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Sindacato e padroni, uniti per l’Europa?

Lo scorso 8 aprile, in vista della campagna elettorale, i sindacati Cgil, Cisl e Uil hanno sottoscritto un documento assieme a Confindustria intitolato “Appello per l’Europa”.
Pure se non ha avuto grande risonanza mediatica, costituisce un atto politico rilevante da parte dei dirigenti della Cgil. Un atto che, va detto fin da subito, se portato alle sue conseguenze minerebbe alla radice qualsiasi proposito di rilanciare la credibilità della Cgil fra i lavoratori e l’efficacia della sua azione anche sul piano strettamente sindacale.
Innanzitutto è gravissimo che si firmi un testo politico di questa natura con la principale associazione padronale.
Domandiamo: esiste un interesse comune tra “i cittadini, i lavoratori e le imprese”, formula più volte ricorrente nel testo? L’esperienza recente e lontana ci dice di no, e tanto meno può esistere in un’epoca di crisi capitalistica come la nostra. In nome del cosiddetto interesse comune, del “siamo tutti nella stessa barca”, del “se va bene l’impresa stanno bene anche i lavoratori”, da circa quarant’anni la classe lavoratrice si è vista rifilare le peggiori fregature. Sfidiamo Landini o qualunque altro sindacalista a portare un solo esempio che dimostri il contrario.
L’appello invece afferma che questo interesse comune esiste e si incarna precisamente nell’Unione europea.
Secondo il documento, l’Ue ha “garantito una pace duratura” attorno ai valori dei “diritti umani, della democrazia, della libertà, della solidarietà, dell’uguaglianza”. Ha portato a “un processo di integrazione che favorisce la coesione tra paesi e la crescita sostenibile”, ecc.
“Per queste ragioni esortiamo i cittadini di tutta Europa a votare alle elezioni europee per sostenere la propria idea di futuro e difendere la democrazia, i valori europei, la crescita economica sostenibile e la giustizia sociale.”

 

Il vero volto dell’Unione europea

Rinfreschiamoci la memoria. In nome dell’“Europa”, i lavoratori italiani hanno subìto: la privatizzazione di gran parte del patrimonio pubblico (industrie, reti, banche, ecc.); il sistematico attacco al sistema pensionistico; la precarizzazione dilagante che ha distrutto gran parte dei diritti nei luoghi di lavoro; il sistematico arretramento dei salari; l’attacco continuo ai servizi pubblici (sanità, scuola, università, trasporti) con politiche di liberalizzazione e privatizzazione; politiche fiscali sempre più ingiuste e austerità permanente; il tutto accompagnato da uno dei debiti pubblici più pesanti del mondo.
Si potrebbe dire, a ragione, che queste politiche sono state a grandi linee applicate in tutto il mondo e non solo in Europa. Ma è indiscutibile che l’Ue non ha rappresentato un elemento di controtendenza, ma al contrario è stata uno strumento fondamentale per applicare il programma del capitale.
Il trattato di Maastricht (che istituiva la moneta unica), il trattato di Lisbona, il Fiscal compact, il Patto di stabilità, ecc. sono i pilastri che costringono ad applicare una politica di austerità permanente.
E quanto alla “coesione”, l’Ue non solo non ha integrato il continente, ma al contrario vede crescere senza sosta le diseguaglianze sociali. Si allarga la distanza fra ricchi e poveri, fra paesi e regioni. Basti dire che in Germania, potenza guida dell’Ue, le diseguaglianze sociali sono tornate ai livelli del 1913.

 

L’esempio della Grecia

Nel 2015, la Grecia venne chiamata a un referendum sul cosiddetto memorandum, ossia sull’accordo capestro che Ue, Bce e Fondo monetario volevano imporre in cambio del “salvataggio” del Paese; in realtà fu un salvataggio delle banche creditrici, soprattutto francesi e tedesche. Oltre il 60 per cento votò No a un accordo che massacrava le pensioni, i salari, i servizi pubblici, imponeva di svendere il patrimonio pubblico e metteva il paese di fatto sotto il controllo di queste istituzioni.
Eppure nonostante la chiarissima e democratica espressione della volontà popolare, il governo di Alexis Tsipras una settimana dopo accettò un accordo ancora peggiore. Da allora Tsipras, che era stato descritto come un irresponsabile e un pericolo pubblico, è diventato un esempio da seguire.
Il paese è stato saccheggiato dei suoi beni. Porti, aeroporti, ferrovie, raffinerie, aziende energetiche, telecomunicazioni sono stati svenduti per un’entrata che, se tutto va bene, non arriverà a 15 miliardi di euro. Il paese è commissariato e ogni misura viene vagliata dalla Troika (Ue, Bce, Fmi).
I servizi sanitari sono stati tagliati di circa il 75 per cento, le pensioni della metà, l’istruzione universale non c’è più, si pignorano e mettono all’asta le case di chi non riesce a pagare le rate. Aumentano solo i suicidi, le malattie, i senzatetto.
Di fronte a questo, che i padroni dicano che l’Unione europea è democratica, giusta e solidale è normale. Che il maggiore sindacato italiano si accodi a questa ipocrisia è sinceramente uno scandalo.

