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Trump, un piromane in una foresta

di Roberto Sarti

L’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti d’America, esattamente due anni fa, nel novembre 2016, ha messo completamente a soqquadro gli equilibri internazionali.

Nelle descrizioni di molti commentatori Trump è descritto come un pazzo, o nel migliore dei casi come un ignorante e incompetente. Tali definizioni dell’inquilino della Casa Bianca denotano una grande superficialità e si concentrano perlopiù sugli aspetti più eclatanti dei suoi comportamenti o delle sue esternazioni pluriquotidiane su Twitter.

Quello che è decisivo per un marxista non è soffermarsi su simili questioni secondarie, ma comprendere le ragioni profonde dell’ascesa di Trump nell’arena politica e le conseguenze per la lotta di classe negli Stati Uniti e a livello internazionale.

L’elezione di Donald Trump trova le sue cause nel declino relativo della potenza degli Stati Uniti a livello economico, politico e militare.

Nel 1945 gli Usa producevano il 50% del Prodotto interno lordo (Pil) del pianeta. Oggi questa percentuale è scesa al 20%. Nel 1945 dominavano il commercio mondiale, oggi il principale esportatore di merci è la Cina: nel 2016 deteneva il 17% delle esportazioni, mentre gli Usa solo l’11,8%.

Gli Usa sono ancora la principale potenza militare del mondo. Tuttavia il ritiro dall’Iraq e il pantano in cui sono ancora invischiati in Afghanistan hanno messo in discussione questo primato. In Siria, gli americani e il loro più stretto alleato, l’Arabia Saudita, hanno perso la guerra civile. Tutto ciò ha reso sempre più complicato un intervento militare fuori dai confini Usa, estremamente impopolare fra l’opinione pubblica.

Per oltre un secolo l’alternanza al potere tra il Partito democratico e quello repubblicano ha funzionato perfettamente nel garantire la stabilità del sistema politico. Nelle parole del grande scrittore americano Gore Vidal, “Esiste un solo partito negli Stati Uniti, il partito della proprietà, ed ha due fazioni di destra: i repubblicani e i democratici”.

Ma ora il bipartitismo è in profonda crisi. Sul versante democratico, la candidatura di Bernie Sanders alle primarie del 2016 ha messo a rischio il tradizionale legame tra settori di classe operaia organizzata e il partito. È stata solo la scelta scellerata di Sanders di appoggiare Hillary Clinton a ritardare una frattura, che tuttavia è solo rimandata.

Sull’altro versante, la vittoria di Trump alle primarie repubblicane è avvenuta contro l’intero apparato del partito. Questo scontro non è stato sanato, anzi si è approfondito in questi due anni. Il dilemma per l’establishment repubblicano è che non dispongono di un’alternativa credibile da opporre a Trump.

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Dopo le elezioni lo scontro si è trasferito all’interno dell’apparato dello Stato. Non si ricorda una contrapposizione come quella tra i servizi segreti e il presidente, che ha portato al licenziamento del capo del Fbi, James Comey, che indagava sul Russiagate, e alla critica spietata dell’ex capo della Cia, John O. Brennan, nei confronti di “The Donald”.

Una specie di “guerra civile” sotterranea, senza esclusioni di colpi, che si arricchisce ogni giorno di nuovi colpi di scena. Recentemente è esploso il caso della talpa che ha rivelato al New York Times l’esistenza di un “fronte di resistenza” contro la politica di Trump all’interno della Casa Bianca.

Domani potrebbe essere la volta di un nuovo scandalo. Generali che disobbediscono agli ordini, servizi “segreti” che diffondono dossier “segreti” ai quattro venti, mass media in prima linea contro la presidenza. Sono i segnali di una crisi della società americana e, soprattutto di divisioni profonde all’interno della sua classe dominante.

Dazi e protezionismo

Lo scorso 8 marzo Donald Trump ha firmato il primo decreto che imponeva dazi del 25% sulle importazioni di acciaio e alluminio dalla Cina e dall’Unione europea. Da quel giorno si sono susseguiti una serie di provvedimenti ritorsivi analoghi da parte cinese e dell’Unione europea a un ritmo quasi quotidiano.

