambito cristiano, la confessione si è sganciata dal campo religioso diventando così una tecnologia generale del potere che fa sì che ci si confessi tanto al prete quanto ai medici e agli psichiatri120. È attraverso questa immensa estorsione della confessione sessuale in forma scientifica che viene prodotta artificialmente la sessualità: “questa non deve esser considerata come una specie di dato naturale che il potere cercherebbe di domare, o come un campo oscuro che il sapere tenterebbe, a poco a poco, di svelare”121. La sessualità viene così ad essere per Foucault un dispositivo di potere che si basa sulla produzione di discorsi veri sul sesso, al fine di curare o normalizzare i soggetti non conformi. La sessualità per Foucault diventa la nostra identità personale, essa diviene centrale nel riconoscere noi stessi come soggetti. Così, attorno alla sessualità e alla confessione si produrrebbe un’intera scienza sociale del soggetto.
Invertendo i termini, Foucault sostiene che il sesso è un elemento immaginario: una finzione storica, un effetto a sua volta del dispositivo di sessualità. Le funzioni biologiche del sesso, a partire dalla riproduzione, sono completamente annullate: è il bio-potere a produrre il sesso e a farlo apparire come un dato naturale allo scopo di normalizzare il suo funzionamento anormale. È seguendo queste premesse che i teorici queer, come la Butler, considereranno non solo il genere ma anche il sesso come una produzione del discorso e una costruzione esclusivamente culturale.
Ma l’aspetto più importante riguarda le ricadute politiche della concezione foucaultiana: se non c’è niente che viene represso, non c’è niente che deve essere liberato, così il massimo che Foucault riesce a contrapporre al dispositivo di sessualità è l’idea di una sessualità libera, mossa dalla ricerca del piacere. Il modello di riferimento diventerà la comunità gay californiana, che con il suo spirito libertario ebbe un grande impatto sul filosofo francese. La sessualità è considerata parte delle libertà di cui godiamo, anzi, proprio il sesso rappresenta la possibilità di accedere ad una vita creativa122. Questo si concretizza “nella creazione di nuove forme di vita, di rapporti, di amicizie, nella società, nell’arte, nella cultura, nuove forme che si instaureranno attraverso le nostre scelte sessuali, etiche e politiche”123. Tutto quello di cui abbiamo bisogno sono “pratiche di libertà” come forme di resistenza al potere. Siamo già liberi, ha sentenziato Foucault, peccato che la realtà quotidiana ci dice tutt’altro e che milioni di persone continuano ad essere discriminate per la loro sessualità. Proprio per questo una lotta rivoluzionaria per rovesciare questo sistema e porre fine ad ogni forma di oppressione resta l’unica strada per garantire una vera liberazione e permettere ad ognuno, finalmente, di vivere la propria sessualità come meglio crede.
La libertà foucaultiana passa per il rifiuto dell’identità sessuale, considerata come qualcosa che ci limita124. E i teorici queer venderanno il rifiuto dell’identità come atto di ribellione politica. Ma al di là delle apparenze, le politiche identitarie e la teoria queer sono tra loro imparentate. Che si consideri l’identità come qualcosa di fisso e caratterizzante o come qualcosa di fluido e indefinibile, ci troveremo sempre di fronte all’idealismo soggettivo tipico del postmodernismo. In entrambi i casi non ci sarà più bisogno della lotta politica.
L’arte di governo e il neoliberismo
Sul finire degli anni ‘70 Foucault orienta la sua riflessione al tema del governo, con cui intende il modo in cui alcuni uomini guidano la condotta di altri uomini. Secondo il filosofo la grande novità delle lotte prodottesi a partire dal ’68 è che non hanno più al centro lo sfruttamento economico ma i rapporti di potere e l’assoggettamento degli individui. La riflessione sul governo sarà quindi intrecciata a quella sullo Stato, perché è attraverso di esso che si producono i processi di normalizzazione e di assoggettamento. Foucault da un lato rifiuta la concezione marxista dello Stato e dall’altro critica la sinistra francese per il suo statalismo. In questi anni egli è molto vicino alla cosiddetta seconda sinistra di Rocard, Rosanvallon e Viveret che promuoverà una visione anti-statalista in opposizione al tradizionale programma socialista125. La seconda sinistra francese anticiperà lo spostamento a destra e l’adesione ad alcune concezioni tipiche del liberalismo che riguarderanno tutta la socialdemocrazia europea, in particolare negli anni ‘90.
L’elaborazione di Foucault sul tema del governo avviene in due corsi strettamente legati tra loro: Sicurezza, territorio, popolazione e Nascita della biopolitica. In riferimento a come si guida la condotta di altri uomini Foucault conia persino un neologismo ad hoc: governamentalità126, che non significa altro che “maniera di governare”. L’idea di un governo degli uomini troverebbe le sue origini nell’oriente precristiano e in particolare nel mondo ebraico in cui Dio, il re o il capo stabiliscono con il proprio popolo un rapporto simile a quello esistente tra pastore e gregge, dando vita a ciò che Foucault chiama potere pastorale. Attraverso il cristianesimo e la sua pretesa di occuparsi delle anime degli uomini e della loro salvezza, il potere pastorale avrebbe prodotto una vera e propria arte di governo degli uomini, il cui obiettivo sarebbe quello di dirigerne, manipolarne e orientarne la condotta. Il cristianesimo avrebbe quindi instaurato in occidente l’istanza dell’obbedienza pura: la sottomissione di un individuo ad un altro individuo. Il pastorato rappresenterebbe il preludio alla governamentalità politica per come essa si dispiega in epoca moderna127. È attraverso questa impostazione che Foucault prova a fornire un’alternativa alla concezione marxista dello Stato. Concepito al di fuori della sua materialità e dai rapporti di classe, lo Stato viene presentato come un effetto della governamentalità, ovvero dei processi di razionalizzazione che si producono attorno alle pratiche e alle tecnologie di governo128. Dalla riflessione sulle pratiche di governo nasce non solo lo Stato ma anche la società, il sovrano, i sudditi e così via. Insomma, come abbiamo già visto a proposito della follia o della sessualità per Foucault è il discorso che produce la realtà, in questo caso la realtà politica.
L’arte di governo, che prende le mosse dalle teorizzazioni attorno alla ragion di Stato, avrebbe subito modifiche rilevanti con la nascita dell’economia politica e in particolare con Adam Smith e il liberalismo, a cui Foucault dedicherà l’intero corso del ’79 (Nascita della biopolitica).
Il corso è stato al centro di letture contrastanti. Per anni ha rappresentato il riferimento fondamentale per coloro i quali inscrivono l’autore tra i critici del neoliberismo. La condanna del cosiddetto ordine neoliberista è stata a lungo al centro delle riflessioni degli intellettuali progressisti e dei programmi politici dei partiti di sinistra che hanno abbandonato qualsiasi prospettiva di lotta anticapitalista per farsi bastare una critica a particolari forme di politiche economiche (quelle neoliberiste) promosse dalla classe dominante. All’analisi di Foucault su questo tema, negli ultimi anni sono state mosse diverse critiche, facendo emergere le sue ambiguità, a tal punto da mettere in discussione l’immagine tradizionale del Foucault avversario del neoliberismo. Nel leggere il suo corso sorprende l’assenza di qualsiasi critica al liberalismo e l’esaltazione per alcune delle proposte avanzate dai suoi teorici, in particolare per quel che riguarda la libertà dell’individuo nei confronti dello Stato.
Nella lettura foucaultiana il liberalismo è una particolare forma di governamentalità che punta ad autolimitare l’esercizio del governo. Il liberalismo quindi non è solo una teoria economica: è l’arte di governare meno possibile, adeguandosi al mercato, che è il luogo in cui si forma la verità. Abbiamo a che fare con una modalità di governo della popolazione e non con una semplice ideologia della classe dominante.
Rifiutandosi di considerare gli aspetti ideologici del liberalismo, Foucault prende per oro colato quanto i teorici liberali sostengono, fino al punto di considerare l’ideologia borghese della libertà, di cui conosciamo bene l’ipocrisia, una realtà di fatto. Possiamo vedere ancora una volta tutti i limiti della sua impostazione, secondo la quale l’efficacia di una teoria non deriva dagli strumenti che ci fornisce per spiegare la realtà ma dal tipo di razionalità e dagli effetti che produce. Partendo da queste premesse non è difficile comprendere l’assoluto giustificazionismo con cui Foucault analizzerà il liberalismo e la sua ripresa nel XX secolo.
Mentre si prodiga nell’interpretazione dei testi teorici dell’ordoliberalismo tedesco129 e del liberalismo americano130, Foucault riesce a non vedere che dietro la ripresa di queste teorie c’è il riflusso delle lotte e nuovi attacchi della classe dominante contro i lavoratori. Le politiche neoliberiste furono in primo luogo il mezzo attraverso cui si fece pagare alla classe operaia la crisi degli anni ’70, con processi di liberalizzazioni e privatizzazioni su larga scala e imponendo peggioramenti alle condizioni di vita delle masse. Quando Foucault scrive la Thatcher e Reagan devono ancora arrivare al potere ma le politiche liberiste erano già state attuate nel Cile di Pinochet. Quello che Foucault certamente vede è la ripresa del liberismo in Francia, a partire dall’elezione a presidente di Valery Giscard D’Estaing nel 1974, rappresentante di una nuova destra liberale distante dallo statalismo goullista e più attenta alle libertà individuali.
Tutta la ricostruzione foucaultiana ha come unico obiettivo quello di attaccare la tradizione socialista e comunista. Mentre i neoliberisti avrebbero un’alternativa da proporre alla governamentalità statalista, il socialismo mancherebbe di una razionalità di governo autonoma, di una propria arte di governo. Per questo Foucault sostiene che il socialismo può essere attuato solo innestandosi su altri tipi di razionalità, come quella liberale o quella dello stato di polizia, non differenziandosi quindi dalla governamentalità della borghesia. Egli mette dunque in un unico calderone lo stalinismo e il riformismo socialista, ignorando completamente i tentativi portati avanti nella Russia post-rivoluzionaria volti a dar vita al governo operaio basato sui soviet. Il suo approccio liquidatorio è senza appello: “noi dobbiamo ricominciare tutto da capo e domandarci a partire da cosa possiamo fare la critica della nostra società in una situazione in cui la cosa sulla quale ci siamo basati implicitamente o esplicitamente fino ad ora per fare questa critica, in una parola, la grande tradizione del socialismo, va rimessa in discussione dalle fondamenta, poiché tutto ciò che questa tradizione socialista ha prodotto nella storia è da condannare”131.
È a partire da queste premesse che Foucault cerca proprio nel liberalismo alcuni spunti per “rinnovare” la sinistra e inventare una governamentalità alternativa alla tradizione socialista che abbia come obiettivo quello di “essere governati il meno possibile”. Questo approccio libertario è a dir poco sulbalterno al punto di vista liberale e nei fatti ne assorbe alcune delle concezioni di fondo. Così ad esempio proprio mentre monta la polemica sui costi dello stato sociale e viene portata avanti la crociata contro i servizi pubblici per tutti, Foucault critica il rapporto di dipendenza che si crea nell’assistenza sociale132, una tesi che è identica a quella degli economisti liberali.
Più in generale, Foucault trova nelle teorizzazioni liberali la risposta alla crisi del potere disciplinare che vede nei paesi occidentali. Il neoliberismo ha bisogno di meno disciplinarietà perché non ha il problema di dover modellare gli individui e i loro comportamenti né di stabilire una normalità a cui tutti devono adeguarsi. In questa cornice sarebbe possibile sperimentare nuovi stili di vita e nuove soggettività, responsabili delle proprie azioni e sottoposte ad una razionalità calcolatrice più che a processi di normalizzazione. L’orizzonte comune diventa quello di un sistema tollerante in cui far valere il diritto delle minoranze e più astrattamente quello alla differenza. Un mondo pluralista in cui possano convivere modi di esistenza diversi tra loro e in cui si possa esercitare la resistenza al potere e al suo assoggettamento. Un’accettazione dello status quo liberale e borghese che sarà del resto patrimonio comune di tutta la filosofia postmoderna. Come si vede, è definitivamente sparita la lotta di classe, mentre la polemica contro la rivoluzione è accantonata per far spazio agli inizi degli anni ’80 alla sterzata di Foucault verso l’etica. Ma prima di quest’ultima svolta, il filosofo farà tappa in Iran per vedere con i propri occhi la rivoluzione del ’79.
Foucault e la rivoluzione iraniana
Tra il 1978 e il 1979 l’Iran è attraversato da un gigantesco processo rivoluzionario che scuote da cima a fondo la società. La rivoluzione riuscì a rovesciare il regime dello scià Mohammad Reza Pahlavi, che era al potere dal 1941 e dopo il colpo di Stato dal ’53 a capo di una dittatura feroce. Mancando di una direzione politica rivoluzionaria, la lotta contro lo scià fu capitalizzata dal clero religioso sciiita e dalla loro guida: l’Ayatollah Khomeini. Nel marzo del ’79 il paese fu trasformato in una Repubblica islamica, sotto le sue insegne venne avanti una vera e propria controrivoluzione, con metodi non meno barbari e feroci di quelli che erano soliti usare i Pahlavi. In questo processo lo stalinismo, con la sua idea della rivoluzione in due fasi (prima quella democratica-borghese e poi quella socialista), ebbe un ruolo particolarmente negativo, perché il partito comunista, il Tudeh, prima cercò un fronte con la borghesia contro lo scià e poi si adattò all’islamismo, illudendosi che la retorica antimperialista che utilizzava il clero potesse avere un ruolo progressista. Il risultato fu tragico e i comunisti subirono a loro volta una repressione fortissima da parte del nuovo regime.
