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Rivoluzione e guerra civile in Grecia. A 70 anni dalla battaglia di Atene

di Arturo Rodriguez

 

Il 3 dicembre 1944 cecchini britannici, polizia e paramilitari fascisti aprivano il fuoco contro i simpatizzanti comunisti che manifestavano in piazza Syntagma ad Atene, uccidendo 28 persone. La piazza protestava contro le provocazioni dei partiti borghesi greci e degli imperialisti inglesi, che stavano cercando di far fallire e di schiacciare il movimento rivoluzionario di massa che aveva sconfitto i nazisti. Iniziava così la battaglia di Atene.

Fu uno degli episodi più drammatici della rivoluzione e della guerra civile greca. Oggi, 70 anni più tardi, la Grecia si trova nel bel mezzo di un’altra grave crisi, con un nuovo scontro frontale tra lavoratori e padroni. È il momento di riflettere sugli eventi degli anni ’40 e trarne una lezione per oggi.

La Grecia e la Seconda guerra mondiale

Nell’aprile 1940, l’Italia fascista lanciò dall’Albania occupata un’offensiva contro la Grecia, dopo aver consegnato un ultimatum farsa ad Atene. A quel tempo la Grecia era sotto il pugno di ferro del generale Ioannis Metaxas, un dittatore che aveva preso il potere nel 1936. Metaxas era un bonapartista salito al potere nel contesto della decomposizione dello Stato borghese.

Il periodo tra le due guerre aveva visto una serie di colpi e contro-colpi di stato da parte di diversi settori della borghesia. La classe dirigente era divisa dallo scontro continuo tra liberali e conservatori: i primi rappresentavano la borghesia imprenditoriale (una parte importante della quale veniva dall’Asia Minore), gli altri i piccoli proprietari urbani e i piccoli agricoltori. Questa classe dirigente era debole e strettamente legata allo Stato e all’imperialismo britannico, ed era stata incapace di sviluppare le forze produttive della nazione.

L’incapacità di qualsiasi settore della borghesia greca di consolidarsi in maniera significativa fu aggravata dalla crisi economica mondiale e dalla crescita del movimento operaio sotto la direzione del Partito Comunista Greco (Kke). Nel periodo tra le due guerre, la classe operaia era cresciuta numericamente e maturata politicamente: tra il 1917 e il 1928 gli iscritti ai sindacati erano più che triplicati. Lo sciopero dei lavoratori del tabacco a Salonicco nel 1936, molto politicizzato, e la modesta ma significativa crescita elettorale del Kke convinsero la classe dirigente della necessità di andare verso un regime militare.

La base del Kke era alquanto limitata rispetto alla dimensione complessiva della popolazione, cosa che riflette un livello di urbanizzazione e industrializzazione relativamente basso (la classe operaia urbana rappresentava solo il 14% della popolazione nel 1928). Tuttavia si temeva che il proletariato greco, piccolo ma politicizzato, potesse conquistare le grandi masse di contadini poveri che costituivano la stragrande maggioranza della popolazione, come avevano fatto i lavoratori russi durante la Rivoluzione d’Ottobre.

Una caratteristica tipica del regime di Metaxas fu il suo viscerale anticomunismo. Migliaia di sospetti comunisti furono imprigionati, torturati, e talvolta uccisi. Le forze di polizia aumentarono del 20% e la speciale polizia segreta anticomunista crebbe di cinque volte. Questa dittatura era strettamente legata a banchieri e industriali (che dopo anni di instabilità ne avevano abbastanza di “politici” e “parlamenti” e temevano l’avanzata del movimento operaio) e, più in generale, alla base tradizionale del partito conservatore, ossia gli agricoltori arretrati e i piccoli proprietari. E tuttavia rimase un regime impopolare, osteggiato anche da molti borghesi (come gli intellettuali e la piccola borghesia) e sempre più costretto alla repressione per mantenere il potere.

Può sembrare sorprendente che questo regime fascista abbia opposto resistenza a Mussolini, ma lo stretto legame tra la classe dirigente greca e l’imperialismo britannico, che durava da più di cento anni, e il fatto che Mussolini si fosse affiancato all’aggressione tedesca senza una seria preparazione militare permisero al regime di Metaxas di resistere, grazie anche al significativo sostegno britannico.

La classe dominante greca aveva anche una tradizione di espansionismo e di militarismo e guardava con invidia all’Albania italiana. La lotta contro il fascismo italiano diede per la prima volta a Metaxas un certo sostegno popolare tanto che i Greci furono in grado di fermare l’offensiva delle truppe italiane e respingerle in Albania. Ma la morte del dittatore greco nel gennaio 1941 e il massiccio intervento di Hitler, che voleva un fronte balcanico sicuro in vista dell’Operazione Barbarossa, alla fine portarono alla sconfitta della Grecia, totalmente occupata dall’Asse dal maggio 1941.

Il movimento di resistenza

La maggior parte del paese fu consegnata a truppe italiane e bulgare, anche se la Germania, occupando Atene, diverse isole ed altre aree strategiche, manteneva il controllo effettivo. Fin dall’inizio l’Asse trattò la Grecia come fornitore di merci e materie prime a basso costo. Il paese fu costretto a pagare i costi dell’occupazione e furono requisite grandi quantità di cibo e rifornimenti, il che presto portò a una diffusa carestia con oltre 300.000 morti. Misure economiche draconiane furono combinate con la sanguinosa repressione di ogni forma di opposizione: e davvero la brutalità dell’occupazione in Grecia fu quasi senza pari in Europa.

In queste condizioni si formò rapidamente un forte movimento di resistenza, guidato fin dagli inizi dal Kke, che riunì i sindacati e alcune organizzazioni contadine minori per formare l’Eam (Fronte di liberazione greco) e il suo braccio armato, l’Elas (Esercito di Liberazione del Popolo Greco). La resistenza si basò inizialmente sulla classe operaia di Atene, Salonicco e altre grandi città e sui militari smobilitati che avevano combattuto gli italiani. Il Kke era stato temprato nella lotta clandestina durante gli anni della brutale dittatura di Metaxas e fu il movimento più coraggioso e coinvolto nella lotta contro il fascismo. A poco a poco, nel corso del 1941, i quadri del partito lasciarono le città per sfuggire alla repressione o per organizzare le cellule di resistenza in altri settori, e in montagna e nei villaggi si formò una poderosa forza partigiana. Il Kke entrò finalmente in contatto con i contadini poveri, che costituirono la maggior parte delle truppe dell’Elas, e interi villaggi presero la via delle montagne. L’incubo della borghesia greca – che il movimento operaio potesse risvegliare i contadini poveri – stava diventando realtà.

