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1943. L’Italia tra guerra e rivoluzione

di Francesco Giliani

Quando il 25 luglio 1943 re Vittorio Emanuele III revocò l’incarico di primo ministro a Mussolini il regime fascista cadde come un castello di carte. Come temuto dai membri più lungimiranti della classe dominante, la caduta del fascismo scatenò un’enorme offensiva operaia. Il governo rispose con la violenza. Nei 45 giorni che trascorsero prima dell’armistizio con gli Alleati si contarono almeno 93 morti e 536 feriti. Vi furono inoltre 35mila arresti per ragioni politiche e circa 3.500 condanne. Ogni militante del movimento operaio deve cercare di trarre insegnamento da quegli avvenimenti. Quali forze sociali rovesciarono Mussolini? Quali sostennero Badoglio? Era possibile una rivoluzione socialista? Quale fu la politica del Pci e delle principali tendenze del movimento operaio?

Guerra e crisi

Il regime fascista era entrato nella seconda guerra mondiale spaccato al suo interno. Grandi, Guardasigilli, si pronunciò per la denuncia del patto con la Germania. Nel giugno ’40 l’Italia entrò in guerra a fianco della Germania nazista, sperando in una fulminea vittoria di Hitler. Nell’esercito italiano, però, la disciplina si sgretolò velocemente. L’ordine impartito dal maresciallo Cavallero in Albania di “morire sul posto” venne infranto da diserzioni o imponendo ritirate agli ufficiali. Dopo la rotta sul fronte sovietico, gli alpini urlavano “Abbasso Mussolini, assassino degli alpini” nei treni che li rimpatriavano. Centinaia di migliaia di famiglie non avevano per mesi notizie dei loro cari al fronte. Alla fine del 1942 i comandi militari italiani capivano che l’Asse avrebbe perso la guerra. Datano dicembre ’42 i primi sondaggi di Ciano e dei Savoia per una pace separata. Nel gennaio ‘43 Badoglio fece sapere all’Inghilterra di essere pronto a sostituire Mussolini. La crisi del regime si manifestava dunque con l’approfondirsi delle divisioni nella classe dominante.

Il malcontento cresceva anche sul fronte interno. Tra il ’39 ed il ‘42 i prezzi erano raddoppiati con salari congelati perché, disse Mussolini, aumenti salariali avrebbero acceso l’inflazione. Nel marzo del ‘42 la razione giornaliera di pane venne ridotta a 150 grammi. La carne era razionata a un etto la settimana. Un operaio del Pci della Fiat, Carretto, raccontò che molti operai avevano perso fino a 10-15 kg sul loro peso normale. In ogni guerra la borghesia ha bisogno di tendere al massimo le forze produttive, spremendo i lavoratori fino ai limiti della resistenza fisica. L’offensiva operaia iniziò a manifestarsi negli scioperi del dicembre ’42 a Torino. Riemergevano gruppi di operai comunisti. Un volantino diffuso a Torino affermava: “La borghesia ieri sfacciatamente assassina, oggi nascostamente vigliacca, tenta con tutti i mezzi di salvare il salvabile. Noi rovesceremo questo governo fantoccio ma siamo abbastanza intelligenti da conoscere i nostri oscuri oppressori e colpiremo senza pietà”.

Dagli intrighi in alto agli scioperi operai del marzo 1943

Durante i primi mesi del ‘42 Mussolini ricevette tutti i federali  (capi del partito) d’Italia. Utilizzando un linguaggio diplomatico, timorosi di dire la verità al Duce, molti federali lasciavano comunque intendere i problemi: mancanza di un’adesione popolare alla guerra, perdita di controllo sui giovani e demoralizzazione nelle fila del partito fascista (Pnf) e della milizia (Mvsn). I rapporti dei commissari di polizia erano ancora più diretti, registrando ovunque aumenti delle “attività sovversive”. Sul ritmo di questa crisi di regime maturavano gli intrighi dei Savoia, della casta militare e della fronda fascista (Grandi, Ciano, Bottai) per scaricare Mussolini. Nell’aprile ’43 Mussolini ed Hitler si incontrarono dopo la rotta di Stalingrado. L’unico accordo raggiunto fu il rafforzamento dell’apparato poliziesco italiano sotto la direzione del capo delle SS Himmler, con conseguente disappunto dei generali italiani. Anche il Vaticano si muoveva per favorire una soluzione di ricambio. Nella primavera del ’43, il segretario di Stato del Vaticano riferì all’ambasciatore italiano che secondo il Papa Mussolini non poteva giocare un ruolo decisivo nella risoluzione della crisi perché “difficilmente avrebbe potuto trattare con gli Alleati”.

Il Vaticano moltiplicò prese di contatto con gli angloamericani diventando un covo dello spionaggio Alleato.