Tra il settembre del ’78 e il febbraio del ’79 Foucault segue gli eventi iraniani, su cui scrive dei reportage per il Corriere della sera e visiterà due volte il paese, nel settembre e nel novembre del ’78. Gli articoli che scrive sono particolarmente utili per valutare l’efficacia delle categorie foucaultiane di fronte ad un processo rivoluzionario. Fin dall’inizio Foucault guarda al ruolo dell’Islam nel Paese con grande esaltazione e senza nessun giudizio critico. Il gigantesco movimento popolare è tutto letto in funzione del ruolo dell’Islam nella società iraniana. L’esplosione rivoluzionaria fu un effetto del processo di modernizzazione avvenuto sotto lo scià, che agiva col forte sostegno dell’imperialismo americano. Grazie ai proventi del petrolio, ci fu lo sviluppo di settori dell’industria che rafforzarono il peso della classe operaia. Questo processo assunse una forma paradossale: un monarca prendeva misure come la privatizzazione delle imprese statali (il cui effetto fu quello di ampliare le disuguaglianze), la laicizzazione dello Stato e l’eliminazione del monopolio del clero sull’istruzione, mentre la riforma agraria non risolveva nessuno dei problemi dei contadini poveri. Lo sviluppo gigantesco e convulso dei centri urbani produceva l’emigrazione di fasce numerose della popolazione. Elementi di modernità e arretratezza convivevano in un regime repressivo, basato sull’utilizzo brutale della polizia segreta, la Savak.
Foucault nei suoi scritti respinge integralmente la modernizzazione del paese, considerandola una proposta ormai fallita e vi contrappone l’Islam. La fede è considerata come l’unico strumento contro lo scià, espressione di un modo di vita comunitario minato dall’urbanizzazione e dalle trasformazioni in atto. L’Islam è in primo luogo una forma di coesistenza non politica, una maniera di vivere insieme diversa da quella a cui siamo abituati in occidente. Così il popolo ha trovato intorno alla moschea e alla comunità religiosa l’unico canale di espressione della lotta. Scrive Foucault: “sapete qual è la frase che di questi tempi fa più sogghignare gli iraniani? Quella che sembra loro la più stupida, la più banale, la più occidentale? «La religione, oppio dei popoli»”133. È sicuramente vero che le moschee giocarono un ruolo nell’organizzare la lotta contro lo scià, ma questo dipese dagli errori delle principali forze politiche. Fu in mancanza di una direzione rivoluzionaria e per via della repressione dello scià che l’opposizione al regime passò per le moschee. Foucault ammette che i mullah non sono rivoluzionari ma li innalza ad oppositori permanenti all’autorità statale.
Il filosofo inizialmente nega che in Iran sia in corso una rivoluzione e scrive i suoi articoli con l’obiettivo di dimostrare l’inadeguatezza delle categorie in uso in occidente. Contrappone la singolarità del processo iraniano e la sollevazione del popolo alla logica universale della rivoluzione per come la pensano i marxisti, di cui come al solito fa la caricatura. Foucault scrive che quando domanda alle persone cosa vogliono, la risposta è: governo islamico. E commenta: “un fatto dev’essere chiaro: per «governo islamico», nessuno, in Iran, intende un regime politico nel quale il clero abbia un ruolo di guida o gestione. Mi è sembrato che l’espressione fosse utilizzata per indicare due ordini di cose. «Un’utopia» mi hanno detto alcuni, senza sfumature peggiorative. «Un ideale» mi hanno detto i più. A ogni modo, si tratta di qualcosa di antichissimo e anche molto in là nel futuro: ritornare a quello che l’Islam è stato al tempo del Profeta; ma anche avanzare verso un punto luminoso e lontano in cui, più che mantenere un’obbedienza, sia possibile ridar vita a una fedeltà”134. E poi continua: “quanto alle libertà, saranno rispettate nella misura in cui il loro uso non nuocerà agli altri; le minoranze saranno protette e libere di vivere come vogliono purché non arrechino danno alla maggioranza; tra l’uomo e la donna non ci sarà disuguaglianza di diritti, bensì differenza, poiché esiste una differenza di natura. Quanto alla politica, che le decisioni siano prese a maggioranza, che i dirigenti rispondano di fronte al popolo e che ciascuno, com’è previsto nel Corano, possa alzarsi e chieder conto a chi governa”135. Evidentemente le cose non sono andate così. Foucault nei suoi reportage non cita minimamente le lotte delle donne che più volte, ieri come oggi, sono state all’avanguardia nelle mobilitazioni, né gli studenti, le minoranze nazionali o i contadini. Incontra nel secondo viaggio gruppi di lavoratori, tra cui quelli petroliferi della raffineria di Abadan, un settore che sarà centrale nel processo rivoluzionario, e non dice una parola sui processi di autorganizzazione e sugli shora, ovvero i consigli operai.
Come in qualsiasi rivoluzione, in Iran agivano interessi di classe diversi. La lotta che il clero ingaggia contro il regime non riguarda solo la funzione della religione nella società, tant’è vero che il conflitto con lo scià viene innescato dalla decisione di espropriare le loro terre. Foucault fraintende completamente il ruolo politico del clero religioso, ne sottovaluta il peso che ha avuto nel far deragliare la rivoluzione e si esalta per la presenza della spiritualità nei processi politici: “mi sento in imbarazzo – scrive Foucault – a parlare del governo islamico come «idea» o anche come «ideale». Ma come «volontà politica», mi ha colpito. Mi ha colpito per il suo sforzo di politicizzare, in risposta a problemi attuali, strutture indissolubilmente sociali e religiose; mi ha colpito anche per il suo tentativo di aprire nella politica una dimensione spirituale”136. Sarà proprio la categoria di spiritualità politica la più controversa e discussa delle elaborazioni foucaultiane sull’Iran. Foucault resterà affascinato dal ruolo del martirio e dalla radicalità dell’esistenza di coloro che scelgono di lottare rischiando la vita contro la repressione dello scià. L’eroismo del popolo iraniano è indubbio ma Foucault mitizza l’idea della rivolta a mani nude137 e la definisce un maremoto senza apparato militare, senza avanguardia, senza partito. Considera l’assenza di obiettivi di lungo periodo un punto di forza e non fa riferimento alle rivendicazioni sociali e politiche, nemmeno a quelle democratiche: il movimento è definito uno “sciopero nei confronti della politica”. Così il ruolo politico di Khomeini è fino all’evidenza dei fatti sottovalutato, per poi essere esaltato per quello che esprime sul piano del rapporto con le masse, che sarebbero tutte infatuate per lui138. Foucault crede alle dichiarazioni dello stesso Ayatollah e sostiene che Khomeini non è un politico e non ci sarà un suo partito. Il filosofo della differenza tratta così l’intero popolo iraniano come un’entità unica e omogenea. Nella sua lettura il “mitico capo della rivolta iraniana” non è il rappresentante di una precisa strategia ma è il punto d’incontro della volontà collettiva.
In realtà, come ammetterà lo stesso Foucault, l’autorità di Khomeini era dovuta alla sua risolutezza contro lo scià, anche se a questa non corrispondeva un’intransigenza nei confronti del vecchio potere. Saranno poi gli eventi di febbraio del ‘79 a dimostrare che ci si trovava di fronte ad una vera e propria rivoluzione e anche Foucault ne dovrà prendere atto. L’insurrezione non fu un’azione promossa dall’Ayatollah, che cavalcò la protesta per strangolarla. Khomeini potrà tornare in Iran con l’accordo dell’esercito e della classe dominante. Dopo l’instaurazione della repubblica islamica, dovette essere cauto perché la mobilitazione delle masse era ancora viva ma nel giro di pochi mesi si capì che si stava andando verso una forma di regime brutale, repressivo e reazionario. Le strutture economiche e sociali capitalistiche preesistenti ovviamente vennero mantenute mentre furono repressi, torturati e uccisi comunisti, donne, omosessuali e persone appartenenti alle minoranze etniche. L’abbaglio preso da Foucault era ormai evidente, tant’ è che dopo qualche tentativo volto a rispondere alle polemiche suscitate dai suoi articoli smetterà per il resto della vita di parlare dell’Iran.
L’ultimo Foucault: l’etica come alternativa alla rivoluzione
Agli inizi degli anni ’80 Foucault imprime un’ultima svolta al suo pensiero. Se negli anni ‘60 al centro della sua riflessione c’era il sapere e negli anni ’70 il potere, questa volta l’interesse del filosofo sarà rivolto al soggetto139 o più precisamente ai processi di soggettivazione, ovvero le modalità attraverso cui gli individui percepiscono se stessi come soggetti. In questa nuova fase il soggetto non è più soltanto il risultato delle tecniche di dominio del sapere-potere, perché a queste ora vengono affiancate le “tecniche del sé”140. Si compie così il definitivo spostamento del filosofo verso l’idealismo soggettivo.
Il tema del governo di sé e di come si guida la propria condotta, oltre ad essere speculare alla governamentalità, è per Foucault strettamente connesso alla sessualità, che il filosofo continuerà ad analizzare indirizzandosi prima al mondo cristiano e poi all’antichità greco-romana. Sarà questo percorso di ricerca ad aprirgli la strada verso l’etica141, che diverrà centrale negli ultimi anni della sua vita. Sia nel secondo e terzo volume della Storia della sessualità che nei corsi tenuti al Collège de France dall’80 all’84, Foucault cercherà infatti nell’etica greco-romana una diversa modalità di governo di sé e di soggettivazione, basata non sull’assoggettamento al potere ma sulla cura di sé, che secondo Foucault è il vero centro della filosofia antica142.
Per spiegare la differenza tra i processi di soggettivazione dell’età antica rispetto a quelli di oggi, Foucault si concentra sulla produzione della verità143, perché secondo il filosofo è attraverso la verità che si governa se stessi e gli altri144 ed è ad una verità che noi ci assoggettiamo. Nel mondo antico ci troveremmo di fronte ad un processo di produzione del vero differente, in cui la verità non è data, come accade oggi, dal sapere scientifico, ma è prodotta dal lavoro che il soggetto fa su di sé per accedervi. Si tratta per Foucault di due diversi regimi di verità che producono diverse forme di soggettivazione145. Nell’età antica il soggetto non è dato in partenza e non è su di lui che si basa la conoscenza, come invece avverrà successivamente. Il filosofo prova così a tracciare, con il solito metodo idealista, la genealogia del soggetto moderno, che considera come solo uno dei modi in cui può essere prodotta la soggettività.
È a partire da questa impostazione che Foucault individua nell’etica, intesa proprio come il rapporto di sé con sé, un campo decisivo per praticare la libertà. L’individuo etico instaura un rapporto autonomo con se stesso e con la verità, senza sottostare a norme che lo determinano. Non è solo la relazione tra soggetto e verità a cambiare ma anche quella col potere. Nell’etica antica, differentemente da quanto accade oggi, non ci sarebbe né assoggettamento né normalizzazione ma la creazione di soggetti autonomi: in questa epoca la soggettivazione è sostanzialmente l’auto-invenzione di sé.
Foucault affronterà in particolare l’etica degli stoici, che puntano a fare della propria vita un’opera d’arte: un’estetica dell’esistenza finalizzata ad avere una vita bella, per poi rivolgersi, nell’ultimo corso (Il coraggio della verità) alla scuola filosofica dei cinici, che rifiutavano il mondo, con tutte le sue convezioni, le leggi e la conoscenza. In essi il filosofo troverà l’esempio di una “vita altra”, capace di incarnare un’altra verità in modo radicale; una vita vera fondata sul coraggio di gridare la verità, di “dire il vero” in faccia al potere.
L’etica greca servirà quindi a Foucault come esempio per proporre una modalità di esistenza alternativa, in cui lo scopo della vita diventa quello di lavorare su noi stessi, inventando la nostra soggettività. È inutile insistere sull’idealismo di questa concezione, che non tiene minimamente conto delle condizioni materiali in cui le persone vivono e ripropone il vecchio adagio secondo cui è possibile cambiare la propria vita semplicemente pensandosi diversamente.
Ancora più importanti sono le ricadute politiche della svolta verso l’etica, che viene ad essere nell’ultimo Foucault l’alternativa alla rivoluzione. La dimensione etica fa da presupposto alla lotta contro il potere; è attraverso l’etica che è infatti possibile rifiutare il governo degli altri e lavorare su di sé per prodursi in quanto soggetti autonomi che ambiscono all’autogoverno146. In questo modo Foucault prova a superare la contraddizione di fondo in cui si muoveva, cioè quella di possibili resistenze che erano fin dall’inizio collocate all’interno dei rapporti di potere, che inevitabilmente ne limitavano l’azione. Mentre prima il soggetto non era altro che il prodotto di un processo di assoggettamento, ora diventa possibile dare vita a processi di soggettivazione alternativi.
Non è la prima volta che si cerca di fondare sull’etica un progetto politico147, basti pensare alla storia del movimento anarchico148. Il marxismo ha polemizzato più volte con questa idea, che era anche quella dei piccoli gruppi del socialismo utopistico, ritornata più volte nella storia. Trotskij la affrontò nel 1938, quando ne Il programma di transizione scrisse: “le tragiche sconfitte del proletariato mondiale da lunghi anni a questa parte hanno spinto le organizzazioni ufficiali verso un conservatorismo ancora maggiore e hanno portato d’altra parte i ‘rivoluzionari’ piccolo-borghesi delusi a ricercare ‘nuove vie’. Come sempre nei periodi di reazione e di declino, saltano fuori da tutte le parti gli stregoni e i ciarlatani che vogliono rivedere tutto lo sviluppo del pensiero rivoluzionario. Invece di imparare dal passato, lo ‘rifiutano’. Gli uni scoprono l’inconsistenza del marxismo, gli altri proclamano il fallimento del bolscevismo. Gli uni fanno ricadere sulla dottrina rivoluzionaria la responsabilità degli errori e dei crimini di coloro che l’hanno tradita, gli altri maledicono la medicina perché non garantisce una guarigione immediata e miracolosa. I più audaci promettono di scoprire una panacea e nel frattempo raccomandano di arrestare la lotta di classe. Molti profeti della nuova morale si accingono a rigenerare il movimento operaio con una cura omeopatica etica. La maggioranza di questi apostoli sono diventati invalidi morali senza mai essere stati sul campo di battaglia. Così, dietro la parvenza di nuove rivendicazioni, non si propongono al proletariato che vecchie ricette sepolte da tempo negli archivi del socialismo premarxista”149.
