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Marxismo vs. teoria queer

di Yola Kipcak

 

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta in tedesco dai compagni di Der Funke, la sezione austriaca della TMI. Il testo riguarda l’importante questione della teoria queer. Si tratta di una teoria compatibile con il marxismo? Può esistere un “marxismo queer”? Yola Kipcak spiega le ragioni per cui questo non è possibile.

La redazione

Oppressione e discriminazione sono parti integranti del sistema dominante nel quale viviamo, che comprende la sistematica persecuzione e la stigmatizzazione sociale sugli orientamenti e le identità sessuali che non sono conformi alla “norma”. Come marxisti, noi combattiamo con determinazione contro ogni forma di sessismo, discriminazione e oppressione. Tuttavia, dobbiamo anche esaminare con attenzione la questione di come distruggere le attuali condizioni di barbarie e come garantire un’autentica libertà di espressione a tutti gli esseri umani, il che rende necessario approfondire le teorie e i metodi necessari per raggiungere questi obiettivi.

In questo articolo tratteremo in particolare una teoria femminista/gay che è diventata popolare soprattutto a partire dagli anni ’90 e da allora ha conquistato una certa influenza, specialmente in ambito accademico, ma anche in alcuni settori delle organizzazioni dei lavoratori che hanno adottato le “idee queer”. Per questo esamineremo da vicino le basi della cosiddetta teoria queer e vedremo quale dovrebbe essere la posizione dei marxisti nei suoi confronti.

Che cos’è la teoria queer?

La teoria queer emerse soprattutto negli Stati Uniti negli anni ‘90 all’interno di alcuni circoli accademici, in particolare quelli impegnati in studi sull’omosessualità, e in connessione con l’attivismo gay intorno alla crisi dovuta ad HIV/Aids. Originariamente un termine offensivo nei confronti degli omosessuali, il nome “queer” venne ripreso e connotato positivamente dal movimento gay. La teoria queer utilizza questo termine e si occupa di quelle che vengono considerate delle fratture nel legame fra sesso biologico, identità di genere e preferenze sessuali – per esempio transgender, omo/bisessualità, feticismo, ecc. – in breve, identità o atteggiamenti considerati “diversi dalla norma”.

La teoria queer è incentrata sulla questione dell’identità individuale, e in particolare dell’identità sessuale e dell’orientamento di genere e sessuale. La sessualità è considerata un fattore cruciale per comprendere l’intera società. La critica letteraria queer Eve Kosofsky Sedgwick si spinge a scrivere:

[U]na comprensione di pressoché tutti gli aspetti della cultura occidentale moderna deve essere non solo incompleta, ma difettosa nella sua essenza nella misura in cui non incorpora un’analisi critica della definizione omo/eterosessuale moderna”. [1]

Secondo le sue parole, la teoria queer esplora “il modo in cui la sessualità viene regolata e in cui la sessualità influenza e struttura le altre aree sociali come le politiche statali e le forme culturali. Il suo principale interesse è privare la sessualità della sua apparente naturalezza e renderla visibile come un prodotto culturale interamente permeato da relazioni di potere.” [2]

Tuttavia, quella queer non è una teoria effettivamente unitaria e coerente, poiché viene intenzionalmente mantenuta estremamente vaga e “diversificata”, e non rivendica neppure una base di definizioni comuni. Questo implica il comodo effetto collaterale di poter mettere a tacere qualsiasi critica con l’argomento che “perfino io la penso in modo completamente diverso” – come ammette la stessa Annamarie Jagose, una femminista nota in ambiente accademico che ha scritto un celebre volume di introduzione alla teoria queer. A proposito del termine “queer” scrive:

La sua vaghezza protegge il queer da critiche quali l’accusa di essere tendenze escludenti nei confronti di ‘lesbiche’ e ‘gay’ come categorie identitarie.” [3]

Eppure sarebbe errato assumere che non vi sia un terreno comune nelle posizioni dei difensori della teoria queer. Essa si fonda su determinate premesse filosofiche che conducono necessariamente a una certa comprensione del mondo in cui viviamo e del modo in cui possiamo cambiarlo, oltre che della possibilità stessa di cambiarlo.

Le premesse fondamentale della teoria queer, che esamineremo più approfonditamente nel testo, sono le seguenti: la nostra identità (di genere) non è altro che una finzione. Pertanto, etero e omosessualità sono a loro volta costruzioni culturali. Questa finzione è il prodotto del discorso sociale e del potere nella società. Occorre rivelare il modo in cui questi discorsi sociali funzionano e metterli in parodia (ridicolizzarli, mostrare le loro contraddizioni, “dislocarli”).

Crisi di identità

Non è un caso che la teoria queer sia diventata popolare negli anni ’90. Due decenni prima, intorno all’anno cruciale 1968, il mondo vide molti movimenti rivoluzionari come, per esempio, lo sciopero generale del Maggio 1968 in Francia, l’Autunno caldo del 1969 in Italia, la Primavera di Praga del 1968 in Cecoslovacchia, il Movimento per le libertà civili in molti paesi e tanti altri.

Con la nuova ondata della lotta di classe, anche il movimento delle donne visse una rinnovata intensità. Senza dubbio, molti dei gruppi radicali, femministi e gay che emersero in quel periodo si consideravano socialisti, o comunque connessi alla lotta di classe. Per esempio, il Gruppo delle Donne Indipendenti (AUF), fondato nel 1972 in Austria, dichiarò nel primo numero del proprio periodico:

Il movimento delle donne spiana la strada per una rivoluzione sessuale e culturale. Tuttavia, ciò è evidente solo in connessione con una rivoluzione economica”. [4]

Tuttavia, dopo i tradimenti di quei movimenti rivoluzionari e delle ondate di scioperi, la prospettiva di una rivoluzione portata a termine dalla classe lavoratrice cominciò a essere considerata inverosimile o addirittura impossibile da molti degli attivisti di sinistra demoralizzati. Senza l’elemento di raccordo delle lotte sociali di massa che univano la classe lavoratrice, la fine degli anni ’70 vide il movimento delle donne e quello gay sbandare verso politiche identitarie e allontanarsi dalle aspirazioni radicali e rivoluzionarie nella direzione di piccoli circoli locali. Il loro attivismo era ora incentrato sullo scambio di esperienze, sulla cultura e su progetti artistici, oltre che sulla gestione dei risultati precedentemente ottenuti, come i centri di accoglienza per donne e le linee di emergenza. Alla fine degli anni ’70 e negli anni ’80, la graduale istituzionalizzazione del movimento femminista a livello statale – all’interno di partiti riformisti, mediante la creazione di ministeri delle donne, cattedre e borse di studio nelle università – portò al rafforzarsi di idee piccolo-borghesi nel movimento femminista.

Acquisirono influenza teorie femministe che descrivevano la lotta di classe come secondaria rispetto alla lotta culturale contro il patriarcato, o addirittura ne negavano del tutto l’esistenza. Non si trattava più di lottare contro una società di classe e l’oppressione delle donne in essa radicata, ma di lottare contro un “patriarcato astorico” (che, cioè, rimane inalterato nelle varie forme di società). Il soggetto rivoluzionario non era più la classe lavoratrice, ma la donna oppressa dall’uomo. Da questa premessa si sviluppò una grande quantità di testi e discussioni, che si occupavano della questione dell’essenza del patriarcato e di come la “donna”, che era diventata il principale oggetto di studio, potesse essere definita. Diventò preminente l’idea di distinguere tra sesso biologico e genere sociale, acquisito. Lo si trova espresso nella nota affermazione di Simone de Beauvoir:

Donna non si nasce, lo si diventa. Nessun destino biologico, psichico, economico definisce l’aspetto che riveste in seno alla società la femmina dell’uomo; è l’insieme della storia e della civiltà a elaborare quel prodotto intermedio tra il maschio e il castrato che chiamiamo donna. Solo la mediazione di un’altra persona può costituire l’individuo come un Altro.” [5]

Qui, già vediamo le radici di ciò che più tardi diventeranno le idee centrali della teoria queer: 1) la “Donna” come tale non esiste; 2) essa è modellata ed educata a diventare tale unicamente dalla società.

L’affermazione di Simone de Beauvoir: “Donna non si nasce, lo si diventa” è un precedente della teoria queer / Immagine: Flickr, Kristine

Ma se la “donna” (che non sarà più definita in senso stretto dalla biologia) non esiste, chi è il soggetto destinato a lottare per la propria emancipazione? La ricerca della vera identità della donna, del nuovo soggetto rivoluzionario, ha impegnato professori e scrittori di quel periodo. Nella propria indagine della “essenza femminile”, alcuni hanno scoperto i roghi delle streghe e visto nello sciamanesimo e nella stregoneria una manifestazione oppressa di femminilità. Altri hanno visto l’“essere donna” nascosto nel regno dell’irrazionalità delle emozioni e della poesia; altri ancora hanno constatato che solo le lesbiche potessero lottare davvero per l’emancipazione delle donne, dal momento che rifiutano le relazioni eteronormative con uomini, e così via. A quel punto fu posta la questione di chi dovesse avere il diritto di rappresentare le donne. E così, in un periodo in cui la lotta di classe andava scemando, le politiche identitarie sprofondarono in una crisi ancora peggiore.

La crisi fu esacerbata ulteriormente dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica. Per molti, sfumò la fiducia nella possibilità di un’alternativa al capitalismo. La maliziosa gioia della borghesia, che annunciava la “fine della storia”, si rispecchiava nella depressione che aveva colpito la sinistra, in condizioni in cui le forze del marxismo erano troppo deboli per poter rappresentare un’alternativa visibile.

È in questo contesto che le idee del postmodernismo – che rigetta sistemi complessi e processi generali, nega l’esistenza di una realtà oggettiva e, anzi, si basa su piccole narrative soggettive – acquisirono popolarità. Tra le loro caratteristiche comuni, vi è la straordinaria importanza che i postmodernisti attribuiscono al linguaggio. “Chi dice che esista una realtà oltre il linguaggio? Il linguaggio è la realtà!”. Questo il motto dei professori modernisti, che si vedono attribuite cattedre, posti in università e contratti per libri con le loro acrobazie intellettuali. La teoria queer, tra le cui principali influenze vi sono il post-strutturalismo di Foucault, la psicoanalisi di Lacan e il decostruttivismo di Derrida, rientra tra queste idee.

Il libro più conosciuto attribuito alla teoria queer è Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity (1990) di Judith Butler (pubblicato in italiano con il titolo Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità) di Judith Butler. Nata nel 1956, professoressa di filosofia specializzata in letteratura comparata, Judith Butler corrisponde al tipico contesto sociale e al background teorico della teoria queer. Già dalle prime frasi, Butler contestualizza il proprio libro nell’ambito della crisi delle politiche identitarie:

Buona parte della teoria femminista si è basata sul presupposto che esistesse un’identità, concepita attraverso la categoria delle donne, che non solo istituisce gli interessi e gli obiettivi femministi all’interno del discorso, ma anche costituisce il soggetto per il quale si cerca una rappresentanza e una rappresentazione politica”. Tuttavia: “Perfino il soggetto ‘donne’ non è più inteso come qualcosa di stabile o costante.” [6]

Il punto centrale della teoria queer è l’individuo, il soggetto che è stato gettato nella crisi. La sua identità è incerta e contraddittoria, così come il mondo in cui vive, ed è impigliata nella rete di relazioni di potere e oppressione. Questi elementi fondamentali della teoria queer sembravano finalmente dar voce a ciò che molti sentivano: la costante pressione a cercare di soddisfare le richieste del sistema. Un individuo dovrebbe essere laborioso, produttivo, un uomo buono e forte, una madre buona e comprensiva e una donna di carriera, sana di corpo e di mente, che punta sempre in alto… Finalmente si gridava forte l’alienazione da se stessi e il sentirsi soli in un mondo in cui ogni espressione di sé sembra a malapena una caricatura. Veniva posta la questione di chi si potesse essere in un mondo in cui si esiste solo in quanto coniati e pressati dalla società, proprio come una moneta con un valore di scambio.

Questa psicologia dell’individualizzazione e di una vaga necessità di resistenza in assenza di un movimento di massa erano elementi fondamentali negli anni ’90 e 2000. Quello che rende la teoria queer attraente per alcuni è forse il fatto che essa fornisce un linguaggio che dà valore al soggetto, che è costruita sul particolare punto di vista dell’individuo e che descrive la propria coscienza.