La disciplina di guerra, i soprusi dei padroni, la presenza della milizia in molti reparti, le razioni insufficienti, i bombardamenti, le notizie dal fronte, acuiscono uno stato d’animo che qualcuno non esita a definire prerivoluzionario”, annotò Lizzadri dopo una riunione del Psi. Pochi giorni dopo, gli scioperi del marzo 1943 partiti da Torino portarono il colpo mortale al regime. Più di 150mila operai scioperarono scontrandosi con l’apparato repressivo fascista per la prima volta dopo circa vent’anni. Le rivendicazioni operaie erano le 192 ore (una sorta di tredicesima), la scala mobile prezzi-salari, la liberazione dei prigionieri politici antifascisti e l’allontanamento della milizia dalle fabbriche. Gli obiettivi, dunque, non erano solo economici. La repressione non funzionò e lo sciopero si allargò al Piemonte ed alla Lombardia. Il gerarca Farinacci scrisse al Duce: “se ti dicono che il movimento ha assunto un carattere puramente economico ti dicono una menzogna. Nei tram, nei caffè, nei teatri, nei cinematografi e nei rifugi, si inveisce contro il regime. Nessuno più insorge”. Il 3 aprile Mussolini cedette su quasi tutte le rivendicazioni economiche e cercò di deviare l’attenzione licenziando il segretario del partito fascista e quello del sindacato fascista dei lavoratori. La debolezza dell’autorità statale diede più coraggio anche ai braccianti ed ai contadini, tra cui crebbero i casi di insubordinazione e l’ostilità agli ammassi statali, a cui i contadini poveri erano costretti a vendere spesso sottocosto i loro prodotti mentre gli agrari speculavano col mercato nero.

L’opposizione al regime cresceva pure nelle università. Il capo della milizia fascista notò che proliferavano “sette rivoluzionarie” tra gli studenti di Firenze, Pisa e Padova. A Roma, dopo i volantinaggi per il 1° Maggio, l’università venne chiusa dieci giorni “agli estranei”.

L’antifascismo della borghesia

Percependo di essere seduto su un vulcano, il padronato cominciò a prodigarsi in iniziative “antifasciste”. Il direttore della Banca Commerciale promosse un circolo che appoggiava il vecchio personale politico liberale. Molti generali che preparavano un coup d’Etat contro Mussolini ricevettero promesse di aiuti da parte industriale (Burgo, cartiere, contattò Cavallero, altri industriali promisero 100 milioni di Lire a Sorice). Furono attivi anche Pirelli, Donegani e Volpi. Nessuno voleva che il capitalismo fosse travolto insieme al fascismo. I liberali più influenti si svegliarono dal loro torpore e cercarono di accreditarsi presso il Re. In questi circoli si sperava di soffocare la rabbia popolare introducendo cambiamenti di facciata. Leader dell’antifascismo liberale era Bonomi, il cui governo nel 1920 aveva aiutato l’ascesa al potere di Mussolini. Dopo il 25 luglio Bonomi sostenne l’inopportunità dell’intervento popolare nella crisi perché “la forza di far cadere Mussolini non doveva essere cercata in movimenti di piazza, né tanto meno in scioperi. Questi potevano allontanare le classi alte, che dovevano invece essere le maggiori collaboratrici del trapasso”.

Il terrore per un intervento diretto delle masse fu la caratteristica costante dell’antifascismo borghese. Bonomi, nel ’44 primo ministro, fu il punto di mediazione del Comitato delle opposizioni antifasciste, antecedente del Cln, una coalizione interclassista comprendente sei partiti: il Pci, il Psi, il Movimento d’Unità Proletaria (Mup), composto di giovani socialisti in rottura col riformismo e di espulsi dal Pci, il PdA, formazione democratico-borghese, la Democrazia Cristiana e Ricostruzione Liberale.

Gli stalinisti complottano con la monarchia

La direzione del Pci sosteneva una politica di unità nazionale ed utilizzò i suoi intellettuali per fare pressioni sulla classe dominante e sulla monarchia perché scaricassero Mussolini. A fine maggio la principessa Maria José fu informata del sostegno della direzione del Pci ad un eventuale colpo di stato monarchico dal professor Antoni, precedentemente contattato dal suo collega Concetto Marchesi, Pci, noto latinista. Per la direzione del Pci si trattava di accompagnare una soluzione dall’alto della crisi con una pressione dal basso, escludendo un’azione indipendente dei lavoratori. Abbandonata la pregiudiziale antimonarchica insieme al Psi, il Pci reclamava almeno un ministro nel futuro governo. Roasio, dirigente del Pci, sostenne che il patto d’unità d’azione con Psi e Partito d’Azione (PdA) non bastava e che si doveva allargare l’alleanza ad altre forze politiche presenti in Italia: “liberali, cattolici, “badogliani” e monarchici”. I dirigenti del movimento operaio adducevano lo stato di guerra per motivare il rifiuto di lottare per gli obiettivi della classe lavoratrice (definiti sprezzantemente “sedicenti interessi di classe”) sull’altare di una union sacrée contro lo “straniero”. All’interno del comitato delle opposizioni i dirigenti del Pci temevano soprattutto il Mup, tipica formazione centrista: “La sua etichetta è quella della rivoluzione proletaria che, nel programma, viene posta come la sola alternativa al fascismo. La sua tattica (se si può parlare di tattica) è quella dell’intransigenza rivoluzionaria; nessuna collaborazione con i partiti borghesi, accordi limitati ai partiti proletari. Secondo gli uomini del Mup il Pci si è oggi posto sul terreno dell’opportunismo. Non è un caso che gli sforzi maggiori di reclutamento del Mup siano volti verso elementi espulsi dal nostro partito”. I dirigenti del Pci e del Psi vedevano così con sollievo i compromessi e le esitazioni del Mup ed il suo successivo scioglimento nel Psi.

