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Almaviva Napoli: persa una battaglia non la guerra

Il 22 e 23 febbraio i lavoratori di Almaviva di Napoli hanno votato sull’ipotesi di accordo licenziata il 16 febbraio a Roma al ministero dello sviluppo. Alla votazione hanno partecipato 690 lavoratori su 818 aventi diritto. L’esito della votazione ha visto prevalere i Sì con 547, 5 astenuti e 138 contrari.

L’accordo che i lavoratori di Napoli alla fine hanno dovuto accettare è semplicemente vergognoso, abbandonati da tutti, davanti alla prospettiva di essere licenziati come è avvenuto a dicembre con quelli di Roma, l’hanno dovuto subire obtorto collo. Il 20% di voti contrari in questa situazione non era per nulla scontato.

Molte le analogie con quanto abbiamo vissuto sempre nella provincia di Napoli sette anni fa nello stabilimento di G.B.Vico della Fiat di Pomigliano, allora come adesso i lavoratori sono stati costretti a esprimersi con una pistola puntata alla tempia.

Cosa dice l’accordo

L’accordo nei fatti è una deroga su tutto quello, poco per la verità, che ancora il contratto nazionale delle telecomunicazioni non permette di fare ai padroni. Non per nulla il rinnovo nazionale del contratto delle telecomunicazioni è bloccato da anni. Quanto succede ad Almaviva, come in Tim dove l’azienda ha recentemente disdettato unilateralmente il contratto aziendale e imposto un proprio regolamento interno, sono battistrada per peggiorare le condizioni di tutti i lavoratori della categoria.

L’azienda avrà nei fatti libertà nel controllare la produttività singola dei lavoratori al call center, potrà in modo arbitrario esercitare pressioni con colloqui personali, sottoporre a continui test i lavoratori per monitorare la produttività e l’efficienza. Saranno sottoposti a una continua pressione e minaccia al fine di lavorare come automi, come macchine. Garantire la riservatezza dei risultati del monitoraggio o una presenza dei delegati sindacali nei colloqui, affermare che eventuali risultati negativi non saranno usati per il licenziamento, rappresenta un punto di mediazione che in futuro non sappiamo quanto possa reggere visto che siamo abituati ormai al tuonare di Almaviva sulla produttività e quindi, nella sua logica, sui perimetri occupazionali.

Altrettanto vergognoso è il capitolo sul trattamento economico. Ancora una volta si tagliano i salari in un’azienda che in questi decenni ha ricevuto miliardi dallo stato sotto ogni forma possibile e immaginabile (fondi europei, ammortizzatori sociali, fondi perduti e tanto altro) usati o come incentivo alle assunzioni o per fare formazione mentre si era in cassa integrazione.

Via gli scatti d’anzianità, modifica del calcolo dell’accantonamento del Tfr. Se si considera che i lavoratori e le lavoratrici Almaviva prendono già stipendi da fame, spesso part time e che da anni, e per tanto tempo in futuro dovranno sopravvivere, in un territorio ad alta densità di disoccupazione, con salari ulteriormente falcidiati dalla cassa integrazione, è un altro colpo non da poco. Ovviamente nell’accordo è messo nero su bianco che sono misure sperimentali e temporanee (come lo erano nell’accordo del 22 dicembre) e che se verranno sospese perché l’azienda ripartirà, comunque non verrà restituito quanto sottratto fino ad ora.

C’è altra cassa a zero ore, utilizzata su base verticale, pianificata ogni 15 giorni e con un preavviso di cinque giorni. Se poi i carichi di lavoro aumenteranno l’azienda potrà richiamare i lavoratori con un preavviso di sole 48 ore o meno se lo desidera. Ovviamente il turn over è bloccato, ma sempre con la postilla che fa comodo all’azienda, ovvero “fatte salve le esigenze produttive”. Quindi si potrà assumere e contemporaneamente tenere i lavoratori in cassa integrazione?

Il tutto per raggiungere nel più breve tempo possibile il cosiddetto “punto di equilibrio” e la piena compensazione. Affermazione che come un mantra viene ribadita in vari parti dell’accordo. Cioè arrivare al punto in cui il lavoro dei dipendenti produrrà ricavi aziendali sufficienti a sostenere i costi di produzione.

Quindi, senza investimenti (e questo lo dimostra la percentuale altissima media di Cigs nel 2017, 70%), con call center aperti anche all’estero dove la manodopera è più economica, spremendo come limoni i lavoratori, dopo averne licenziati 1.666 a Roma e ridimensionato Palermo, continua a pesare una spada di Damocle sui lavoratori, in sostanza anche questo accordo è solo temporaneo. Un accordo che costerà lacrime e sangue ai lavoratori e che non può e non deve rappresentare un modello contrattuale: il sito napoletano, inoltre, resterà per tre anni (per adesso per uno) l’unico sito di Almaviva con ammortizzatori sociali.