Va sottolineato che non si trattò semplicemente una “guerra di liberazione nazionale”, ma di una lotta per la laokratìa (potere del popolo): fu sotto la bandiera della rivoluzione sociale e con la promessa di consegnare il potere agli operai e ai contadini che il Kke riuscì a dare vita a un movimento di resistenza di massa. Anche se nominalmente seguiva la strategia del Fronte Popolare di Stalin, che imponeva la collaborazione di classe con la cosiddetta “borghesia progressista” e l’abbandono degli slogan socialisti, durante l’occupazione il Kke fu a tutti gli effetti tagliato fuori da Mosca e quindi libero di adottare una linea più rivoluzionaria. Inoltre, la direzione del Kke fu spesso sopraffatta dalla rapida crescita del partito ed ebbe poco o nessun controllo sulle questioni locali, costretta a lasciare l’iniziativa ai quadri di base e alle masse stesse.

Nei villaggi e nelle città controllate dall’Eam, la società subì una vera e propria trasformazione rivoluzionaria. La giustizia era amministrata dai Tribunali del Popolo che, a differenza dei vecchi tribunali dello Stato borghese, erano aperti, liberi, ed usavano il dimothikì (il moderno greco popolare) invece del katharèvousa (il greco letterario parlato dall’élite). Terre e ricchezza furono ridistribuite e i sospetti collaborazionisti, che spesso erano i ricchi borghesi, furono severamente puniti. Consigli del Popolo democraticamente eletti gestivano gli affari locali. Queste strutture, coordinate tra loro, organizzavano la produzione e la distribuzione di cibo e beni di prima necessità, stabilivano i livelli salariali, gestivano i servizi pubblici come l’assistenza, l’intrattenimento e l’educazione, e pianificavano lo sforzo bellico.

Attraverso i Consigli del Popolo, nella primavera del 1944 l’Eam organizzò le elezioni di un Consiglio Nazionale. In quelle dure condizioni di guerra e occupazione militare, votarono un milione e mezzo di persone – più che nelle precedenti elezioni borghesi del 1936. Benché le elezioni fossero aperte ai non appartenenti all’Eam o al Kke, i candidati Eam-Kke stravinsero. Lo storico Mark Mazower, non particolarmente favorevole all’Eam, descrive la composizione del nuovo governo rivoluzionario: “La tradizionale stretta mortale di avvocati e medici era stata spezzata: gli oratori nelle eccezionali e indubbiamente commoventi sessioni del Consiglio erano donne, contadini in calzoni da lavoro, operai, artigiani, preti e giornalisti.”

Questo dimostrava l’entusiasmo suscitato dalla democrazia rivoluzionaria che stava nascendo dal movimento di resistenza. Come i soviet della Rivoluzione Russa, i consigli popolari greci furono l’embrione di un nuovo Stato degli operai e dei contadini – “un tipo di governo dove la gente comune dirige la nazione”, come disse un contadino ad un agente americano che domandava come sarebbe stata la Grecia dopo la guerra.

Liberazione dagli occupanti volle dire anche liberazione dall’oppressione patriarcale e da quella nazionale. Come in tutti i movimenti rivoluzionari, la condizione della donna migliorò notevolmente: migliaia combatterono come partigiane ed ebbero per la prima volta il potere reale di decidere della propria vita e della loro comunità. Fu l’Eam il primo a dare alle donne greche il diritto di voto. Allo stesso modo i giovani, tradizionalmente soggetti al giogo della famiglia e degli anziani, poterono realmente sperimentare la libertà.

Un informatore per conto dei politici borghesi fuggiti al Cairo osservava preoccupato: “I giovani di entrambi i sessi, in quasi tutto il paese e in particolare nelle città, si sono schierati con la sinistra, e l’occupazione del nemico li ha abituati a esprimere le proprie idee senza paura e a difenderle con ogni mezzo.”

L’Eam organizzò scuole e combatté l’analfabetismo, l’arretratezza rurale e la superstizione religiosa. L’Organizzazione di solidarietà dell’Eam, l’Ea (Solidarietà Nazionale), fornì estesi aiuti contro la carestia. Nelle zone abitate da minoranze etniche, come gli slavofoni di Macedonia e Tracia o gli albanesi dell’Epiro, il movimento di resistenza interruppe anni di sciovinismo e di oppressione nazionale e liberò le minoranze oppresse, che combatterono coraggiosamente a fianco dei loro fratelli e sorelle di classe greci. Gli Ebrei sefarditi, che vivevano nella regione da secoli e ora venivano barbaramente deportati dai nazisti nei campi di sterminio, ebbero il sostegno e la protezione dell’ Eam, e molti di loro si unirono alle sue fila in montagna.

Con questa piattaforma rivoluzionaria una forza partigiana male equipaggiata e poco addestrata riuscì a sconfiggere un efficiente esercito moderno. Metodi rivoluzionari corretti sono il nucleo di una guerra vittoriosa contro il fascismo. Entro l’estate del 1943, l’Elas (il braccio armato di Eam, forte di circa 30.000 unità) controllava gran parte della Grecia rurale e aveva una solida base nei quartieri popolari di Atene e Salonicco; le forze dell’Asse erano indebolite dagli attacchi costanti dell’Elas. L’Elas era un esercito rivoluzionario, composto per lo più da giovani contadini o operai di entrambi i sessi – nella regione macedone, per esempio, solo il 5% dei combattenti dell’Elas erano impiegati o professionisti. Sebbene, in quanto alleato momentaneamente necessario, ricevesse anche qualche modesto sostegno britannico (forniture paracadutate e alcuni consiglieri militari – spesso di estrazione borghese che servivano più come spie che come consulenti), gli Inglesi non si fidarono mai dell’Eam. In ogni caso, questo sostegno fu molto modesto, e in pratica l’Eam condusse la propria lotta da solo.