Il Psi, malgrado qualche dichiarazione più a sinistra, seguì la linea del Pci. Si spiega così il fastidio ed il paternalismo di Lizzadri per quei giovani socialisti romani che volevano assolutamente sapere quale società ci sarebbe stata ‘dopo’ la caduta del fascismo. La direzione del Psi invitava ipocritamente i giovani a non “lasciarsi fuorviare da ex comunisti che ruppero i loro legami col partito in carcere o all’estero, e noi non conosciamo i veri motivi di queste rotture”. La saldatura tra le opposizioni di sinistra del Psi e del Pci era temutissima.

Pci 1935-1943

Nell’agosto 1943 una circolare dell’Oss, l’antenato della Cia, così caratterizzava il Pci: “La nuova linea seguita dai leaders comunisti italiani negli Stati Uniti mostra l’opportunismo che ha caratterizzato sin dal 1935 le direttive di Mosca ai suoi seguaci, in contrasto alla qualità categorica del programma rivoluzionario di 25 anni fa, quando una situazione come quella italiana avrebbe indotto all’installazione dei soviet e alla ricostruzione della società su basi marxiste. Adesso, nella nuova visione comunista, la struttura esistente della società deve essere mantenuta”. La politica del Pci non può essere compresa senza un’analisi dell’involuzione dell’Internazionale Comunista (IC), sciolta da Stalin nel maggio ‘43 per dare agli Alleati del fronte cosiddetto antifascista un ulteriore pegno delle sue “buone intenzioni”. L’IC aveva subito lo stesso processo di degenerazione burocratica sviluppatosi in Urss. Nata come partito mondiale della rivoluzione socialista, l’IC si trasformò in un organismo dominato dagli interessi conservatori della casta burocratica al potere in Urss.

Tuttavia, nei gruppi comunisti clandestini in Italia prevaleva l’idea che lo scioglimento dell’IC fosse una tattica per meglio perseguire i fini del comunismo. Così si esprimeva un gruppo dell’Aquila sullo scioglimento dell’IC: “vogliamo avere la certezza che il movimento operaio sia posto nelle mani di proletari coscienti e di provata fede: non possiamo permettere che con troppo leggera improvvisazione si diano incarichi direttivi nel movimento operaio italiano ad elementi tratti da altre classi (particolarmente intellettuali) senza alcuna seria preparazione marxista e senza un passato garante dei loro sentimenti, solo perché posseggono una laurea”. Questo momento della storia del Pci può essere spiegato considerando che esso obbedisce ad una sorta di legge dello sviluppo diseguale e combinato applicata al terreno politico. L’ascesa del fascismo isolò il comunismo italiano che dal ‘26 divise il suo cammino da quello internazionale. I militanti condannati ad anni di prigione e confino o che vissero precariamente in libertà rimasero fedeli alle idee di metà anni ’20, profondamente dominate dalla prospettiva rivoluzionaria. D’altro lato, questi rivoluzionari continuavano a considerare Mosca come proprio punto di riferimento. Nel ’43, per la maggioranza dei militanti del Pci, l’Urss era quella dei tempi di Lenin. Non sapevano nulla dei crimini dello stalinismo. Non conoscevano niente della teoria dei fronti popolari, lanciata nel 1935 al VII congresso dell’IC, secondo cui il fascismo doveva essere sconfitto coi metodi, il programma ed il personale politico della democrazia borghese che il manifesto del primo congresso dell’IC aveva definito “morente”. Era la linea delle “due fasi”, applicata da Stalin e Bucharin con esiti disastrosi già durante la rivoluzione cinese del 1925-27, secondo la quale il proletariato doveva limitarsi a sostenere la borghesia “antifascista” (o “democratica” o “nazionale”) rimandando ad un futuro indefinito la lotta per il socialismo. L’IC era approdata alle concezioni gradualiste e riformiste della Seconda Internazionale. Nel Pci l’applicazione della politica di fronte popolare si era tradotta con l’Appello ai fratelli in camicia nera, redatto nel 1936 a Parigi, in cui si invitavano “le forze sane del fascismo” ad organizzarsi in un fronte nazionale antitedesco. Il gruppo dirigente del Pci non sprecò nemmeno una parola su Mussolini, promettendo di lottare per il programma fascista del 1919.

La firma del patto Molotov-Ribbentrop nell’agosto del 1939 provocò una nuova svolta. Dopo cinque anni di adulazione delle democrazie occidentali e di monotona denuncia degli aggressori fascisti, il Cremlino riscoprì l’imperialismo di Francia ed Inghilterra. In modo formalmente corretto, Mosca sosteneva che Francia ed Inghilterra non si battevano per la libertà dei popoli coinvolti nella guerra ma “per il loro soggiogamento” e dunque nemmeno la difesa delle libertà democratiche doveva essere demandata alle loro baionette. L’opportunismo si era spostato nei confronti dell’imperialismo tedesco. Nemmeno una parola di condanna, infatti, sull’occupazione della Cecoslovacchia, della Polonia, della Danimarca e della Norvegia e sulle rivoltanti brutalità delle bande hitleriane contro il popolo ebraico.

