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Populismo e guerriglia: particolarità storiche della rivoluzione latinoamericana

di Alessandro Giardiello

 

Se c’è un zona nel mondo dove lo stalinismo ha giocato un ruolo particolarmente nefasto questa è senza dubbio l’America Latina. Durante la Seconda guerra mondiale l’Urss usò i partiti comunisti come agenzie estere della propria diplomazia e subordinava alla difesa dei privilegi della casta burocratica la lotta mondiale contro il capitalismo. In questo modo venivano definiti “progressisti” tutti quei rappresentanti della classe dominante che si contrapponevano alla Germania nazista e che nella maggioranza dei casi erano alleati dell’imperialismo americano.

Questa linea condusse il Partito comunista dominicano ad appoggiare il dittatore Trujillo (fedele agente degli Usa) e il Partito comunista cileno ad entrare nel governo Videla, il quale per tutto ringraziamento fece poi rinchiudere i militanti comunisti nei campi di concentramento.

Il caso forse più clamoroso è quello del Partito comunista cubano (Psp) che entrò con due ministri nel governo del dittatore Batista, ritenuto “governante democratico e progressista”. Non deve sorprendere che quello stesso partito abbia dovuto prendere atto a posteriori che a Cuba c’era stata una rivoluzione.1

Nel caso argentino, dove non c’era un governo pro-Usa, il Pca diede vita nel ‘45 a una Unione democratica, con il partito conservatore (espressione dei latifondisti), i radicali (tradizionale partito del capitale straniero) e i socialisti. Il tutto sotto la regia dell’ambasciatore americano Braden che si proponeva di favorire il processo di colonizzazione dell’economia argentina. I lavoratori e i sindacati peronisti venivano così definiti fascisti col risultato che in pochissimi anni il Pca, che fino ad allora aveva un forte radicamento operaio, venne praticamente spazzato via dallo scenario politico argentino e ridotto a dimensioni di poco superiori a quelle di una setta.

La sostanziale debolezza dei Partiti comunisti sudamericani ha dunque origini antiche ed è il risultato perverso della linea delle “due fasi”, secondo la quale nei paesi coloniali il proletariato doveva limitarsi a sostenere la “borghesia nazionale” (o “democratica” o “progressiva”) rimandando a un futuro indefinito la lotta per il potere proletario e la rivoluzione socialista. Questa linea, inaugurata con esiti disastrosi da Stalin e Bucharin nella rivoluzione cinese del 1925-27, fu poi rilanciata con i fronti popolari al VII Congresso dell’Internazionale comunista (1935).

Nella misura in cui i partiti comunisti (a cui spesso si allineavano i socialisti) non difendevano una politica di indipendenza di classe, le masse finivano col dare credito ai movimenti nazionalisti radicali che entravano in conflitto con l’imperialismo.

I leader di questi movimenti, che fossero militari, guerriglieri o intellettuali poco importa, finirono col conquistare (a livelli diversi secondo i paesi) una certa egemonia sul movimento anche se difendevano dei programmi confusi e contradditori, che per la loro natura non si proponevano di fuoriuscire dal capitalismo.

È cosa poco nota che lo stesso Fidel Castro prima della rivoluzione non si considerasse affatto un comunista e apparteneva a un’organizzazione democratico borghese (Partido del pueblo cubano-ortodoxo). Il Movimento 26 luglio che lottava contro la dittatura si ispirava infatti a un modello di democrazia parlamentare.

Solo in seguito all’enorme pressione esercitata dagli Usa, Fidel e compagni si spinsero oltre i limiti del capitalismo e decisero di espropriare la proprietà privata costruendo un regime su modello dell’Urss. Nonostante il carattere burocratico e plebiscitario che assunse il regime la nazionalizzazione delle forze produttive rappresentava comunque un enorme passo in avanti. Le condizioni di vita del popolo cubano migliorarono enormemente, soprattutto se confrontate con quelle degli altri popoli del Centroamerica che rimanevano sotto il giogo dell’imperialismo.