Mentre scriviamo, a inizio settembre, Washington ha minacciato tariffe contro la Cina per 267 miliardi che, se sommate a quelle già annunciate qualche settimana prima (pari a 200 miliardi di dollari), equivarrebbero al valore dei beni made in China importanti negli Usa nel 2017.

Se consideriamo la teoria economica classica del capitalismo, il protezionismo non ha alcuna logica. Il commercio mondiale dovrebbe migliorare l’efficienza attraverso la competizione mondiale, che funziona meglio senza restrizioni. È la mano invisibile del mercato tanto cara ad Adam Smith, secondo il quale i capitali verranno collocati nel modo più efficace se il libero mercato non viene ostacolato. L’effetto sarebbe quello di favorire la competizione, e attraverso di essa lo sviluppo delle forze produttive, eliminando le aziende meno competitive e facendo prevalere quelle più efficienti.

Il dogma della globalizzazione ha dominato dal 1945 e gli Stati Uniti ne erano i principali fautori. Tramite l’eliminazione delle barriere doganali i capitali e le merci delle multinazionali Usa penetravano ogni singolo angolo del pianeta. La crisi economica del 2008, la più pesante dal 1929, ha fatto da spartiacque, spazzando via ogni certezza delle classi dominanti e imponendo la ricerca di nuove politiche economiche.

Il commercio mondiale non si espande più al ritmo di prima. Dal 2012 al 2016 è cresciuto meno della produzione mondiale, contrariamente alla tendenza prevalente fin dalla fine della Seconda guerra mondiale. Da essere, insieme all’espansione del credito, un fattore che ha permesso di prolungare la crescita dell’economia oltre i limiti del capitalismo, si è trasformato nel suo contrario. La crescita delle misure protezioniste trae la sua origine da questo cambiamento fondamentale.

L’introduzione di dazi è parte di una campagna per ridurre il deficit commerciale degli Stati Uniti, che fa della Cina il primo bersaglio. Nel 2017 il deficit commerciale degli Stati Uniti era di oltre 811 miliardi di dollari (59 miliardi in più rispetto al 2016) di cui 376 miliardi sono verso la Cina.

Spesso si parla di Trump come un isolazionista. Tale scuola di pensiero non è nuova negli Stati Uniti, trae origine dalla “dottrina Monroe” del 1823 (“l’America agli Americani”) e “The Donald” vi appartiene in toto. L’obiettivo profondo di questa politica non è tuttavia quello di rinchiudersi a guscio all’interno dei propri confini. Alla dottrina Monroe si aggiunse già nel 1904 il “corollario Roosevelt” che giustificava una politica aggressiva, principalmente contro le potenze europee, per difendere gli interessi Usa.

L’attuale amministrazione di Washington sa benissimo di non poter fare a meno di partecipare al mercato mondiale, anzi il proposito è di tornare ad esserne dominatrice incontrastata.

Dopo la Seconda guerra mondiale gli Stati Uniti sono stati i promotori di tutti gli accordi mondiali sul commercio, che avevano il Wto come motore principale. Oggi Trump non crede più all’efficacia di questi ultimi per tutelare gli interessi degli Usa.

Appena insediatosi, ha abbandonato il Partenariato Trans-Pacifico (Tpp), che rappresentava circa il 40% del commercio globale. Ha rottamato il Nafta, l’accordo nordamericano per il libero scambio con Canada e Messico, per stringere un accordo bilaterale con il solo Messico che, nelle sue intenzioni, dovrebbe limitare le importazioni dal confine meridionale e rivitalizzare l’industria a stelle e strisce. Nel solo periodo dal 1994 al 2010, 682mila posti di lavoro Usa si sono trasferiti in terra messicana, fondamentalmente nel settore manifatturiero e dell’industria elettronica. Nello stesso tempo, il Messico ha perso un milione e 300mila posti di lavoro nell’agricoltura, schiacciato dalle esportazioni americane. Trump vorrebbe ricreare i posti di lavoro perduti nell’industria Usa senza perdere i vantaggi ottenuti nel settore agricolo. È evidente che questo rappresenta una ricetta fatta e finita per una esplosione della lotta di classe in Messico.