Di fronte a un simile movimento di massa, i tedeschi condussero una delle più brutali campagne anti-partigiane in Europa, facendo terra bruciata. Per ogni soldato tedesco ucciso, decine di operai e contadini greci furono massacrati e interi villaggi vennero rasi al suolo. Tuttavia, l’Asse cominciò gradualmente a perdere il controllo del paese. La resistenza alla fine riuscì a intaccare il morale dei soldati tedeschi e italiani, spesso essi stessi operai o contadini costretti a combattere una crudele guerra imperialista. I soldati italiani disertarono in gran numero, e in diversi si unirono all’Eam. È degno di nota che il plotone di esecuzione italiano incaricato di fucilare Pantelis Pouliopoulos, eroico leader della Quarta Internazionale in Grecia, si rifiutò di sparare, e si dovette ricorrere a un distaccamento speciale per ucciderlo. Alla fine anche i soldati tedeschi, meglio nutriti ed equipaggiati, cominciarono a disertare e in alcuni casi ad unirsi ai partigiani. Entro l’ottobre 1944 l’Eam aveva liberato tutta la Grecia senza alcun significativo aiuto straniero.

Nel frattempo, la maggior parte della borghesia greca era fuggita al Cairo con re Giorgio II, sotto l’ala protettrice inglese, e qui avrebbe trascorso la maggior parte della guerra attraversata da lotte intestine. Quelli rimasti in patria si piegarono all’occupazione, sottomettendosi passivamente alle autorità di occupazione. I ripetuti tentativi compiuti dalla dirigenza del Kke di collegarsi con la “borghesia progressista”, come voleva la strategia del Fronte Popolare, furono stizzosamente respinti. Un settore molto significativo delle classi più abbienti addirittura si schierò attivamente con i Tedeschi, soprattutto via via che il movimento di resistenza si rafforzava.

Mark Mazower descrive la mentalità della borghesia: “Nacque un’alleanza eterogenea di anticomunisti greci, in generale mossi più dalla paura della rivoluzione bolscevica che dalla simpatia per il nazismo.” Questa controrivoluzione sconvolse del tutto l’opposizione repubblica/monarchia che tradizionalmente divideva la classe dirigente. Di fronte alla minaccia di una rivoluzione, la borghesia fu fin troppo felice di lasciare da parte le differenze.

L’occupazione ebbe un sostegno molto debole tra i Greci, trovandolo soprattutto nell’alta e media borghesia, ma anche tra i sottoproletari, le cui “condizioni di vita li predispongono […] al ruolo di strumento corrotto degli intrighi reazionari”, come sottolineavano Marx ed Engels. Queste classi, sotto la supervisione nazista, formarono i Battaglioni di Sicurezza paramilitari che condussero una guerra brutale contro la classe operaia e i contadini poveri. In realtà, già sotto l’occupazione tedesca, gli antagonismi di classe della società greca avevano raggiunto il punto di ebollizione: la guerra civile era iniziata, di fatto, prima del suo scoppio ufficiale dopo la liberazione.

Esisteva anche un piccolo movimento borghese di “resistenza”, l’Edes, guidato da Napoleon Zervas, un ex ufficiale dell’esercito con simpatie repubblicane e anglofile. Tuttavia, ciò che caratterizzava Zervas era la sua mancanza di principi che non fossero l’anti-comunismo. Per ovvi motivi fu favorito dagli inglesi, che trovarono in lui uno strumento flessibile e lo convinsero facilmente ad abiurare la fede repubblicana e giurare fedeltà al re. Ma le trascurabili dimensioni dell’Edes rispetto all’Eam resero impossibile a Londra puntare esclusivamente su Zervas. Nelle ultime fasi della guerra, quando i tedeschi si stavano ormai ritirando, l’Edes, probabilmente con la connivenza britannica, non ebbe remore a stringere con l’Asse un patto diabolico contro l’Elas. Negli ultimi mesi dell’occupazione, l’Eam combatté una feroce guerra non solo contro l’Asse e i collaborazionisti, ma anche contro l’”antifascista” Edes. In realtà, l’Edes passava poco tempo a combattere i tedeschi, preferendo saccheggiare i villaggi, terrorizzare le minoranze etniche (come gli albanesi Çam che espulse dalla regione dell’Epiro) o, cosa più importante, combattere contro i comunisti.

Prima dell’intervento di Hitler, lo Stato borghese greco era pronto a opporre una resistenza a Mussolini con il sostegno britannico. Ma con i nazisti che marciavano per le strade di Atene e un poderoso movimento di resistenza popolare in espansione, la borghesia si sottomise, fuggì, o, più frequentemente, collaborò con gli occupanti. La classe dominante greca temeva gli operai e i contadini organizzati nel movimento di resistenza molto più dell’Asse. Come disse Dimitris Glinos, attivista dell’Eam: “Cos’è che li fa riposare soddisfatti, spettegolare al caffè con i loro servi frenetici che non vedono l’ora di leccare l’osso del potere se gli viene offerto? Perché, soprattutto, temono il popolo, temono il suo risveglio, la sua partecipazione attiva alla lotta per la redenzione.”

La liberazione e la battaglia di Atene

Nell’ottobre del 1944, gli ultimi soldati tedeschi lasciarono la Grecia e il 12 dello stesso mese l’Elas entrò ad Atene. L’atmosfera tra le masse era elettrica, soprattutto nei quartieri popolari: non solo l’odiato invasore nazista era stato scacciato, ma si poteva percepire nell’aria che la presa del potere era prossima.

Scrisse il romanziere Giorgos Theotokas: “Oggi ci sentiamo sollevare e travolgere da un’enorme, incontenibile ondata di gioia popolare. Nessuno sa esattamente cosa vogliano le masse. […] La rivoluzione russa è nell’aria, ma anche la rivoluzione francese e la Comune di Parigi, una guerra di liberazione nazionale e chissà che altro, tutto confuso insieme. […] Basta una scintilla perché Atene prenda fuoco come un bidone di benzina.

Le profonde contraddizioni di classe che si stavano sviluppando in Grecia furono momentaneamente nascoste dall’entusiasmo e dal sentimento di unità. Dopo anni di sacrifici indescrivibili i fascisti stranieri erano stati sconfitti e il paese liberato. Anche il Kke, in sintonia con la posizione di Mosca, presentò gli inglesi quali alleati nella lotta al fascismo.

Ma le nubi si addensavano rapidamente su questo entusiasmo iniziale. A dispetto del ruolo minoritario avuto nella liberazione e nonostante la guerra fosse ancora in corso in gran parte dell’Europa, gli inglesi stavano ammassando truppe nel paese, e soprattutto ad Atene. I politicanti borghesi fuggiti al Cairo stavano tornando, protetti dagli inglesi e desiderosi di recuperare le loro posizioni di comando e di estromettere l’Eam.