In altri paesi (si pensi all’esperienza sandinista in Nicaragua) il processo rivoluzionario si spinse meno avanti che a Cuba (vennero nazionalizzate solo le proprietà dell’ex dittatore Somoza) il che permise dopo 10 anni il ritorno della controrivoluzione, seppure per via elettorale.

I sandinisti, che si erano fatti portatori di una “terza via” (né comunista, né capitalista), hanno dovuto soccombere alla pressione imperialista la quale faceva leva su quel 70% di economia nicaraguense che era rimasta in mani private.2

È evidente che la questione non si esaurisce nei rapporti di proprietà per quanto l’espropriazione dei capitalisti sia in qualunque caso una misura progressista che va difesa. L’abolizione della proprietà privata è condizione necessaria ma non sufficiente per la vittoria di una rivoluzione, una volta stabiliti nuovi rapporti di produzione è necessario che i lavoratori esercitino un controllo democratico sullo Stato e che il partito rivoluzionario lavori all’estensione della rivoluzione sul piano internazionale evitando che l’isolamento finisca col far prevalere le tendenze controrivoluzionarie che si annidano nella società.

Rivoluzione permanente e “bonapartismo sui generis”

Nei paesi arretrati la borghesia è incapace di portare a termine i compiti della rivoluzione democratica-borghese che si riassumono nello sviluppo di un’industria indipendente, nell’abolizione dei latifondi, nella formazione di uno Stato nazionale basato sulla democrazia parlamentare e nell’indipendenza nei confronti dell’imperialismo. Questo perché la borghesia arrivando tardi sulla scena storica viene schiacciata nel suo sviluppo dal capitalismo straniero. È un fatto che le borghesie dei paesi coloniali siano legate da mille fili ai latifondisti e all’oligarchia e siano dunque succubi dell’imperialismo da cui dipendono in tutti i sensi.

Per questa ragione l’unica classe che può giocare un ruolo coerentemente rivoluzionario in questi paesi è la classe operaia, per il ruolo particolare che occupa nella produzione capitalistica.

I lavoratori nella misura in cui portano avanti i compiti della rivoluzione borghese per consolidare quelle conquiste devono avanzare anche i compiti della rivoluzione proletaria, dando così un carattere ininterrotto al processo.

Questa in sintesi la teoria della rivoluzione permanente di Trotskij,3 che ha ricevuto una brillante conferma nell’Ottobre del ’17, dove una piccola minoranza di lavoratori con il sostegno dei contadini poveri hanno conquistato il potere portando a termine i compiti che la corrotta e debole borghesia russa non sarebbe mai stata in grado di assolvere.

Il fatto che la borghesia nazionale non sia in grado di agire in maniera conseguente dal punto di vista rivoluzionario non significa però che, in determinate circostanze, non possa entrare in conflitto con il capitale straniero e con l’imperialismo.

Trotskij nel 1938 avvisava i propri sostenitori in Messico, a non avere un approccio rigido nell’applicazione della teoria della rivoluzione permanente4 e forniva una spiegazione scientifica di quei processi che vedevano degli esponenti borghesi come Lazaro Càrdenas rivoltarsi contro l’imperialismo.

Nei paesi industrialmente arretrati il capitale straniero ha una funzione decisiva. Di qui la relativa debolezza della borghesia nazionale rispetto al proletariato nazionale. Ciò determina un potere statale di tipo particolare. Il governo si barcamena tra il capitale straniero e il capitale indigeno, tra la debole borghesia nazionale e il proletariato relativamente forte. Ciò conferisce al governo un carattere bonapartista sui generis, di tipo particolare. Si colloca, per così dire, al di sopra delle classi. In realtà, può governare o divenendo strumento del capitale straniero e tenendo incatenato il proletariato con una dittatura poliziesca o manovrando con il proletariato e giungendo persino a fargli delle concessioni, assicurandosi in tal modo la possibilità di una certa libertà nei confronti dei capitalisti stranieri. La politica attuale (di Càrdenas) rientra nella seconda categoria: le sue maggiori conquiste sono l’espropriazione delle ferrovie e delle industrie petrolifere. Queste misure si pongono direttamente sul piano del capitalismo di Stato. Tuttavia, in un paese semicoloniale, il capitalismo di Stato si trova sotto la pesante pressione del capitale privato straniero e dei suoi governi, e non può reggere senza l’appoggio attivo dei lavoratori. Per questo, senza lasciarsi sfuggire di mano il potere reale, tenta di far ricadere sulle organizzazioni operaie una parte considerevole della responsabilità per l’andamento della produzione nei settori nazionalizzati dell’industria”.