Il modello di Trump è proprio questo: attraverso i dazi forzare accordi bilaterali a proprio favore, tramite i quali eliminare i deficit commerciali. Vuole ottenere tutto ciò non aumentando la competitività delle aziende statunitensi per mezzo degli investimenti ma utilizzando il peso economico e militare degli Stati Uniti per costringere le altre nazioni ad aumentare le importazioni dagli Stati Uniti o diminuire le esportazioni. Sono riusciti a raggiungere questo obiettivo anche con la Corea del Sud, che ha firmato proprio un accordo del genere.

Ecco perché Trump considera riunioni come quelle del G7 inutili e si comporta in esse come un elefante in una cristalleria, come accaduto in Canada lo scorso giugno. Vuole esacerbare le differenze e non ricomporle. Vuole separare le potenze europee, quando dal dopoguerra l’obiettivo di Washington è sempre stato quello di favorire un’Europa unita e soprattutto un unico mercato dove poter vedere i prodotti delle aziende americane.

In poche settimane il presidente Trump ha distrutto un sistema di regolamentazioni del commercio mondiale che nel corso degli ultimi settantacinque anni ha portato pace e prosperità senza precedenti alla maggior parte del mondo, compresi gli Stati Uniti”, ha commentato il Financial Times, dimenticando che la pace e la prosperità erano soprattutto appannaggio della borghesia.

Divisioni nella borghesia americana

Ci sono state critiche nei confronti della politica di Trump nei circoli della classe dominante, ma principalmente si sono concentrate sulle modalità con cui Trump sta combattendo la guerra commerciale, piuttosto che sulla contrarietà o meno ad essa. Un settore vuole spingersi ancora più in là. Il Senato ha approvato un disegno di legge che tenta di bloccare l’accordo di Trump con Zte (produttore cinese di telefoni cellulari che presumibilmente ha ignorato le sanzioni all’Iran) e punta il dito contro Huawei (gigante cinese delle telecomunicazioni) come una minaccia alla sicurezza nazionale. L’obiettivo di Trump, quello di fare comprare più prodotti americani ai cinesi, non sembra essere condiviso da importanti settori della borghesia che vorrebbero concentrare il tiro sulla proprietà intellettuale e sulle industrie del settore high-tech. La classe dominante statunitense (ma anche quella dell’Europa e del Giappone) è preoccupata dai progressi della Cina in questo comparto industriale. Il timore è che la Cina sarà presto in grado di competere nei settori in cui i paesi capitalisti avanzati hanno finora avuto un vantaggio.

Inoltre i capitalisti Usa beneficiano notevolmente del lavoro a basso costo in Cina. I super profitti di Apple diminuirebbero seriamente se dovessero pagare salari americani anziché cinesi, per esempio. Il 43% delle esportazioni cinesi sono appannaggio di società straniere, concentrate in computer e altri dispositivi elettronici.

Paul Krugman, l’economista keynesiano, afferma che “c’è la possibilità che una guerra commerciale a oltranza potrebbe significare dazi che si collocano in un range tra il 30 e il 60%. Ciò porterebbe a una riduzione molto grande del commercio, fino al 70%.” E il costo complessivo per l’economia mondiale “sarebbe una riduzione di circa il 2-3% all’anno del Pil mondiale”.

Come ha spiegato George Magnus, ex capo degli esperti economici del gruppo finanziario Ubs: “Le conseguenze economiche e politiche di una guerra commerciale sono più corrosive di quanto non suggeriscano semplici calcoli matematici. Un’escalation minerà la fiducia delle imprese, aumentando i prezzi e la perdita di posti di lavoro.