Con il consenso dello stesso Kke si formò un governo di “unità nazionale” guidato da Giorgos Papandreou, un politico del Cairo che aveva avuto un ruolo trascurabile nella resistenza e che la primavera precedente aveva ignorato l’invito dell’Eam di entrare a far parte del Consiglio Nazionale. Ancor peggio, gli inglesi e i loro tirapiedi greci cominciarono a rimettere in libertà i membri dei Battaglioni di Sicurezza collaborazionisti – che ora potevano aggirarsi liberamente per Atene – e contemporaneamente insistettero affinché l’Elas venisse disarmato.

Dall’Italia, dove aveva combattuto sotto il comando canadese, fu riportata in patria la 3° Brigata Alpina, formata dal governo greco in esilio con elementi di destra e filomonarchici. Il comando della nuova Guardia Nazionale “apolitica” creata dal governo Papandreou e dagli inglesi fu affidato a convinti anticomunisti, e vi furono arruolati come ufficiali o truppa molti ex collaborazionisti. Ai militanti di sinistra, invece, spesso fu impedito l’arruolamento nel nuovo esercito. Di conseguenza, l’umore delle masse mutò velocemente, e all’entusiasmo si sostituì il sospetto. Disorientato, e sotto la pressione dei militanti, il Kke si ritirò dal governo Papandreou il 2 dicembre. Mentre la direzione continuava ad insistere per una politica di conciliazione, la base del partito si stava rapidamente spostando a sinistra.

La mattina del 3 dicembre ci fu una manifestazione in piazza Syntagma: da postazioni presso il palazzo del Parlamento e l’Hotel Grande Bretagne, sede del Quartier Generale britannico, cecchini della polizia e provocatori fascisti spararono sui manifestanti indifesi, facendo almeno 28 morti. In serata, nella stessa piazza, una nuova manifestazione di oltre 60.000 persone sfidò gli assassini, e le masse risposero alla barbarie con una sollevazione generale contro la borghesia e gli imperialisti inglesi. La ribellione si diffuse presto in altre regioni.

Iniziò così la battaglia di Atene, o Dekèmvriana (i fatti di dicembre), nella quale morirono ben 25.000 persone e 12.000 militanti di sinistra furono deportati in Medio Oriente o in campi di concentramento su isole deserte. Gli inglesi combatterono la rivolta del popolo di Atene con mezzi criminali come il bombardamento e il mitragliamento aereo dei quartieri operai e sparando con nidi di mitragliatrici posizionate sull’Acropoli, cose che nemmeno i nazisti avevano osato fare. Inoltre si faceva pieno affidamento sui collaborazionisti: in dicembre ne furono liberati 12.000 dal carcere per utilizzarli contro la classe lavoratrice.

Tuttavia la sconfitta di Atene non fu una questione strettamente militare. Infatti in città le truppe inglesi erano state messe con le spalle al muro e avevano perso terreno in tutta la Grecia, mentre in Gran Bretagna cresceva l’indignazione contro la politica del governo. Inoltre, i combattenti comunisti avevano disperso in gran parte la Guardia Nazionale di destra.

La responsabilità della sconfitta fu soprattutto nella politica imposta al Kke da Stalin, che aveva accettato che la Grecia dovesse rimanere nella sfera di influenza dell’imperialismo britannico. Ciò comportava l’applicazione del concetto di “fronte popolare” con la borghesia “democratica” o “progressista”, ossia il ripristino del capitalismo. Ma le masse lavoratrici tendevano spontaneamente al suo superamento, e di fronte a ciò la direzione del Kke andò in completa confusione.

Sempre in ritardo sugli eventi, preoccupati di ciò che avrebbe fatto la burocrazia stalinista dell’URSS e di perdere gli aiuti stranieri, i dirigenti stalinisti tentarono di trovare un consenso unanime e di tenere a freno le masse. L’11 gennaio 1945 concordarono un cessate il fuoco che implicava il ritiro delle forze comuniste da aree chiave. Questo accordo pose le basi per il vergognoso trattato di Varkiza del febbraio 1945, che ufficializzava la linea stalinista: potere ai partiti borghesi, disarmo e smobilitazione delle forze comuniste.

Nei mesi successivi una violenta ondata di terrore bianco travolse tutta la Grecia: i comunisti e gli ex combattenti della resistenza, disorganizzati e disarmati, vennero minacciati, imprigionati, deportati o uccisi mentre i dirigenti del Kke continuavano ad esaltare l’”unità nazionale” e la “democrazia” e a lamentarsi passivamente degli eccessi della borghesia e degli imperialisti inglesi.

Si diffuse la demoralizzazione: dopo Varkiza, un quarto dei militanti abbandonò il Kke. Solo nella primavera del 1946 il partito cambiò la propria linea e riprese la lotta armata, dando inizio all’ultima fase della guerra civile. Ma i comunisti erano ormai decimati dalla repressione e le masse demoralizzate dalle sconfitte e dall’irresolutezza della dirigenza: la strada era spianata per la disfatta dell’agosto 1949, quando gli ultimi reparti comunisti dovettero rifugiarsi in Albania e in Jugoslavia.

Il ruolo degli imperialisti inglesi e della “borghesia progressista”

Manolis Glezos, veterano della resistenza e ora eurodeputato di Syriza, in un recente articolo sul Guardian deplorava gli eccessi degli inglesi, sostenendo che “non c’era nessun complotto comunista per impadronirsi di Atene come Churchill ha sempre sostenuto. Se avessimo voluto farlo, avremmo potuto farlo prima che arrivassero gli inglesi.” E così la pensa la maggior parte degli intellettuali di sinistra in Grecia e all’estero. Lo storico Mark Mazower attribuisce l’aggressività britannica ad una “mancanza di comprensione” della politica greca. Tutto questo mira a nascondere i veri motivi per cui gli inglesi furono così spietati e brutali. La violenta offensiva di Churchill contro i comunisti fu veramente un errore, un eccesso, o il risultato dell’ ignoranza?

La verità è che, attaccando la classe operaia di Atene, Churchill fu coerente coi propri interessi di classe. Egli comprese che la divisione di classe che stava emergendo era insormontabile e che di conseguenza una democrazia borghese “normale” era insostenibile. La base di appoggio dei partiti borghesi era troppo stretta, e le aspettative delle masse erano troppo alte dopo l’esperienza rivoluzionaria della resistenza nella quale avevano avuto un assaggio di potere reale. I dirigenti del Kke, costretti a cavalcare la tigre di un movimento rivoluzionario di massa, erano inaffidabili come collaboratori nel sostegno a una democrazia borghese, soprattutto quando nelle vicine Albania e Jugoslavia movimenti simili stavano prendendo il potere.