Già prima dell’attacco di Hitler alla Russia Trotsky aveva previsto un ennesima virata del Cremlino e, di conseguenza, dei Pc: “Se il Cremlino si riavvicinerà alle democrazie, il Cremlino tirerà di nuovo fuori dal retrobottega il Libro Bruno sui crimini nazionalsocialisti. Ma non per questo la sua politica assumerà un carattere rivoluzionario”. Con l’invasione nazista dell’Urss in corso, il documento che sanciva la fine dell’IC apriva all’azione dei Pc una prospettiva di disfattismo unicamente nei paesi dell’Asse, ausiliaria alla vittoria militare del fronte angloamericano alleato con l’Unione Sovietica: “mentre nei paesi del blocco hitleriano il compito fondamentale degli operai, dei lavoratori e di tutta la gente onesta è di contribuire in tutte le maniere possibili alla disfatta di questo blocco minando la macchina da guerra hitleriana dal di dentro e lavorando per rovesciare i governi responsabili della guerra, invece nei paesi della coalizione anti-hitleriana il sacro dovere delle larghe masse del popolo, e prima di tutto e degli operai progressivi, è di appoggiare in ogni modo lo sforzo di guerra dei governi di questi paesi allo scopo di ottenere la più rapida distruzione del blocco hitleriano”.

Nel 1943, dunque, l’IC non parlava più neppure di una rivoluzione in due tempi, dichiarando la tregua sociale nei paesi della coalizione Alleata, e non definiva più la guerra come imperialista. Non è però sorprendente che i militanti si battessero contro i proprietari terrieri, gli industriali ed i generali tanto come incarnazione del fascismo che del capitalismo e della proprietà privata. L’apparato stalinista alla testa del Pci, formatosi durante gli anni dell’esilio, tornò in Italia nel ’43 all’inizio del processo rivoluzionario senza controllare minimamente il proprio partito. Secchia ricorda la difficile situazione che il gruppo dirigente del Pci dovette affrontare perché “mentre svolgeva la sua azione politica sulla linea di unità nazionale, quasi tutti i gruppi con cui prendeva contatto erano orientati in modo molto settario, ed erano portati a non comprendere e a non approvare le iniziative politiche del Centro”. Un documento del Pci scritto anni dopo ammette che “quando giunse in Sicilia e nel Sud l’opuscolo di Spano ‘I comunisti e l’unità nazionale contro l’invasore’, esso fu accolto con indignazione. Molti vecchi compagni giudicavano questa linea un tradimento e Spano un agente degli inglesi”. Decisivi per costruire un controllo del gruppo dirigente sul partito furono i quadri provenienti dall’esilio, già rimodellati negli anni più tetri dello stalinismo nella repressione, anche fisica, degli oppositori ed assuefatti ad ogni tipo di svolta.

Continuità dello Stato borghese

Il 10 luglio gli Alleati sbarcarono in Sicilia e l’esercito italiano si sfaldò. Tutti scappavano. Le uniche esecuzioni erano contro capimanipolo fascisti. Rapidamente l’isola cadde nelle mani degli angloamericani. Un altro campanello d’allarme era suonato il 19 luglio. In seguito al bombardamento Alleato di Roma la folla dei quartieri Tiburtino e S. Lorenzo aveva fischiato ed imprecato contro Vittorio Emanuele III. Il risultato delle votazioni al Gran Consiglio del Fascismo, in cui Mussolini fu ‘sfiduciato’, non fu così altro che un appiglio in più nelle mani della monarchia per disfarsi del Duce. Sei giorni dopo il re dimissionò Mussolini. Bisognava agire alla svelta. All’ultimo momento, le frazioni decisive della classe dominante usarono il bisturi per cacciare Mussolini e tentare una transizione “morbida” che anticipasse l’intervento delle masse nell’abbattimento del fascismo. Verso le 18 i carabinieri repressero le prime spontanee manifestazioni di gioia. Il Re nominò Badoglio primo ministro: un generale che aveva fatto la sua fortuna, anche economica, col fascismo. Il messaggio radiofonico con cui Badoglio annunciava le dimissioni di Mussolini scatenò immediate reazioni di entusiasmo nel paese. Ma, nel proclama badogliano si diceva “la guerra continua” e “non sarà tollerato nessun turbamento dell’ordine pubblico”.

La composizione del governo Badoglio mostra la continuità della Stato borghese. Agli Interni andò Fornaciari, prefetto di nomina fascista; ministro della Guerra Sorice, prima sottosegretario; Guardasigilli diventò Azzariti, ex presidente del Tribunale della Razza; alle Finanze Bartolini, ex direttore del Poligrafico dello Stato bastonato dai suoi dipendenti la sera del 25; i liberali ebbero tre ministri. Nell’apparato statale la collaborazione tra funzionari fascisti e casta militare fu eccellente. Chierici venne destituito dal comando della polizia dove ritornò Senise ma collaborò col suo successore nelle repressioni antipopolari. La sera del 25 il segretario fascista Scorza promise al Comandante dei Carabinieri d’inviare un telegramma ai federali per invitarli a tenere a bada i loro camerati e collaborare con le autorità. Il Pnf si sciolse come neve al sole. Si moltiplicarono le dichiarazione di sottomissione da parte di gerarchi un tempo potenti. Gli unici gerarchi che provarono ad organizzare una resistenza furono Pavolini e Farinacci. Il console tedesco fu contrario a tale ipotesi e fece trasferire i due in Germania.