Per di più, se l’etica è in primo luogo il rapporto con se stessi, al di là dei tentativi di renderla una proposta collettiva in grado di incidere sul mondo, resta inevitabilmente una scelta individuale, basata sul rapporto con la propria soggettività. Ancora una volta, in fondo, non troviamo altro che la vecchia tesi idealista secondo la quale per cambiare il mondo dobbiamo prima cambiare noi stessi. La proposta “politica” dell’ultimo Foucault si riduce quindi all’invito ad intraprendere scelte di vita radicali, a praticare la libertà, a produrre nuovi processi di soggettivazione e a dar vita ad un’estetica dell’esistenza.
Questa impostazione, con le sue implicazioni vagamente libertarie, così utili a soddisfare le miserie della piccola borghesia intellettuale e così innocue sul piano politico, si rivelerà particolarmente adatta al riflusso degli anni ’80 e farà la fortuna di Foucault, facendolo diventare tra i filosofi più influenti degli ultimi decenni.
Conclusioni
L’idea che il pensiero di Foucault e dei foucaultiani rappresenti un’integrazione o un superamento del marxismo non è altro che un equivoco, la cui diffusione è stata facilitata dal clima intellettuale emerso dopo la sconfitta del ’68 e il crollo dello stalinismo. Nel generale rigetto del marxismo, Foucault è stato per gli accademici di sinistra un’ancora di salvezza che ha permesso loro di presentarsi come pensatori all’apparenza radicali eppure pienamente integrabili nell’accademia, al pari del loro maestro. Al coro liberale contro il “totalitarismo marxista” si è potuta aggiungere la voce dei foucaultuani, col loro portato di relativismo e scetticismo, che si adattava perfettamente al clima culturale dell’epoca, segnato dal riflusso e dall’arretramento della classe operaia. Sotto la bandiera di un militantismo immaginario, i foucaultiani hanno potuto così contribuire alla regressione sul piano ideologico e al ritorno in grande stile dell’idealismo filosofico prodottosi negli scorsi anni.
Foucault deve la sua fama anche e soprattutto all’utilizzo del suo pensiero nell’ambito del postmodernismo. È infatti in prima luogo nelle università americane, dove le teorie postmoderne hanno avuto la loro maggiore diffusione, che Foucault è diventato un filosofo di culto. La cosa non sorprende perché al pari di altri filosofi post-strutturalisti, Foucault ha anticipato alcune concezioni che poi saranno ulteriormente radicalizzate dai pensatori che più propriamente si riconosceranno nel postmodernismo. Si pensi alla centralità del discorso, alla critica del pensiero scientifico, al rifiuto della verità e del progresso, alla molteplicità del potere, all’accento posto sul soggettivismo: tutti elementi che ritroveremo nella filosofia postmoderna.
Più importanti però sono le ricadute che il pensiero foucaultiano ha avuto sul piano prettamente politico. È in questo ambito infatti che è possibile rilevare le contraddizioni più profonde tra una filosofia che si presenta come progressista e l’esito reazionario a cui conduce.
L’influenza delle teorizzazioni foucaultiane e più in generale del postmodernismo è stata ben visibile in alcuni dei movimenti che si sono prodotti negli scorsi decenni, in cui la piccola borghesia intellettuale ha avuto un peso importante. Così, per esempio, alla fine degli anni ’90, nel movimento contro la globalizzazione ci è stato spiegato che potevamo cambiare il mondo senza prendere il potere e dopo la crisi del 2008 che erano possibili forme di democrazie radicali, il tutto senza scomodare la vecchia talpa della rivoluzione. Sono bastati tutto sommato pochi anni per far emergere la miseria di queste proposte, ormai prive di forza, che il capitalismo ha trascinato con sé nella sua crisi. Queste tesi riformiste e piccolo borghesi erano però solo una parte di quanto si è sedimentato sul lungo periodo attorno alla scolastica postmoderna. Come abbiamo infatti visto, il lascito più importante delle teorie di Foucault oggi lo si trova nelle politiche identitarie e nelle sue diverse varianti (teoria queer, intersezionalità, postcolonialismo, decolonizzazione, ecc.). A partire dal mondo anglosassone, queste idee si sono diffuse in tutti i paesi, in particolare in ambito giovanile, ma hanno trovato spazio anche all’interno delle organizzazioni del movimento operaio. Sono politiche dalle conseguenze reazionarie evidenti, che possono produrre solo confusione e disorientamento, conducendo in un vicolo cieco le persone che legittimamente aspirano a combattere le oppressioni e le discriminazioni.
La lotta contro il pensiero di Foucault e più in generale contro il postmodernismo è in primo luogo la lotta per rimettere al centro il marxismo e la rivoluzione nella battaglia politica contro questo sistema. Il mondo sta cambiando velocemente sotto i nostri occhi ed eventi giganteschi smuoveranno certezze consolidate. In questo contesto emergeranno nuove lotte e con esse la ricerca di idee in grado di farle vincere. Di fronte alla barbarie del capitalismo le giovani generazione, come già stanno facendo, riscopriranno le idee del marxismo e la lotta per il comunismo. La vecchia talpa della rivoluzione, come disse Marx, lavora con metodo e spazzerà via l’eredità delle sconfitte passate per fare spazio ad idee di autentica emancipazione e di liberazione collettiva, lasciando Foucault e il suo pensiero agli appassionati di anticaglie o, se si preferisce, di archeologia.
Note
1 Il riferimento è a D. Eribon, Michel Foucault. Il filosofo del secolo. Una biografia, Milano, 2021.
2 Negli ultimi anni al rapporto tra Marx e Foucault sono state dedicate diverse pubblicazioni. Ad esempio: Jacques Bidet, Foucault avec Marx; C.Laval, L. Paltrinieri, F. Taylan, Marx & Foucault. Lectures, usages, confrontations; P. Macherey, Il soggetto produttivo. Da Foucault a Marx; T. Negri, Marx and Foucault; R. M. Leonelli, Foucault-Marx, Paralleli e paradossi e tutte ripropongono una lettura foucaultiana del pensiero di Marx.
3 La fenomenologia, fondata dal tedesco Edmund Husserl (1859-1938), è una delle principali correnti filosofiche del novecento. Essa si occupa di studiare i fenomeni per come appaiono immediatamente alla coscienza del soggetto. Nella fenomenologia la coscienza diventa così l’elemento primario attraverso cui la realtà può acquisire senso e fondamento.
4 L’esistenzialismo è un movimento filosofico sviluppatosi tra le due guerre mondiali che prende l’avvio da Martin Heidegger (1889-1976) e ha l’obiettivo di rimettere al centro l’esistenza e la problematica specifica dell’uomo e della sua individualità.
5 La filosofia francese del novecento si sviluppa per lo più attraverso la ricezione e la rielaborazione della filosofia tedesca. Insieme alla ripresa di Hegel – e a quella di Nietzsche, su cui ritorneremo più avanti –, la parte del leone è giocata dalla fenomenologia e dall’esistenzialismo, che sono entrambe filosofie costruite attorno al soggetto. Dal secondo dopoguerra il confronto tra queste correnti filosofiche e il marxismo è al centro del dibattito intellettuale. L’autorità che il PCF e i comunisti si sono guadagnati nella Resistenza, forti anche del quadro politico internazionale emerso alla fine della seconda guerra mondiale, esercita un’attrattiva molto forte sulla generazione degli intellettuali formatisi a cavallo del conflitto. Sartre, l’esponente più importante dell’esistenzialismo francese nel secondo dopoguerra è uno di questi. Il suo tentativo di mescolare il marxismo col soggettivismo esistenzialista (con le sue pretese di una coscienza libera e creatrice) era destinato a fallire ma contribuì a dar vita ad una lettura ibrida in cui il marxismo veniva snaturato, letto come affine all’esistenzialismo e ridotto ad una corrente dell’umanesimo, tant’è che si parla di marxismo umanista. Lo stesso PCF, che impegna i suoi teorici, primo fra tutti Garaudy, nella difesa della scolastica stalinista, si muove su questo crinale con l’obiettivo di presentarsi come l’erede della cultura umanistica francese.
6 Foucault ha richiamato e omaggiato più volte i pensatori decisivi per la sua formazione: è allievo di Jean Hyppolite, protagonista della riscoperta di Hegel, alla Sorbona segue i corsi del fenomenologo francese Merleau-Ponty, e subisce fortemente l’influenza di Heidegger. Sarà Heidegger a fornirgli una chiave di accesso a Nietzsche, insieme saranno per Foucault uno “shock filosofico”. L’influenza di Nietzsche arriverà anche e soprattutto attraverso Bataille e Blanchot. Altrettanto decisivo è l’influsso degli epistemologi storici francesi (in particolare Canguilhem), dello storico delle religioni Dumézil e degli strutturalisti come Lacan e Lévi-Strauss.
7 Il testo chiave in questo dibattito è Il pensiero selvaggio di Lévi-Strauss, apparso nel 1962, e in particolare il capitolo Storia e dialettica, che contiene una polemica diretta contro Sartre e la sua Critica della ragion dialettica.
8 “In una cultura e a un momento preciso, non esiste che una sola episteme, la quale definisca le condizioni di possibilità di ogni sapere: sia quello che si manifesta in una teoria, sia quello che è silenziosamente investito in una pratica” (M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Milano, 1967, p. 185).
9 Per Foucault Kant segna la rottura rispetto al mondo omogeneo dell’episteme classica in cui realtà e rappresentazione coincidono; ora che è il soggetto ad essere posto a fondamento della stessa conoscenza, avviene una sovrapposizione tra il soggetto trascendentale, che ha a che fare con la conoscenza pura e le condizioni di possibilità della conoscenza stessa, e l’uomo come oggetto di conoscenza empirica, analizzato da specifici campi del sapere: un’ambiguità che sarebbe alla base dello statuto delle scienze umane. Insieme a Kant il bersaglio polemico di Foucault è la fenomenologia, che avrebbe proprio l’ambizione di coniugare attraverso il vissuto del soggetto l’empirico e il trascendentale, senza riuscirci.
10 M. Foucault, Le parole e le cose, cit., p. 414.
11 Una delle matrici del pensiero foucaultiano risiede nell’epistemologia storica francese di Bachelard e, in particolare, di Canguilhem, di cui Foucault fu allievo. Secondo Foucault è a loro che si deve la possibilità di un’epistemologia non incentrata sull’esperienza e sul senso (e quindi sul soggetto) ma sui concetti e sulla razionalità; ed è sempre a loro che si deve la ripresa del tema della discontinuità nella storia della scienza.
12 M. Foucault, Le parole e le cose, cit., p. 283.
13 Come scrive Marx: “il Ricardo, fa infine, consapevolmente, dell’opposizione fra gli interessi delle classi, fra salario e profitto, fra il profitto e la rendita fondiaria, il punto di partenza delle sue ricerche, concependo ingenuamente questa opposizione come legge naturale della società. Ma in tal modo la scienza borghese dell’economia era anche arrivata al suo limite insormontabile” (K. Marx, Il capitale, Roma, 1994, p. 39).
14 L’homme est-il mort? (intervista con C. Bonnefoy), in M. Foucault, Follia e discorso. Archivio Foucault. Vol. 1: Interventi, colloqui, interviste. 1961-1970, Milano, 1996, p. 124.
15 Il riferimento è in particolare agli storici delle Annales, a Braudel e agli studi storici della lunga durata.
16 Si veda ad esempio questo passo de L’ideologia tedesca: “La storia non è altro che la successione delle singole generazioni, ciascuna delle quali sfrutta i materiali, i capitali, le forze produttive che le sono stati trasmessi da tutte le generazioni precedenti, e quindi da una parte continua, in circostanze del tutto cambiate, l’attività che ha ereditato; d’altra parte modifica le vecchie circostanze con un’attività del tutto cambiata; è un processo che sul terreno speculativo viene distorto al punto di fare della storia successiva lo scopo della storia precedente, di assegnare per esempio alla scoperta dell’America lo scopo di favorire lo scoppio della Rivoluzione francese; per questa via poi la storia riceve i suoi scopi speciali e diventa una «persona accanto ad altre persone» (che sono: «autocoscienza, critica, unico», ecc.), mentre ciò che vien designato come «destinazione», «scopo», «germe», «idea» della storia anteriore altro non è che un’astrazione della storia posteriore, un’astrazione dell’influenza attiva che la storia anteriore esercita sulla successiva (K. Marx e F. Engels, L’ideologia tedesca, Roma, 1975, p. 27).
17 M. Foucault, L’archeologia del sapere. Una metodologia per la storia della cultura, Milano, 2009, p. 108.
18 Foucault specifica che la sua analisi del discorso differisce da uno studio prettamente linguistico perché non si interessa alle possibili e infinite combinazioni di una lingua, né alle regole che permettono la costruzione e la combinazione degli enunciati ma solo agli enunciati effettivamente prodotti. L’attenzione agli enunciati effettivi lo allontana anche da un’analisi propriamente strutturale. Dello strutturalismo però Foucault continua a condividere tanto l’idea che il discorso sia un sistema impersonale, astratto e anonimo, quanto il formalismo. L’archeologia del sapere risente anche dell’influsso della filosofia analitica, in particolare quella di Russell e Wittgeinstein.