Trotskij ha opportunamente descritto il crollo della democrazia in situazioni rivoluzionarie: “Si può definire la democrazia un sistema di interruttori di sicurezza e fusibili contro correnti di antagonismo nazionale o sociale troppo forti. […] Sotto una tensione di classe troppo elevata e di fronte ad ostacoli internazionali l’interruttore di sicurezza della democrazia fonde o salta. Questo è, in sostanza, il cortocircuito della dittatura “.

Nell’autunno del 1944 in Grecia esisteva una situazione di dualismo di potere. Da un lato i Consigli del Popolo e le armate partigiane, che controllavano la maggior parte del paese; dall’altro il governo borghese sostenuto dagli inglesi e da un esercito di ex collaborazionisti. Churchill si rese conto che si trattava di un’insostenibile situazione di stallo, risolvibile solo con la violenza. Per citare Trotskij:

“La società ha bisogno di una concentrazione di poteri e tende irresistibilmente a questa concentrazione tramite la classe dominante oppure, nel nostro caso, tramite le due classi che si dividono il potere. Il frazionamento del potere non è che un preannuncio di guerra civile. Prima però che le classi e i partiti rivali si decidano a questa guerra, soprattutto se temono l’intervento di una terza forza, possono vedersi costretti a pazientare abbastanza a lungo e persino a sanzionare in qualche modo il sistema di dualismo di poteri. Tuttavia questo sistema esplode inevitabilmente.” (Lev Trotskij, Storia della rivoluzione russa, Prima parte, La rivoluzione di febbraio, cap.11, Il dualismo di poteri pag 165, SugarCo edizioni).

Non appena ne ebbe l’opportunità, ovviamente Churchill cercò subito lo scontro violento e la guerra civile per imporre una dittatura monarchica in alleanza con i collaborazionisti, ossia l’unica forma sicura di regime borghese possibile in una situazione rivoluzionaria. Lo stesso fece la “borghesia democratica”, la cui adesione a una dittatura contro la classe operaia e i contadini poveri era la logica conseguenza del suo tacito (o non così tacito) appoggio alla precedente guerra nazifascista contro l’Eam.

La strategia britannica nella battaglia di Atene era rischiosa, ma era l’unico modo per prevenire l’ascesa del comunismo. La possibilità di controllare la Grecia valeva la scommessa: la Grecia infatti era da sempre terreno di manovra per l’imperialismo britannico, una finestra di interesse strategico sul Mediterraneo orientale, diventata ora ancora più importante in seguito all’inasprirsi dei contrasti con Mosca e alla nascita di “repubbliche popolari” nei Balcani.

La disponibilità di Churchill a sostenere attivamente ex collaborazionisti e fascisti nel loro tentativo di imporre una dittatura in Grecia la dice lunga sulle credenziali “democratiche” e “antifasciste” di colui che aveva guidato la Gran Bretagna nella Seconda guerra mondiale. Per Churchill e per la classe dirigente britannica la guerra contro i nazisti era stata in definitiva una lotta imperialista per difendere l’impero britannico dal militarismo tedesco. Nonostante l’adozione di una retorica antifascista e democratica per ottenere il sostegno della classe operaia britannica (che ovviamente aveva interesse a lottare contro il fascismo) la guerra fu combattuta nell’interesse del capitalismo e dell’imperialismo britannico per il quale, va da sé, la rivoluzione proletaria era una minaccia più grande del fascismo. La vera natura di tiranno imperialista di Churchill non fu mai più evidente che nel corso della guerra civile greca.

Va accennato anche all’ipocrisia degli storici e degli intellettuali liberali che deplorano enfaticamente l’imposizione forzata di regimi stalinisti in tutta l’Europa orientale. Lo stesso Churchill, padre della dittatura di destra nella Grecia del dopoguerra, creò il termine “cortina di ferro”. Ma se c’è un paese europeo che ha visto violenza, repressione e interferenza straniera finalizzate alla imposizione di un particolare regime, questo è la Grecia, dove l’intrusione straniera non venne da Stalin, ma da Churchill e Truman in difesa del capitalismo.

La tattiche utilizzate da Stalin erano indubbiamente perfide, ma nessun paese dell’Europa orientale vide mai qualcosa di anche lontanamente simile alla violenza inflitta al popolo greco dall’imperialismo britannico e americano insieme alla borghesia e ai fascisti locali: il massacro di interi villaggi, il bombardamento delle aree urbane, un ampio uso del napalm, la deportazione di migliaia di uomini e donne nei campi di concentramento su isole deserte, torture e intimidazioni, la decapitazione pubblica dei prigionieri politici… Soltanto nell’ultima fase della guerra civile, più di 150.000 persone furono uccise, e almeno altrettante andarono in esilio, il tutto per mantenere la Grecia dalla parte “giusta” della cortina di ferro.

Il ruolo dei dirigenti del Kke e di Stalin

I dirigenti del Kke commisero enormi errori di analisi, di prospettiva, nelle tattiche e nei metodi –un vero e proprio tradimento della rivoluzione greca per seguire alla lettera i dettami politici di Stalin. Nell’ottobre del 1944, l’Eam aveva la Grecia praticamente in mano, con la maggior parte del paese controllato delle milizie partigiane e dei Consigli del Popolo. Nonostante questa posizione di forza, la dirigenza decise consapevolmente di non prendere il potere e di partecipare a un governo borghese sotto l’egida degli inglesi. Questo permise agli inglesi e ai loro scagnozzi greci di rafforzare le proprie posizioni durante ottobre e novembre. Quando i tedeschi abbandonarono Salonicco, il Kke proibì all’Elas di occuparla, lasciandola al controllo delle forze britanniche (anche se diversi distaccamenti partigiani disobbedirono e vi entrarono ugualmente). Ad Atene il Kke mantenne una presenza armata relativamente piccola, sebbene avesse più di 50.000 uomini pronti nei dintorni. Le esitazioni del Kke in questa fase cruciale aprirono la strada alla dittatura fascista.