 

Perché i padroni vogliono l’Ue

Al capitale, l’Unione europea serve per due scopi fondamentali. Il primo è di rafforzarsi sul piano interno, ossia di centralizzare le proprie decisioni per imporle più facilmente alla classe lavoratrice e alla popolazione in generale. Potremmo ricordare anche il caso italiano del 2011, quando la Bce e l’Ue e i governi tedesco e francese non esitarono ad assecondare la speculazione dei mercati contro il debito pubblico, usando l’emergenza per imporre il governo Monti al posto di un Berlusconi ormai logorato e ritenuto troppo debole per applicare le politiche di lacrime e sangue che poi abbiamo conosciuto con il governo Monti-Fornero e successivamente con Renzi.
Quando i portavoce del capitale parlano di “solidarietà” europea si riferiscono precisamente a questo: all’interesse comune che unisce tutti i padroni, senza distinzione di nazionalità, contro tutti i lavoratori.
L’altro motivo fondamentale per cui si aggrappano all’Ue è quello di difendersi dalla concorrenza dei giganti Usa e Cina, che in questi tempi di guerra commerciale crescente, rischia di stritolare i piccoli paesi europei.
L’Appello infatti si scaglia contro “quelli che vogliono tornare all’isolamento degli Stati nazionali, alle barriere commerciali, alle guerre valutarie, richiamando in vita gli inquietanti fantasmi del Novecento”; tuttavia il protezionismo e le barriere vanno benissimo se applicati su scala europea. Il mercato unico dei capitali, dell’energia, del digitale i “campioni industriali europei in grado di competere con i colossi americani e asiatici”, la “politica estera comune capace di esprimere il peso politico internazionale dell’Unione” altro non sono che la traduzione di un concetto semplice: di fronte allo scontro per l’egemonia mondiale, il capitale europeo o si unifica, oppure è destinato a soccombere e diventare terreno di scontro e preda.
“Solo un’Europa politicamente unita può aspirare ad avere un ruolo nella governance economica mondiale contribuendo alla convergenza multilaterale e alla stabilità globale.”. Dove “convergenza multilaterale” e “governance economica” si leggono “difendiamo la nostra fetta di torta”. In questa lotta senza esclusione di colpi, il compito dei lavoratori e delle loro organizzazioni deve essere quello di mettersi in coda alle esigenze del capitale.
Ripetiamo: che questo lo dicano i padroni è normale, ma il sindacato?

 

La logica conseguenza politica (e sindacale)