(Lev Trotskij, Industria nazionalizzata e gestione operaia in I problemi della rivoluzione cinese e altri scritti, Einaudi).

 

Queste considerazioni oltre che a Lazaro Càrdenas si attagliano perfettamente a quei movimenti e regimi, comunemente chiamati populisti, che hanno attraversato l’America Latina: da Vargas in Brasile, ad Arbenz in Guatemala, dall’Apra peruviana a Peròn in Argentina.

Lo sviluppo argentino è probabilmente quello più contradditorio e paradossale con conseguenze sul movimento operaio che si trascinano da oltre mezzo secolo. Come punta avanzata di un fenomeno merita di essere trattato a parte per approfondire la nostra conoscenza sull’argomento.

Il perònismo argentino

Peròn era un ufficiale dell’esercito che aveva partecipato nel 1930 al golpe di Uriburu. Nel 1939 entrò nello Stato Maggiore  e fu inviato nell’Italia di Mussolini dove studiò il sistema corporativo fascista. Nel giugno del 1943, quando il Partito comunista argentino (Pca) preparava uno sciopero generale contro il golpe militare in preparazione, Peròn in quanto Ministro del lavoro fu incaricato di farlo fallire.

Il golpe del 4 giugno del 1943 era un golpe molto particolare perchè si proponeva di impedire che il potere finisse nelle mani dell’oligarchia argentina che voleva subordinare completamente il paese all’imperialismo. La borghesia nazionale di cui Peròn si faceva interprete decise con quella azione di forza di difendere i vecchi settori economici evitando la “colonizzazione” yankee.

Da qui la contraddizione permanente che darà origine alla particolare dinamica del regime sorto nel ‘43. Esso è reazionario nella misura in cui difende la vecchia struttura del paese; ma manifesta un aspetto progressivo quando difende, seppure in modo incoerente e contradditorio, il paese dall’invadenza imperialista. Un fenomeno molto simile a quello che si era realizzato in Cina nello scontro tra Chang-Kai Shek e i giapponesi e che l’Opposizione di sinistra aveva trattato lungamente nella polemica contro Stalin.5

Ci fu quindi una divisione in due campi che oltre a dividere la classe dominante divise anche le organizzazioni del proletariato.

La burocrazia sindacale legata al Partito comunista, essendo l’Urss impegnata nella guerra a fianco degli alleati, era filoamericana; Peròn decise pertanto di prendere contatto con i sindacati più a destra (Usa e Cgt n°1) per provocare l’isolamento dei comunisti non risparmiando a questo scopo l’uso di strumenti repressivi.

Ma al bastone alternò la carota. Grazie all’enorme sviluppo della produzione nazionale, Peròn fece notevoli concessioni alla classe operaia. Inoltre il possente processo di proletarizzazione favorì un processo di trasformazione dei sindacati, così che una nuova classe operaia, proveniente dalle campagne, digiuna di esperienze politiche e che non aveva grandi tradizioni sindacali venne guadagnata al peronismo.

Il banco di prova, che diede il colpo definitivo ai comunisti, fu lo sciopero dell’industria esportatrice di carne. La Federazione sindacale di questa industria era la più forte di tutte, controllata al 100% dal Pca. La dittatura mise in prigione il dirigente operaio Peters, membro del Pca, assieme ai principali delegati ed attivisti.