La borghesia si servì degli uomini meno logoratisi durante il fascismo per fronteggiare quell’esplosione sociale temuta ugualmente da tutti i settori della classe dominante. I provvedimenti del governo Badoglio miravano a togliere gli orpelli più odiati del vecchio regime. Fu quindi sciolto il Pnf, il Gran Consiglio del Fascismo, la Camera delle Corporazioni. Il Tribunale Speciale fu abolito ma i suoi poteri vennero attribuiti al Tribunale Militare. Non scomparve nemmeno il confino, odiosa istituzione del regime fascista. Neppure l’Ovra, la polizia politica, fu sciolta. L’elenco delle raccomandate contenenti i salari spedite agli informatori dell’Ovra il 30 giugno è identico a quello del 31 agosto successivo. Il nuovo governo era in guerra contro i lavoratori, cui si attribuivano intenzioni che oltrepassavano semplici obiettivi antifascisti. Secondo la polizia di Genova i lavoratori “invocavano la costituzione immediata di consigli aziendali e di fabbrica, l’immediato licenziamento di capi ed operai squadristi, la liberazione dei detenuti politici, mentre facevano la loro apparizione emblemi sovversivi, quali bandiere rosse e distintivi raffiguranti la falce e il martello”.

Dalla gioia agli scontri

Il 26 luglio le masse scesero spontaneamente in piazza. Le fabbriche si svuotarono. I simboli e le sedi del regime vennero furiosamente attaccati. A Roma fu staccato il fascio littorio che campeggiava su Palazzo Chigi. Molti squadristi furono bastonati. Nelle manifestazioni si udivano canti rivoluzionari. Talvolta vennero scanditi slogan a favore di Badoglio, ma le illusioni nel maresciallo svanirono rapidamente. A Reggio Emilia migliaia di operai delle Officine Reggiane sfilarono con cartelli inneggianti al Re e a Badoglio: appena gridarono “W la pace” i bersaglieri spararono facendo 9 morti. Nelle fabbriche gli operai procedevano all’epurazione dei fascisti e all’elezione delle commissioni interne. I fratelli Pirelli parlarono senza successo agli operai per riportare la calma quando una commissione operaia aveva già richiesto “disarmo delle guardie giurate, ostracismo ai fascisti, abolizione del cottimo, uguaglianza di trattamento nelle mense degli impiegati e operai”. Anche nel Sud le manifestazioni ebbero un contenuto sociale chiaro con l’inizio di un’ondata di occupazioni di terre e la distruzione dei ruolini delle imposte e delle carte degli ammassi durante assalti ai municipi. Come durante ogni processo rivoluzionario tutti parlavano di politica. A Roma in pochi minuti vennero vendute 5mila copie dell’edizione straordinaria dell’’Avanti!’. In molti piccoli centri i soldati tedeschi si unirono ai festeggiamenti. Fermento si ebbe pure nei ranghi dell’esercito nei Balcani, dove migliaia di soldati raggiunsero i partigiani. Erano embrioni di una solidarietà di classe ed internazionalista.

Il governo rispose con stato d’assedio, coprifuoco, censura, divieto di ricostituire partiti politici e di affissione di stampati, incriminazione per tentativo insurrezionale per capannelli di più di tre persone, divieto di portare distintivi non nazionali. Nel contempo, la milizia si disgregava indebolendo la forza repressiva della borghesia. Il 26 luglio il generale Roatta corse ai ripari con una circolare di cui è utile citare alcuni punti: “Siano assolutamente abbandonati i sistemi antidiluviani quali i cordoni, gli squilli, le intimidazioni e le persuasioni e non sia tollerato che i civili sostino presso le truppe o intorno alle armi in postazione ; i caporioni e gli istigatori del disordine, riconosciuti come tali, siano senz’altro fucilati, se presi sul fatto; il militare impegnato in servizio d’ordine pubblico che compia il minimo gesto di solidarietà con i dimostranti o non obbedisca agli ordini o vilipenda superiori e istituzioni venga immediatamente passato per le armi”. A Bari l’esercito sparò facendo 23 morti. L’insistenza sulla necessità di fare fuoco si spiega con la volontà di creare una barriera di sangue tra dimostranti e soldati. Nonostante queste direttive, spesso l’esercito rifiutò di sparare sui manifestanti, come durante la manifestazione di 5mila operai della fabbrica d’armi Sipe di Spilamberto, provincia di Modena. I carabinieri furono ritirati dal paese per impedire la fraternizzazione. I tentativi di liberare i prigionieri antifascisti dimostrano il carattere politico delle manifestazioni di quei giorni. A Torino in migliaia assaltarono le Carceri Nuove liberando 400 ‘politici’. Una relazione del Pci torinese segnalava che durante l’assalto “i soldati ci consegnavano le loro cassette di munizioni”. A Roma l’esercitò lasciò scappare un migliaio di detenuti comuni per concentrarsi nella “difesa” dei prigionieri politici. Nessuna amnistia fu concessa. Inizialmente, Badoglio ed il re misero un veto di principio sulla liberazione di detenuti politici comunisti e anarchici. Le liberazioni avvennero in buona parte sotto la pressione della piazza. Alcuni militanti politici di base operai, comunisti e slavi vennero consegnati dalle autorità badogliane ai nazisti l’8 settembre.