 Le basi filosofiche della questione di genere

L’argomentazione principale della teoria queer, e di Judith Butler in particolare, è che il problema della politica di identità risiede nella sua ricerca di una “vera identità” della donna. Dopo tutto, ogni donna è unica e differente, e come possiamo identificare una definizione sempre valida di “donna” che non sia già stata distorta e influenzata dai pregiudizi nella società? Ogni rappresentazione della “donna” dunque è incompleta ed esclude alcune donne. La “donna”, dice Butler, non esiste – non è altro che la proiezione di pregiudizi e opinioni sul corpo umano. Una donna non esiste prima di essere stata resa tale dagli assetti di potere all’interno della società. Tuttavia, come vedremo più avanti, la teoria queer non considera affatto un suo compito quello di capire ciò che chiama “assetti di potere”, e men che meno quello di distruggerli.

Qui è necessario un excursus filosofico, per esaminare come Butler giunga alla propria argomentazione secondo cui la “donna” (o, piuttosto, i “generi”) non esiste, e che cosa si trovi dietro tale argomentazione. Nella storia della filosofia, infatti, le sue affermazioni non sono né nuove, né originali. L’unica differenza è che Butler applica vecchi schemi filosofici esclusivamente alla questione di genere. In realtà i marxisti oltre un secolo fa avevano già risposto esaustivamente alle stesse argomentazioni oggi rielaborate dalla teoria queer. In particolare, nell’eccellente lavoro di Lenin Materialismo ed empiriocriticismo può leggersi una chiara confutazione della teoria queer.

Come punto di partenza per la propria argomentazione, Butler prende il Dualismo tra sesso biologico e genere sociale come descritto sopra, che lei stessa critica. Questo Dualismo, infatti, rappresenta la relazione tra materia e idea. Quale è l’origine della “donna” – è la natura, la biologia, il fatto che essa possa partorire, o è la nozione culturale di femminilità – e quale è la relazione tra questi due aspetti?

Dietro a questo problema del sesso biologico e dei ruoli di genere risiede la questione del fondamento filosofico sul quale costruiamo la nostra visione del mondo, idealismo o materialismo – dal momento che la teoria queer vede il mondo, innanzitutto e soprattutto, attraverso la lente della questione di genere. Friedrich Engels descrisse i due approcci filosofici opposti in questo modo:

…il problema di sapere se l’elemento primordiale è lo spirito o la natura, si acutizzò, nei confronti della Chiesa, nella forma seguente: è Dio che ha creato il mondo, oppure il mondo esiste dall’eternità? I filosofi si sono divisi in due grandi campi secondo il modo come rispondevano a questo quesito. I filosofi che affermavano la priorità dello spirito rispetto alla natura, e quindi ammettevano in ultima istanza una creazione del mondo di un genere qualsiasi, – questa creazione è spesso nei filosofi, per esempio in Hegel, ancora più complicata e assurda che nel cristianesimo, – formavano il campo dell’idealismo. Quelli che affermavano la priorità della natura appartenevano alle diverse scuole del materialismo.” [7]      

La questione del fondamento filosofico di qualsiasi teoria è lungi dall’essere una pedanteria. A seconda che consideriamo le idee o la materia essenziali per il mondo, la risposta a come o se il mondo possa essere fondamentalmente cambiato è differente. Possiamo eliminare l’oppressione delle donne con le idee (per esempio, con il linguaggio, l’educazione) o mediante cambiamenti materiali (tramite la lotta di classe, o cambiando il modo di produzione)?

In ultima analisi, nessuno può eludere la scelta tra idealismo e materialismo. Questo non vuol dire che molti filosofi non ci abbiano provato. Nel suo libro Ludwig Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca, Engels fa riferimento a coloro che definisce “agnostici”, che stanno cioè lontani sia dagli idealisti che dai materialisti. Si riferisce a coloro che tentano di eludere la domanda su a chi appartenga il primato tra pensiero e materia, trattandoli come due sfere separate.

Questo agnosticismo raggiunse la propria forma più alta con Immanuel Kant (1724-1804), il quale ipotizzò che la realtà materiale (che chiamava “cosa in sé”) esistesse, ma che non fosse possibile conoscerla davvero in quanto, già in partenza, noi avremmo imposto le nostre categorie preconcette e così avremmo “interpretato” la realtà senza essere in grado di capire se la nostra interpretazione fosse in effetti corretta. Il dualismo di sesso e genere rappresenta esattamente questo tipo di agnosticismo: il corpo di una donna è una cosa, i pregiudizi culturali sulle donne sono una cosa completamente differente. La relazione tra i due aspetti diventa così misteriosa e ignota.

Nemmeno un genio come Kant, tuttavia, poté evitare la domanda su cosa fosse primario tra pensiero e natura. Se gli esseri umani percepiscono il mondo mediante le proprie categorie e i propri sensi, da dove vengono queste categorie mediante le quali pensiamo? Il cervello umano e la scienza deducono dalla natura, o hanno origine da un mondo immateriale e spirituale, in altre parole da un Dio? La risposta di Kant è la seconda e, nonostante fosse uno scienziato e un filosofo geniale, egli era comunque un idealista.

Al contrario, il Marxismo sta dalla parte del materialismo: primaria è la materia; le nostre idee sono funzioni del nostro cervello, i nostri sensi sono la connessione del nostro corpo (materiale) al mondo materiale, la nostra cultura è un’espressione degli uomini nella loro interazione con la natura, di cui essi stessi sono parte.

L’eliminazione materialistica del ‘dualismo di spirito e corpo’ (cioè il monismo materialista) consiste in ciò: lo spirito non esiste indipendentemente dal corpo, lo spirito è secondario, è una funzione del cervello, un’immagine del mondo esterno. L’eliminazione idealistica del ‘dualismo di spirito e corpo’ (cioè il monismo idealista) consiste in ciò: lo spirito non è una funzione del corpo, lo spirito è di conseguenza primordiale, l’‘ambiente’ e l’‘Io’ esistono soltanto nel legame indissolubile degli stessi ‘complessi di elementi’. Oltre a queste due maniere, diametralmente opposte, di eliminare il ‘dualismo di spirito e corpo’, non ce ne può essere una terza, se non si tien conto dell’ecletticismo, cioè della confusione incoerente dell’idealismo e del materialismo.” [8]

 Idealismo soggettivo

Per quanto riguarda la questione idealismo vs. materialismo, la teoria queer non rimane neutra, ma prende risolutamente una parte: la parte dell’idealismo. Butler scrive:

L’antropologia strutturalista di Lévi-Strauss, compresa la distinzione problematica tra natura e cultura, è stata fatta propria da alcune teoriche femministe, per sostenere e spiegare la distinzione tra sesso e genere: è la tesi secondo cui esiste un femminile naturale o biologico che viene poi trasformato in una ‘donna’ socialmente subordinata, così che il ‘sesso’ sta alla natura o al ‘crudo’ come il genere sta alla cultura o al ‘cotto’.” [9]

Butler vuole dissolvere questa problematica distinzione tra sesso e genere, liberarsi di questo dualismo, dichiarando cioè che il sesso biologico è un costrutto culturale.

Il sesso, come fatto apparentemente naturale, è prodotto discorsivamente da diversi discorsi scientifici, al servizio di altri interessi politici e sociali? Se si contesta il carattere immutabile del sesso, allora forse questo costrutto detto ‘sesso’ è culturalmente costruito proprio come lo è il genere; anzi, forse il sesso è già da sempre genere, così che la distinzione tra sesso e genere finisce per rivelarsi una non-distinzione.” [10]

E così i sessi non sono reali, siamo semplicemente ingannati dal discorso dominante! Mediante ripetizioni costanti e atteggiandoci a un certo sesso, noi esibiamo sessi che sono in questo modo interiorizzati. Ecco perché i nostri corpi umani non sono né maschio né femmina (o qualcos’altro), sono una completa incognita, qualcosa che non può esistere indipendentemente dalle nostre idee su di essi. Persino il pensiero che essi possano esistere indipendentemente dalla nostra cultura è inaccettabile:

Qualunque teoria del corpo culturalmente costruito, tuttavia, dovrebbe mettere in questione ‘il corpo’ come costrutto dalla generalità sospetta, quando viene figurato come passivo e antecedente al discorso.” [11]

A sua difesa, alcuni a sinistra sostengono che Judith Butler non neghi effettivamente l’esistenza dei sessi e che insinuare altrimenti sia una maliziosa esagerazione delle sue idee. Questo è vero solo nella misura in cui Butler intende la biologia anche come linguaggio, come un attributo culturale. Nonostante il suo stile di scrittura inaccessibile, Butler è relativamente esplicita nella difesa delle sue opinioni idealistiche:

Qui l’assunto è piuttosto che l’’essere’ del genere sia un effetto, l’oggetto di un’indagine genealogica che mappa i parametri politici della sua costruzione in una prospettiva ontologica. Sostenere che il genere è costruito non significa asserire la sua illusorietà o artificialità, una volta che si ritiene che tali termini si pongano in un quadro binario che contrappone il ‘reale’ e l’’autentico.’

La sua indagine “cerca di cogliere la produzione discorsiva della plausibilità di una relazione binaria e di mostrare come alcune configurazioni culturali del genere prendano la forma del ‘reale’ e consolidino la loro egemonia attraverso un’efficace auto-naturalizzazione.” [12]

La teoria queer di Judith Butler prende apertamente la parte dell’idealismo filosofico, riducendo sesso e genere a costrutti culturali / Immagine di Miquel Taverna



Se traduciamo questa pomposa formulazione in una lingua comprensibile, Butler ci dice che ogni forma dell’Essere è semplicemente un effetto di “discorsi” (linguaggio), ovvero: l’Idea, la parola, il linguaggio è preesistente, la materia è un effetto derivato da essa, sostanzialmente essa stessa solo linguaggio. Questo vuol dire che, per Butler, l’anatomia, la biologia e le scienze naturali sono tutti costrutti linguistici. Ecco perché i sessi non sono “artificiali” – perché dal suo punto di vista non vi è nulla al di fuori dei costrutti culturali. Pensare alla realtà materiale come a qualcosa che esiste indipendentemente dalle nostre idee vuol dire solamente essere raggirati dal discorso dominante, che ci racconta come esista un dualismo tra “materia” e “cultura”. Questa opinione prevalente (“egemonia”) ci fa credere che vi sia un sesso “reale” e un genere “fittizio”. Butler, tuttavia, non si fa ingannare da tutto ciò! TUTTO è cultura, tutto è linguaggio, tutto è Idea!

Il ‘reale’ e la ‘fatticità sessuale’ sono costruzioni fantasmatiche (illusioni di sostanza) cui i corpi sono costretti ad approssimarsi, pur non riuscendo mai a farlo”, dice Butler. “Questo fallimento nel diventare ‘reale’ e nell’incarnare il ‘naturale’ è, credo, un fallimento costitutivo di ogni attuazione del genere, proprio perché questi ambienti ontologici sono fondamentalmente inabitabili.” [13]

Questo idealismo, con cui abbiamo avuto a che fare fino ad ora, non è una particolarità di Judith Butler. È un pilastro fondante della teoria queer, secondo cui uomini, donne, ma anche l’orientamento sessuale sono costrutti culturali. È così che i testi queer preferiscono mettere i termini natura, biologia, uomo, donna e così via tra virgolette, in modo da dimostrare che gli autori non cadono più nell’inganno che il mondo reale esista. Per fare alcuni esempi:

Annamarie Jagose afferma: “Segnalando l’impossibilità di una sessualità ‘naturale’, il queer mette in discussione categorie apparentemente stabili come ‘uomo’ e ‘donna’.” [14]

David Halperin: “Essere socializzati in una cultura sessuale vuol dire proprio questo: le convenzioni di questo sistema acquisiscono uno status di verità intrinseca e autorealizzata della ‘natura’.” [15]

Così Gayle S. Rubin: “La mia opinione sulla relazione tra biologia e sessualità è quella di un ‘kantismo senza la libido trascendentale’.” [16] (si legga: un Kant che non oltrepassa [“trascende”] il regno dell’esperienza immediata del corpo reale, ovvero un dualismo che elimina la materia, ossia puro idealismo)

Chris Weedon scrive, riguardo ai propri fondamenti filosofici, che “il linguaggio, lungi dal riflettere una data realtà sociale, costituisce la realtà sociale. Né la realtà sociale, né il mondo ‘naturale’ hanno significati fissi, intrinseci che sono riflessi o espressi mediante il linguaggio” (…) “Il linguaggio non è espressione né indicazione del mondo ‘reale’. Non vi è significato oltre il linguaggio.” [17]

Nancy Fraser, docente e femminista affine alla teoria queer, non è altrettanto sicura della propria filosofia e così oscilla tra dualismo kantiano e puro idealismo. All’inizio, Fraser difende un “dualismo quasi weberiano”, per poi assicurarci che “È la distinzione economico/culturale, non quella materiale/culturale è il vero pomo della discordia tra Butler e me.” [18]

E infine Michel Foucault, il filosofo postmoderno e “padre della teoria queer”: “Il segreto [del sesso] non risiede in quella realtà di base in relazione alla quale si pongono tutte le incitazioni a parlare di sesso… È una favola indispensabile a far proliferare infinitamente l’economia dei discorsi sul sesso.” [19]

Per riassumere: la teoria queer poggia su una base filosofica idealista, che afferma che sia il sesso che il genere sono costrutti sociali che sono continuamente “inscenati”.