Rendendosi conto che in situazioni rivoluzionarie è necessaria un’azione vigorosa e audace, gli autentici marxisti rivoluzionari sono spesso accusati di essere violenti e spietati. Ma la storia dimostra che in queste occasioni i maggiori responsabili dello spargimento di sangue sono proprio i riformisti moderati e i conciliatori. Una rivoluzione è un periodo in cui le contraddizioni di classe nella società maturano e raggiungono il punto di rottura, una crisi che può solo essere risolta definitivamente a favore di una o dell’altra classe. E in quel momento la classe dominante è disposta ad usare ogni mezzo per mantenere il potere, ivi compresa la repressione violenta della rivoluzione, come dimostrato dall’ascesa di Mussolini, Hitler e Franco.

In queste circostanze, la conciliazione di classe è soltanto un pio desiderio che non ha alcun fondamento nel reale equilibrio delle forze in campo. Con la propria esitazione, i leader riformisti del movimento operaio confondono e demoralizzano i militanti meno risoluti, mentre al contrario incoraggiano e lasciano spazio alle forze reazionarie, consentendone la riunione e il rafforzamento, preparando così il terreno alla controrivoluzione violenta.

Nel 1944 i dirigenti del Kke si comportarono esattamente così, come i menscevichi e i socialisti rivoluzionari, che durante la Rivoluzione russa con le loro posizioni favorirono Kornilov e i Bianchi; come i socialisti italiani, che fecero deragliare la rivoluzione del 1919-1920 dando così un impulso decisivo al fascismo; come i comunisti cinesi nel periodo 1925-1927, quando Chiang Kai-shek, non appena fu abbastanza forte, trasformò in un massacro l’”alleanza democratica” con il Kuomintang sostenuta da Mosca; come nella primavera del 1936 il Fronte Popolare spagnolo, che con il suo atteggiamento diede ai generali controrivoluzionari tutto il tempo per complottare e, dopo l’insurrezione fascista di luglio, scoraggiò e divise sistematicamente le masse lasciando agire sabotatori e disfattisti.

In realtà, per quanto “violenta” possa sembrare nella sua audacia, una linea rivoluzionaria che attraverso una corretta comprensione del rapporto di forze sia in grado di colpire con decisione la reazione nel momento della più alta mobilitazione di massa può impedire la maggior parte dei massacri di una guerra civile e realizzare una trasformazione relativamente pacifica della società. Il partito bolscevico di Lenin è stato il primo nella storia ad adottare questo approccio.

La vergognosa politica della dirigenza del Kke andò avanti. Nel febbraio del 1945 fu firmato l’infame trattato di Varkiza: i comunisti si misero praticamente in ginocchio davanti a coloro che fino ad allora li avevano massacrati. Mentre il terrore bianco proseguiva impunemente e i paramilitari fascisti si riorganizzavano, il Kke consegnò diversi depositi di armi al governo borghese. Il disarmo parziale delle milizie fu un atto criminale che diede mano libera alla reazione, lasciando le masse indifese di fronte agli attacchi. Più di un anno fu sprecato lasciando passivamente che il massacro proseguisse e la decisione di riprendere la lotta partigiana venne solo nel marzo del ’46, quando ormai molti quadri e combattenti erano stati persi nella repressione.

Ma quali furono le cause di questa follia? Durante la guerra civile il Kke era guidato da Nikos Zachariadis, organizzatore esperto ma totalmente devoto a Stalin tanto da seguirne puntualmente la linea politica. Dopo un internamento a Dachau tornò in Grecia nel maggio 1945 per sostituire alla guida del partito Giorgos Siantos, che sebbene fosse anch’egli uno stalinista, era forse più onesto.

I dirigenti del Kke si erano formati politicamente nella Terza Internazionale stalinista, dove gli era stata inculcata una fanatica lealtà a Mosca e avevano assorbito la disastrosa teoria delle due fasi di collaborazione di classe. In generale costoro avevano fatto pochi sforzi per educare adeguatamente i propri quadri alle idee del vero marxismo: ancora nel 1927 non vi era alcuna traduzione greca del Capitale o di una delle opere di Lenin (e ovviamente molti classici furono tradotti soltanto dai trotskisti). Inoltre una struttura di partito fondata sulla cieca deferenza ai leader soffocava la critica e la discussione.

Si noti, per inciso, che la natura dell’odierno Kke deriva dagli epocali errori di quegli anni, errori che solo un approccio acritico e una rigida censura interna hanno potuto nascondere. Ma è interessante notare che sotto i colpi di maglio degli ultimi sviluppi rivoluzionari i dirigenti hanno riveduto alcune delle posizioni tradizionali e consentito una certa autocritica: ad esempio, di recente hanno respinto pubblicamente la teoria stalinista delle due fasi, ossia hanno ufficialmente abbandonato l’idea che il partito debba prima lavorare per la “rivoluzione democratica” e solo più tardi, in una seconda fase, per la rivoluzione socialista. Si tratta di uno sviluppo importante per il Kke dei nostri giorni.

Ma per quanto colpevoli possano essere stati i dirigenti del Kke, i veri responsabili della disfatta furono Stalin e la sua cricca di Mosca. Per cominciare, il dogmatismo e l’insufficiente livello teorico dei comunisti greci dipendevano dai continui voltafaccia di Mosca, dettati dalle mutevoli esigenze della burocrazia sovietica. Questo andirivieni senza principi generava confusione nel partito e favoriva una selezione negativa che espelleva gli elementi più critici e premiava la sottomissione incondizionata. Ogni voltafaccia era seguito da “rieducazione” e purghe: nel 1931, 33 quadri dirigenti del Kke invitati in Russia furono poi giustiziati a Mosca. Ecco la tragedia del movimento comunista negli anni ‘30: era composto da uomini e donne straordinariamente coraggiosi e impegnati, ma era al servizio di una burocrazia che aveva usurpato il potere politico della classe operaia sovietica.

Eppure i crimini di Stalin in Grecia vanno ben oltre la sua nota manipolazione del movimento comunista. Durante la primavera e l’estate del 1944 nel Kke si erano moltiplicate le pressioni a favore di una linea dura verso gli inglesi ed i politici del Cairo e della presa del potere, ma inviati militari sovietici avevano potuto contattare dalla Bulgaria la direzione del partito imponendo posizioni moderate nei confronti degli inglesi e la firma dell’accordo di Caserta con i politici borghesi. Nell’accordo i comunisti accettavano Papandreou come capo del governo e subordinavano l’Elas al generale inglese Scobie. Questo voltafaccia era difficile da digerire, e il generale sovietico Popov dovette difenderlo personalmente davanti ai dirigenti dell’Elas. Da allora Mosca avrebbe continuato a sostenere la conciliazione in ogni occasione. Nell’estate del 1945 una missione sovietica percorse la Grecia difendendo il compromesso, e questa politica cambiò solo nel 1946, quando la situazione del Kke si era fatta assolutamente insostenibile: solo allora Mosca diede l’assenso (e solo tacitamente) al ritorno alla lotta armata, ma a quel punto la sconfitta era inevitabile.