Il Comitato delle Opposizioni e l’offensiva operaia

Il 26 luglio a Milano liberali e Dc insistettero perché il Comitato delle Opposizioni mantenesse una posizione di fiducia verso Badoglio e l’azionista Parri manifestò preoccupazioni per la continuazione dello sciopero generale. Il Comitato delle opposizioni non fu la forza motrice delle mobilitazioni antifasciste ma cercò, al contrario, di deviarle verso un binario morto. Solo quando lo sciopero era già una realtà nei centri industriali del Nord ed in Toscana, il Comitato antifascista fece un appello a scioperare 10 minuti al giorno, per invitare i lavoratori a porre fine alle agitazioni il 30 luglio, esprimendo soddisfazione per le decisioni prese dal consiglio dei ministri. In realtà, lo sciopero si stava affievolendo da solo a partire dal 28, anche per l’enorme repressione scatenata dal governo. All’Alfa Romeo reparti speciali presidiavano le uscite con mitragliatrici. Il ritorno alla calma non durò. Il 31 luglio un decreto governativo affidava la nomina dei responsabili sindacali alle prefetture. I lavoratori genovesi risposero con lo sciopero ad oltranza finché i padroni, vista la determinazione operaia, riconobbero le commissioni interne elette dai lavoratori. Questa vittoria impressionò la borghesia e “diffuse la convinzione di una prossima andata al governo dei lavoratori, lasciando l’impressione che l’Italia sarebbe diventata presto una Repubblica Socialista”. Badoglio era più possibilista del re sulle possibilità di collaborazione con l’antifascismo. Prevalse la linea Badoglio-Piccardi di ricostruire dall’alto i sindacati per imbrigliare gli operai attraverso la collaborazione dei dirigenti riformisti. Il ministro del lavoro Piccardi propose a Buozzi, già segretario della Cgl e riformista, di ricostruire la confederazione sindacale. Tale linea fu confortata dal responsabile sindacale del Pci Roveda che proponeva al governo di “investire dei poteri di commissari straordinari due vecchi organizzatori della tradizionale Confederazione generale del lavoro, che propongo nel nome dello scrivente e dell’on. Ludovico D’Aragona”, avvertendo che “con soluzioni di spirito reazionario, la situazione nell’interno delle officine si aggraverebbe sempre di più e non sarebbe possibile poter fermare un simile fermento né colla persuasione né con interventi draconiani”. La proposta formulata dal governo prevedeva Buozzi segretario generale dei lavoratori dell’industria affiancato da Roveda e dal Dc Quarello; Di Vittorio, Pci, era nominato alla guida del sindacato braccianti. I due principali partiti del movimento operaio si resero così disponibili ad una collaborazione col governo per frenare le lotte dei lavoratori. Il governo abbandonò la pratica della nomina prefettizia delle cariche sindacali concependo le nomine dei nuovi commissari sindacali nazionali come un alleggerimento della polarizzazione sociale.

In politica estera, la linea temporeggiatrice del governo consisteva nel tenere buoni i tedeschi strizzando l’occhio agli Alleati. Il ruolo di Badoglio di contenimento nei confronti del movimento operaio fu considerato decisivo sia dai nazisti che dagli Alleati. L’addetto militare tedesco a Roma scriveva che solo il governo Badoglio poteva impedire “una slittata dell’Italia verso il comunismo”. Da parte sua, Churchill si felicitava della politica del re, barriera “al caos, alla bolscevizzazione del Paese, alla guerra civile”.

Mito e realtà dello sbarco Alleato

La storiografia ufficiale collega l’intervento militare angloamericano al ritorno della democrazia. Anche durante la recente invasione imperialista dell’Iraq, molti politici chiacchieravano a vanvera sul presunto ruolo di liberatori giocato dagli angloamericani nell’Italia del 1943-44. Ormai è noto che l’Oss arruolò elementi chiave della mafia per gestire lo sbarco in Sicilia. I Comandi Alleati utilizzarono la mafia ed il clero perché queste parevano loro le forze più adatte per mantenere l’ordine capitalista in Sicilia. Ogni attività politica fu proibita. Prima di sbarcare le borghesie inglese e statunitense pensavano già al dopo. Appena sbarcati, agenti dell’Oss accorsero all’isola di Favignana per liberare alcuni mafiosi confinati dal fascismo. Perno delle operazioni politiche in Sicilia fu il boss “Lucky” Luciano, che stava scontando 30 anni di reclusione negli USA. Il suo aiuto fu richiesto perché Luciano era il boss italoamericano più legato al mondo politico siciliano. Nel 1946 uscì di prigione dopo soli 10 anni con la clausola di rientrare in Italia. Il governatore militare di Palermo, Poletti, assunse nel suo staff Dam Lumia, nipote di un capomafia, e Vito Genovese, rientrato in Sicilia perché braccato dai tribunali americani ed in ottimi rapporti col notabilato fascista. Le nomine a sindaco privilegiarono sistematicamente agrari e capimafia che formarono il nucleo dirigente della Dc e del movimento per l’indipendenza della Sicilia (Mis). Calogero Vizzini fu nominato sindaco di Villalba ed i suoi sgherri ottennero il regolare porto d’armi. A Palermo diventò sindaco Lucio Tasca, latifondista, fratello del leader indipendentista. Dopo aver accolto gli eserciti con ghirlande di fiori, l’umore politico dei siciliani mutò rapidamente. L’industria venne subordinata alle esigenze belliche degli Alleati. Le razioni alimentari non aumentavano significativamente ed il carbone era introvabile. Inoltre, l’Amg decretò il blocco dei salari (mesi dopo, a Napoli, l’Amg ottenne che la Curia dispensasse i lavoratori alle dipendenze Alleate dal riposo domenicale), falcidiati dall’inflazione creata dall’emissione sfrenata di am-lire, la moneta dell’Amg. Mantenere la popolazione sulla soglia di sopravvivenza era un altro metodo per soffocare le lotte. Nonostante ciò, già l’8 agosto Lord Rennell, responsabile dell’Amg, riconosceva che i siciliani erano passati “dall’atteggiamento dei cani bastonati” a posizioni critiche nei confronti degli angloamericani. Rennell sottolineava poi la rapida crescita della propaganda comunista, in particolare tra i solfatari.

