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27 Aprile 2017Nell’80° anniversario della morte di Antonio Gramsci, avvenuta il 27 aprile 1937, pubblichiamo questo articolo di Pietro Tresso scritto subito dopo la scomparsa del comunista sardo. Tresso, per diversi anni fra i dirigenti del Pcd’I più vicini a Gramsci, fu membro dell’Ufficio politico del Pcd’I; verrà poi espulso dal partito nel 1930 per essersi opposto alle politiche staliniane. Aderirà in seguito all’Opposizione di sinistra e in seguito alla Quarta internazionale.
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Dopo undici anni di prigione, Antonio Gramsci è morto per un’apoplessia in una clinica di Roma dove, da due anni, la bestia le repressione fascista era costretta a trasferirlo per evitare che l’uomo più amato dal proletariato d’Italia morisse nel fondo della sua cella.
Antonio Gramsci era arrivato al socialismo negli anni immediatamente precedenti la guerra del 1914, quando, giovane studente figlio di poveri contadini, dalla nativa Sardegna era arrivato a Torino per continuare gli studi. E nella capitale del Piemonte, a contatto con il proletariato industriale più concentrato e più sperimentato d’Italia, fece i suoi primi passi sul cammino della rivoluzione.
Anche se d’aspetto molto trascurato e con un fisico sofferente, provocava subito un’enorme impressione in quanti lo incontravano. Mussolini che nel 1914, prima del suo rinnegamento, era stato chiamato a Torino dagli studenti socialisti si ricordava proprio di lui quando, otto anni dopo, scrisse che il Partito comunista era diretto da un piccolo gobbo, straordinariamente intelligente e scaltro…
La tormenta del 1914 e l’entrata in guerra dell’Italia nel 1915 trovarono Gramsci, ancora ignorato, ancora sconosciuto, al suo posto di combattimento. Non si piegò per nulla. Le dicerie secondo cui egli avrebbe avuto delle esitazioni, o addirittura delle simpatie per il movimento “interventista”, sono solo insinuazioni abilmente diffuse da certi “discepoli” del l’ul tima ora che vogliono giustificare la loro diserzione e la loro viltà.
Nel 1917, nell’anno più duro della guerra, nel momento in cui la reazione si accaniva spietatamente contro i rivoluzionari, mentre Ercoli (attuale segretario dell’Internazio nale comunista) rinnegava il partito in nome della “Magna Anglia”, Gramsci con tinua il suo modesto lavoro, assicura il servizio di corrispondenza per l’organo centrale del partito, l’“Avanti!”, e assicura i collegamenti con i compagni rimasti a Torino o che ritornano dalla zona di guerra. Gramsci stesso mi ha assicurato, nel 1922, che non era mai stato interventista.
Ma è solo nel 1919 che Gramsci rivela tutte le sue qualità di polemista, di mente e di cuore della classe operaia e più in particolare, del proletariato industriale del Piemonte. Nel 1919 il proletariato italiano è in piena effervescenza rivoluzionaria. Gli arre tramenti successivi della borghesia avvicinano, agli occhi della classe operaia e delle masse lavoratrici, la possibilità della vittoria definitiva, del trionfo della rivoluzione. Le notizie che arrivano dalla Russia sulle vittorie e il consolidamento del potere sovietico, caricano d’entusiasmo le masse. L’emblema della falce e del martello copre i muri delle città e dei paesi da una parte all’altra d’Italia. I nomi di Lenin e Trotsky sono acclamati come incitamento alla lotta da milioni di operai, di soldati, di piccoli contadini. Il partito socialista, che si rafforza di giorno in giorno, si rivela assolutamente impotente a coordinare il movimento delle masse, a organizzare la rivoluzione. Anche gli elementi più coscienti e decisi avanzano con passo incerto.
Emergono due nomi: Bordiga e Gramsci.
Bordiga, conosciuto dai giovani già prima della guerra, e che meglio di Gramsci conosceva gli uomini del Partito socialista e il partito stesso, fonda a Napoli il settimanale “Il soviet” e organizza in tutta Italia la sua frazione (che più tardi sarà chiamata “frazione degli astensionisti” perché sostenne l’astensione alle elezioni parlamentari). La lotta di Bordiga è la lotta per la scissione dai riformisti e dai centristi; la lotta per la costruzione di un partito rivoluzionario. Da più di un anno si batte da solo per questo scopo. Gramsci non vede ancora questa necessità. Dall’esperienza fresca della rivoluzione d’Ottobre e delle rivoluzioni in altri paesi ricava soprattutto il fenomeno della crescita e dello sviluppo dei “consigli di fabbrica”. Vede in questi consigli la forma, scaturita dalla storia, dell’autogoverno delle masse lavoratrici, le cellule viventi dell’“Ordine Nuovo”.
“L’Ordine Nuovo” sarà quindi il titolo del settimanale che fonda a Torino e di cui prende la direzione. Tutta l’autentica personalità di Gramsci, la sua originalità, la sua grandezza si trovano in questo giornale. Per due anni, in articoli dallo stile molto personale, ma che riflettono tutto il tormento e tutto lo sforzo creativo dell’avanguardia rivoluzionaria del proletariato torinese, Gramsci dà fondo ai tesori della sua intelligenza, della sua cultura e della sua passione rivoluzionaria, per dare impulso ai consigli di fabbrica, per dimostrarne il valore distruttivo dell’ordine capitalista e la loro necessità, in quanto cellule costitutive dell’“Ordine Nuovo”, per l’ordine socialista e comunista. Gli operai avanzati delle grandi fabbriche di Torino, i membri delle “commissioni interne” si stringono intorno a lui. I burocrati sindacali lo accusano di minare l’autorità e le funzioni dei sindacati, ma lui risponde guadagnando alla sua linea la maggioranza sindacale e trasformando così i sindacati in potenti sostegni dei consigli di fabbrica anziché essere loro avversari.