Perché l’URSS agì in questo modo? Per prima cosa, la burocrazia conservatrice al potere non era interessata alla rivoluzione proletaria internazionale ma a mantenere i propri privilegi. Nell’ottobre del 1944 Stalin firmò con Churchill un accordo segreto “sulle percentuali” in cui l’Europa venne divisa in sfere di influenza e la Grecia rimase dalla parte britannica. Stalin era pronto a lasciare affogare nel sangue la rivoluzione greca, se ciò serviva a rispettare il suo patto con gli imperialisti in cambio della libertà di agire indisturbato in Europa orientale e di instaurarvi regimi modellati sull’immagine dell’URSS stalinista. Perciò impose la teoria dei fronti popolari di collaborazione di classe al Kke mentre questo veniva massacrato dalla cosiddetta “borghesia progressista”. Una cosa simile era accaduta negli anni Trenta, quando Stalin fermo la rivoluzione spagnola per sedurre ( invano) l’imperialismo francese e quello britannico. Il cinico e palese tradimento del proletariato greco dovrebbe essere ricordato come uno dei più atroci tra gli innumerevoli crimini di Stalin e dei burocrati sovietici.

C’è però un altro serio motivo dietro i tradimenti degli stalinisti. L’Unione Sovietica aveva svolto un ruolo importante nella liberazione di gran parte dell’Europa orientale che ora era occupata dall’Armata Rossa: uno potente strumento per imporre burocrati asserviti alla guida dei nuovi governi. Ma la Grecia, l’Albania e la Jugoslavia non erano state liberate dai carri armati sovietici, ma da armate partigiane rivoluzionarie, indipendenti dal controllo di Mosca (come dimostra la successiva rottura di Tito con Stalin). È possibile ipotizzare che la paura di questi movimenti di massa indipendenti ed imprevedibili abbia giocato un ruolo nell’opposizione della burocrazia sovietica alla rivoluzione in Grecia.

Aris Velouchiotis

Nel partito molti erano ben consapevoli della follia della linea sostenuta da Mosca e dalla dirigenza. Anche se parecchi si attennero alla disciplina di partito cercando di adattarsi alla nuova situazione, altri si resero conto che era necessaria una rottura con la linea ufficiale o il proletariato greco si sarebbe trovato di fronte a una catastrofe, e cominciarono ad emergere tendenze di sinistra. Come abbiamo visto, la base del partito era in fermento già prima della battaglia di Atene. Il 22 novembre 1944 un congresso di attivisti locali decise che una prova di forza militare era inevitabile, e tale era anche la posizione della sezione di Atene, guidata da Vasilis Bartziotas.

Dopo la sconfitta di dicembre, il principale esponente dell’opposizione era Aris Velouchiotis. Era un giovane militante della città di Lamia iscrittosi alla Gioventù Comunista a metà degli anni ’20; durante la guerra aveva guidato un’unità partigiana, diventando uno dei leader più carismatici della resistenza. Sin dagli inizi aveva sostenuto la presa del potere e si era opposto all’accordo di Caserta. Il 17 novembre 1944, contravvenendo agli ordini di partito, aveva convocato una riunione di comandanti partigiani e aveva detto loro di prepararsi a uno scontro violento. Dopo la firma del trattato di Varkiza decise di andare in montagna con un gruppo di seguaci e riprendere la lotta armata, affermando che “Gli inglesi sono anche peggio dei tedeschi, e se vinceranno ci imporranno un regime fascista sotto un altro nome.” Invitò il Comitato Centrale a riunire le proprie truppe, a combattere apertamente gli inglesi e a disperdere l’Edes se si fosse schierato con il governo.

I dirigenti del Kke decisero di espellerlo, bollandolo come “ambiguo avventuriero e rinnegato”, nel corso di una campagna contro l’opposizione interna che portò all’epurazione di 20-25.000 membri del partito. Durante la primavera del 1945 Velouchiotis girò per le campagne radunando una nuova forza partigiana finché nel mese di giugno, caduto in un agguato e circondato da battaglioni fascisti, si tolse la vita: il suo corpo e quello del suo vicecomandante, Leon Tzavelas, vennero decapitati e le autorità misero in mostra le teste nella piazza centrale della città di Trikala.

La lotta di Velouchiotis fu un tentativo eroico, ma vano, di correggere gli errori degli stalinisti. Con il Kke diviso, i dirigenti che cercavano disperatamente di zittire ogni opposizione, nel bel mezzo di una brutale repressione, con la carestia di nuovo all’orizzonte e sulla scia della resa di Atene che aveva seminato amarezza e pessimismo, il compito di far rivivere un movimento di massa era colossale. I suoi sforzi per ridare vita al movimento attraverso bande di guerriglieri sparse sulle montagne erano insufficienti. Era invece necessaria una vigorosa e ben organizzata agitazione nella base del partito, in tutto il paese e soprattutto nelle città. Ma per poter far questo servivano proprio quei quadri affidabili ed esperti che a Velouchiotis mancavano.

La guerra civile greca e la teoria della rivoluzione permanente

La Grecia degli anni 40’ mostra ancora una volta la correttezza della teoria della rivoluzione permanente di Trotskij. Nell’epoca moderna lo schema classico delle rivoluzioni democratico-borghesi è obsoleto. La classe operaia è troppo forte, troppo indipendente e matura, e le borghesie nazionali troppo fortemente legate all’imperialismo, al capitalismo monopolistico e al latifondo: ciò rende irriducibile l’antagonismo di classe tra borghesi e proletari. Non esiste una “borghesia progressista” che possa servire da significativo alleato del proletariato nella lotta per le riforme democratiche. Inoltre, le rivoluzioni moderne non possono essere contenute nei limiti democratico-borghesi: o si evolvono rapidamente in senso socialista e affrontano i compiti storici dell’epoca di crisi del capitalismo o scoraggiano le masse e vengono sconfitte. Ciò è particolarmente vero nella lotta contro la reazione fascista, che per la sua stessa essenza di ultima, violenta risorsa del capitalismo svela gli insormontabili contrasti di classe della società moderna. Come diceva Trotskij “Il fascismo non è reazione feudale ma borghese. Una lotta efficace contro la reazione borghese può essere condotta solo con le forze e i metodi della rivoluzione proletaria.” (Lev Trotskij, Le lezioni della Spagna: l’ultimo avvertimento, 1937).