Su 1.556 fascisti arrestati in Sicilia durante l’amministrazione Alleata, 971 vennero scagionati o condannati con la condizionale. La repressione anticomunista, invece, non tardò. Arresti, chiusure di giornali e di sedi, ripristino del confino. La base comunista si mostrò spesso ostile agli Alleati. Alcune sezioni di Catania sostennero che “i nemici principali delle popolazioni liberate erano gli inglesi, contro i quali bisogna dirigere la nostra attività anche per evitare che essi arrivino in Germania prima dell’Armata Rossa”. Un aspetto peculiare della repressione anticomunista fu l’aiuto sistematico dei vertici Alleati alla burocrazia stalinista del Pci contro i suoi oppositori interni. Quando un responsabile dell’Oss chiese a Reale, funzionario Pci, di indicare gli uomini più pericolosi di Napoli si vide consegnare un biglietto coi nomi di Enrico Russo, Libero Villone, Cecchi e Balzano. Erano dirigenti della corrente classista della rinata Cgl, della ‘Frazione di sinistra dei comunisti e dei socialisti italiani’ e del Centro marxista d’Italia, gruppi comunisti che si opponevano alla politica togliattiana di collaborazione di classe. Giornali di questa area politica, “Il proletario” e ”Sinistra Proletaria”, vennero chiusi dagli Alleati e “Battaglie Sindacali” della Cgl attese quattro mesi prima di ricevere il permesso di pubblicazione. Occasionalmente, le truppe Alleate assunsero direttamente il compito di reprimere le insurrezioni contadine che spesso anticipavano il loro arrivo, come nell’estate ‘43 durante l’occupazione delle terre del Marchesato di Crotone. Preferivano, però, affidare questa funzione ai Carabinieri, anche per il malumore crescente tra i soldati angloamericani impiegati nelle repressioni, come emergeva da alcuni giornali di reggimento. Storia dimenticata, molti soldati nordamericani ed inglesi contribuirono alla costruzione di sezioni operaie nel Sud e di depositi clandestini di armi nel Nord. Particolarmente attivi furono i soldati delle sezioni inglese e statunitense della Quarta Internazionale.

La seconda ondata: verso un dualismo di potere?

Il 16 agosto i commissari sindacali minacciarono le dimissioni se i prigionieri politici non fossero stati immediatamente liberati. Il governo non concesse nulla ma nessuno si dimise. Il 16-17 agosto iniziò una nuova ondata di scioperi di massa, concentrati nel triangolo industriale. Ricomparvero carri armati nelle città ma ciò, come notava un rapporto del Pci, “ha eccitato ancor più gli operai e la popolazione”. Gli operai parlavano apertamente di soviet o di consigli operai. Il 17 agosto la principessa fu cacciata da un ospedale dove erano ricoverati i feriti dalle incursioni aeree: centinaia di donne le gridarono “Vogliamo la pace e il ritorno a casa dei soldati”. Il 19 lo sciopero fu generale. In molte città parteciparono anche impiegati e commercianti. A Torino si formarono embrioni di milizie operaie. Gli alpini incitavano gli operai a scioperare. La polizia rilanciava la caccia al ‘rosso’ ma la repressione era inefficace. Il governo pregò allora i nuovi responsabili sindacali di calmare gli operai. Buozzi e Roveda giunsero a Torino il 20 agosto con un aereo ministeriale ed assicurarono che il governo avrebbe ripristinato le Commissioni Interne e smilitarizzato le fabbriche. Non mancarono episodi di contestazione a Buozzi e Roveda ma le lotte operaie tendenti a creare un dualismo di potere furono riportate sul terreno della legalità borghese. Dal punto di vista delle burocrazie alla testa di Pci e Psiup, era decisivo strappare al governo le Commissioni Interne, restringendone le funzioni al terreno puramente sindacale, perché dal basso non sorgessero embrioni di potere proletario. Senza dubbio, Badoglio ed i suoi consiglieri ricordavano la condotta politica dei dirigenti riformisti della Cgl durante il “Biennio Rosso” quando Buozzi e D’Aragona furono i primi a contrastare sbocchi rivoluzionari. Padroni e monarchia sperarono quindi di essere salvati anche questa volta. I vertici di Pci e Psi diedero al governo una boccata d’ossigeno decisiva mostrando la loro natura di tenaci difensori dell’ordine capitalista.