Come abbiamo detto sopra, questi giochi intellettuali non sono per nulla originali. In Materialismo ed empiriocriticismo, Lenin lo dimostra facendo riferimento a diversi noti filosofi idealisti. Egli parafrasa il vescovo George Berkeley del XVII secolo:

Il mondo non si presenta come una mia rappresentazione, ma come l’effetto di una causa spirituale suprema, creatrice sia delle ‘leggi della natura’, che delle leggi della distinzione tra idee ‘più reali’ e idee meno reali, ecc.” [20]

Oppure prendiamo Johann Gottlieb Fichte (1762-1814):

Non sforzarti d’uscire fuori di te stesso per abbracciare qualcosa in maniera diversa da quella con cui puoi farlo, e cioè come coscienza e cosa, come cosa e coscienza; o più precisamente: come nessuna delle due, ma come la cosa che solo a posteriori viene scomposta nell’una e nell’altra, in ciò che è assolutamente soggettivo-oggettivo e oggettivo-soggettivo.” [21]

Qui, Bogdanov (un rivoluzionario russo che fu sviato da idee idealiste, 1873-1928) afferma:

Il carattere obiettivo del mondo fisico consiste nel fatto che esso esiste non solo per me individualmente, ma per tutti o che esso, secondo la mia convinzione, ha per tutti lo stesso significato determinato che ha per me (…) In generale, il mondo fisico è l’esperienza socialmente coordinata, socialmente armonizzata, in una parola, l’esperienza socialmente organizzata.” [22]

Lenin commentò seccamente: “Non è che un sofisma della più bassa lega.” [23]

Lenin sottolinea anche le conseguenze di questo punto di vista filosofico. Se pensieri e realtà sono effettivamente gli stessi e sono solo costruiti dagli esseri umani, non possiamo distinguere tra idee corrette (che aumentano la nostra comprensione del mondo reale) e idee sbagliate (che descrivono il mondo in modo distorto e non corretto) – è impossibile dire cosa ci aiuta a capire e cambiare il mondo, e cosa sia fantasia o una vera sciocchezza: la religione è vera quanto la fisica, il mostro volante di spaghetti reale quanto la forza di gravità.

Se la verità non è che una forma organizzatrice dell’esperienza umana, vuol dire che anche la dottrina cattolica, per esempio, è una verità. È infatti fuori di ogni dubbio che il cattolicesimo è ‘una forma organizzatrice dell’esperienza umana’.” [24]

Come ulteriore conseguenza, ciò vuol dire anche che noi non possiamo mettere in discussione la realtà soggettiva di nessuno, che tutti hanno ragione secondo se stessi (nel regno della “realtà discorsiva”). Chi può provare che le donne non siano inferiori agli uomini? Perché non dovrebbe essere vero che la povertà sia il risultato di indolenza e fallimento personale? Perché, durante una lotta di lavoratori, un crumiro non dovrebbe avere ragione? Il fatto che l’idealismo soggettivo consideri valida qualsiasi opinione dimostra quanto sia reazionario il suo ruolo nella pratica.

L’affermazione della teoria queer e dell’idealismo soggettivo secondo cui l’intero mondo sarebbe un costrutto sociale contraddice la nostra esperienza quotidiana, in cui i sessi sono reali – come la riproduzione sessuale dimostra quotidianamente – e in cui, inoltre, il mondo fisico prosegue nei propri affari giornalieri indipendentemente dal nostro linguaggio. Nonostante questo, per alcuni, la teoria queer è uno strumento utile con cui percepire il mondo.

Società di classe, oppressione e cultura

La teoria queer riporta l’attenzione su un aspetto del genere che non può essere spiegato da una rigida definizione biologica: nella nostra società, noi siamo costretti in e socializzati in ruoli di genere. Non c’è una spiegazione biologica del perché il rosa debba essere femmina e il blu maschio; perché le bambine debbano giocare con le bambole mentre i bambini con i Lego; e così via. Dalla tenera età, ci viene detto che le donne sono emotive e irrazionali, che non capiscono nulla di matematica e che non dovrebbero immischiarsi in politica, ecc. Tutto questo dimostra che i generi adempiono a funzioni che non sono solo quelle biologiche, e che sono incastonati profondamente nella cultura della nostra società.

Tuttavia, la cultura stessa non è un fenomeno arbitrario e accidentale, ma emerge dal fondamento materiale di una società e dall’interazione degli umani con la natura:

Nell’adattarsi alla natura, nella lotta contro forze ostili, la società umana si evolve in una complessa organizzazione di classi. È la struttura di classe della società che determina nel modo più decisivo il contenuto e la forma della storia umana, ossia le relazioni materiali e i riflessi ideologici. Dicendo questo, noi diciamo anche che la cultura storica ha un carattere di classe.” [25]

Per la maggior parte della nostra esistenza, gli esseri umani non hanno vissuto in società di classe. Questo perché l’esistenza di società di classe richiede un surplus di prodotto, qualcosa con cui una classe possa arricchirsi a spese di un’altra. Nelle società in cui ciò non succedeva (Engels vi si riferiva come a un “comunismo primitivo”), non esisteva nemmeno l’oppressione delle donne. Tuttavia, vi era una certa divisione del lavoro tra i sessi (dovuta a gravidanza e parto), anche se probabilmente questa divisione non era assoluta e rigida.

La divisione del lavoro, tuttavia, non comportava il fatto che le donne fossero ritenute inferiori agli uomini, al contrario. Essendo coloro che assicurano la riproduzione della nostra specie, erano grandemente rispettate. Solamente quando gli uomini, nella propria lotta con la natura, scoprirono modi di creare un surplus di prodotto, il che a sua volta portò alla nascita della proprietà privata, la divisione del lavoro causò l’oppressione delle donne. Per dirla con Engels, questo fu la base per “la sconfitta storica mondiale del sesso femminile” – ossia un evento storico, non “biologico”. Ciò significa che, anche se l’oppressione delle donne ha un fondamento biologico, non è una ferrea legge naturale. L’oppressione delle donne ha affondato per migliaia di anni le sue radici nella nostra società e può assumere molte forme che non sono direttamente legate al fatto che le donne partoriscono e che a loro volta si sono adattate al rispettivo sistema dominante.

L’oppressione è radicata nella società di classe e si esprime differentemente nelle circostanze storiche concrete. I ruoli di genere, così come i nostri rapporti con la sessualità, sono cambiati molte volte nel corso della storia umana. Essi cambiano a seconda delle condizioni prevalenti. Esempi possono essere la pederastia nell’antica Grecia, invece dell’odierna omosessualità, o la definizione di un terzo genere in alcune culture, come i Muxe del popolo zapoteca. Inoltre, uomini e donne si sono visti assegnare attributi differenti nel corso del tempo, basti confrontare gli ideali di bellezza femminile del Rinascimento con le supermodelle di oggi.

L’oppressione delle donne sotto il capitalismo conta sui ruoli di genere affinché mantengano intatta l’unità economica della “famiglia”, con tutti i compiti distribuiti al suo interno, come un importante pilastro del capitalismo. All’interno della famiglia, sono soprattutto le donne ad avere il compito delle faccende domestiche, dell’educazione dei figli e della cura degli anziani. L’immagine delle donne come coloro che forniscono supporto emotivo e maternità viene attentamente coltivata. Nel mercato del lavoro, in generale, le donne sono pagate di meno, e, se vi è un eccesso di lavoro, le donne sono le prime a essere rimandate a casa. Nonostante le coppie omosessuali siano sempre più riconosciute in un numero crescente di paesi, questo va di pari passo con la loro subordinazione al ruolo della famiglia, incluse tutte le sue responsabilità. I ruoli di genere, dunque, non sono solamente fantasie culturali derivate dal mondo delle idee, ma sgorgano dalla base materiale di una società di classe – che è costruita sullo sfruttamento e sull’oppressione – così come da fattori biologici.

L’oppressione, che pure fa parte della società di classe capitalista, si insinua profondamente nelle nostre vite e include la degradazione delle donne a oggetti sessuali e la loro sottomissione alla violenza domestica. Vi è una vera e propria pressione a muoversi nella società come uomini e donne eterosessuali. La violenza e la discriminazione contro le persone gay e transgender dilagano, nonostante le numerose campagne liberali per i diritti LGBT. La battaglia di una persona trans che sceglie di sottoporsi alla terapia ormonale o a un cambio di sesso dura anni e in molti casi è insostenibile. La discriminazione nel settore abitativo, nei luoghi di lavoro e anche semplicemente nel muoversi in spazi pubblici continua ad esistere.

Tutti questi aspetti di discriminazione e oppressione creano un’enorme rabbia e il desiderio di fuggire da questo incubo. La comprensione dell’origine dell’oppressione delle donne, e di che cosa stia dietro alla discriminazione contro le cosiddette sessualità “devianti”, è di importanza vitale se si vuole trovare un modo per porvi fine. Senza una comprensione delle radici materiali dell’oppressione delle donne, della discriminazione della sessualità e dei ruoli di genere, idee quali la teoria queer (che si concentrano interamente sula cultura, sull’educazione e sull’opinione pubblica) diventano inevitabilmente popolari. Mediante l’osservazione del cambiamento dei ruoli di genere nel tempo, si è tentati di arrivare alla conclusione che non vi siano sessi biologici “veri e propri” dietro questi aspetti culturali.

Materialismo, scienza e sesso

L’idea che i sessi siano dei costrutti è rafforzata dal fatto che la scienza, sotto il capitalismo, non è libera dagli interessi dalla classe dominante. Di conseguenza, neppure la scienza assume una posizione neutrale sulla questione sesso/genere. Non dobbiamo dimenticarci che l’Organizzazione mondiale della sanità ha classificato l’omosessualità come una malattia fino al 1992.

L’ordinaria, naturale comprensione scientifica del sesso è particolarmente astratta e rigida (nel suo Anti-Duhring, Engels chiama questo modo di pensare “modalità metafisica di pensiero”). Se noi individuiamo il sesso meramente sulla base di cromosomi XX (femmina) e XY (maschio), chiunque potrebbe giustamente obiettare che vi sono persone con cromosomi chiaramente XX o XY, ma con livelli ormonali atipici, come è dimostrato dal trattamento scandaloso dell’atleta Caster Semenya, che sta lottando contro l’obbligo che le è stato imposto di assumere medicine ormonali per compensare il suo “ingiusto” vantaggio di testosterone. Se noi definiamo le donne solamente in base alla capacità di partorire figli, allora le donne sterili non sono vere donne? Se i sessi esistono per assicurare la riproduzione sessuale, allora perché esiste l’omosessualità? E come possiamo capire le donne trans che hanno organi riproduttivi maschili, ma che si identificano come donne? È in questa “area grigia”, nelle lacune di un materialismo metafisico e meccanico, che la teoria queer si aggancia al dibattito.