Trump ha affermato all’inizio di questo scontro che “le guerre commerciali sono facili da vincere”. Il presidente sottovaluta probabilmente le ritorsioni adottate dagli altri paesi. Infatti se l’America vuole vincere, è destino che qualcun altro dovrà perdere. E nessun paese capitalista è disposto a farlo.

Tantomeno lo sono i capitalisti americani. Emblematico è il caso della Harley Davidson, la famosa azienda motociclistica. Davanti ai dazi imposti dall’Ue ai prodotti made in Usa come ritorsione a quelli sull’acciaio di Trump, l’azienda con sede a Milwaukee ha annunciato che avrebbe trasferito parte della produzione fuori dagli Stati Uniti. Il presidente, furioso, ha accusato Harley Davidson di essersi “arresa al nemico” e ha minacciato di inasprire la pressione fiscale su quest’ultima. Ma c’è ben poco che potrà fare.

Infatti, il commercio estero oggi contribuisce in maniera minore ai profitti delle imprese statunitensi rispetto al passato. Negli anni ’40, le filiali straniere di società con sede negli Stati Uniti rappresentavano solo il 7% di tutti i profitti americani. La globalizzazione delle operazioni societarie statunitensi e degli investimenti di capitale ha cambiato lo scenario negli ultimi trentacinque anni. Nel 2016, la percentuale dei profitti interni si è ridotta al 48% dei profitti totali, mentre quelle delle operazioni e delle esportazioni estere sono cresciute rispettivamente al 40% e al 12%.

Per quanto riguarda il settore dell’automobile, i dazi potrebbero avere effetti devastanti negli Usa. Il sindacato locale ha avvertito che l’imposizione di una tariffa del 25% porterebbe alla chiusura dello stabilimento Hyundai in Louisiana e alla perdita di 20mila posti di lavoro.

Trump vorrebbe esportare la disoccupazione verso gli altri paesi, ma l’effetto potrebbe essere precisamente il contrario. Gli esempi storici non lo aiutano. Nel 2002 George Bush introdusse dazi nel settore dell’acciaio, come misura per impedire la chiusura di una serie di acciaierie sul suolo americano. Ebbene, negli anni successivi 200mila posti di lavoro furono persi grazie a quel provvedimento.

Gli Stati Uniti hanno svolto per settant’anni il ruolo di promotori e di garanti del libero scambio a livello mondiale. Chi potrebbe sostituirli? L’Ue è troppo debole e divisa. La Cina sarà il primo paese a soffrire di una contrazione del mercato mondiale, principale effetto della guerra commerciale che incombe. In realtà, non esiste nessun altro paese che possa svolgere questo ruolo.

Un piromane in una foresta

Per quanto riguarda la diplomazia internazionale, il ruolo di Trump è stato quello di un piromane in una foresta. La “strategia” di sviluppare relazioni bilaterali ha condotto a una completa revisione non solo della politica di Obama, ma anche di alcuni degli assi fondamentali della politica estera di Washington degli ultimi settant’anni. Trump ha dichiarato obsoleta la Nato, salvo poi rimangiarsi parzialmente questa definizione, quando ha compreso che l’Alleanza atlantica è necessaria (tra l’altro) per uscire dal pantano afgano. Ha stracciato l’accordo nucleare con l’Iran, attirandosi le ire dei tradizionali alleati europei, sull’altare della relazione esclusiva (già esistente in precedenza ma oggi rinsaldatasi), con Arabia Saudita e Israele. Riconoscendo poi Gerusalemme come capitale di Israele e trasferendovi l’ambasciata, ha gettato ulteriore benzina sul fuoco.

Nell’ottica delle relazioni bilaterali e nella diffidenza verso qualunque organismo sovranazionale, Trump cerca un accordo diretto con la Russia, necessario in primo luogo per permettere il ritiro delle truppe americane dalla Siria.

Questi comportamenti hanno un effetto destabilizzante sugli equilibri fra le varie potenze mondiali. Diversi strateghi della borghesia li considerano molto pericolosi, poiché la realtà è che gli Usa non sono mai stati così isolati a livello mondiale nell’ultimo secolo.