19 M. Foucault, L’archeologia del sapere, cit., pp. 30-31.
20 Al riguardo Foucault usa l’esempio della medicina clinica, che deve essere considerata: “come l’introduzione nel discorso medico di un rapporto tra un certo numero di elementi distinti, gli uni concernenti lo statuto dei medici, altri il luogo istituzionale e tecnico da cui parlavano, altri ancora la loro posizione come soggetti che percepiscono, osservano, descrivono, insegnano, ecc.”. Per poi concludere: “si può dire che l’introduzione di questo rapporto tra elementi differenti (alcuni dei quali nuovi, altri preesistenti) venga effettuata dal discorso clinico: è lui in quanto pratica che instaura tra tutti loro un sistema di relazioni che non è «realmente» dato né costituito in anticipo; e se c’è un’unità, se le modalità di enunciazione che utilizza, o a cui dà luogo, non vengono semplicemente giustapposte da una serie di contingenze storiche, è perché esso mette costantemente in opera questo fascio di relazioni” (Ivi, p. 49-50).
21 Les Mots et les choses (intervista con Raymond Bellour), in M. Foucault, Follia e discorso. Archivio Foucault. Vol. 1, cit., p. 111.
22 Che L’archeologia del sapere si riduca ad un fallimento è anche l’opinione di Dreyfus e Rabinow, il cui lavoro è riconosciuto per essere uno dei riferimenti fondamentali per lo studio di Foucault. Cfr. H. L. Dreyfus, P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault. Analitica della verità e storia del presente, Firenze, 1989, pp. 104-125.
23 Sul rapporto tra Foucault e Nietzsche si veda J. Rehmann, I nietzscheani di sinistra. Deleuze, Foucault e il postmodernismo: una decostruzione, Roma, 2009.
24 La lettura deleuziana sarà decisiva per Foucault che tra l’altro dedicherà ai due libri di Deleuze, Differenza e ripetizione e Logica del senso un articolo entusiasta, in cui scriverà che un giorno il secolo sarà deleuziano. Si veda Theatrum philosophicum in «Aut-Aut», 277-278, 1997, pp. 54-74.
25 Col termine post-strutturalista si intende il pensiero di alcuni filosofi francesi degli anni ‘60 e ‘70 come Foucault, Deleuze, Derrida, Barthes, Irigaray e altri che subentrano agli strutturalisti, di cui ereditano alcune tesi, respingendo però l’idea che la struttura possa essere messa a fondamento della realtà. Il post-strutturalismo si caratterizza per alcuni tratti comuni come la centralità del linguaggio, la critica del soggetto, l’accento sulla differenza, il rifiuto del pensiero sistematico e il richiamo a Nietzsche. Il post-strutturalismo, attraverso la sua ricezione negli Stati Uniti, avrà un ruolo decisivo nella formazione del postmodernismo.
26 Il postmodernismo è una corrente filosofica nata alla fine degli anni ‘70 che dichiara la fine della modernità e con essa la crisi delle meta-narrazioni, ovvero delle teorie globali che forniscono un’analisi organica della realtà (come il marxismo). Tra gli aspetti fondanti del postmodernismo ci sono anche la critica all’Illuminismo e il rifiuto della scienza e del progresso. I postmodernisti quindi rinunciano all’idea di una spiegazione razionale della realtà e propongono una concezione ultra relativista in merito alla conoscenza, negando la possibilità che si possa arrivare alla verità. Per una critica marxista al postmodernismo si veda il seguente articolo: Marxismo contro postmodernismo.
27 M. Foucault, Nietzsche, la genealogia e la storia, in Id., Microfisica del potere, Torino, 1977, p. 135.
28 Ivi, p. 44.
29 Uno dei tratti distintivi del Foucault degli anni ’70 è proprio l’accento sulla volontà (volontà di verità, volontà di sapere, ecc.), il che rischia di far ritornare in campo il soggetto e il conflitto tra le diverse volontà; rischio che Foucault prova ad evitare dando centralità alle pratiche, che considera come anonime e impersonali.
30 Foucault individua questo momento nell’esclusione dei sofisti, in cui la verità era funzionale alla lotta e alla dominazione dei loro avversari e non concepita astrattamente come contemplazione del vero.
31 M. Foucault, La verità e le forme giuridiche in Id., Il filosofo militante. Archivio Foucault Vol. 2. Interventi, colloqui, interviste. 1971-1977, Milano, 2017, pp. 87-88.
32 Così Foucault riassume il suo punto di vista a proposito di Nietzsche nelle Lezioni sulla volontà di sapere: “Il modello nietzschiano, al contrario, vuole che la Volontà di sapere rinvii a qualcosa di completamente diverso dalla conoscenza, che dietro la Volontà di sapere non ci sia una sorta di conoscenza preliminare come la sensazione, ma l’istinto, la lotta, la Volontà di potenza. Il modello nietzschiano vuole inoltre che la Volontà di sapere non sia legata originariamente alla Verità; vuole che la Volontà di sapere componga illusioni, fabbrichi menzogne, accumuli errori, si dispieghi in uno spazio di finzione in cui la verità stessa non è altro che un effetto. Vuole, inoltre, che la Volontà di sapere non si dia sotto la forma della soggettività, e che il soggetto non sia altro che una specie di prodotto della Volontà di sapere, nel doppio gioco della Volontà di potenza e della Verità. Infine, per Nietzsche, la Volontà di sapere non presuppone una conoscenza preliminare; la verità non si dà in anticipo; essa è prodotta come un evento” (M. Foucault, Lezioni sulla volontà di sapere. Corso al Collège de France (1970-1971). Seguito da Il sapere di Edipo, Milano, 2015, pp. 214-215).
33 Su questo tema si veda il seguente articolo di Alan Woods: In difesa del materialismo.
34 K. Marx, Tesi su Feuerbach, in F. Engels, Ludwig Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca, Roma, 1985, pp. 82-83.
35 M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, 2014, p. 31.
36 Il primissimo Foucault, che aderisce per qualche anno al PCF, oscilla tra la psicologia esistenziale di Biswanger e la psicologia sovietica. Nel ‘54 pubblica Malattia mentale e personalità, al cui interno un capitolo è dedicato all’opera di Pavlov, in cui Foucault vede la possibilità di una psicologia materialista. Foucault romperà ben presto con questa tradizione e tutti gli elementi più vicini all’analisi marxista presenti nel testo verranno eliminati nella seconda edizione, apparsa nel 1962. A scanso di equivoci, anni dopo dichiarerà: “io non sono mai stato né freudiano, né marxista, né strutturalista” (M. Foucault, strutturalismo e post-strutturalismo, in Id., Il discorso, la storia, la verità. Interventi 1969-1984, Torino, 2001, p. 306).
37 M. Foucault, Metodologia della conoscenza del mondo: come sbarazzarsi del marxismo, in Id., Il discorso, la storia, la verità, cit., p. 248.
38 Per cogliere fino in fondo la polemica foucaultiana contro la scientificità del marxismo dobbiamo ricostruire il dibattito che si sviluppa attorno a questo tema nella Francia degli anni ’60. La figura chiave in questa vicenda è Louis Althusser – e la sua scuola –, la cui influenza per alcuni anni è stata significativa nel dibattito filosofico, non solo in Francia. Il progetto teorico di Althusser punta a rinnovare il marxismo come scienza; influenzato dall’epistemologia francese a lui contemporanea e in particolare da Bachelard, Althusser applica a Marx il concetto di rottura epistemologica al fine di individuare il momento in cui il marxismo nasce come scienza. Ne viene fuori una rigida separazione tra un giovane Marx, ancora intriso di hegelismo e di umanesimo antropologico di stampo feurbachiano e un Marx maturo, quello successivo a L’ideologia tedesca, la cui concezione scientifica è epurata dall’umanesimo, dall’hegelismo e da qualsiasi riferimento alla dialettica. Con questa lettura fortemente polemica, Althusser critica la tradizione umanista, a suo parere egemone nel PCF. Ne viene fuori un marxismo strutturalista, senza classe operaia e senza lotta di classe, la cui portata rivoluzionaria è seppellita. Il “primato della filosofia” permetterà tra l’altro ad Althusser di essere iscritto al PCF e di portare avanti il suo attacco alla linea “filosofica” dell’organizzazione senza mai scontrarsi con lo stalinismo egemone nel partito. Foucault fu allievo di Althusser e trai i due vi fu un’influenza reciproca ma anche differenze importanti. Foucault rifiuterà già ne L’archeologia del sapere la separazione rigida tra scienza e ideologia portata avanti da Althusser e criticherà Marx, sia come padre dell’umanesimo che come scienziato.
39 Per un approfondimento si vede il seguente articolo: Critica della “teoria critica”. Il marxismo e la Scuola di Francoforte.
40 Come è noto al centro della critica alla razionalità occidentale c’è la polemica contro l’Illuminismo, rispetto a cui Foucault scrive: “molti processi che segnano la seconda metà del secolo XX hanno riportato la questione dell’illuminismo al centro delle preoccupazioni contemporanee. In primo luogo, l’importanza assunta dalla razionalità scientifica e tecnica nello sviluppo delle forze produttive e nel gioco delle decisioni politiche. In secondo luogo, la storia stessa di una “rivoluzione”, la cui speranza, sin dalla fine del secolo XVIII, era stata sostenuta da un razionalismo a cui si è in diritto di chiedere quanta parte abbia avuto negli effetti di dispotismo in cui questa speranza si è smarrita. Infine, il movimento attraverso cui si è messi a domandare, in Occidente e all’Occidente, quali titoli detenessero la sua cultura, la sua scienza, la sua organizzazione sociale e, infine, la sua stessa razionalità per pretendere una validità universale ” (M. Foucault, La vita: l’esperienza e la scienza, in Id., Estetica dell’esistenza, etica, politica. Archivio Foucault 3. Interventi, colloqui, interviste. 1978-1985, Milano, 2020, p. 321).
41 M. Foucault, Conversazione sulla prigione, in Id., Microfisica del potere, Torino, 1977, p. 134.
42 F. Engels, L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza, AC Editoriale, Milano, 2006, p. 130.
43 Scrive Foucault in Microfisica del potere: “la nozione di ideologia mi sembra difficilmente utilizzabile per tre ragioni. La prima è che, lo si voglia o no, è sempre in opposizione virtuale con qualcosa che sarebbe la verità. Ora, credo che il problema non sia di fare delle divisioni fra ciò che, in un discorso, dipende dalla scientificità e dalla verità e ciò che dipenderebbe da altro, ma di vedere storicamente come si producano degli effetti di verità all’interno dei discorsi che non sono in sé né veri né falsi. Il secondo inconveniente è ch’essa si riferisce credo necessariamente a qualcosa come un soggetto. E, in terzo luogo, l’ideologia è in posizione subordinata rispetto a qualcosa che deve funzionare nei suoi confronti come struttura o determinante economica, materiale, ecc. Per queste tre ragioni, credo che sia una nozione che non si possa utilizzare senza precauzioni (Intervista a Michel Foucault, in Id., Microfisica del potere, cit. p. 12).
44 Ci riferiamo al famoso passaggio della prefazione a Per la critica dell’economia politica, in cui Marx scrive: “nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono ad un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono determinate forme sociali della coscienza. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza” (K. Marx, Per la critica dell’economica politica. Prefazione, in K. Marx e F. Engels, La concezione materialistica della storia, cit., p. 130).
45 Engels, ad esempio, in una lettera a Schmidt prova a spiegare il rapporto tra struttura e sovrastruttura a proposito del diritto e argomenta come questo in uno Stato moderno non deve solo corrispondere alla situazione economica generale, ma essere anche in sé coerente, fallendo sempre più il fedele rispecchiamento dei rapporti economici, ancora di più perché difficilmente troveremo esposto in un moderno codice l’espressione rozza del dominio di una classe. Il corso dell’evoluzione giuridica può essere sintetizzata come il tentativo di eliminare le contraddizioni che scaturiscono dalla trasposizione dei rapporti economici in rapporti giuridici, attraverso la costruzione di un sistema armonico che a sua volta sarà infranto dall’ulteriore sviluppo economico: “il rispecchiamento dei rapporti economici come principi giuridici è di necessità parimenti capovolto: avviene sempre senza che coloro che agiscono ne siano coscienti, il giurista immagina di operare con principi aprioristici, mentre questi non sono altro che riflessi economici – e così tutto è capovolto. Che poi questo rovesciamento, il quale fin quando resta ignoto costituisce quel che chiamiamo visione ideologica, si ripercuota a sua volta sulla base economica e possa entro certi limiti modificarla mi pare evidente” (F. Engels, Lettera a Schmidt [ottobre 1890], in Ivi, p. 166).
46 “Le idee della classe dominante – scrivono ancora Marx ed Engels ne L’ideologia tedesca – sono in ogni epoca le idee dominanti; […] Le idee dominanti non sono altro che l’espressione ideale dei rapporti materiali dominanti, sono i rapporti materiali dominanti presi come idee: sono dunque l’espressione dei rapporti che appunto fanno di una classe la classe dominante, e dunque sono le idee del suo dominio. […] Per esempio: in un periodo e in un paese in cui potere monarchico, aristocrazia e borghesia lottano per il potere, il quale quindi è diviso, appare come idea dominante la dottrina della divisione dei poteri, dottrina che allora viene enunciata come «legge eterna»” (K. Marx e F. Engels, L’ideologia tedesca, cit., pp. 35-36).
47 Questa ideologia nelle mani dello stalinismo è stata enormemente deformata. Nei fatti la casta burocratica sovietica, come spiegò Trotskij, aveva come proprio orizzonte filosofico non il marxismo, ma un pragmatismo amministrativo che portato alle estreme conseguenze sfociava in un idealismo immanente. Lo svuotamento della teoria e la trasformazione della dialettica materialista in uno sterile formulario erano funzionali a difendere i privilegi della burocrazia, col paradosso che mentre si innalzava il materialismo dialettico a filosofia di Stato ufficiale dell’Urss, si tradiva il marxismo, sul piano politico come su quello teorico. Quando Foucault attacca il marxismo in quanto filosofia di Stato omette tutto questo, trattando il marxismo e lo stalinismo come equivalenti. Si veda in particolare L. Trotskij, Stalin teorico in appendice a Id, Stalin, AC Editoriale, Milano, 2017, pp. 825-848.