I marxisti ammettono l’esistenza dei sessi che permettono la riproduzione, ma ciò non vuol dire che vi siano solo uomini e donne / Immagine: Flickr, Eric Parker



Tuttavia, il problema delle definizioni assolute e rigide delle cose non è posto solo in relazione ai sessi. Le stesse domande possono essere fatte anche in relazione a qualunque termine usiamo. Prendiamo, per esempio, la parola “casa”. Una casa è un edificio che fornisce un tetto sopra la testa di un individuo, un edificio in cui si può entrare e vivere. Ma una casa senza un tetto non è più una casa? Quanti buchi deve avere un tetto prima di non essere più un tetto? A che punto del decadimento una casa diventa una rovina – e a che punto una casa diventa un castello?

Qui possiamo osservare che il materialismo metafisico, con la sua rigidità e la sua pretesa di immutabilità, conduce necessariamente a delle contraddizioni, a cui la teoria queer si attacca. Nessuno normalmente penserebbe di negare l’esistenza delle case – dopotutto, abbiamo intere città fatte di case. Secondo la logica della teoria queer, però, la risposta sarebbe che non vi sono case, dal momento che non vi è una perfetta definizione di casa che copra ogni singolo caso con esattezza. Le case sarebbero semplicemente costrutti culturali, che sono “iscritti” su oggetti casuali.

Il modo di pensiero metafisico che domina le scienze naturali e il sistema educativo non può spiegare la relazione tra l’individuale e l’universale. La dialettica marxista, tuttavia, vede una connessione necessaria tra l’individuale (per esempio, un uomo sterile) e l’universale (gli uomini). L’universale esiste solo tramite la propria espressione concreta: non esiste una casa “eterna, completa” nel mondo delle idee, ma solo tutte le case esistenti in questo mondo. Lenin lo descrive come segue:

Cominciare dal più semplice, abituale, diffuso, ecc., da una proposizione qualsiasi: le foglie dell’albero sono verdi; Ivan è un uomo; Zucka è un cane, ecc. Già qui (come ha osservato genialmente Hegel) c’è la dialettica: l’individuale è universale (cfr Aristotele, La Metafisica, ‘perché naturalmente un individuo non può essere dell’opinione che vi possa essere una casa [una casa in generale] eccetto tutte le case visibili’). Gli opposti (l’individuale è l’opposto dell’universale) sono quindi identici: l’individuale non esiste altrimenti se non nella connessione che lo congiunge con l’universale. L’universale esiste soltanto nell’individuale, attraverso l’individuale. Ogni individuale è (in un modo o nell’altro) universale. Ogni universale è (una particella o un lato o l’essenza) dell’individuale. Ogni universale abbraccia solo approssimativamente tutti gli oggetti individuali. Ogni individuale entra in modo incompleto nell’universale, ecc., ecc. (…) perché nel dire: Ivan è un uomo, Zucka è un cane, questa è una foglia d’albero, ecc., tralasciamo come accidentali una serie di tratti, separiamo l’essenziale dall’apparente e opponiamo l’uno all’altro.” [26]

La ricerca di una definizione immutabile e assoluta è senza speranza, poiché il mondo in cui viviamo è in costante cambiamento. Le nostre analisi e i nostri termini sono un’approssimazione della realtà, essi descrivono determinati aspetti della realtà oggettiva. Un materialismo rigido e astratto (o “metafisico”), dall’altro lato, cerca di forzare le nostre definizioni sul mondo a qualsiasi costo, ed esige che il mondo si attenga a esse. La teoria queer, tuttavia, prende le rigide, immutabili definizioni del materialismo meccanico per quello che sono e afferma che il mondo materiale stesso è rigido e immutabile – e così getta via l’intero mondo materiale, inclusi i sessi, dichiarandoli privi di valore.

Nel criticare una filosofia grossolana, la teoria queer finisce all’altro estremo e ne adotta una speculare. Nessun fenomeno coincide direttamente con le categorie generali mediante le quali lo conosciamo. Nessun uomo o donna rientra perfettamente nella categoria universale mediante la quale li conosciamo. Ciò nonostante, uomini e donne esistono. La natura si esprime in modelli che noi, in qualità di umani, possiamo imparare a riconoscere. Le nostre idee di uomo o di donna, spogliati da tutti gli attributi inessenziali e accidentali, sono fondamentali per la nostra comprensione di qualsiasi uomo o donna individuali. I teorici queer, come i loro fratelli postmodernisti, tuttavia, negano l’esistenza in natura di qualsiasi categoria o modello. Invece di comprendere la relazione dialettica tra l’individuale e l’universale, essi rinunciano all’universale ed elevano l’individuale e accidentale a livello di principio.

Così, invece di esplorare la relazione tra la base materiale (la biologia, ma anche la riproduzione sociale degli esseri umani in una società di classe oppressiva) e la cultura, la teoria queer dichiara che la questione non esiste. Essa, così, rende assoluto un aspetto della realtà e degenera in una “teoria” che non riesce a spiegare da dove provengano i ruoli di genere e l’oppressione e come possiamo superarli – in poche parole, in un idealismo soggettivo. Lenin ha chiaramente descritto questa assolutizzazione di una verità parziale:

L’idealismo filosofico è soltanto assurdità dal punto di vista del materialismo rozzo, elementare, metafisico. Viceversa, dal punto di vista del materialismo dialettico, l’idealismo filosofico è lo sviluppo (la dilatazione, il rigonfiamento) unilaterale, esagerato, uberschwengliches di uno dei tratti, lati, limiti della conoscenza in un assoluto, avulso dalla materia, dalla natura, divinizzato. L’idealismo è pretismo. Esatto. Ma l’idealismo filosofico è (…) la via verso il pretismo attraverso una delle sfumature della conoscenza (dialettica) infinitamente complessa dell’uomo. La conoscenza umana non è (respective non segue) una linea retta, ma una curva, che si approssima infinitamente ad una serie di circoli, a una spirale. Ogni segmento, frammento, tratto di questa curva può essere tramutato (unilateralmente) in una linea retta a sé stante, indipendente, che (…) conduce alla palude, al pretismo (dove viene ancorata dall’interesse di classe delle classe dominanti). Il carattere rettilineo e unilaterale, l’irrigidimento e l’ossificazione, il soggettivismo e la cecità soggettiva: voilà le radici gnoseologiche dell’idealismo. (…) [L’idealismo filosofico] è, senza dubbio, un fiore sterile, ma un fiore sterile che cresce sull’albero vivo della vivente, feconda, vera, possente, onnipotente, oggettiva, assoluta conoscenza umana.” [27]

Affermando che i sessi e il desiderio sessuale sono costrutti, la teoria queer rimane impigliata in una contraddizione. Questo perché la domanda logica successiva è: perché le categorie attraverso le quali gli esseri umani sono stati separati e oppressi sono proprio quelle di maschio e femmina? A questo punto la teoria queer divaga in speculazioni psicoanalitiche e antropologiche, secondo cui, a seconda dei casi, sono stati la “legge” del tabù dell’incesto, il linguaggio, il complesso di Edipo e l’invidia del pene o la permanente influenza dello scambio delle donne nelle società storiche, le cause che hanno creato i generi e la “eterosessualità forzata”. [28] Come l’etero e l’omosessualità possano esistere nel regno animale, che non conosce il linguaggio, e come le società senza il tabù dell’incesto siano riuscite a riprodursi sono solo due dei tanti misteri irrisolti da queste argomentazioni. Messa davanti alla realtà, la teoria queer è incapace di spiegarla e sbatte contro un muro. Come risposta alla domanda “perché proprio uomini e donne?”, Butler infine scrive:

Abbiamo già considerato il tabù dell’incesto e il precedente tabù contro l’omosessualità come i momenti generativi dell’identità di genere, le proibizioni che producono l’identità insieme alla rete culturalmente comprensibile di un’eterosessualità idealizzata e forzata. Quella produzione disciplinare del genere attua una falsa stabilizzazione di quest’ultimo negli interessi di una costruzione e regolamentazione eterosessuali della sessualità nell’ambito della riproduzione.” [29]

E dopo tutti i libri e i testi che ci hanno spiegato con parole oscure che i sessi sono entità fittizie, un costrutto culturale, quasi vergognandosene e in modo ben nascosto, la natura si fa strada a forza: è la riproduzione sessuale che determina il genere.

I marxisti riconoscono l’esistenza dei sessi, e che questi sessi permettono la riproduzione degli esseri umani. In generale, alla gran parte degli esseri umani può essere assegnato il sesso maschile o femminile. Nella dialettica, abbiamo quello che è chiamato “salto di qualità”, un momento in cui il graduale cambiamento di quantità diventa una qualità nuova (un esempio frequente è quello dell’acqua bollente che, dopo una crescita “quantitativa” di calore, diventa vapore). Allo stesso modo con gli esseri umani, vi è un certo numero di fattori che, sommati, ci permettono di affermare con chiarezza che una persona è maschio o femmina.

Tuttavia, questo non significa che vi siano solo uomini e donne. Esiste anche l’intersessualità. E ci sono anche persone trans che hanno un’identità di genere che non corrisponde ai loro organi riproduttivi, e persone non-binarie che non sono né maschio né femmina. Sarebbe assurdo accusarle di avere una “coscienza sbagliata” perché la loro identità non corrisponde agli organi riproduttivi. L’identità di una persona è un fenomeno molto complesso, costituito da una combinazione di fattori biologici, psicologici e sociali, che in ultima analisi possono essere tutti spiegati materialmente. Ma il fatto che la nostra coscienza, il cervello umano, non siano ancora stati esplorati abbastanza da capire quali fattori e in che misura creano la nostra identità del genere, non ci dà ragione alcuna di dichiararli una “finzione puramente culturale” che non è connessa al nostro corpo.

Al contrario, questa raffigurazione dell’identità come di un costrutto sociale sminuisce i problemi molto concreti di molte persone trans nella loro lotta per avere accesso alla chirurgia di transizione sessuale o alla terapia ormonale. Anche richieste molto pratiche, come il diritto all’aborto per le donne, a prodotti di igiene gratuiti o a una medicina specifica per il genere (ginecologia) non possono essere messe in discussione.

Il potente discorso sul potere

Se noi diamo per scontato, come fa la teoria queer, che i sessi e la sessualità sono costrutti culturali, dobbiamo chiedere: come è venuto in essere questo costrutto, e perché?

Judith Butler prende in giro Friedrich Engels e le “femministe socialiste” che tentano di “trovare momenti in cui le strutture nel corso della storia della cultura hanno costituito la gerarchia di genere”. Butler stessa ritiene che le società del passato in cui non vi era oppressione delle donne siano “tesi auto-reificanti”. [30] Il fatto che sia stato provato che tali società siano effettivamente esistite dimostra solamente la sua ignoranza della realtà e il suo rifiuto della storia.

Nonostante la spiegazione marxista sia troppo “riduttiva” agli occhi della teoria queer, essa presenta altre spiegazioni per la “costruzione” dell’oppressione in seno alla società, che si ritiene provenga dalle relazioni di potere stratificate, sfaccettate e complesse e dalle strutture sociali.

Il concetto di potere difeso dalla teoria queer è preso in prestito dal filosofo francese Michel Foucault (1926-1984), che nei circoli accademici è visto a volte come il successore o “potenziatore” di quello che essi chiamano il “marxismo ortodosso”. Allievo di Louis Althusser, egli si mosse per un po’ di tempo intorno al Partito comunista francese (Pcf) e ne fu un membro (non attivo) dal 1951-1952, senza aver mai studiato il marxismo (come egli stesso ammette). [31]

Nel corso degli eventi rivoluzionari del maggio ’68, mentre si svolgevano enormi proteste studentesche, Foucault insegnava in un’università in Tunisia. Egli ritenne suo compito insegnare “qualcosa di nuovo” agli studenti, che, secondo lui, erano fortemente influenzati dal marxismo.

Lo storico tradimento dello sciopero generale e dei movimenti di massa in Francia da parte della dirigenza del Pcf e la rivoluzione mancata sono considerati da Foucault colpa di un “iper-marxismo” nel paese in quell’epoca. Egli classifica questo periodo di intensa lotta di classe come un gioco di linguaggio, una ricerca di vocabolario:

Pensando a quel periodo, io direi che ciò che stava per succedere sicuramente non aveva una vera e propria teoria sua, un suo vocabolario […] Cioè, riflettere sullo stalinismo, sulle politiche dell’Urss, o sull’oscillazione del Pcf in termini critici, evitando nel mentre il linguaggio della destra, era un’operazione complessa che creò difficoltà.” [32]

Nonostante il suo ruolo controproducente nel movimento vero e proprio, e nonostante il fatto che Foucault abbia sviluppato il proprio pensiero in consapevole contrasto con il marxismo, è diffusa nei circoli universitari l’idea che egli avesse affinità con il marxismo e che le sue idee siano progressive e un buon punto di connessione per la resistenza.