Padroni e governo erano sicurissimi che l’ipotesi sarebbe stata approvata, non poteva essere altrimenti visti i numerosi e reiterati episodi di terrorismo psicologico a cui sono stati sottoposti. Nella notte del 22 dicembre quando venne firmato il primo accordo capestro per “evitare” la chiusura di Napoli e Roma, l’Rsu di Roma rifiutò di sottomettersi a un accordo che era addirittura meno peggio di questo. Furono licenziati in tronco 1.666 lavoratori, non possiamo neanche immaginare il dramma di quei lavoratori e delle loro famiglie proprio alla vigilia di Natale.

Un attacco a trecentosessanta gradi

E che dire dei lavoratori di Palermo? 300 “ceduti a un’altra società, sempre dopo una dura lotta e 90 trasferiti coercitivi a Rende in Calabria. Ma la lista è lunga e si potrebbe continuare. Va detto chiaramente che questo epilogo non era per nulla scontato, era infatti necessario mettere in campo una mobilitazione veramente adeguata alla situazione. Non ci sono alibi, qui non si può ripetere quel leitmotiv che tanto spesso sentiamo nelle assemblee sindacali in cui i dirigenti dicono “non si può fare altrimenti perché i lavoratori non sono disposti a lottare”. No cari signori, la determinazione e la generosità con cui i lavoratori di Napoli, Roma e Palermo hanno tentato di opporsi al peggio è evidente.

La notte del 22 dicembre è stata una sconfitta per tutti. L’Rsu romana aveva mantenuto fede a un mandato ricevuto dai lavoratori, non firmare un ulteriore accordo indegno. Le segreterie nazionali di categoria, quella notte nel ministero c’erano anche i segretari nazionali di Cgil, Cisl e Uil e il rappresentante del ministro, invece di far propria la richiesta di tener duro dei lavoratori romani, hanno scaricato tutta la responsabilità sui lavoratori e accettato di separare le due vertenze. Divisioni che abbiamo visto sempre più acuirsi negli ultimi anni, cedendo completamente alle arroganti pretese di Almaviva. Ancora una volta hanno scaricato verso il basso la responsabilità di una vertenza che dal punto di vista contrattuale è emblematica: centralità confermata successivamente tra le altre cose da un ordine del giorno accolto all’unanimità al direttivo nazionale dell’Slc-Cgil (la categoria delle telecomunicazioni della Cgil) il due febbraio scorso in cui ci si impegnava a conquistare un accordo dignitoso per i lavoratori di Almaviva.

La linea sindacale di tentare ogni mediazione possibile per limitare i “danni” da anni ha fatto il suo tempo. In particolare in un contesto di crisi, aumento della disoccupazione e compressione dei salari per garantire i profitti ai padroni, i margini di trattativa non esistono.

Vale per Almaviva come per Tim, per Sky (licenziamenti mascherati da trasferimenti da Roma a Milano) alla Gepin, tutti licenziati. Con queste posizioni si finisce sempre per accettare le condizioni imposte dal padronato, che come è noto non detiene le aziende per filantropia o offrire dei servizi, ma per fare un profitto. Su queste basi i consigli di amministrazione di qualunque azienda non saranno mai appagati, perché è nella compressione dei diritti, degli orari e dei salari che si ricava il profitto.

I padroni delle leggi se ne fregano, quando non sono fatte su misura per loro, tanto poi, come dimostra l’accordo di Napoli, se la legge non va bene si deroga. Come tanti lavoratori in Almaviva e non solo hanno in più occasioni spiegato quello che serviva non era contrattare il meno peggio aspettando una legge sui call center o sulle gare d’appalto, ma reinternalizzare i servizi e trasformare Almaviva in una azienda di pubblica utilità nazionalizzandola.

Fare delle battaglie solo per essere riconosciuti come parte sociale nelle trattative, come fa il sindacato, oggi non è assolutamente sufficiente se si vuole davvero migliorare tutto il contesto del settore. Senza un controllo dei lavoratori sui propri sindacati, sarà sempre difficile esprimere le proprie istanze. Non c’è democrazia sindacale senza una diretta espressione dei lavoratori nelle piattaforme, nel modo di organizzare le lotte, nel costruire l’unità tra i lavoratori. Per questo dobbiamo continuare a batterci, sapendo che si può perdere una battaglia ma possiamo ancora vincere la guerra di classe che i padroni hanno dichiarato.

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