48 K. Marx, Il capitale, cit., p. 44.
49 M. Foucault, Bisogna difendere la società. Corso al Collège de France (1975-1976), Milano, 2010, p. 15.
50 Ivi, pp. 18-19.
51 Su questo si veda A. Woods, Civilization, Barbarism and the Marxist view of History, reperibile al seguente link: Civilization, Barbarism and the Marxist view of History | Historical Materialism | History & Theory.
52 M. Foucault, Il gioco di Michel Foucault, in Id, Follia e Psichiatria. Detti e scritti 1957-1984, Milano, 2006, p. 160.
53 “Il sovrano, la legge, l’interdizione, tutto ciò ha costituito un sistema di rappresentazione del potere che è stato in seguito trasmesso dalle teorie del diritto: la teoria politica è rimasta ossessionata dal personaggio del sovrano. Queste teorie pongono tutte ancora il problema della sovranità. Ciò di cui abbiamo bisogno è una filosofia politica che non sia costruita intorno al problema della sovranità, dunque della legge, dunque dell’interdizione. Bisogna tagliare la testa del re: non lo si è ancora fatto nella teoria politica” (Intervista a Michel Foucault, in Id., Microfisica del potere, cit. p. 15).
54 M. Foucault, Il gioco di Michel Foucault, cit., p. 156.
55 Nel corso Bisogna difendere la società, Foucault dice: “siamo sottomessi dal potere alla produzione della verità e non possiamo esercitare il potere che attraverso la produzione della verità” e poco dopo aggiunge: “in fondo dobbiamo produrre la verità allo stesso modo in cui, in fondo, dobbiamo produrre delle ricchezze. Per altro verso, siamo sottomessi alla verità anche nel senso che la verità fa legge; è il discorso vero che almeno in parte decide; esso trasmette, spinge avanti lui stesso degli effetti di potere. Dopotutto, siamo giudicati, condannati, classificati, costretti a compiti, destinati a un certo modo di vivere o a un certo modo di morire, in funzione dei discorsi veri che portano con sé effetti specifici di potere” (M Foucault, Bisogna difendere la società, cit., p. 29).
56 Foucault scrive che “dove c‘è potere c’è resistenza, e tuttavia, o piuttosto proprio per questo, essa non è mail in posizione di esteriorità rispetto al potere” (M. Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità 1, Milano 2022, pp. 84-85).
57 M. Foucault, L’ordine del discorso, Torino, 1979, p. 10.
58 M. Foucault, Bisogna difendere la società, cit. p. 21.
59 Ivi, p. 22.
60 M. Foucault, La società punitiva. Corso al Collège de France (1972-1973), Milano, 2019, p.246.
61 Foucault in Bisogna difendere la società fa riferimento ad una lettera ad Engels in cui Marx direbbe: “sai molto bene dove abbiamo trovato la nostra lotta di classe: negli storici francesi che raccontavano la lotta delle razze” (M. Foucault, Bisogna difendere la società, cit., p 72). La lettera ad Engels però non esiste, si tratta in realtà della famosa lettera del 5 marzo 1852 a Weydemeyer, dove Marx spiega il suo ruolo nell’elaborazione teorica sulla lotta di classe, ripresa anche da Lenin in Stato e rivoluzione. Nella lettera Marx scrive che i democratici farebbero meglio a conoscere la letteratura borghese e a studiare “le opere storiche di Thierry, Guizot, John Wade, ecc., per informarsi sulla passata “storia delle classi”. E più avanti aggiunge: “per quanto mi riguarda, non a me compete il merito di aver scoperto l’esistenza delle classi nella società moderna e la loro lotta reciproca. Molto tempo prima di me, storiografi borghesi hanno descritto lo sviluppo storico di questa lotta delle classi ed economisti borghesi la loro anatomia economica. Ciò che io ho fatto di nuovo è stato: 1. dimostrare che l’esistenza delle classi è legata puramente a determinate fasi storiche di sviluppo della produzione; 2. che la lotta delle classi conduce necessariamente alla dittatura del proletariato; 3. che questa dittatura medesima non costituisce se non il passaggio all’abolizione di tutte le classi e a una società senza classi” (K. Marx e F. Engels, Opere complete, Vol. 39, Roma, 1972, pp. 534-538).
62 In un famoso passaggio de La miseria della filosofia, Marx spiega come sia il capitalismo a creare le condizioni per la formazione della classe operaia, ma anche come sia attraverso la lotta che essa prende coscienza di sé in quanto classe: “le condizioni economiche avevano dapprima trasformato la massa della popolazione del paese in lavoratori. La dominazione del capitale ha creato a questa massa una situazione comune, interessi comuni. Così questa massa è già una classe nei confronti del capitale, ma non ancora per se stessa. Nella lotta, della quale abbiamo segnalato solo alcune fasi, questa massa si riunisce, si costituisce in classe per se stessa. Gli interessi che essa difende diventano interessi di classe. Ma la lotta di classe contro classe è una lotta politica” (K. Marx, Miseria della filosofia, Roma, 1976, p. 145).
63 Per una critica alle politiche identitarie si veda: Marxismo versus politiche identitarie.
64 F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Roma, 1976, p. 202.
65 Ivi, p. 200.
66 “Direi che lo Stato – scrive Foucault – è una codificazione di relazioni di potere molteplici che gli permette di funzionare, e la rivoluzione è un altro tipo di codificazione di queste relazioni. Il che implica che ci siano molti tipi di rivoluzione, tanti quante ne sono le codificazioni sovversive possibili delle relazioni di potere e che si possano d’altronde perfettamente concepire delle rivoluzioni che lascino per l’essenziale intatta le relazioni di potere che avevano permesso allo Stato di funzionare” (Intervista a Michel Foucault, in Id., Microfisica del potere, cit., pp. 16-17). Inutile dire che una definizione del genere è perfettamente inutile per la lotta politica.
67 M. Foucault, Potere-corpo, in Id., Microfisica del potere, cit., pp. 141-142.
68 Ecco come Foucault in un’intervista ricostruisce la sua esperienza retrospettivamente: “per molti di noi, giovani intellettuali, l’interesse per Nietzsche, o per Bataille, non rappresentava una maniera di allontanarci dal marxismo, o dal comunismo. Anzi, era un po’ l’unica via di comunicazione e di passaggio: verso, naturalmente, ciò che a noi sembrava ci si dovesse attendere dal comunismo. Quella esigenza di rigetto totale del mondo, in cui ci eravamo trovati a vivere, non era certo soddisfatta dalla filosofia hegeliana. D’altra parte si era alla ricerca di altre vie intellettuali proprio per giungere là dove sembrava prendesse corpo, o esistesse già, qualcosa di totalmente “altro”: e cioè il comunismo. È stato così che, senza conoscere bene Marx, rifiutando l’hegelismo, provando disagio per i limiti dell’esistenzialismo, io decisi di aderire al Partito Comunista Francese. Si era nel 1950: essere, allora, “comunista nietzschiano”! Una cosa davvero al limite della “vivibilità”! E, se vogliamo, anch’io lo sapevo che era un pochino ridicolo, forse” (Michel Foucault, Esperienza e verità. Colloqui con Duccio Trombadori, Roma, 2021, p. 37). Come fa notare Eribon, la ricostruzione è poco attendibile perché Foucault si avvicinerà a Nietzsche solo negli anni successivi (a partire dal ’53). Eribon sottolinea anche che il giovane Foucault, nonostante l’iscrizione al PCF, non può certo essere definito marxista.
69 Dal ’55 al ’60 Foucault riveste l’incarico diplomatico di addetto alla cultura ad Uppsala, Varsavia ed Amburgo. Da Varsavia verrà allontanato per una relazione omosessuale con un giovane, che risulterà essere un infiltrato della polizia. La sua omosessualità non certo vista di buon occhio nell’ambiente del PCF è probabile che abbia giocato un ruolo importante anche nella sua fuoriuscita dal partito. Foucault dichiarerà che la causa scatenante del suo abbandono sarà il cosiddetto complotto dei medici, un tentativo di assassinare Stalin che dopo la sua morte si scoprì essere una montatura.
70 Michel Foucault, Esperienza e verità. Colloqui con Duccio Trombadori, cit., p. 74.
71 In questa svolta verso l’impegno politico un ruolo decisivo è giocato da Daniel Defert, compagno di Foucault e vicino ai maoisti di Gauche prolétariennne. Il Gip nasce nel febbraio del ’71 inizialmente da una costola dei maoisti ma ben presto ne diventa indipendente. Ha lo scopo di denunciare le condizioni dei detenuti e di far sapere cosa accade nelle prigioni: il trattamento dei prigionieri, le condizioni del cibo, l’igiene, le condizioni sanitarie. L’intensificarsi della lotta dopo il ’68 produce un aumento spropositato della repressione, anche e soprattutto di quella politica, con diverse organizzazioni e giornali messi fuorilegge, ma la stretta repressiva si allarga anche ad altri fronti. Molti militanti di sinistra sono arrestati e condannati, denunciati per incitamento alla violenza e minaccia alla sicurezza dello Stato. È a partire da questi militanti che cominciano le mobilitazioni nelle carceri per ottenere un regime da detenuti politici per poi rivendicare migliori condizioni per tutti i detenuti, compresi quelli comuni.
72 Questa idea avrà una ricaduta beffarda quando Serge Livrozet, il dirigente principale del Cap (Comitato d’azione dei prigionieri), nato nel ’72 sulla scia del Gip, prenderà le distanze da Foucault sostenendo che “gli specialisti dell’analisi ci scocciano” per poi aggiungere: “non ho bisogno di nessuno che prenda la parola e spieghi chi sono” (Serge Livrozet, Le droit à la parole, in “Libération”, 19 febbraio 1979).
73 Negli stessi anni del Gip, Foucault parteciperà ad altre mobilitazioni, come quelle antirazziste organizzate con il comitato Djellali, dal nome di un giovane algerino ucciso a fucilate dopo aver aggredito la portinaia di un palazzo. Foucault, che non fa parte di nessun movimento politico, è in questi anni molto vicino, tramite Daniel Defert, ai maoisti de La Cause du peuple e nelle attività portate avanti da Foucault la loro presenza è forte. Passato questo periodo, limiterà il proprio impegno a campagne di solidarietà e attività in difesa dei diritti democratici: avverrà per gli oppositori del franchismo in Spagna condannati a morte, così come per i dissidenti del regime sovietico e dei paesi del blocco socialista.
74 Foucault arriva a teorizzare un nuovo tipo di intellettuale che definisce “intellettuale specifico” per differenziarlo dall’intellettuale organico della tradizione marxista. Differentemente da quest’ultimo, l’intellettuale specifico metterebbe a disposizione delle lotte il proprio sapere particolare senza essere detentore di una verità universale e senza parlare a nome delle masse. Inutile dire che l’identikit fornita dal filosofo corrisponde a se stesso e ai suoi amici. Si veda ad esempio la conversazione con Deleuze dal titolo Gl’intellettuali e il potere in M. Foucault, Microfisica del potere, cit., pp. 107-118), ma anche l’intervista in apertura della stessa raccolta (Ivi, pp. 20-28).
75 M. Foucault, Bisogna difendere la società, cit., p. 17.
76 Una delle formulazione più riprese sarà quella della teoria come cassetta degli attrezzi, da usare a seconda della loro utilità: “Foucault afferma che il compito dell’intellettuale è quello di «presentare […] degli strumenti e dei mezzi che si giudicano utili», ma non di avanzare delle proposte, poiché «dal momento in cui si “propone”, si propone un vocabolario, un’ideologia, che non possono non avere degli effetti di dominio” (M.Iofrida, D. Melegari, Foucault, Roma, 2018, p. 178).
77 Foucault contrappone frontalmente partiti e movimenti, esaltando acriticamente questi ultimi, si veda il seguente passo: “una delle cose da salvaguardare è, secondo me, l’esistenza, al di fuori dei grandi partiti politici, e al di fuori del programma normale o ordinario, di una certa forma di innovazione politica, di creazione politica e di sperimentazione politica. È un fatto che la vita quotidiana sia cambiata tra l’inizio degli anni sessanta e oggi, la mia vita ne è una testimonianza. È evidente che questo cambiamento non lo dobbiamo ai partiti politici, ma a numerosi movimenti. Questi movimenti sociali hanno veramente trasformato le nostre vite, la nostra mentalità e i nostri atteggiamenti, e anche gli atteggiamenti e la mentalità di altre persone – di persone che non appartenevano a questi movimenti. È un fatto molto importante e molto positivo. Lo ripeto, non sono le vecchie organizzazioni politiche tradizionali e normali a aver permesso questa ricerca” (Michel Foucault, Un’intervista: il sesso, il potere e la politica dell’identità, in Id., Estetica dell’esistenza, etica, politica. Archivio Foucault 3, cit., p. 306). Questa contrapposizione manichea e strumentale, utile a promuovere una visione ultra movimentista, non coglie il rapporto dialettico che esiste tra partiti e lotte e nega il ruolo del partito rivoluzionario, di cui teoria, programmi e metodi sono l’eredità delle esperienze e delle conoscenze prodotte dalle lotte delle generazioni precedenti.
78 L’idea che il socialismo nella gestione della società non abbia fatto altro che riproporre e perfezionare le concezioni della borghesia e della razionalità occidentale sarà una costante nei commenti di Foucault all’esperienza sovietica. Su questa argomentazione di fondo si basa anche la critica al sistema penale sovietico e ai gulag, utilizzati da Foucault per negare la possibilità di qualsiasi alternativa all’Urss stalinista. Ad esempio, in Poteri e Strategie scrive che bisogna “rifiutare di interrogare il Gulag a partire dai testi di Marx o Lenin, domandandosi per quale errore, deviazione, mistificazione, distorsione speculativa o pratica, la teoria ha potuto essere tradita a tal punto. Al contrario, interrogare tutti questi discorsi, per quanto siano datati, a partire dalla realtà del Gulag. Invece di cercare in questi testi ciò che potrebbe condannare a priori il Gulag, si tratta di chiedersi ciò che in essi l’ha permesso, che continua a giustificarlo, ciò che permette oggi di accettarne sempre l’intollerabile verità” (M. Foucault, Poteri e Strategie, Milano, 1994, p. 18).