Per la teoria queer, il lavoro più importante di Foucault fu Storia della sessualità (1976), in cui egli tenta di tracciare la storia del discorso sulla sessualità nella storia moderna e in cui la sua concezione del potere ha un ruolo centrale. Secondo Foucault (e la teoria queer), il potere permea tutte le sfere della vita e si esprime in coppie di opposti: vecchio-giovane, uomo-donna, omo-etero, ecc. Ciò è spesso descritto come l’ossessione occidentale con il binarietà (coppie di opposti), che fu “inventata” dalla filosofia occidentale.

La nozione di “potere” avanzata da Michel Foucault, è un principio cardine della teoria queer /Immagine: Flickr, Thierry Ehrmann.

Il “potere”, secondo questa concezione, ha interesse a mantenere un sistema giudiziario ingiusto, il discorso medico-scientifico su uomo e donna, la religione, così come dei sistemi di educazione repressivi. Esso forma gli interessi di classe dei governanti, la volontà maschile di oppressione patriarcale, oltre che l’oppressione di Stato. Esso ha creato anche le norme e le proibizioni relative alle pratiche sessuali.

Il potere giuridico va riconcettualizzato quale costruzione prodotta da un potere generativo che a sua volta occulta i meccanismi della sua stessa produttività”, sostiene Butler. [33] Dunque: il potere produce potere e poi nasconde il fatto che è stato prodotto dal potere.

Ma il potere è ancora più potente: produce non solo oppressione, ma anche resistenza. Oppressione e resistenza sono un’ulteriore coppia binaria di opposti, proprio come “vecchio-giovane” o “donna-uomo”, costruita dal discorso. Il potere produce il discorso sulla ribellione, la finzione che qualcosa possa essere fatto contro gli oppressori, l’illusione che vi possa essere un mondo senza potere. In base a questa logica, Foucault si spinge addirittura ad “analizzare” la dissoluzione delle monarchie assolute tramite le rivoluzioni borghesi come un prodotto di un discorso del potere sulla giustizia:

“Queste grandi forme del potere funzionavano come un principio di diritto […] tale era il linguaggio del potere, la rappresentazione che dava di se stesso… Nelle società occidentali, fin dal Medio Evo, l’esercizio del potere è sempre stato formulato in termini di legge. Una tradizione risalente al secolo XVIII o XIX ci ha abituati a collocare il potere monarchico assoluto dalla parte dell’illegittimo.” [34]

Quanto è ridicola e riduttiva l’analisi materialista marxista secondo cui fu la nascita del modo di produzione capitalista a rovesciare il vecchio ordine feudale! No, è stata la “tradizione” a portarci improvvisamente a credere che la monarchia fosse ingiusta e a rovesciarla! Questo è il risultato di una teoria che vede la storia come una costruzione di discorsi.

All’interno di questo ciclo di potere auto-referenziale, tuttavia, nessuno dei testi queer ci fornisce una spiegazione coerente di cosa sia effettivamente il potere. Nella primissima frase delle sue lezioni sul potere, Foucault afferma: “L’analisi dei meccanismi del potere non è una teoria generale di cosa sia il potere.” [35]

Per dare al lettore un’idea di come Foucault tenti di comprendere il Potere, passeremo la parola all’autore stesso, scusandoci per la lunghezza della citazione:

Mi sembra che il potere debba essere compreso, per prima cosa, come una molteplicità di relazioni di forza immanenti nella sfera in cui operano e che costituiscono la propria organizzazione; come il processo che, tramite incessanti lotte e confronti, li trasforma, rafforza o rovescia; come il supporto che queste relazioni di forza trovano l’una nell’altra, formando così una catena o un sistema, o al contrario, le disgiunzioni e le contraddizioni che le isolano l’una dall’altra; e, infine, come le strategia mediante le quali producono effetto, il cui grande piano o la cristallizzazione istituzionale è incarnata nell’apparato statale, nella formulazione della legge, nelle varie egemonie sociali. La condizione di possibilità del potere […] non deve essere ricercata nell’esistenza primaria di un punto centrale, in un’unica sorgente di sovranità […] è il sostrato mobile delle relazioni di forza che, in virtù della loro diseguaglianza, costantemente genera stati di potere, ma questi ultimi sono sempre locali e instabili. L’onnipresenza del potere: […] perché esso è prodotto da un momento all’altro, a ogni punto, o, piuttosto, in ogni relazione da un punto all’altro. Il potere è ovunque; non perché esso abbraccia tutto, ma perché esso proviene da ogni dove. […] Il potere non è un’istituzione, e non è una struttura; né è una certa forza che ci è donata; esso è il nome che si attribuisce a una situazione strategicamente complessa in una data società.” [36]

Amen!

Non deve sorprendere che Foucault abbia scritto Storia della sessualità sotto gli effetti dell’LSD. Engels una volta scrisse che gli scienziati, quando non riescono a capire un fenomeno, tendono a inventare una nuova “forza” che serva da spiegazione:

[P]er risparmiarci il compito di indagare la vera causa di una trasformazione prodotta da una funzione del nostro organismo, introduciamo una causa fittizia, una cosiddetta forza corrispondente alla trasformazione. Trasferiamo poi questo comodo procedimento anche al mondo esterno ed inventiamo così tante forze quanti sono i fenomeni.” [37]

È una descrizione molto precisa di quello che il “potere” e le “relazioni di forza” sono per Foucault e per la teoria queer. Il potere è l’entità globale e quasi divina che descrive tutto, che in un momento crea discorsi e in quello dopo è esso stesso prodotto di discorsi. È lo spirito omnipervasivo e ineludibile che ci lega per sempre – dopo tutto, anche noi siamo creazioni del potere! L’assurdità di questo volo di fantasia sul potere mostra come l’idealismo, per quanto possa apparire moderno, in ultima istanza conduce sempre all’oscurantismo religioso, come disse Lenin. Alla fine qualcosa che è tutto, un Essere libero dalle contraddizioni e dalla resistenza, che è sempre stato, alla fine è… nulla.

La teoria queer si spinge oltre nella questione degli opposti “binari”, che considera il problema principale da risolvere. I binari, tuttavia, (od opposti, come li chiamerebbero i marxisti) sono intrinsecamente parte della natura. Il filosofo greco Eraclito scrisse che “vi è armonia nel conflitto, come nell’arco e nella lira”. Caldo e freddo, attrazione e repulsione; nord e sud, correnti positive e negative, così come maschio e femmina, sono tutti esempi della compenetrazione e dell’unità degli opposti, che è la base di ogni cambiamento in natura, e il cambiamento è il modo di esistenza in natura. Aspettare che maschio e femmina spariscano da soli è come sperare che sparisca il polo sud, o l’aria fredda. Ironicamente, gli stessi teorici queer sembrano dimenticarsi che sperare che i binari non esistano è in sé un “opposto binario” dello stato di cose binario esistente.

La resistenza è inutile!

Rimanendo nell’habitat naturale della teoria queer, ossia nel mondo della produzione accademica, questo dibattito non sembra che un fremito intellettuale in cui si passano avanti e indietro citazioni filosofiche. Tuttavia, come abbiamo scritto all’inizio, le premesse filosofiche portano anche a determinate conclusioni pratiche.

L’onnipresenza del potere nella teoria queer significa che non possiamo mai eluderlo, che ogni resistenza è solo un’espressione del potere stesso e, in fin dei conti, è funzionale a conservare la stabilità. Ecco spiegato il motivo della citazione relativamente famosa di Foucault secondo cui la resistenza “non è mai in una posizione di esteriorità nei confronti del potere” e, quindi, esistono solo resistenze “possibili, necessarie, spontanee, selvagge, solitarie, concertate, incontrollate o violente… inclini al compromesso, interessate o sacrificali.” [38]

Opinioni e pratiche recenti intorno al “queer” mettono in discussione la fiducia nella possibilità di un cambiamento sociale a lungo termine o, in generale, dell’emancipazione.” [39]

Questo pessimismo assoluto nei confronti dei movimenti sociali, la convinzione che ogni resistenza sia automaticamente destinata a fallire, dimostra quanto poco questi filosofi comprendessero i movimenti rivoluzionari degli anni ’60 e ’70 e le ragioni del loro fallimento. Essi sono lo specchio della disperazione dell’impasse femminista, della piccola borghesia che non ha fiducia nella classe lavoratrice (ammesso che creda alla sua esistenza). Invece di comprendere e criticare il ruolo della direzione delle organizzazioni di massa, essi cercano nuovi tipi di “resistenza”, senza una chiara idea di contro chi o cosa questa resistenza debba essere diretta, e di quali metodi debbano essere utilizzati. La possibilità di un rovesciamento del sistema dominante appare irrealizzabile e impossibile.

La teoria queer, di conseguenza, suggerisce una pratica che fa sembrare radicale anche il più mite riformismo. Essa si ritira completamente nel campo della cultura e del linguaggio. Vi dovrebbero essere nuovi “termini” per l’identità, una “nuova grammatica” dovrebbe essere sviluppata e si dovrebbe definire una “nuova etica” (Gayle Rubins). Per esempio, per “rivelare” l’illusione dei sessi, Butler suggerisce di fare il verso alle identità di genere mediante “pratiche culturali del drag, cross-dressing e la stilizzazione sessuale delle identità butch/femme”. [40] Si tratta dell’unico suggerimento pratico nell’intero libro Questioni di genere! Così Nancy Fraser, sollevata, spiega:

La buona notizia è che non abbiamo bisogno di rovesciare il capitalismo per rimediare [agli svantaggi economici dei gay] – anche se forse dovremmo rovesciarlo per altre ragioni. La cattiva notizia è che dobbiamo trasformare l’ordine delle cose attuale e riorganizzare le relazioni di individuazione.” [41]

Si legga: dobbiamo migliorare l’immagine dell’omosessualità. Fraser, che è, in confronto, molto più incline al pragmatismo, non nasconde il proprio riformismo: per fortuna non deve rovesciare il capitalismo! Deve solo cambiare il modo in cui la società vede l’omosessualità! Non è una sorpresa che la teoria queer sia stata volontariamente ripresa da alcuni riformisti all’interno delle organizzazioni dei lavoratori per evitare la responsabilità di condurre un’effettiva lotta contro la discriminazione con scioperi, proteste di massa, in poche parole con i metodi della lotta di classe, e invece focalizzarsi su riforme del linguaggio, quote, spazi culturali liberi e strisce pedonali arcobaleno.

Nel trascurare la questione di classe, la teoria queer non solo è uno strumento utile nelle mani dei burocrati all’interno delle organizzazioni dei lavoratori, ma serve anche come giustificazione ideologica per una parte delle forze borghesi e capitaliste, che così possono presentarsi come LGBT-friendly e dare un’idea liberale e progressista di se stesse. Multinazionali come Apple e Coca-Cola, che sfruttano decine di migliaia di persone in condizioni lavorative orribili, sostengono campagne LGBT nelle proprie aziende o finanziano carri che distribuiscono alcolici gratis alle manifestazioni commerciali del Pride. Per finanziare la produzione di idee apparentemente radicali, ma che (per la classe dominante) sono di fatto innocue, migliaia di euro vengono spesi per cattedre di studi di genere, per dipartimenti e borse di studio queer, mentre media ed editori della sinistra liberale pubblicano articoli e romanzi benevoli.

Molti attivisti queer sono consapevoli di queste tendenze e sono chiaramente contrari alla cooptazione della loro resistenza da parte del sistema dominante. Tuttavia, la teoria queer non offre le idee necessarie a combattere quest’usurpazione della classe dominante; al contrario, essa è parte dell’ideologia dominante che individualizza e maschera lo sfruttamento e l’oppressione, spaccando nel mentre l’unità della lotta contro il sistema, proprio perché l’idea di una lotta unitaria è estranea alla teoria queer.