Così, la classe dominante proverà a limitare le politiche di Trump, utilizzando il Congresso degli Stati Uniti e l’apparato dello Stato. A un certo punto potrebbero provare anche a sostituirlo, attivando il meccanismo dell’impeachment.

Il problema per la borghesia è che le stesse condizioni sociali, politiche ed economiche che hanno dato vita al fenomeno Trump non possono garantire più la stabilità del sistema politico statunitense. Anche se riuscissero in qualche modo a rimuovere “The Donald”, non c’è alcuna certezza che al suo posto verrebbe eletto un presidente affidabile come quelli del passato.

La contraddizione è insolubile all’interno del sistema capitalista.

Quale posizione per il movimento operaio?

Di fronte a questo scontro fra Trump, ampi settori della borghesia americana e le altre potenze mondiali la classe operaia deve assumere una posizione di indipendenza di classe.

Disgraziatamente, la direzione dell’Afl-Cio, la principale confederazione sindacale, si è sdraiata sulle posizioni del Presidente: “I dazi dell’amministrazione in acciaio e alluminio sono buoni passi verso la fine delle pratiche predatorie che danneggiano i lavoratori e le imprese che producono negli Stati Uniti. L’amministrazione Usa ha giustamente sostenuto queste azioni nonostante l’opposizione proveniente da Wall Street”, ha dichiarato Richard Trumka, segretario dell’Afl-Cio.

Trumka si dimentica volutamente della politica antioperaia della Casa Bianca, che ha tagliato drasticamente le tasse ai miliardari e nella legge di bilancio 2018 prevede tagli alla spesa sociale per un totale di 213 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni.

Non è migliore la posizione di Bernie Sanders, che si oppone ai dazi contro Canada (confinante con lo Stato di cui è Senatore, il Vermont) e Ue ma “sostiene fortemente l’imposizione di penalizzazioni severe a paesi come Cina, Russia, Corea del Sud e Vietnam per impedire loro di esportare illegalmente acciaio e alluminio negli Stati Uniti e in tutto il mondo”.

In questo scontro tra potenze imperialiste, la classe operaia americana non deve schierarsi a fianco di nessuna di essa. L’Unione europea non è certo un campione del libero scambio: impone da anni dazi fino al 73% sull’acciaio proveniente dalla Cina. Per non parlare dello smantellamento dei diritti che viviamo sulla nostra pelle tutti i giorni.

La classe operaia deve opporsi a Donald Trump ma deve farlo sviluppando un proprio punto di vista di classe, non confondendo le proprie bandiere con quelle dei democratici che rappresentano semplicemente un altro settore del capitale, altrettanto pericoloso.

Come spiegava Engels, “La questione del libero scambio o del protezionismo si muove interamente all’interno dei limiti del sistema attuale di produzione capitalista, e di conseguenza non ha alcun interesse diretto per noi socialisti che vogliamo farla finita con questo sistema. (…) Nel frattempo, non c’è niente da fare: si deve procedere a sviluppare il sistema capitalista, è necessario accelerare la produzione, l’accumulazione, la centralizzazione della ricchezza capitalistica e, con essa, la produzione di una classe operaia che si pone al di fuori della società ufficiale. Utilizzare il protezionismo o il libero scambio non farà alcuna differenza alla fine, e cambierà poco la lunghezza della tregua concessa fino al giorno in cui arriverà la fine” (Prefazione all’edizione inglese del discorso di Marx sulla questione del libero scambio, 1888).

Il movimento operaio americano ha dato prova della propria forza più volte, come nel magnifico sciopero degli insegnanti la scorsa primavera. Basandosi su questa combattività e su un programma rivoluzionario, potranno sbarazzarsi di Trump, dei democratici e di tutti gli ostacoli verso la costruzione di un partito della classe operaia negli Stati Uniti, il vero tassello mancante verso l’abbattimento del sistema capitalista.

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