79 Foucault sarà particolarmente colpito dal libro di Solženicyn e ne diverrà a tal punto un estimatore da utilizzare in Sorvegliare e punire l’espressione “arcipelago carcerario”.
80 Foucault è stato un ammiratore di François Furet, storico francese che nel 1978 pubblicava Penser la Révolution française, noto per il suo approccio revisionistico, il cui scopo era proprio quello di mettere in discussione l’idea stessa della rivoluzione.
81 Scrive a tal proposito Foucault: “in materia di immaginazione politica, dobbiamo riconoscere che viviamo in un mondo molto povero. E quando cerchiamo di capire da dove provenga una simile povertà di immaginazione del XX secolo sul piano socio-politico, a me pare che, malgrado tutto, il marxismo abbia avuto un ruolo importante. È questa la ragione per cui mi occupo del marxismo. Lei comprende, pertanto che il tema che potremmo così riassumere «Come farla finita col marxismo», che in un certo senso fungeva da filo conduttore rispetto al quesito da lei sollevato, possa risultare fondamentale per la mia riflessione. Una cosa a me pare infatti determinante: il fatto che il marxismo abbia contribuito, e contribuisca tuttora, all’impoverimento dell’immaginazione politica”. Per poi chiosare: “il marxismo esiste in quanto causa dell’impoverimento, dell’inaridimento dell’immaginazione politica di cui parlavo un istante fa. Per riflettere come è necessario fare su tale problema, dobbiamo tenere sempre ben presente che il marxismo non è nient’altro che una modalità di potere in senso elementare” (M. Foucault, Metodologia della conoscenza del mondo: come sbarazzarsi del marxismo, in Id., Il discorso, la storia, la verità. Interventi 1969-1984, cit., pp. 245-246)
82 “Continuando a ripetere che la nostra organizzazione sociale ed economica mancava di razionalità […], continuando a decantare le promesse della rivoluzione […], a forza di inneggiare all’opposizione tra le ideologie della violenza e la vera teoria scientifica della società, del proletariato e della storia, ci siamo ritrovati con due forme di potere simili come due fratelli: fascismo e stalinismo” (M. Foucault, Illuminismo e critica, Roma, 1997, p. 48).
83 “Questo nuovo tipo di potere, che non può assolutamente più essere trascritto nei termini della sovranità è, credo, una delle grandi invenzioni della società borghese. Esso è stato uno degli strumenti fondamentali della costituzione del capitalismo industriale e del tipo di società che gli è correlativo; questo potere non sovrano, estraneo alla forma della sovranità, è il potere “disciplinare” (M. Foucault, Bisogna difendere la società, cit., p. 39).
84 K. Marx, Il capitale, cit., p. 797. Marx poi aggiunge: “In Inghilterra questa legislazione cominciò sotto Enrico VII. Enrico VIII, 1530: i mendicanti vecchi e incapaci di lavorare ricevono una licenza di mendicità. Ma per i vagabondi sani e robusti frusta invece e prigione. Debbono esser legati dietro a un carro e frustati finché il sangue scorra dal loro corpo; poi giurare solennemente di tornare al loro luogo di nascita oppure là dove hanno abitato gli ultimi tre anni e «mettersi al lavoro » (to put himself to labour). Che ironia crudele! 27 Enrico VIII, viene ripetuto lo statuto precedente, inasprito però da nuove aggiunte. Quando un vagabondo viene colto sul fatto una seconda volta, la pena della frustata deve essere ripetuta e sarà reciso mezzo orecchio; alla terza ricaduta invece il vagabondo dev’essere considerato criminale indurito e nemico della comunità e giustiziato come tale” (Ibidem).
85 Ivi, p. 800.
86 Foucault condanna i riformatori illuministi (e il loro umanesimo), che sono ai suoi occhi i responsabili di un processo di perfezionamento della pena. Il miglioramento che si produce non è altro che una più efficace sottomissione al potere: “lungo tutto il secolo XVII, all’interno e all’esterno dell’apparato giudiziario, nella pratica penale quotidiana come nella critica delle istituzioni, viene formandosi una nuova strategia per l’esercizio del potere di castigare. E la “riforma” propriamente detta, quale viene o formulata nelle teorie del diritto o schematizzate nei progetti, è la ripresa politica o filosofica di questa strategia, con i suoi obiettivi primari: fare della repressione e della punizione degli illegalismi una funzione regolare, suscettibile di estendersi a tutta la società; non punire meno, ma punire meglio; punire con una severità forse attenuata, ma per punire con maggiore universalità e necessità; inserire nel corpo sociale, in profondità, il potere di punire” (M. Foucault, Sorvegliare e punire, Torino, 2014, p. 89).
87 Va fatto notare come Foucault, nel tentativo di descrivere l’affermarsi di un nuovo potere, ragioni per contrapposizioni nette. Così, ad esempio, dà grande enfasi all’addolcimento delle pene prodottosi con il carcere moderno, un aspetto che però stride col ruolo che la tortura e più in generale la violenza continuano a giocare nel processo penale, non sparendo affatto dalle carceri.
88 Per approfondire il tema della nascita del carcere in rapporto allo sviluppo del capitalismo si veda D. Melossi, M. Pavarini, Carcere e fabbrica. Alle origini del sistema penitenziario, Bologna, 2018.
89 “Appare, attraverso le discipline, il potere della Norma […]. Il Normale, si instaura come principio di coercizione nell’insegnamento con l’introduzione di un’educazione standardizzata e con l’organizzazione delle scuole normali; si instaura nello sforzo di organizzare un corpo medico e un inquadramento ospedaliero nazionale, suscettibile di far funzionare norme generali di sanità; si instaura nella regolamentazione dei procedimenti e dei prodotti industriali” (M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit. p. 201).
90 Ivi, p. 336.
91 Ivi, p. 29.
92 Il punto di vista foucaultiano è quello di un costruttivismo assoluto che ha il potere come unico soggetto agente: “Il momento storico delle discipline, è il momento in cui nasce un’arte del corpo umano, che non mira solamente all’accrescersi delle sue abilità, e neppure all’appesantirsi della sua soggezione, ma alla formazione d’un rapporto che, nello stesso meccanismo, lo rende tanto più obbediente quanto più è utile, e inversamente. Prende forma allora, una politica di coercizioni che sono un lavoro sul corpo, una manipolazione calcolata dei suoi elementi, dei suoi gesti, dei suoi comportamenti. Il corpo umano entra in un ingranaggio di potere che lo fruga, lo disarticola e lo ricompone. Una “anatomia politica”, che è anche una “meccanica del potere”, va nascendo. Essa definisce come si può far presa sui corpi degli altri non semplicemente perché facciano ciò che il potere desidera, ma perché operino come esso vuole, con le tecniche e secondo la rapidità e l’efficacia che esso determina. La disciplina fabbrica così corpi sottomessi ed esercitati, corpi ‘docili’” (Ivi, p. 150).
93 Ecco come lo descrive: “il principio è noto: alla periferia una costruzione ad anello; al centro una torre tagliata da larghe finestre che si aprono verso la faccia interna dell’anello; la costruzione periferica è divisa in celle, che occupano ciascuna tutto lo spessore della costruzione; esse hanno due finestre, una verso l’interno, corrispondente alla finestra della torre; l’altra, verso l’esterno, permette alla luce di attraversare la cella da parte a parte. Basta allora mettere un sorvegliante nella torre centrale, ed in ogni cella rinchiudere un pazzo, un ammalato, un condannato, un operaio o uno scolaro” (Ivi, p. 218).
94 Il panopticon, scrive Foucault, è “il diagramma di un meccanismo di potere ricondotto alla sua forma ideale; il suo funzionamento, astratto da ogni ostacolo, resistenza o attrito, può felicemente essere rappresentato come un puro sistema architettonico e ottico: è in effetti una figura di tecnologia politica che si può e si deve distaccare da ogni uso specifico” (Ivi, p. 224).
95 L’ideazione del panopticon è del fratello di Jeremy Bentham, Samuel, ingegnere che lavorava alle dipendenze del governo russo e a cui venne commissionata la costruzione del carcere. I fratelli Bentham erano in primo luogo interessati all’utilità delle loro tasche e girarono con l’obiettivo di vendere il loro progetto di riforma e umanizzazione delle carceri, considerate anti-utilitarie. Essa è solo una delle diverse proposte di riforma carceraria prodotte in Gran Bretagna. Foucault omette tutta una serie di aspetti, ad esempio il fatto che il sorvegliante è sottoposto a ispezioni a sorpresa per verificare come viene amministrata la prigione ma anche l’idea che i detenuti dovessero lavorare. La messa a valore del carcere era uno dei capisaldi dell’impresa utilitaristica di Bentham. Tra l’altro nelle appendici alla sua opera Bentham rivedrà alcune tesi: il regime viene umanizzato, con l’eliminazione della reclusione solitaria, vengono aumentate le dimensioni della struttura e delle celle, viene aggiunta una cappella per le funzioni religiose. Il progetto di riforma carceraria oltretutto fu un fallimento e il panopticon non fu mai realizzato, se non in parte. Il modello carcerario prevalentemente utilizzato fu quello di Howard. Nonostante ciò Foucault costruisce sull’adozione del modello carcerario del panopticon tuta la sua tesi.
96 La critica alla sorveglianza reciproca è stata rispolverata anche durante la crisi pandemica. Proprio al principio del capitolo dedicato al Panopticon in Sorvegliare e punire, Foucault richiama la modalità di gestione della peste del ‘600, che differentemente dalla lebbra, basata sull’esclusione, funzionerebbe proprio attraverso la quarantena e la sorveglianza, e quindi il controllo. La peste ha come correlativo medico e politico la disciplina: “la città appestata, tutta percorsa da gerarchie, sorveglianze, controlli, scritturazioni, la città immobilizzata nel funzionamento di un potere estensivo che preme in modo distinto su tutti i corpi individuali – è l’utopia della città perfettamente governata” (M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 216). Il panopticon è in discontinuità rispetto alla città appestata, perché non riguarda una situazione d’eccezione ed è un modello generalizzabile attraverso cui definire i rapporti di potere tra gli uomini nella loro quotidianità. Si intravede quindi l’origine del discorso (ci ritorneremo a proposito della biopolitica) con cui i foucaultiani di oggi hanno ipotizzato l’instaurazione per mezzo della pandemia da coronavirus di uno stato d’eccezione permanente.
97 M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 257.
98 La funzione specifica che Foucault attribuisce al carcere è quella di produrre il “criminale” e trasformare l’illegalità in delinquenza, dividendo su questa base i ceti popolari e in particolare il proletariato da un lato e le plebi dall’altro.
99 Riproponendo una tradizionale caricatura del marxismo, Foucault riduce l’analisi del capitalismo compiuta da Marx alle tecniche produttive del capitalismo industriale, e scrive: “conformemente a un marxismo un po’ rozzo, abbiamo l’abitudine di dire che l’invenzione fondamentale è stata la macchina a vapore o altre invenzioni di questo tipo. È vero, è stata un’invenzione molto importante, ma ci sono state una serie di altre invenzioni tecnologiche altrettanto importanti, che, in ultima istanza, sono state la condizione di funzionamento delle altre. È successo lo stesso con la tecnologia politica: durante i secoli XVII e XVIII c’è stato tutto un fiorire di invenzioni per quanto riguarda le forme di potere. Per questo motivo, oltre alla storia delle tecniche industriali, bisogna fare la storia delle tecniche politiche; […] La disciplina è il meccanismo di potere con cui riusciamo a controllare gli elementi più sottili del corpo sociale, a raggiungere gli stessi atomi sociali, cioè gli individui. Tecniche di individualizzazione del potere. Come sorvegliare qualcuno, come controllarne la condotta, il comportamento, le attitudini, come intensificare la sua prestazione, moltiplicare le sue capacità, come collocarlo nel posto in cui sarà più utile: ecco che cos’è, secondo me, la disciplina” (M. Foucault, Le maglie del potere, in Id, Estetica dell’esistenza, etica, politica. Archivio Foucault 3, cit., p. 162).
100 M. Foucault, La verità e le forme giuridiche in Id., Il filosofo militante. Archivio Foucault Vol. 2, cit., p. 163.
101 K. Marx, Il capitale, cit., p 75.
102 K. Marx, Il capitale, cit., p. 800.
103 Va detto che negli ultimi tempi il filone biopolitico non gode di ottima salute e, considerando la povertà teorica che lo contraddistingue, la cosa non sorprende. Abbiamo assistito al suo canto del cigno durante la pandemia, in particolare per le prese di posizione del filosofo Agamben, le cui critiche alla gestione della crisi pandemica si limitavano a mettere in evidenza il controllo sociale prodotto dalla gestione del coronavirus e la restrizione delle libertà democratiche individuali, che però rappresentavano solo un aspetto del problema. Invece di vedere e denunciare i disastri prodotti dalla gestione della sanità dopo anni di tagli e privatizzazioni, e il portato di classe delle politiche di contenimento del virus, per Agamben, la crisi pandemica era nient’altro che un pretesto per l’instaurazione di uno “stato d’eccezione” volto a favorire un migliore controllo sulla popolazione.
104 M. Foucault, Bisogna difendere la società, cit., p. 207.
105 “Il potere deve esercitarsi sugli individui in quanto costituiscono una specie di entità biologica, che deve essere presa in considerazione se si vuole utilizzare la popolazione come macchina per produrre ricchezze, beni o altri individui. Con la scoperta dell’individuo e la scoperta del corpo addestrabile, la scoperta della popolazione è l’altro grande nucleo tecnologico intorno a cui si sono trasformati i procedimenti politici dell’Occidente. È stata inventata quella che chiamerei, in opposizione all’anatomo-politica di cui parlavo prima, la bio-politica” (M. Foucault, Le maglie del potere, cit., p. 164).