Nonostante la propria origine come critica alle politiche identitarie tradizionali degli anni ’70 e ’80, con la loro mentalità da circolo ristretto e gli scontri interni, la teoria queer non è riuscita a superare proprio questo tipo di politiche identitarie. Dal momento che noi non possiamo sfuggire all’onnipresenza del potere nella società, è pure impossibile sfuggire alle identità, anche se queste sono considerate fittizie.

Poiché le identificazioni “sono, all’interno del campo di potere della sessualità, inevitabili”, [42] e noi possiamo, nella migliore delle ipotesi, sperare di “prendere in giro” queste identità, la teoria queer, cominciata come critica alle politiche identitarie, finisce esattamente dove ha cominciato: con le politiche identitarie. In pratica, il vecchio bisticcio su chi può rappresentare chi, continua imperterrito, proprio come nei circoli femministi radicali (e contro di essi). Butler afferma giustamente: “Ovviamente il compito politico del femminismo non consiste nel rifiutare la politica rappresentativa, sempre che lo si possa fare.” [43]

Qualsiasi forma di azione collettiva e lotta unitaria di tutti gli oppressi diventa una battaglia, dal momento che “unità” e “rappresentazione” automaticamente portano all’esclusione e all’oppressione violenta: “l’unità può essere ottenuta solo tramite un’asportazione violenta.” [44]

Questo porta a un’individualizzazione di coloro che si oppongono al sistema oppressivo sotto il quale viviamo. Per esempio, la femminista queer Franziska Haug lamenta che “l’identità dell’individuo – origini, cultura, genere ecc. – diventa il punto cruciale della faccenda” nei dibattiti queer-femministi, e che “il diritto di parlare e combattere viene deciso a seconda dell’identità di colui che parla.” [45] Vi è concorrenza su chi sia il più oppresso e, dunque, abbia il diritto di parola, e a chi non ci si possa opporre. Contro argomentazioni indesiderate sentiamo spesso accuse come “tu, essendo un uomo bianco/donna cisgender/persona trans bianca, non hai il diritto di non essere d’accordo con me, o rifiutare il mio punto di vista soggettivo.”

Mentre si cerca di non escludere nessuno con “generalizzazioni violente”, viene creato un numero infinito di identità che dovrebbero coprire tutte le combinazioni immaginabili di preferenze sessuali, sentimentali, di genere e di altro tipo e che sono applicate in un certo numero di cerchie queer. Invece di una lotta unita di tutti coloro che vogliono combattere il sistema, questa logica spesso porta al mobbing e all’esclusione all’interno di gruppi diversi. Una femminista queer ne fornisce un resoconto dettagliato nel suo articolo “Solidarietà femminista secondo la teoria queer”, che pare quasi un disperato diario intimo:

Nonostante i miei dubbi sul termine ‘bisessuale’, questo descrittore è quasi una casa per me, perché da ogni altra parte mi sento peggio. Sia gli spazi eterosessuali che quelli lesbici offrono una certa sicurezza alle donne, e io sono spesso stata esclusa da entrambi. Mi è anche stato detto che devo cambiare per calzare in questi spazi – accettando o la mia vera eterosessualità o la mia vera omosessualità – e ho sentito a momenti sia la verità che, a volte, l’ipocrisia e l’accondiscendenza di queste richieste […] È sia necessario che disturbante cercare una casa come persona caratterizzata da un genere o un sesso: necessario perché la comunità, il riconoscimento e la stabilità sono essenziali per la crescita umana e la resistenza politica, e disturbante perché proprio quelle pratiche spesso si solidificano in ideologie politiche e gruppi di formazione che sono esclusivi ed egemonici.” [46]

In queste parole possiamo percepire la miseria creata dalle pressioni e dall’oppressione proprie del capitalismo e le conseguenze sulla nostra psiche e sulla nostra autostima. Ma ciò dimostra anche l’impasse in cui si trovano le politiche di genere. Nonostante il testo si dia l’obiettivo di trovare una forma di solidarietà tra tutte le femministe, esso non può immaginare un’unità che non sia basata sull’identità. In pratica, la politica di identità porta a una spaccatura nel movimento. Per esempio, a Vienna vi sono da anni due marce separate nella giornata delle donne l’8 marzo: una delle femministe radicali (cui possono partecipare solo donne e, in un solo spezzone, le persone LGBT) e una degli attivisti queer (a cui, inizialmente, non potevano partecipare gli uomini cisgender, ma, dal 2019, partecipano tutti coloro che si ritengono femministi). Una manifestazione unitaria è stata ripetutamente rifiutata da entrambe le parti. Nel contesto dell’ascesa dei movimenti di massa sui diritti delle donne a livello globale, e del potenziale latente in Austria sotto un governo di destra, questo esempio dimostra il ruolo divisivo delle politiche identitarie.

È dunque naturale che molte persone, giovani in particolare, mettano in discussione norme consolidate nella società, quali la sessualità e i ruoli di genere. È sempre stato così e noi marxisti difendiamo il diritto di tutte le persone ad esprimersi e identificarsi in qualunque modo preferiscano. Il problema, tuttavia, sorge quando l’esperienza personale degli individui diventa base di una teoria, assurge al livello di un principio filosofico e viene generalizzata per il complesso della società e della natura. I teorici queer ci dicono che essere queer o non-binary è progressista e persino rivoluzionario, al contrario dell’essere binary (cioè, donna o uomo, cosa che la maggioranza dell’umanità effettivamente è), che è ritenuto reazionario. Tuttavia, qui è la teoria queer che mostra il proprio lato reazionario. Nonostante le chiacchiere radicali contro l’oppressione, la teoria queer si oppone a una lotta unitaria di classe e promuove l’atomizzazione degli individui sulla base di preferenze sessuali e personali, dividendo la classe lavoratrice in entità ancora più piccole. Nel frattempo, l’intero marcio edificio sfruttatore e oppressivo del capitalismo rimane in piedi.

Per l’unità della classe lavoratrice!

Per i marxisti, l’unità nella lotta non è basata né sulla cultura né sull’identità, e nemmeno è una questione morale. Al contrario, noi sottolineiamo la necessità dell’unità della classe lavoratrice in quanto unica forza che può porre fine allo sfruttamento e all’oppressione, dato il suo ruolo nel processo produttivo del capitalismo.

Fondamentalmente, la nostra società è definita dal modo in cui produciamo, perché la produzione del cibo, delle case, dell’energia – di tutto ciò di cui abbiamo bisogno per vivere – costituisce la base del modo in cui possiamo vivere. C’è abbastanza cibo per consentire lo sviluppo della scienza e della cultura al di là della mera sopravvivenza? Può la scienza sviluppare i nostri mezzi di produzione in modo tale che la quantità del lavoro possa essere ridotta e si liberi del tempo per la ricerca, l’educazione e così via? La base economica determina il modo in cui lavoriamo e viviamo nella nostra società e, di conseguenza, quale morale, legge o valori sono dominanti (anche se questa relazione non è meccanica, come amano ripetere i critici di Marx, ma dialettica).

I marxisti sottolineano la necessità dell’unità della classe lavoratrice, unica forza in grado di porre fine allo sfruttamento e all’oppressione / Immagine: uso consentito

La nostra società è suddivisa in classi che non sono definite culturalmente in base a chi sia ricco e chi povero (piuttosto, questa è una conseguenza della classe cui l’individuo appartiene). Le classi sono definite dal ruolo che hanno nel processo di produzione. Nel capitalismo, le classi principali sono quella dei capitalisti, che possiedono i mezzi di produzione quali fabbriche e terreni, e quella dei lavoratori, che si trova a dover vendere la propria manodopera per sopravvivere con i salari ricevuti in cambio. La contraddizione sta nel fatto che la maggior parte delle persone produce socialmente in fabbriche e aziende nel contesto di una divisione mondiale del lavoro, mentre dei frutti del loro lavoro si appropria privatamente una piccola minoranza. Dal momento che questa minoranza di capitalisti produce in concorrenza l’uno con l’altro, nell’anarchia del mercato mondiale e solamente per proprio profitto, periodicamente si hanno delle crisi, e questa è la ragione per cui le risorse della nostra società non possono essere utilizzate per garantire un’esistenza dignitosa a tutta l’umanità. Questo sfruttamento è la base determinante per l’oppressione e la discriminazione. Soltanto il socialismo permette di risolvere la contraddizione tra produzione sociale e possesso privato, prendendo in mano la produzione sotto il controllo della società, ossia espropriando la minoranza parassitaria dei capitalisti.

Da ciò segue che l’unità della classe lavoratrice è radicata nelle condizioni attuali. Un buon tenore di vita per la classe lavoratrice – salari più alti, meno ore lavorative, un sistema di sussidi pubblici di maggiore qualità – può essere raggiunto solo contro l’interesse dei capitalisti, perché andrebbe a intaccare i loro profitti. I marxisti considerano proprio compito quello di rendere il più visibile possibile questo interesse comune della classe lavoratrice, in modo da rafforzare la nostra unità, in quanto solo insieme possiamo rovesciare questo sistema sfruttatore. Ecco perché i marxisti lottano con decisione contro tutte le forme di divisione: contro il razzismo, i pregiudizi sessisti e altre forme di discriminazione, e questo a prescindere che a sostenerle sia un politico, un capitalista o un collega di lavoro. Noi siamo contro ogni forma di discriminazione, ma al contrario delle politiche identitarie non riteniamo che gli interessi di differenti generi, orientamenti sessuali e così via siano in opposizione fondamentale l’uno rispetto all’altro. A essere opposti invece sono i differenti interessi di classe: perché uno vinca, l’altro deve perdere.

Da un punto di vista oggettivo, c’è abbastanza ricchezza nella nostra società da rendere una vita confortevole possibile per tutti. C’è abbastanza cibo e abbiamo la tecnologia necessaria a ridurre drasticamente le ore lavorative e realizzare comunque tutti gli obiettivi della società. Abbiamo anche tutti i prerequisiti per la socializzazione del lavoro domestico (pulizie, cucina, educazione dei figli, cura degli anziani…), che oggi è in gran parte svolto all’interno dell’istituzione della famiglia. Tutto ciò potrebbe essere realizzato aprendo cucine comunali e asili nido pubblici, e investendo in un buon sistema di sussidi pubblici e di sanità. Queste misure eliminerebbero la base materiale della famiglia capitalista, che chiude le donne in una gabbia opprimente e che è la base per la discriminazione sessuale e di genere. Senza una pressione e una dipendenza materiali, le relazioni umane potrebbero svilupparsi in associazioni veramente libere, il che sarebbe un passo avanti per tutti, uomini e donne. La scienza, l’educazione, la cultura e il linguaggio verrebbero liberati dalla motivazione del profitto e dagli interessi della classe dominante, che ci dividono costantemente e ci tengono a freno. La cultura umana potrebbe raggiungere altezze inimmaginabili. In confronto, le modeste richieste da parte dei teorici queer di un nuovo vocabolario e di spazi liberi dimostrano quanto limitati essi siano all’interno dei ristretti confini del capitalismo.

Ovviamente, questo non vuol dire che le conquiste culturali avverranno “automaticamente” o “per conto proprio” semplicemente espropriando le grandi corporazioni e le banche. Tuttavia noi dobbiamo capire concretamente la vera relazione tra base materiale e cultura, tra rivoluzione e linguaggio.

L’atto rivoluzionario comporta l’entrata in scena delle masse sul palcoscenico della storia. In questo processo le masse prendono il loro destino nelle proprie mani e non lasciano più che le loro vite siano dettate da altri. In tutte le rivoluzioni storiche, le masse lavoratrici hanno scatenato un’incredibile creatività e cominciato a rimuovere la spazzatura della vecchia società.