8 settembre: crollo dello Stato borghese

Dopo l’armistizio e l’occupazione nazista di buona parte dell’Italia, Badoglio cercò di mantenere la continuità giuridica dell’apparato statale borghese. In tutta Italia i generali ‘disfattisti’ negoziavano la resa e la pelle coi nazisti proprio quando gli operai cercavano armi per difendersi e contrattaccare. A Piombino Carabinieri ed esercito tedesco furono sconfitti da operai e marinai in armi che per un giorno controllarono la città. Pci e Psiup, invece di sviluppare una propaganda tesa a rompere su basi di classe l’esercito, puntarono tutto sui generali badogliani. Questi ultimi, al momento decisivo, seguirono un preciso istinto di classe rifiutando di consegnare le armi ai lavoratori. Solo alcuni ufficiali subordinati si unirono ai lavoratori ed agli studenti. Nei confronti dell’esercito tedesco le direzioni socialdemocratiche e staliniste si ispirarono al più marcio nazionalismo antitedesco. Per impedire sbocchi rivoluzionari, il potenziale di classe era orientato nell’unità interclassista della guerra contro la Germania considerata come blocco omogeneo, senza distinguere la classe sociale cui ogni “tedesco” apparteneva. Continue diserzioni colpirono le truppe tedesche dal 25 luglio in poi. Una fraternizzazione sarebbe stata possibile. L’assenza di entusiasmo con cui la classe operaia tedesca combatteva la guerra dei nazisti risultava nitidamente da un rapporto periferico del Pci del settembre ‘43: “i soldati tedeschi sono ostili alle SS, essi sono stanchi della guerra e demoralizzati; parecchi soldati tedeschi cercano abiti civili per disertare e tentano di avvicinarsi cordialmente alla popolazione; specialmente nelle fabbriche i soldati tedeschi si avvicinano agli operai, tipico è il comportamento dell’Aeronautica, questi frequentemente abbandonano il posto di guardia e le armi per andare a parlare con gli operai”. Tale situazione favorevole scomparve verso fine settembre con la calata in Italia di decine di migliaia di SS per ristabilire la disciplina borghese nell’esercito. Mentre la resistenza dei lavoratori romani veniva stroncata, il maresciallo Caviglia, con l’assenso di Bonomi, firmava la resa della città ai generali nazisti, visti come il male minore. Il re e Badoglio avevano già preso il largo. Quando Roma cadde in mano ai nazifascisti furono gli operai a ricevere le minacce dei nuovi padroni. Infatti, il maresciallo Kesselring, comandante delle truppe tedesche d’occupazione, avvertì che con l’entrata in vigore delle leggi tedesche di guerra “i promotori di scioperi” sarebbero stati fucilati. Dal settembre ‘43 l’esistenza dello Stato borghese in Italia fu garantita sostanzialmente dalle baionette dei rispettivi eserciti occupanti e dai loro apparati burocratici.

La linea d’unità nazionale praticata durante i “45 giorni” accelerò la formazione di numerosi gruppi di oppositori di sinistra nel Pci e nel Psiup e nella loro periferia. A Roma emerse Bandiera Rossa, giornale del Movimento Comunista d’Italia. In un volantino diffuso a Roma dal MCd’I si tracciava un paragone tra Badoglio e Kerensky, affermando che il governo “deve ricorrere alle vecchie cariatidi della democrazia e richiedere l’aiuto della socialdemocrazia nel tentativo di soffocare il movimento delle masse operaie”. A Torino un gruppo rilevante di operai Fiat del Pci si oppose prima alla linea di collaborazione di classe seguita dal loro partito ed in seguito alla scelta di quasi tutto il Comitato Federale torinese di “andare in montagna” abbandonando le fabbriche. All’inizio si presentarono come corrente critica all’interno del Pci e poi nel dicembre 1943 lanciarono Stella Rossa, organo del Partito Comunista Integrale che contò più di duemila membri prima di riconfluire nel Pci nel ‘44. Nell’ottobre ‘43 la sinistra Psiup presentò una mozione di critica alla politica seguita durante i ‘45 giorni’ perché “i tre partiti di destra hanno assolto, finora, in modo estremamente brillante il loro compito di paralizzare o quanto meno imbrigliare le sinistre in una sterile collaborazione politica, nella quale erano solo le sinistre a fare delle concessioni”.

Le masse giocarono un ruolo decisivo nell’abbattimento del fascismo. Il processo rivoluzionario che si aprì nel luglio ‘43 presentava analogie con la rivoluzione del febbraio ‘17 in Russia, quando la lotta dei lavoratori contro lo zarismo fu temporaneamente scippata da un governo guidato da un principe sostenuto dalle organizzazioni riformiste del movimento operaio. Tra alti e bassi, sino al soffocamento dell’insurrezione successiva all’attentato a Togliatti del luglio ‘48, l’Italia fu caratterizzata da una situazione rivoluzionaria in cui più volte i lavoratori avrebbero potuto prendere il potere. La classe dominante era divisa ed i suoi partiti politici deboli almeno fino al ‘46, la piccola borghesia (contadini, studenti) oscillava verso il proletariato e la classe lavoratrice era radicalizzata. La condizione mancante per la vittoria fu la presenza di un partito autenticamente rivoluzionario a causa del tradimento del Pci togliattiano per volontà di Stalin.

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