106 M. Foucault, Bisogna difendere la società, cit., p. 213.
107 “La proliferazione, la nascita e la mortalità, il livello di salute, la durata della vita, la longevità con tutte le condizioni che possono farle variare; la loro assunzione si opera attraverso tutta una serie d’interventi e di controlli regolatori: una bio-politica della popolazione. Le discipline del corpo e le regolazioni della popolazione costituiscono i due poli intorno ai quali si è sviluppata l’organizzazione del potere sulla vita” (M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 123).
108 Secondo Foucault: “date queste condizioni, si comprende allora perché e in che modo un sapere tecnico come la medicina, o piuttosto l’insieme costituito da medicina e igiene, sarà nel XIX secolo un elemento che – pur senza essere il più importante – è tuttavia di estrema rilevanza, questo sapere costituisce infatti il legame tra le prese scientifiche sui processi biologici e organici (vale a dire: sulla popolazione e sul corpo), e al contempo una tecnica politica di intervento con i suoi specifici effetti di potere. La medicina è un sapere-potere che agisce al contempo sul corpo e sulla popolazione, sull’organismo e sui processi biologici, e che avrà dunque degli oggetti disciplinari e degli effetti di regolazione” (M. Foucault, Bisogna difendere la società, cit., p. 218).
109 In un’intervista al segretario nazionale della Confédération française démocratique des travailleurs (CFDT), Foucault sostiene che “la previdenza sociale, quali che siano i suoi effetti positivi, ha avuto anche degli “effetti perversi”: la crescente rigidità di alcuni meccanismi e situazioni di dipendenza. Si può rilevare questo elemento, inerente ai meccanismi funzionali del dispositivo: da un lato, si dà più assistenza alle persone e, dall’altro, si accresce la loro dipendenza. Ora, quello che dovremmo poterci aspettare da questa previdenza, è che dia a ognuno la sua autonomia nei confronti di quei pericoli e di quelle situazioni che lo pongono in una condizione di inferiorità o lo assoggettano (M, Foucault, Un sistema finito di fronte a una domanda infinita (intervista di R. Bono), in Id, Estetica dell’esistenza, etica, politica. Archivio Foucault 3, cit., p. 185).
110 Una delle conseguenze del bio-potere sarebbe l’importanza che acquisisce il razzismo. Ancora una volta scompare una lettura di classe, perché il razzismo anziché essere considerato in primo luogo uno strumento nelle mani della classe dominante per dividere i lavoratori, viene presentato come parte del discorso normalizzatore del potere. Così, ad esempio, la guerra sarebbe possibile proprio perché si mobilitano i propri soldati sulla base del razzismo: una generalizzazione che non corrisponde al vero, basti pensare alle guerre in difesa della libertà e della democrazia, dove il razzismo non rappresenta l’elemento mobilitante. Ma soprattutto, al di à della propaganda usata, bisognerebbe individuare gli interessi materiali da cui le guerre muovono, che sono più prosaicamente la conquista di mercati, sfere d’influenza, materie prime. Per Foucault il bio-potere opera anche nel nazismo e degli stati “socialisti”, che avrebbero ripreso “l’idea secondo cui la società, o lo stato, o ciò che deve sostituirsi allo stato, abbia essenzialmente la funzione di prendere in gestione la vita, di organizzarla, di moltiplicarla, di compensarne gli imprevisti, di considerarne e delimitarne le probabilità e le possibilità biologiche. Con tutte le conseguenze che questo comporta, allorché ci si ritrova all’interno di uno stato socialista il quale deve esercitare il diritto di uccidere o il diritto di eliminare, il diritto di squalificare. È così che, in maniera del tutto naturale, ritroveremo il razzismo – non il razzismo propriamente etnico, ma il razzismo di tipo evoluzionista, il razzismo biologico – funzionante a pieno regime, negli Stati socialisti come l’Unione Sovietica, a proposito dei malati mentali, dei criminali, degli avversari politici, e così via” (M. Foucault, Bisogna difendere la società, cit., p.226).
111 Foucault scrive che il “bio-potere è stato, senza dubbio, uno degli elementi indispensabili allo sviluppo del capitalismo; questo non ha potuto consolidarsi che a prezzo dell’inserimento controllato dei corpi nell’apparato di produzione, e grazie ad un adattamento dei fenomeni di popolazione ai processi economici. […] l’adeguarsi dell’accumulazione degli uomini a quella del capitale, l’articolazione delle forze produttive e la ripartizione differenziale del profitto, sono stati resi possibili in parte dall’esercizio del bio-potere, nelle sue forme e con i suoi procedimenti svariati ( M. Foucault, La volontà di sapere, cit., pp. 124-125).
112 Impero, di Toni Negri e Micheal Hardt, con la sua tesi sulla fine dell’Imperialismo (la cui inconsistenza è oggi ancora più evidente), è tutto basato sulla biopolitica foucaultiana. Toni Negri ha anche più volte spiegato che la genealogia di Foucault è stata per lui essenziale per l’elaborazione di una teoria dei processi di soggettivazione. Più in generale è riscontrabile un’evidente analogia tra alcune teorie del post-strutturalismo francese e quelle del post-operaismo italiano.
113 K. Marx, Il capitale, cit., p. 267.
114 “Io cerco di mostrare come i rapporti di potere possano passare materialmente nello spessore stesso dei corpi senza che neanche debbano essere trasformati nella rappresentazione dei soggetti. Se il potere raggiunge i corpi non è perché è stato precedentemente interiorizzato nella coscienza della gente” (M. Foucault, I rapporto di potere passano all’interno dei corpi (intervista di L. Finas), in Id, Dalle torture alle celle, Cosenza 1979, p. 122).
115 Per una critica marxista della teoria queer si veda il seguente articolo: Marxismo vs. teoria queer.
116 Foucault ne La volontà di sapere scrive che il sesso si inserisce in due registri: “dà luogo a sorveglianze infinitesimali, a controlli istante per istante, ad organizzazioni dello spazio di un’estrema meticolosità, ad esami medici e psicologici interminabili, a tutto un micro-potere sul corpo; ma dà luogo anche a misure massicce, a stime statistiche, ad interventi che prendono di mira l’intero corpo sociale o gruppi presi nel loro insieme. Il sesso è contemporaneamente accesso alla vita del corpo e alla vita della specie. Ci si serve di esso come matrice delle discipline e principio delle regolazione” (Michel Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 129).
117 Foucault respinge quella che definisce l’“ipotesi repressiva” di Reich e Marcuse e cioè l’idea di un desiderio sessuale represso dal potere, ma la sua è una critica generale al rapporto tra repressione sessuale e capitalismo: “questo discorso sulla moderna repressione del sesso regge ben poco. Probabilmente perché è facile farlo. Una grossa cauzione storica e politica lo protegge; facendo nascere l’epoca della repressione nel XVII secolo, dopo centinaia d’anni all’aria aperta e di libera espressione, la si porta a coincidere con lo sviluppo del capitalismo: farebbe corpo con l’ordine borghese. La piccola cronaca del sesso e delle sue vessazioni si traspone immediatamente nella storia cerimoniosa dei modi di produzione; la sua futilità svanisce. Si delinea in questo modo un principio di spiegazione: se si reprime il sesso con tanto rigore, è perché è incompatibile con una costrizione al lavoro generale ed intensiva; nell’epoca in cui si sfrutta sistematicamente la forza lavoro si potrebbe tollerare ch’essa vada a disperdersi nei piaceri, salvo in quelli, ridotti al minimo, che le permettono di riprodursi? Il sesso ed i suoi effetti non sono forse facilmente decifrabili; così ricollocata, invece, la loro repressione si analizza agevolmente. E la causa del sesso – della sua libertà, ma anche della conoscenza che se ne acquisisce e del diritto che si ha di parlarne – si trova con piena legittimità legata all’onore di una causa politica: anche il sesso s’inscrive nell’avvenire” (M. Foucault, La volontà di sapere, cit. p. 11).
118 “Il sesso non si giudica solo, si amministra. Esso riguarda il potere politico. Richiede procedure di gestione; deve essere preso in considerazione da discorsi analitici. Il sesso, nel XVIII secolo, diventa una questione di ‘polizia’. Ma nel senso pieno e forte che si dava allora a questa parola – non repressione del disordine, ma sviluppo ordinato delle forze collettive e individuali […]polizia del sesso: il che non vuol dire rigore di una proibizione, ma necessità di regolare il sesso attraverso discorsi utili e pubblici” (M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 26).
119 “Non bisogna dimenticare che la categoria psicologica, psichiatrica e medica dell’omosessualità si è costituita il giorno in cui – il famoso articolo di Westphal del 1870 sulle “sensazioni sessuali contrarie” può essere considerato come data di nascita – è stata caratterizzata piuttosto attraverso una certa qualità della sensibilità sessuale, una certa maniera di invertire in se stessi l’elemento maschile e quello femminile, che attraverso un tipo di relazioni sessuali. L’omosessualità è apparsa come una delle figure della sessualità quando è stata ricondotta dalla pratica della sodomia ad una specie di androginia interiore, un ermafroditismo dell’anima. Il sodomita era un recidivo, l’omosessuale ormai una specie.” (M. Foucault, La volontà di sapere, cit., pp. 42-43).
120 “La confessione – scrive Foucault – ha diffuso lontano i suoi effetti: nella giustizia, nella medicina, nella pedagogia, nei rapporti familiari, nelle relazioni amorose, nell’ordine quotidiano, e nei riti più solenni; si confessano i propri crimini, si confessano i propri pensieri ed i propri desideri, si confessa il proprio passato ed i propri sogni, si confessa la propria infanzia; si confessano le proprie malattie e le proprie miserie; […] si fanno a se stessi, nel piacere e nel dolore, confessioni impossibili ad ogni altro e con cui vengono poi scritti dei libri […]. L’uomo, in Occidente, è diventato una bestia da confessione” (M. Foucault, La volontà di sapere, cit., pp. 54-55).
121 M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 94.
122 “I movimenti femministi hanno raccolto la sfida. Siamo sesso per natura? Ebbene, siamolo, ma nella sua singolarità, nella sua specificità irriducibile. Traiamone le conseguenze e reinventiamo un nostro proprio modello di esistenza politica, economica, culturale… Sempre lo stesso movimento: partire da questa sessualità, nella quale le si vuole colonizzare, per poi attraversarla e dirigersi verso altri approdi. […] Si tratta non dico di «riscoprire» ma di fabbricare di bel nuovo altre forme di piacere, di relazione, di convivenza, di legame, d’amore, d’intensità” (M. Foucault, No al sesso del re (intervista di B. H. Lévy), in Id, Dalla tortura alle celle, cit., p. 142).
123 Michel Foucault, Un’intervista: il sesso, il potere e la politica dell’identità, Id., Estetica dell’esistenza, etica, politica. Archivio Foucault 3, cit., p. 296.
124 “Ebbene, se l’identità non è altro che un gioco, se non è che un procedimento per favorire rapporti, rapporti sociali e rapporti basati sul piacere sessuale che creeranno nuove amicizie, allora è utile. Ma se l’identità diventa il principale problema dell’esistenza sessuale, se le persone pensano di dover ‘svelare’ la ‘loro peculiare identità’ e che questa identità debba diventare la legge, il principio, il codice della loro esistenza; se la domanda che pongono incessantemente è: ‘Questa cosa è conforme alla mia identità?’ allora penso che ritorneranno a un’etica molto vicina alla virilità eterosessuale tradizionale” (Ivi, p. 299).
125 La seconda sinistra prende il nome da un discorso di Rocard tenuto al congresso del Partito Socialista nel ’77, in cui dirà che oltre alla dominante tradizione della sinistra giacobina, centralista, statalista e nazionalista vi è una sinistra decentrata che rifiuta le dominazioni arbitrarie, dei capi come dello Stato. Rocard era stato segretario del PSU (Partito Socialista Unificato), per poi entrare nel Partito Socialista nel 1974, ponendosi in opposizione a Mitterand e alla sua linea unitaria con i comunisti. La teorizzazione delle due sinistre si deve a Patrick Viveret e Pierre Rosanvallon, che pubblicano nel ’77 un libro dal titolo Pour una nouvelle culture politique, accolto entusiasticamente da Foucault. La tesi di fondo era che nella Francia del secondo dopoguerra, tanto a destra quanto a sinistra, la cultura politica dominante si basasse sulla centralità dello Stato, sia come oggetto della lotta che come motore per la transizione al socialismo. La seconda sinistra, che ereditava alcuni aspetti della sinistra autogestionaria francese, si sarebbe aperta al liberalismo caratterizzandosi per l’opposizione alle nazionalizzazioni, la centralità della società civile, la valorizzazione del mercato e dell’impresa. Foucault si avvicinò a quest’area politica attraverso Pierre Rosanvallon, che invitò Foucault a partecipare ad un forum organizzato dalla rivista Faire nel settembre del 1977. Foucault apprezzerà i lavori di Rosanvallon per il loro spirito innovativo, e Rosanvallon seguirà i corsi tenuti da Foucault al Collège de France, tenendovi dei seminari. Foucault esprimerà un giudizio positivo anche sullo stesso Rocard: “all’interno del Partito socialista, uno dei luoghi di elaborazione in cui il nuovo pensiero di sinistra è stato più attivo si era sviluppato attorno ad uno come Rocard” (M. Foucault, Strutturalismo e post-strutturalismo, in Id., Il discorso, la storia, la verità, cit., p. 327). Su questi aspetti si veda Daniel Zamora (a cura di), Critiquer Foucault. Les années 1980 et la tentation néolibérale, Aden, Bruxelles 2014.