Nel suo testo La battaglia per un linguaggio colto, Trotskij descrive come, dopo la rivoluzione russa, vi fu una lotta contro il linguaggio offensivo e le imprecazioni. In un paese estremamente sottosviluppato che aveva appena intrapreso la sfida di rivoluzionare la società, in un’epoca in cui non esisteva nemmeno una “filosofia del linguaggio”, i lavoratori di una fabbrica di scarpe, chiamata la “Comune di Parigi”, decisero in un’assemblea generale di sradicare il linguaggio volgare dal proprio luogo di lavoro e di imporre una punizione qualora questa decisione venisse contravvenuta. Trotskij scrive:

“…la rivoluzione è prima e soprattutto un risveglio dell’umanità, una sua marcia in avanti, ed è caratterizzata da un crescente rispetto per la dignità personale di ogni individuo, da una sempre maggiore sollecitudine per i deboli. […] E come si può creare, giorno per giorno, sia pure poco a poco, una nuova vita basata sul rispetto reciproco, sul rispetto di sé, sull’eguaglianza effettiva della donna considerata come collaboratrice, su una cura efficace dei bambini, in un’atmosfera avvelenata dal rumoreggiare, dal rotolare, dallo squillare e dal risuonare delle imprecazioni dei padroni e degli schiavi che non risparmiano nessuno e non si arrestano di fronte a nulla? La lotta contro le ‘brutte parole’ è una condizione di igiene intellettuale, come la lotta contro la sporcizia e i vermi è una condizione dell’igiene fisica.

La lotta non è lineare, né facile, perché la coscienza si sviluppa in maniera contraddittoria. Come Trotskij ha fatto notare nello stesso testo:

Un uomo è un comunista leale, devoto alla causa, ma le donne per lui non sono che ‘femmine’, da non prendere sul serio in nessun modo. O può accadere che un comunista che pure si è distinto quando parla delle nazionalità minori, cominci a parlare in tono irrimediabilmente reazionario. Ricercando la causa di tutto questo dobbiamo ricordarci che le diverse parti della coscienza umana non mutano e non si sviluppano simultaneamente e lungo linee parallele. C’è una certa economia nel processo. La psicologia umana è assai conservatrice e i mutamenti dovuti alle esigenze e agli stimoli della vita investono, in primo luogo, i settori della mente che vi sono coinvolti direttamente.” [47]

La lotta per una cultura umana, da compagni, non è, dunque, fatta e finita subito dopo una rivoluzione. La rivoluzione, tuttavia, crea le condizioni in cui la lotta unitaria e comune per una tale cultura può essere liberamente sviluppata e veramente auto-determinata. Questo venne attivamente sostenuto dopo la Rivoluzione russa, quando le donne rivoluzionarie furono mandate per tutto il paese e promossero massicci programmi educativi e sforzi organizzativi. Questo movimento, chiamato “Zhenotdel” fu poi smantellato da Stalin nel 1930. A proposito del ruolo delle donne rivoluzionarie, Trostkij disse che esse devono essere l’ariete che, nelle mani di una società socialista, sfonda il tradizionalismo e i vecchi pregiudizi.

Ma ancora una volta il problema è estremamente complesso e non può essere risolto solo con l’insegnamento scolastico e con i libri: le radici delle contraddizioni e delle incongruenze psicologiche risiedono nella disorganizzazione e nella confusione delle condizioni in cui la gente vive. Dopo tutto, la psicologia è determinata dalla vita. Ma la dipendenza non è puramente meccanica e automatica: è attiva e reciproca. Il problema deve quindi essere affrontato in molte forme diverse: quella della fabbrica Comune di Parigi è una tra le altre. Auguriamole il migliore successo.” [48]

Un enorme abisso separa le campagne LGBT di oggi, approvate dal governo e foriere di cambiamenti solo simbolici, in cui lo sfruttamento di classe e l’alienazione psicologica da noi stessi sono tutt’ora mantenuti, e la campagna organizzata dai lavoratori della fabbrica di scarpe “Comune di Parigi”, che avevano pieno controllo sulle proprie condizioni di lavoro, compresa la cultura del linguaggio! Non è difficile immaginare quale di questi due si radicherebbe più a fondo e funzionerebbe più efficacemente.

L’obiettivo di raggiungere una cultura e un linguaggio umani è comprensibile e corretto, ma l’orientamento politico della creazione di un nuovo linguaggio dell’uguaglianza, senza aver prima affrontato la vera diseguaglianza sociale, è un’illusione pericolosa e, alla fine, un’impasse. Una cultura davvero umana e libera nascerà dalla comune lotta per l’emancipazione della classe lavoratrice, che plasmerà le nostre coscienze, distruggendo generazioni di pregiudizi, e getterà le odierne mostruose discriminazioni – il razzismo, il sessismo, la violenza e la degradazione delle donne e delle minoranze – nella spazzatura della storia.

Ultimo ma non meno importante: dovremmo chiamarci marxisti queer?

Quanto abbiamo spiegato sopra ha dimostrato che, a partire dalla comprensione di ciò che il mondo effettivamente è, di come (o se) possiamo cambiarlo e con le conclusioni pratiche che ne derivano, la teoria queer e il marxismo sono teorie inconciliabili. E tuttavia, ancora e ancora, si tenta di combinarle e di rappresentarle come compatibili l’una con l’altra.

Raramente questi sforzi sono più di un goffo tentativo di appiccicarsi l’etichetta del marxismo per darsi una parvenza di credibilità radicale, nel frattempo distorcendone completamente l’essenza. Tuttavia ci sono persone a sinistra che, indubbiamente con intenzioni oneste, affermano che dovremmo adottare l’etichetta “marxismo queer”.

L’argomentazione più comune fornita da queste persone è che “qualcosa manchi” al marxismo, che non sarebbe in grado di comprendere la specifica oppressione delle sessualità. Dovrebbe essere ovvio da questo articolo che abbiamo fornito argomentazioni sufficienti del contrario.

I tentativi di riconciliare teoria queer e marxismo inevitabilmente finiscono per creare distorsioni / Immagine: FULBERT

Un’ulteriore argomentazione popolare, tuttavia, ha a che fare con la tattica, e suona più o meno così: si dovrebbe rimanere su una solida base marxista, ma per rendere il marxismo più attraente per individui di tutte le identità, e data la sua cattiva reputazione, definirsi marxista queer può mandare un chiaro segnale di inclusività. Che male può fare se anche non funziona immediatamente? Se non aiuta, non fa male, suona l’argomentazione.

Una dimostrazione relativamente ampia di questo modo di pensare è fornita da Holly Lewis nel suo libro The Politics of Everybody (2016), di cui tratteremo brevemente tra poco.

Nel suo libro, Lewis si riferisce con relativo imbarazzo al “vecchio approccio fuori moda del materialismo di Marx”, incluso il suo rivolgersi alla classe lavoratrice per cambiare il mondo. [49] Lewis ha scritto il suo libro presumibilmente per rendere il marxismo allettante per gli attivisti queer e le femministe e, in una direzione opposta, per familiarizzare i marxisti con le origini della politiche femministe, queer e trans. [50]

In superficie, il marxismo queer potrebbe apparire ad alcuni come un buon modo per convincere le persone queer della validità del marxismo e includerle nella lotta contro il capitalismo. Ma affermare che abbiamo bisogno di un “marxismo queer” porta inevitabilmente alla sua distinzione dal “marxismo classico”, proprio per giustificare, in prima istanza, il perché ci debba essere un “marxismo queer”. Ciò crea una spaccatura tra i due e apre una porta tramite la quale penetrano idee estranee alla classe lavoratrice e concessioni ideologiche.

Dopo aver passato un terzo abbondante del proprio libro a spiegare i fondamenti del marxismo, Holly Lewis arriva proprio a questo punto. In qualità di marxista femminista e queer, Lewis vuole includere prospettive internazionali queer, trans e intersex nell’analisi materialista marxista del sesso e del genere. [51]

E quali sono queste particolari prospettive che, secondo la sua opinione, possono spiegare le specifiche forme di oppressione meglio del marxismo “noiosamente normale”? A questo punto, vengono tirate fuori tutte le vecchie argomentazioni, come, per esempio, il fatto che Marx ed Engels fossero figli del proprio tempo e quindi, ovviamente, sessisti, con Engels leggermente più sessista di Marx. In seguito, Lewis costruisce, come fanno spesso i revisionisti, una presunta contraddizione tra Marx ed Engels, in cui quest’ultimo non avrebbe correttamente compreso la natura dell’oppressione delle donne, fatto apparentemente confermato dal suo libro L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato. Lewis rifiuta la concezione marxista del ruolo della famiglia nel capitalismo e gradatamente mina proprio le fondamenta del marxismo, insieme alla sua analisi materialista storica. Per quanto riguarda la questione di genere, Lewis giunge infine a vaghe e poco chiare formulazioni sulla presunta (in)esistenza dei generi.

Tuttavia, persino su questa confusa base filosofica, è praticamente impossibile per Lewis ricorrere ad aspetti della teoria queer in modo positivo. Ma Lewis trova comunque uno specchio su cui arrampicarsi: il concetto di performance, che presuppone che i ruoli di genere siano interiorizzati mediante azioni ripetitive.

Lungi dall’essere incompatibile con un’analisi materialista, il contributo di Butler si armonizza perfettamente con la concezione di Fields dell’ideologia come una ripetizione di azioni che ha origine nelle relazioni sociali, azioni che sono continuamente normalizzate mediante abitudine, esperienza, e la logica organizzativa di una determinata società.” [52]

È così che il marxismo e la teoria queer sono presentati non come teorie che si escludono a vicenda e che servono interessi di classe divergenti, bensì che coesistono pacificamente, con ciascuna delle due in grado di prendere in prestito dall’altra singoli pezzetti qua e là, mischiandoli a casaccio.

Dobbiamo essere chiari su questo punto. Il marxismo si basa su una serie di leggi derivate dalla natura e, dunque, più è scientifica la comprensione della natura, più possiamo sviluppare queste leggi generali. È necessario confrontare costantemente l’analisi alla realtà e, se necessario, adattarla, oltre che esplorare in profondità e scrupolosamente fenomeni nuovi. Tuttavia, questo modo di procedere è tutt’altra cosa rispetto a capitolare davanti a ideologie borghesi e scendere a compromessi con l’idealismo.

L’errore più grave di Lewis non è quello di aver spiegato che le ideologie si consolidano nelle menti delle persone mediante rituali e performance (osservazione esatta, ancorché banale), ma di aver fatto sembrare, a partire da questo dettaglio, la teoria queer come un “alleato” accettabile. In ultima istanza, il nocciolo della questione è che Lewis non ha una comprensione delle conseguenze che le ideologie borghesi hanno per la classe lavoratrice, e del ruolo dei dirigenti della burocrazia e degli intellettuali, che accolgono queste ideologie in seno al movimento e alle organizzazioni della classe lavoratrice.

La classe dominante ha molti modi per corrompere la direzione del movimento operaio e di sostenere quegli individui all’interno del movimento che rivendicano e diffondono ideologie (piccolo-)borghesi. Vi sono posizioni nel governo e nell’apparato statale da regalare, c’è la cosiddetta “alleanza sociale” tra il capitale e il lavoro, mediante la quale i burocrati dei sindacati e dei partiti dei lavoratori si incontrano faccia a faccia con la borghesia. Invece di difendere gli interessi della classe lavoratrice, per loro i lavoratori non sono altro che pedine da muovere per difendere le proprie posizioni burocratiche. Essi vogliono aprire e chiudere la lotta dei lavoratori come un rubinetto, per rafforzare il proprio potere di negoziare. Ideologie piccolo-borghesi come il femminismo, che distolgono l’attenzione dalla lotta di classe, ma hanno una “immagine di sinistra”, sono accolte con entusiasmo dai burocrati, poiché fanno bene i loro interessi. Queste ideologie sono sviluppate dagli intellettuali nelle università, che difendono i propri finanziamenti, posizioni e istituti di ricerca, per giustificare il loro comportamento pratico e, consapevolmente o meno, gettano sabbia negli occhi degli attivisti in cerca di risposte.

In astratto, Lewis è d’accordo sul fatto che la teoria queer e altre analoghe possano effettivamente essere utilizzate in modo reazionario, e che siano un’espressione di una borghesia economicamente insicura. Tuttavia, rimane in silenzio sul ruolo concreto che queste ideologie hanno all’interno dei movimenti sociali. Lewis, dunque, finisce per fare da foglia di fico al riformismo e alla burocrazia. Questo diventa evidente quando scrive di eventi storici concreti, per esempio del tradimento della Seconda internazionale.

Nel 1914, la maggior parte dei partiti dei lavoratori in Europa, che a quel tempo erano uniti nella Seconda internazionale, votarono nei rispettivi parlamenti nazionali a favore dei crediti di guerra per la Prima guerra mondiale. In questo modo avallarono una guerra imperialista negli interessi dei capitalisti. Soltanto una manciata di rivoluzionari, tra cui Lenin e Rosa Luxemburg, resistettero a questa ondata di sciovinismo. Come spiega Lewis questo storico tradimento da parte della direzione socialdemocratica?