In Grecia, sulla base di una piattaforma rivoluzionaria, il proletariato e i contadini poveri condussero una lotta efficace contro il fascismo tedesco, mentre la borghesia nazionale capitolò agli occupanti o fuggì. Più tardi la borghesia “democratica” (alleata con il “democratico” imperialismo britannico, gli ex collaborazionisti e i monarchici reazionari) si rivoltò contro le masse e instaurò un regime dittatoriale, mentre i tentativi del Kke di mantenere la rivoluzione nel suo stadio borghese di liberazione nazionale e democratica, sistematicamente traditi dalla borghesia, fallirono e produssero soltanto demoralizzazione. Invece l’unico modo per realizzare gli obiettivi democratici fondamentali era per il proletariato greco quello di rovesciare la borghesia e di prendere il potere nelle proprie mani insieme ai contadini poveri, cosa che avrebbe inevitabilmente comportato la prosecuzione della rivoluzione verso obiettivi socialisti ed anticapitalisti.

Lezioni per la nuova rivoluzione greca

Oggi in Grecia esiste di nuovo una situazione rivoluzionaria. La profonda crisi del capitalismo ha portato ad un balzo in avanti della coscienza delle masse, che stanno diventando sempre più consapevoli della necessità di una drastica trasformazione della società. Il processo di radicalizzazione del popolo greco è culminato nella recente vittoria elettorale di Syriza (Coalizione della sinistra radicale), che ha finito per incarnare le aspirazioni dei lavoratori e dei giovani di una rottura radicale con il vecchio sistema.

Il nuovo governo ha promesso di realizzare alcune riforme molto significative: tra l’altro ha annunciato che raddoppierà il salario minimo e aumenterà le pensioni, che fornirà sovvenzioni per gas ed elettricità alle famiglie che non possono permetterseli, annullerà la privatizzazione di porti e compagnie aeree, riassumerà i lavoratori pubblici licenziati dai governi precedenti, riaprirà la televisione pubblica, e rinegozierà gli onerosi pagamenti del debito pubblico – forse la questione più controversa.

Anche se di per sé queste non sono proposte rivoluzionarie, se realizzate con successo migliorerebbero sensibilmente le condizioni di vita della popolazione greca, e i marxisti le appoggiano totalmente. Ma la dirigenza di Syriza non ha adeguatamente spiegato come intenda soddisfare tali promesse, se non accennando a tasse sulla ricchezza, lotta alla corruzione, e negoziati per accordi più favorevoli con l’Unione Europea e con le grandi banche e società che essa rappresenta.

Quello che l’esperienza degli anni 40’ ci può insegnare è proprio che qualsiasi cambiamento significativo incontrerà l’opposizione della classe dominante, che farà tutto il possibile per sabotare le riforme. Come il Kke di allora, oggi Syriza sta scivolando nella trappola di credere che la borghesia possa diventare ragionevole e sia possibile costruire una Grecia migliore senza entrare in conflitto diretto con essa. I capitalisti greci e quelli stranieri hanno ampiamente dimostrato che non accetteranno alcuna riforma di rilievo da parte di Syriza, e le recenti provocazioni da parte della Bce mostrano quanti sabotaggi e ricatti i capitalisti siano pronti ad usare contro il governo di sinistra.

Ma c’è un cambiamento significativo rispetto ad allora: oggi per la classe dominante una soluzione tramite una dittatura fascista è altamente improbabile. La base sociale per il fascismo (piccola borghesia, piccoli proprietari, contadini benestanti o ricchi…) è assai più ridotta che allora, mentre la classe operaia è più forte e numerosa e vuole difendere a tutti i costi le riforme democratiche e sociali conquistate nelle lotte passate. Inoltre l’imperialismo è molto più debole, e tutta l’Europa (e specialmente la Spagna) è percorsa da fermenti rivoluzionari. In breve, le condizioni oggettive per una rivoluzione socialista pacifica sono più favorevoli di quanto non fossero settant’anni fa.

Oggi il problema principale risiede nel fattore soggettivo. Se la leadership della classe operaia farà marcia indietro demoralizzerà la propria base e aprirà la strada ad una svolta a destra nella società, che vedrà la crescita di partiti reazionari come Alba Dorata. Abbiamo visto come i tentennamenti del Kke negli anni ’40 abbiano scoraggiato i suoi militanti e rafforzato e incoraggiato la destra: oggi i settori più intelligenti della borghesia sanno che il modo migliore per far fallire la rivoluzione greca è costringere l’attuale governo a tradire il suo programma e a preparare così la propria sconfitta elettorale.

La paura che i capitalisti hanno di Syriza non è semplicemente la paura delle riforme portate avanti da questo partito (riforme comunque realmente insostenibili per il sistema, nell’attuale contesto di profonda crisi globale). È soprattutto la paura del potente risveglio rivoluzionario delle masse che lo hanno portato al potere, e la cui evoluzione è imprevedibile.

Al momento, l’annuncio di coraggiose riforme e l’opposizione ai commissari europei hanno guadagnato a Syriza un ampio sostegno: secondo un recente sondaggio, l’80% dei greci sostiene il programma di governo, compresi molti settori delle classi medie conquistati dall’entusiasmo generale. Per portare a termine il suo programma e non deludere i lavoratori greci, Syriza non può fermarsi a mezze misure. Nessun accordo con la borghesia è possibile: la classe dominante farà di tutto per provocare l’eventuale caduta del governo e porrà tutti gli ostacoli possibili. Gli errori degli anni 40’ dovrebbero essere evitati. Syriza deve evitare gli errori di settant’anni fa, deve issare la bandiera della rivoluzione socialista ed espropriare le classi dirigenti. A tal fine le masse devono intervenire attivamente per evitare che la dirigenza faccia marcia indietro sulle proposte avanzate, e il partito deve essere rafforzato con l’adozione del programma della Tendenza Comunista di Syriza per difendere attivamente una linea rivoluzionaria.

 

3 marzo 2015

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