L’appello è stato scritto per le elezioni. A quale espressione di voto dovrebbe corrispondere? Se si prendono alla lettera le argomentazioni principali, la logica conclusione è di votare le liste che in modo più oltranzista difendono l’Unione europea capitalista. Ossia Più Europa (i radicali, quelli che furono i primi a scendere in campo vent’anni fa per abolire l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori…)
oppure i candidati del Pd espressione più diretta del padronato come Calenda. A voler dare un’interpretazione più ampia, le forze che corrispondono al profilo tracciato sono il Pd, Più Europa, Forza Italia.
Insomma le “parti sociali” fanno appello a votare contro il governo in carica e in favore dei partiti che hanno governato fino al 4 marzo del 2018.
In una intervista rilasciata a Repubblica il 1° maggio, Maurizio Landini afferma che “sono almeno vent’anni che si è consumata la frattura tra il mondo del lavoro e la sua rappresentanza politica”, ossia che la sinistra non viene più identificata con gli interessi della classe lavoratrice. È una indiscutibile verità, ma è solo una parte. La “sinistra” largamente intesa ha voltato le spalle a ogni visione di classe, abbracciando le posizioni borghesi liberali, ma i dirigenti sindacali hanno dato un grande contributo a questo processo, aggrappandosi in modo spasmodico all’idea del “governo amico”, ossia di centrosinistra, facendo ingoiare ai lavoratori decenni di controriforme, fino a regalare gran parte del voto operaio ai 5 Stelle e alla Lega.
È una storia nota e stranota. E oggi, proprio mentre le illusioni verso la maggioranza gialloverde iniziano ad incrinarsi, cosa fa il gruppo dirigente della Cgil? Si mette a scrivere documenti assieme ai padroni per invitare a votare i partiti che per 25 anni, sotto ogni formula di governo (centrodestra, centrosinistra, unità nazionale) hanno massacrato la classe lavoratrice, i pensionati, i poveri, i giovani. Davvero un capolavoro!
Landini parla di unità sindacale con Cisl e Uil affermando l’ovvio, ossia che le divisioni politiche che nel dopoguerra determinarono la scissione della Cgil non esistono più. Verissimo, non esiste più il Partito comunista, la Democrazia cristiana, la divisione del mondo tra Usa e Urss. Ma questo non vuol dire che non esiste più la lotta di classe e la lotta politica fra le classi.
Anche ammettendo che sia possibile costruire un sindacato unitario in Italia (e da un punto di vista di principio non ci sarebbe nessun motivo di opporsi, non c’è dubbio che una parte consistente dei lavoratori non lo vedrebbe come un fatto negativo), la domanda: è su quali basi? Su quali basi sindacali, ma anche su quali basi politiche. Ad oggi, registriamo, le basi politiche sulle quali si cerca questa unità sono quelle di collaborare con Confindustria per applicare le politiche dell’Unione europea capitalista, ossia l’austerità, la precarizzazione, le privatizzazioni, ecc.
Su questa strada, qualsiasi unificazione sindacale non potrebbe altro che essere una unità burocratica, di apparati e di vertici, che si fanno legittimare dai padroni e dalle loro istituzioni, una unità contro i veri interessi dei lavoratori e contro qualsiasi reale democrazia nel sindacato e nei luoghi di lavoro.

 

Un’utopia reazionaria

Il lato grottesco è che tutto quanto proclama l’appello è completamente irrealistico: dare poteri sovrani al Parlamento europeo, il bilancio comune, gli eurobond, la politica estera comune… è una riproposizione delle ricette che i presunti salvatori dell’Europa propongono sempre più stancamente da ormai un decennio, lamentandosi che il popolo non li capisce e il mondo non li ascolta.
L’Unione europea è in pezzi e uscirà da queste elezioni ancora più divisa. La fine del liberismo si fa sentire anche all’interno dell’Ue, l’interesse comune dei capitalisti è sempre messo più in discussione dalla caccia disperata ad ogni fetta di mercato, e pazienza se la “casa comune” europea va a farsi benedire.
Nessuno può credere seriamente che la Germania o la Francia siano disposti a farsi carico del debito pubblico italiano o greco. Nessuno può credere seriamente a una politica estera comune quando in tutti i quadranti del mondo, dal nordafrica al Medio oriente, dai rapporti con la Cina a quelli con gli Usa, ogni governo gioca la sua partita nel tentativo di difendere il capitale nazionale.
Oltre un secolo fa, quando nel mezzo della Prima guerra mondiale si iniziò a parlare di Stati uniti d’Europa, Lenin e i marxisti avvertirono che su basi capitalistiche questa era una utopia reazionaria. Quel pronostico si è confermato esatto: l’integrazione capitalistica dell’Europa si è dimostrata utopica nella misura in cui in ultima analisi ogni borghesia continua a difendere il proprio Stato nazionale; ma nella misura in cui è stata messa in pratica ha mostrato il suo contenuto reazionario sul piano sociale e democratico.
Si dimostra una volta di più come la lotta fondamentale in Italia è quella per riaffermare una posizione di classe, che su ogni terreno sappia rompere sistematicamente ogni subordinazione degli interessi dei lavoratori e a quelli del capitale. Questo vale sia sul terreno sindacale che su quello politico, ossia della lotta per un partito dei lavoratori che oggi in Italia è assente. Su questa prospettiva si devono aggregare i militanti più consapevoli della Cgil e del movimento operaio in generale. Senza di questo, ogni ipotesi di riscatto e di controffensiva del mondo del lavoro, a cui pure Landini fa spesso riferimento, è destinata a fallire.

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