La disfatta subita nel settembre 1920 dal proletariato italiano, in seguito all’abbandono delle fabbriche occupate, segnerà anche la fine del movimento dei consigli di fabbrica, a cui Gramsci ha dedicato il meglio della sua vita. “L’Ordine Nuovo” si trasforma da settimanale a quotidiano, ma sarà ormai un’altra cosa rispetto a quello che aveva fondato Gramsci.
I filistei e i burocrati, quelli che oggi cercano di sfruttare Gramsci a vantaggio del tradimento e della truffa staliniana, già ci presentano un Gramsci truccato, irriconoscibile agli occhi di coloro che lo hanno conosciuto e a lui stesso, se fosse ancora vivo. Noi invece possiamo dire che anche Gramsci, malgrado le sue notevoli qualità, si è sbagliato, e su problemi importanti. E possiamo aggiungere che ne era pienamente cosciente e che non aveva timore a dirlo. La prova è che per tanti anni si è rifiutato a raccogliere in un volume i suoi scritti. Alla fine si è deciso a farlo, e aveva cominciato a scrivere una prefazione (aveva già riempito circa cento foglietti con la sua piccolissima ma chiara calligrafia) in cui criticava se stesso con quell’onestà intellettuale che lo caratterizzava. Questo progetto è stato spezzato dal suo arresto, avvenuto all’epoca delle leggi eccezionali, e ora dalla sua morte.
Non sappiamo quale sia stata l’evoluzione di Gramsci durante gli undici anni di prigione, ma possiamo affermare questo: tutta l’attività di Gramsci, tutta la sua con cezione dello sviluppo del partito e del movimento operaio si oppongono in modo totale allo stalinismo, alle sue infamie politiche, alle sue spudorate falsificazioni. Una delle ultime azioni politiche di Gramsci, prima del suo arresto, nel 1926, è stata il fare approvare dall’Ufficio politico del partito italiano una lettera indirizzata all’Up del partito russo in cui gli si chiedeva di mantenersi, nei confronti del compagno Trotsky, nei limiti di una discussione fra compagni e di non adottare metodi che potessero falsare í problemi in discussione e impedire al partito e all’Internazionale di pronunciarsi con piena cognizione di causa. Questa lettera fu approvata anche da Grieco (Garlandi), Camilla Ravera e Mauro Scoccimarro. Ma la lettera fu inviata su un “binario morto” attraverso Ercoli [Togliatti] che, essendo a Mosca e avendo sondato i desti natari, credette bene tenersela in tasca.
Possiamo affermare anche che, almeno dal 1931 e fino al 1935, la rottura morale e politica di Gramsci con il partito stalinizzato era completa. Come prova sarebbe sufficiente il fatto che durante questi anni la stampa aveva messo in sordina la campagna per la liberazione di Gramsci, ma c’è anche il fatto che Gramsci era stato ufficialmente destituito come “capo” del partito e che al suo posto era stato collocato quel clown buono per tutti gli usi che risponde al nome di Ercoli!
I compagni usciti di prigione ci hanno comunicato anche che, due anni fa, Gramsci era stato espulso dal partito, espulsione che la direzione aveva deciso di tener nascosta almeno fino a quando Gramsci avesse potuto parlare liberamente. E ciò per poter sfruttare la personalità di Gramsci a proprio fine. In ogni caso i burocrati staliniani si sono dati da fare per seppellire Gramsci politicamente, prima che il regime mussoliniano non vi riuscisse fisicamente.
Gramsci è morto, ma per il proletariato, per le giovani generazioni che arrivano alla rivoluzione attraverso l’inferno fascista, resterà sempre colui che, durante gli ultimi vent’anni, meglio di ogni altro ha incarnato le sofferenze, le aspirazioni e la volontà degli operai e dei contadini poveri d’Italia. Resterà un esempio di dirittura morale e di onestà intellettuale assolutamente inconcepibile per la congrega dei leccapiatti staliniani la cui parola d’ordine è “arrangiarsi”.
Gramsci è morto, ma dopo aver assistito alla decomposizione e alla morte del partito che egli aveva potentemente aiutato a costruire, e dopo aver sentito nelle sue orecchie i colpi di pistola caricati da Stalin che hanno abbattuto tutta una generazione di vecchi bolscevichi. Gramsci è morto, ma dopo aver saputo che altri vecchi bolscevichi, come Bucharin, Rikov e Rakovski erano già pronti per il macello. Gramsci è morto per un colpo al cuore, forse non sapremo mal che cosa ha contribuito di più ad ucciderlo: se gli undici anni di sofferenza nelle prigioni mussoliniane o i colpi di pistola che Stalin ha fatto tirare nella nuca di Zinoviev, di Kamenev, di Smirnov, di Piatakov e dei loro compagni nei sotterranei della Ghepeù.
Addio Gramsci.
[Pubblicato per la prima volta in “La Lutte Ouvrière”, giornale dei trotskisti francesi, nel n. 44, del 14 maggio 1937]