Secondo lei, i rappresentanti dei partiti socialdemocratici acconsentirono alla Prima guerra mondiale e capitolarono davanti allo sciovinismo nazionale perché Eduard Bernstein e Karl Kautsky, in scritti come Il programma di Erfurt, avevano divulgato una comprensione superficiale delle idee di Karl Marx, e “tali distorsioni portarono, in ultima istanza, i membri della Seconda internazionale a votare perché i partiti socialisti sostenessero le rispettive nazioni nella Prima guerra mondiale.” [53]

Una tale raffigurazione, tuttavia, mette sottosopra la realtà, in quanto ignora il contesto in cui nacquero le distorsioni del marxismo. Prima della Prima guerra mondiale, uno strato di burocrati si era abituato a una vita abbastanza confortevole nel ruolo di parlamentari, e davanti a un lungo periodo di boom economico, dichiarò la rivoluzione superflua. Il loro tradimento non era un semplice fraintendimento dei “puri” insegnamenti del Capitale, non solo una battaglia ideologica alla pari, ma un’espressione di uno strato burocratico all’interno dei partiti dei lavoratori che preferiva le proprie posizioni confortevoli alla dura lotta di classe, inclusa la guerra rivoluzionaria contro “i loro stessi” capitalisti nazionali. Il risultato fu non solo una deviazione ideologica, ma un concreto sostegno alla carneficina dei lavoratori in guerra, e il tradimento di numerosi movimenti rivoluzionari negli anni dopo la guerra: in Germania, Austria, Ungheria e così via. È così che la possibilità di vincere la battaglia per il socialismo internazionale, che era ormai a portata di mano, fu affogata nel sangue, il che alla fine portò all’ascesa del fascismo in Europa.

La descrizione che Lewis fa dei sindacati negli USA negli anni ’80 e ’90 va nella stessa direzione, insabbiando il ruolo negativo della burocrazia all’interno del movimento. Cercando di spiegare perché le tradizionali organizzazioni dei lavoratori vedano associarsi così poche “persone queer e trans”, Lewis scrive:

Tuttavia, il fallimento potrebbe non celarsi nelle politiche o abitudini dei sindacati e delle organizzazioni, ma nel fatto che il lavoro e le organizzazioni socialiste stesse, sotto il neoliberismo, hanno un’influenza in declino sulla classe lavoratrice. Ironicamente, persone queer e trans appartenenti alla classe lavoratrice possono trasformarne la politica rafforzando le strutture di potere della classe lavoratrice ormai in via di deterioramento.” [54]

E ancora:

La delocalizzazione del lavoro ha portato a un continuo declino della partecipazione ai sindacati negli anni ’80 e ’90. Nonostante tutte le falle dei sindacati-azienda americani, sfidare il neoliberalismo avrebbe richiesto un forte movimento internazionale dei lavoratori.” [55]

Quali sono quindi, secondo Lewis, le ragioni per il declino della partecipazione ai sindacati? Ciò accadde, secondo lei, a causa del “neoliberismo”, che ha minacciato i sindacati con la delocalizzazione. La seconda ragione fornita da Lewis è la debolezza del movimento sindacale internazionale, ed è solo dopo questi fattori che Lewis ritiene che abbia avuto rilevanza anche il fatto che i sindacati avessero una posizione favorevole al capitale.

Quest’affermazione finisce effettivamente per argomentare che qualsiasi lotta in quel periodo fosse inutile in partenza, occultando anche il ruolo della burocrazia dei sindacati di sinistra, che osservavano in silenzio mentre governo e padronato sferravano pesanti attacchi ai lavoratori. Per esempio, quando il presidente Reagan scandalosamente spezzò lo sciopero dei controllori di volo del PATCO (il sindacato americano dei controllori di volo, Ndt) nel 1981, utilizzando militari come crumiri e, in seguito, impedendo da allora in poi a 19mila lavoratori di lavorare nel settore, i dirigenti dell’AFL-CIO (la principale confederazione sindacale americana, Ndt) non pensarono nemmeno di organizzare scioperi di solidarietà in difesa dei lavoratori del PATCO. Nel 1995, la direzione dell’AFL-CIO chiuse il proprio dipartimento internazionale e lo sostituì con un “centro di solidarietà”, che riceveva il 90% del proprio budget dallo Stato e, per esempio, nel 2002 sostenne il golpe contro il presidente venezuelano Hugo Chavez. In questo modo contribuì direttamente a prolungare la situazione negativa in cui si ritrovava il movimento internazionale dei lavoratori! Venivano utilizzati più soldi per finanziare gli ingranaggi del Partito democratico che per organizzare campagne per i diritti dei lavoratori. E la lista sarebbe lunga. È chiaro che qualsiasi linea di argomentazioni che ignori lo specifico ruolo della burocrazia inevitabilmente porta all’insabbiamento della loro infida posizione.

Non riuscire a comprendere come procedano i veri movimenti e le loro direzioni, e come le ideologie della (piccola) borghesia facciano il gioco di interessi controrivoluzionari all’interno del movimento, porta all’erronea conclusione che la questione “teoria queer vs. marxismo” sia una sana competizione tra due idee egualmente valide.

Ma i capitalisti mettono pressione non solo alle minoranze e agli strati oppressi della società, ma anche ai rivoluzionari. Nei sindacati, i rappresentanti sindacali critici sono isolati, nei partiti di massa dei lavoratori i marxisti sono denigrati o espulsi, e nel mercato del lavoro generalmente l’essere membro di una qualsiasi organizzazione rivoluzionaria non è tra le credenziali migliori.

È assolutamente necessario difendere fermamente le idee del marxismo, se vogliamo conseguire rivoluzioni vittoriose, dal momento che l’alternativa è la sconfitta. Tuttavia, dobbiamo tenere in considerazione il fatto che la classe dominante e i suoi tirapiedi cercheranno sempre di rendercelo il più difficile possibile. Gli studiosi che cercano di derubare il marxismo dei suoi contenuti rivoluzionari in nome di qualche nuova tendenza di moda, non solo fanno gli interessi della classe dominante nell’accogliere quelle che possono sembrare “idee innocue”, ma che sono in realtà fondamentalmente piccolo-borghesi – come il femminismo, con la sue teoria che la colpa per l’oppressione delle donne sia degli uomini in generale, invece di derivare dalla divisione della società in classi. Anche i leader riformisti dei sindacati e dei partiti dei lavoratori hanno perfezionato l’arte di tenere discorsi radicali nelle assemblee interne, solo per fare poi da fedeli sostenitori del capitale nella società nel suo insieme.

Una lotta unita è l’arma più importante che la classe lavoratrice possiede e che può liberarci. Il marxismo difende quest’unità fino alla fine. Il marxismo, quindi, combatte per l’inclusione di tutti, indipendentemente dall’origine etnica, dal genere, dall’identità, dalla religione e così via, nella lotta contro la classe dominante, il sistema capitalista e tutte le forme di oppressione che esso porta con sé. Noi rifiutiamo qualsiasi ideologia che porti a una pratica che fermi, rallenti o renda impossibile questa lotta, a prescindere da quanto “moderna” o radicale essa appaia, compresa la teoria queer. Il cosiddetto “miglioramento” del marxismo con aggiunte queer o femministe significa soltanto l’indebolimento ideologico del marxismo. Questo indebolimento in ultima istanza non serve a convincere persone con identità e orientamenti sessuali differenti a unirsi al nostro movimento. Al contrario, è usato come uno strumento con il quale carrieristi (piccolo-)borghesi possono nascondersi dietro a ciò che sembra una posizione radicale, utilizzando nel mentre il movimento operaio e le sue organizzazioni per promuovere i propri interessi personali. Perciò sfumare la linea che divide il marxismo e la teoria queer è un ostacolo nella nostra lotta per l’emancipazione dell’umanità da tutte le forme di sfruttamento e oppressione.

Solo se rompiamo con la borghesia a tutti i livelli (quello ideologico, così come quello della pratica della collaborazione e corruzione di classe attraverso i fondi pubblici e le posizioni che ne derivano) possiamo rovesciare il capitalismo e prendere il nostro destino nelle nostre mani. Invitiamo tutti gli anticapitalisti a unirsi a noi in questa lotta.

2 dicembre 2019

 

Note

  1. Eve Kosofsky Sedgwick, Epistemology of the Closet, p. 1.
  2. Annamarie Jagose, Queer Theory: An Introduction, p. 11.
  3. Ibidem, p. 100.
  4. AUF, Eine Frauenzeitschrift.
  5. Simone de Beauvoir, Il secondo sesso, p. 330.
  6. Judith Butler, Questione di genere, pp. 3-4.
  7. Friedrich Engels, Ludwig Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca, pp. 31-32.
  8. Lenin, Materialismo ed Empiriocriticismo, p. 87.
  9. Judith Butler, op. cit., p. 55.
  10. Ibidem, pp. 12-13.
  11. Ibidem, p. 183.
  12. Ibidem, p. 45.
  13. Ibidem, p. 206.
  14. Annamarie Jagose, op. cit., p. 15.
  15. Ibidem, p.31.
  16. Gayle S. Rubin, Thinking Sex, p. 149.
  17. Chris Weedon, Feminist Practice and Poststructuralist Theory, pp. 36 e 59.
  18. Nancy Fraser, Heterosexism, Misrecognition, and Capitalism, p. 286.
  19. Michel Foucault, The History of Sexuality, p. 35.
  20. Lenin, Materialismo ed empiriocriticismo, pp. 28-29.
  21. Ibidem, p. 65.
  22. Ibidem, p. 121.
  23. Ibidem, p. 66.
  24. Ibidem, p. 120.
  25. Lev Trotskij, Culture and socialism, 1927.
  26. Lenin, A proposito della dialettica, Opere complete, vol. 38, 363-364.
  27. Ibidem, pp. 365-366.
  28. Eterosessualità forzata è un’espressione utilizzata spesso nella teoria queer. Coniata nel 1980, spiega che l’eterosessualità è un’istituzione socialmente costruita, analoga al razzismo.
  29. Judith Butler, op. cit., p. 172.
  30. Ibidem, p. 53.
  31. “Per molti di noi giovani intellettuali, l’interesse per Nietzsche o Bataille non era un modo per prendere le distanze dal marxismo o dal comunismo. Piuttosto, era quasi l’unica strada che conducesse a quello che noi, naturalmente, pensavamo potesse attendersi dal comunismo […] Fu così che, senza conoscere molto bene Marx, rifiutando il pensiero di Hegel, e sentendomi insoddisfatto per i limiti dell’esistenzialismo, decisi di aderire al Partito comunista francese.” (Michel Foucault, Remarks on Marx, pp. 50-51.)
  32. Michel Foucault, Remarks on Marx, pp. 110-111.
  33. Judith Butler, op. cit., p. 136.
  34. Michel Foucault, The History of Sexuality, p. 87.
  35. Michel Foucault, Vorlesungen zur Analyse der Machtmechanismen, p. 1.
  36. Michel Foucault, The History of Sexuality, pp. 92-93.
  37. Friedrich Engels, Dialettica della natura, p. 95.
  38. Michel Foucault, The History of Sexuality, pp. 95-96.
  39. Annamarie Jagose, op. cit., p. 61.
  40. Judith Butler, op. cit., p. 137.
  41. Nancy Fraser, Heterosexism, Misrecognition, and Capitalism, 285.
  42. Judith Butler, op. cit., p. 40.
  43. Ibidem, p. 9
  44. Judith Butler, Merely Cultural, p. 44.
  45. Franziska Haug, Queerfeministische Solidarität zwischen Kollektivität und Identität, p. 236.
  46. Cressida J. Heyes, Feminist Solidarity after Queer Theory, p. 46.
  47. Lev Trotskij, La battaglia per un linguaggio colto in Rivoluzione e vita quotidiana, reperibile su questo sito.
  48. Ibidem
  49. Holly Lewis, The Politics of Everybody, p. 91.
  50. Ibidem, p. 14.
  51. Ibidem, p. 107.
  52. Ibidem, p. 199
  53. Ibidem, p. 63.
  54. Ibidem, p. 165.
  55. Ibidem, pp. 208-209.

Fonti

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