126 “Con la parola ‘governamentalità’ intendo tre cose. [Primo,] l’insieme di istituzioni procedure, analisi e riflessioni, calcoli e tattiche che permettono di esercitare questa forma specifica e assai complessa di potere, che ha nella popolazione il bersaglio principale, nell’economia politica la forma privilegiata di sapere e nei dispositivi di sicurezza lo strumento tecnico essenziale. Secondo, per ‘governamentalità’ intendo la tendenza, la linea di forza che, in tutto l’ Occidente e da lungo tempo continua ad affermare la preminenza di questo tipo di potere che chiamiamo ‘governo’ su tutti gli altri – sovranità, disciplina –, col conseguente sviluppo, da un lato, di una serie di apparati specifici di governo, e, [dall’altro,] di una serie di saperi. Infine per ‘governamentalità’ bisognerebbe intendere il processo, o piuttosto il risultato del processo, mediante lo stato di giustizia del Medioevo, divenuto stato amministrativo nel corso del XV e XVI secolo, si è trovato gradualmente ‘governamentalizzato’” (M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), Milano, 2005, p. 88).
127 Nella modernità la guida della condotta degli uomini spetterebbe allo Stato. Come era già accaduto nel mondo cristiano (è il caso della Riforma protestante), i tentativi di dirigere la vita altrui producono quelle che Foucault chiama rivolte di condotta. Non è un caso che nel corso il filosofo citi come esempio di contro condotta a lui contemporanea il caso dei dissidenti in URSS e la loro resistenza: la governamentalizzazione e il potere pastorale sono considerati un tratto fondamentale dei partiti comunisti così come dei regimi stalinisti.
128 “Si può parlare di qualcosa come una “governamentalità”, che starebbe allo stato come le tecniche di segregazione stavano alla psichiatria, le tecniche disciplinari al sistema penale, la biopolitica alle istituzioni mediche? Ecco, in sintesi, la posta in gioco di [questo corso]” (Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 96).
129 Rifiutando la tesi secondo la quale ci si ritroverebbe semplicemente davanti alla riproposizione del liberalismo classico, Foucault dedica grande spazio agli ordoliberali tedeschi e alla scuola di Friburgo, a cui fa risalire gran parte delle innovazioni teoriche del neoliberismo nel novecento. Gli ordoliberali avrebbero prodotto un rinnovamento nell’arte liberale di governo, elaborando una teoria volta a dimostrare che è possibile un nuovo capitalismo a partire da un rinnovato quadro istituzionale, in cui lo Stato stabilisce le regole del gioco e si fa garante del mercato e della concorrenza, che non è un dato naturale ma un obiettivo a cui le politiche economiche devono tendere. Secondo Foucault gli ordoliberali avevano come problema fondamentale quello di dimostrare che il capitalismo era ancora possibile, che nel capitalismo non esiste una logica contraddittoria, che attraverso un nuovo funzionamento istituzionale era possibile superare l’impasse del sistema. Così, sulla scia di Max Weber, Foucault insisterà sulla storia del capitalismo come storia giuridico-economica per argomentare che il capitalismo può rinnovarsi (Marx ed Engels l’avevano già spiegato nel Manifesto del partito comunista nel 1848).
130 Foucault troverà particolarmente interessanti anche le innovazioni del liberalismo americano: dalla teoria del capitale umano, basata sull’investimento su di sé e la propria istruzione, che per la prima volta pone (differentemente da Marx), l’attenzione sugli aspetti qualitativi del lavoro, alla teoria dell’individuo come imprenditore di se stesso, le cui azioni possono essere comprese sulla base del calcolo economico. Foucault dà quindi per buona la visione individualistica dell’economia borghese, basata sulle scelte razionali.
131 M. Foucault, La tortura è la ragione, in Id., Biopolitica e liberalismo. Detti e scritti su potere ed etica 1975-1984, Milano, 2001, p. 106.
132 “Anche in questo caso si assiste a un fenomeno importante: ho l’impressione che, finché non è iniziata la cosiddetta ‘crisi’ e, più precisamente, finché non sono apparsi i limiti contro cui urtiamo attualmente, l’individuo si ponesse pochissimo il problema del suo rapporto con lo Stato […]. Oggi c’è un problema di limiti. Non è più in causa l’accesso uguale per tutti all’assistenza, ma l’accesso infinito di ognuno a un certo numero di prestazioni possibili […] allora l’individuo si interroga sulla natura del suo rapporto con lo Stato e comincia a sentire la sua dipendenza nei confronti di un’istituzione di cui, fino a quel momento, non aveva percepito completamente il potere di decisione” (M, Foucault, Un sistema finito di fronte a una domanda infinita, cit., p. 188).
133 M. Foucault, Dossier Iran, Vicenza, 2023, p. 56.
134 Ivi, pp. 62-63.
135 Ibidem.
136 Ivi, p. 56.
137 “È l’insurrezione di uomini a mani nude che vogliono sollevare l’enorme peso che grava su ognuno di noi, ma più in particolare su di loro, su questi lavoratori del petrolio, questi contadini ai confini degli imperi: il peso dell’ordine del mondo intero. È forse la prima grande insurrezione contro i sistemi planetari, la forma più moderna della rivolta e la più folle” (Ivi, p. 88).
138 “Un po’ come gli studenti europei degli anni Sessanta, gli iraniani vogliono tutto; ma questo tutto non è quello di una «liberazione dei desideri»: è quello di un’emancipazione da tutto ciò che nel loro Paese e nella loro vita di ogni giorno segna la presenza delle egemonie planetarie. Per questo i partiti politici – liberali o socialisti, di tendenza filoamericana o di ispirazione marxista – o, meglio, la scena politica stessa sembra loro ancora e sempre un’agente di queste egemonie. Di qui, il ruolo di quel personaggio quasi mitico che è Khomeini. Nessun capo di Stato, nessun leader politico, anche con l’appoggio di tutti i media del suo Paese, può oggi vantarsi di essere l’oggetto di un attaccamento così personale e così intenso” (Ivi, p. 87).
139 Foucault, differentemente dagli anni precedenti, in questo periodo sosterrà che il soggetto è sempre stato il cuore della sua riflessione: “in primo luogo vorrei dire qual è stato lo scopo del mio lavoro nel corso di questi ultimi vent’anni. Non si è trattato di analizzare i fenomeni di potere, e neppure di elaborare i fondamenti di una tale analisi. il mio obiettivo, piuttosto, è stato di fare una storia dei differenti modi di soggettivazione degli esseri umani nella nostra cultura […] non è il potere a costituire il tema generale delle mie ricerche ma il soggetto” (M. Foucault, Perché studiare il potere: la questione del soggetto, in L. Dreyfus, P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault, cit., p. 237).
140 Le tecniche del sé sono per Foucault modalità con cui gli individui possono operare su se stessi, con l’obiettivo di trasformarsi nel modo di pensare e di agire. Nei suoi studi prenderà in particolare in esame le tecniche praticate nell’antichità (gli esercizi spirituali, la meditazione sulla morte, l’esame di coscienza, la scrittura di diari, ecc.), finalizzate secondo il filosofo a raggiungere una più elevata comprensione etica della propria esistenza e a costruire la propria soggettività. Lo stesso Foucault metterà in evidenza come, in merito al soggetto, negli anni precedenti avesse posto l’accento quasi esclusivamente sulle tecniche di dominio del potere: “se si vuole analizzare la genealogia del soggetto nella civiltà occidentale, si deve tener conto non soltanto delle tecniche di dominio, ma anche delle tecniche del sé. Si deve mostrare l’interazione che si produce tra i due tipi di tecniche. Forse quando studiavo le istituzioni totali, le prigioni, ecc., ho insistito troppo sulle tecniche di dominio […]. Dopo aver studiato il campo del potere prendendo come spunto di partenza le tecniche di dominio, nel corso dei prossimi anni vorrei studiare i rapporti di potere partendo dalle tecniche del sé” (M. Foucault, Sessualità e solitudine, in Id., Estetica dell’esistenza, etica, politica. Archivio Foucault 3, cit., p. 147).
141 La sessualità e l’etica sono strettamente intrecciati: “poiché è il più violento di tutti i piaceri, perché è quello che costa di più in termini di dispendio fisico, perché fa parte del gioco della vita e della morte, il piacere sessuale costituisce un campo privilegiato per la formazione etica del soggetto: di un soggetto che deve caratterizzarsi attraverso la capacità di dominare le forze che si scatenano in lui, di mantenere la libera disposizione della propria energia e di fare della propria vita un’opera che sopravviverà al di là della sua effimera esistenza” (M. Foucault, L’uso dei piaceri. Storia della sessualità 2, Milano, 1984, p. 143).
142 Foucault affronta anche la filosofia antica con un metodo completamente idealista, commentando i testi e disinteressandosi del contesto in cui vengono elaborati. Già la selezione delle opere analizzata è tutta funzionale alla tesi che è interessato a difendere. Così, una volta posizionata al centro della filosofia antica la cura di sé, escluderà Aristotele, mentre di Platone prenderà in considerazione prevalentemente l’Alcibiade. Si concentrerà poi in primo luogo sullo stoicismo, considerato il periodo d’oro della cura di sé. Dello stoicismo darà una lettura soggettivistica, omettendo il fatto che gli esercizi spirituali e l’ascetismo erano considerati necessari per superare i limiti della propria individualità e accedere all’immobile ordine provvidenziale dell’universo, che andava accettato al di là della contingenza storica e della sorte individuale. In Foucault invece le pratiche di cura di sé sono finalizzate ai processi di soggettivazione.
143 Vale la pena ribadire che la verità non è la verità oggettiva, a cui Foucault non è interessato, ma il prodotto dei processi di veridizione: “la storia critica del pensiero non è, insomma, né una storia delle acquisizioni, né una storia degli occultamenti della verità; è la storia dell’emergere di giochi di verità; è la storia delle ‘veridizioni’, intese come le forme secondo cui, in un ambito di cose, si articolano i discorsi suscettibili di essere definiti veri o falsi” (M. Foucault, Foucault, voce del Dizionario dei filosofi, in Id., Estetica dell’esistenza, etica, politica. Archivio Foucault 3, cit., p. 249).
144 Il governo attraverso la verità nell’ultimo Foucault rappresenterà per il filosofo anche un parziale superamento della teoria del sapere-potere, così come spiegherà nel corso tenuto nel 1979-1980 (Del governo dei viventi).
145 La prospettiva foucaultana comporta “che si prenda in considerazione la molteplicità dei regimi di verità [e] il fatto che ogni regime di verità, che sia o meno scientifico, comporti dei modi specifici di legare insieme, in [maniera] più o meno coercitiva, la manifestazione del vero e il soggetto che la opera. E infine, in terzo luogo, questa prospettiva implica che la specificità della scienza non sia definita in contrapposizione a tutto il resto o a ogni ideologia, ma che sia definita semplicemente come uni dei tanti regimi di verità insieme possibili ed esistenti” (M. Foucault, Del governo dei viventi. Corso al Collège de France (1979-1980), Milano, 2014, p. 107).
146 “Forse il più rilevante di tutti i problemi filosofici è il problema del presente, e di ciò che siamo in questo preciso momento. Forse oggi l’obiettivo principale non è di scoprire che cosa siamo, ma piuttosto di rifiutare quello che siamo. Dobbiamo immaginare e costruire ciò che potremmo diventare per sbarazzarci poi di quella sorta di «doppio legame» politico, costituito dalla individualizzazione e dalla totalizzazione simultanee delle strutture del potere moderno. La conclusione potrebbe essere che il problema politico, etico, sociale e filosofico oggi, non è tanto di liberare l’individuo dallo Stato, e dalle sue istituzioni, quanto di liberare noi stessi sia dallo Stato che dal tipo di individualizzazione che è legato allo Stato. Occorre promuovere nuove forme di soggettività attraverso il rifiuto di quel tipo di individualità che ci è stato imposto per così tanti secoli” (M. Foucault, Perché studiare il potere: la questione del soggetto, cit., p. 244).
147 Lo stesso Foucault ne è cosciente, infatti scrive: “se consideriamo, per esempio, Stirner, Schopenhauer, Nietzsche, oppure il dandysmo, Baudelaire, l’anarchia, o il pensiero anarchico, ci troviamo sempre di fronte a una serie di tentativi, ovviamente del tutto differenti gli uni dagli altri, che sono però comunque tutti quanti, io credo, polarizzati attorno alla questione seguente: è possibile costruire, o ricostruire, un’estetica e un’etica del sé? E se sì, a che prezzo, e a quali condizioni? ” (M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982), Milano, 2021, p. 221).
148 Dall’anarchia tra l’altro Foucault prende apertamente le distanze, nonostante i punti di contatto: “se si definisce l’anarchia in maniera un po’ grossolana – ma sono pronto a discutere o a tornare su queste definizioni che ammetto piuttosto approssimative -, e comunque se la si definisce in due modi: primo, come la tesi per cui il potere nella sua essenza è malvagio, e secondo, come il progetto di una società in cui verrebbe abolito, annullato ogni rapporto di potere, capite bene che ciò che vi propongo e di cui vi parlo è chiaramente molto diverso. Innanzitutto, non si tratta di tendere a una società senza rapporto di potere come conclusione di un progetto. Al contrario, si tratta di metter il non-potere o la non-accettabilità del potere non a conclusione dell’impresa, ma all’esordio del lavoro, nella forma di una messa in questione di tutti i modi con cui effettivamente si accetta il potere. In secondo luogo, non si tratta di dire che ogni potere è malvagio, ma di partire dall’idea che nessun potere, qualunque esso sia, sia accettabile a pieno diritto e sia assolutamente e definitivamente inevitabile. Vedete dunque che tra ciò che grossolanamente chiamo anarchia, o anarchismo, e i metodi che utilizzo c’è sicuramente qualcosa come un rapporto, ma le differenze sono comunque evidenti” (M. Foucault, Del governo dei viventi, cit., pp. 85-86).
149 L. Trotskij, Il programma di transizione, AC Editoriale, Milano, 2008, p. 31.