In questa situazione Peròn decise di inviare un aereo speciale e sottolineando che era una decisione del suo dipartimento (Segreteria del Lavoro) prelevò Peters dalla prigione e lo portò in un’assemblea degli operai della carne.

C’era un clima di grande entusiasmo, l’assemblea si teneva in uno stadio di calcio e per diversi minuti i lavoratori portarono sulle spalle Peters a fare un giro di campo.

Alla fine Peters parlò chiedendo… il ritorno al lavoro “per appoggiare lo sforzo di guerra degli alleati che combattevano contro la dittatura nazi-fascista”! Il discorso fu ricevuto come una doccia di acqua fredda.

Peròn nel frattempo orchestrava una trattativa con un fantomatico sindacato della carne e concedeva tutte le richieste esigendo che i capitalisti stranieri le rispettassero! Pochi mesi più tardi la potente Federazione comunista della carne era diventata un locale vuoto.

Peròn che a quel punto venne considerato un “mago” della questione sociale, fu nominato vicepresidente.

In un discorso pronunciato il 25 agosto 1944 alla Borsa di Commercio di Buenos Aires espose chiaramente le sue reali intenzioni:

Un obiettivo immediato del governo deve essere assicurare la tranquillità sociale nel paese(…) Si è detto che sono nemico del capitale, ma se osservate quello che dico non troverete nessun difensore più deciso di me, perchè so che la difesa degli interessi degli uomini di affari, degli industriali, dei commercianti è la difesa stessa dello stato(…) Se io fossi in una fabbrica non mi costerebbe molto guadagnarmi l’affetto dei miei operai con un’opera sociale realizzata con intelligenza. Molte volte questo si ottiene col medico che va a casa del lavoratore che ha il figlio malato, con un piccolo regalo in un giorno particolare, col padrone che passa e da una pacca sulla spalla agli uomini così come noi facciamo coi nostri soldati. Perchè i soldati siano più efficaci devono essere maneggiati col cuore. Anche gli operai possono essere diretti così. Solo è necessario che gli uomini che hanno operai alle loro dipendenze arrivino a loro per queste vie, per dominarli, per farli diventare veri collaboratori”.

Questa filosofia che combinava un certo paternalismo al disprezzo più totale verso i lavoratori aveva il suo collante fondamentale nella crescita economica senza precedenti che vedeva l’Argentina avvantaggiarsi dopo la Seconda guerra mondiale diventando uno dei dieci paesi col più alto reddito al mondo.

Per cui mentre tra il dicembre del ‘43 e il gennaio del ‘46 venivano messe fuorilegge le organizzazioni operaie, il governo militare avviò una politica di riforme consistenti tra cui: un sistema di pensioni, una legge che “legalizzava e regolamentava” le associazioni sindacali, uno statuto del bracciante agricolo, un decreto sul lavoro minorile che proibiva lo sfruttamento, indennizzi per gli incidenti lavorativi, vacanze retribuite, indennità di licenziamento, un piano di opere pubbliche con costruzione di ospedali, cliniche, scuole, asili nido e aumenti salariali del 20 per cento.

Peròn con il sostegno della corrente “sindacalista” (ex-anarchici) e di un settore di burocrati socialisti e dopo un processo di scontri e epurazioni formò la nuova Cgt “legale” dando vita al controllo statale sul sindacato, indispensabile per evitare che il movimento operaio si orientasse su posizioni di indipendenza di classe.

Si verificherà così quel paradosso che condizionerà a lungo il proletariato argentino: alla classe operaia fu affiancato un poliziotto perché non facesse nulla senza autorizzazione ufficiale, ma questo stesso poliziotto concesse ai lavoratori una conquista economica dietro l’altra.

Questa politica di “collaborazione di classe” che venne sostenuta da una parte della borghesia industriale, trovò un formidabile avversario nell’imperialismo, nei proprietari terrieri e nell’industria esportatrice.

Nel giugno del ‘45, 300 gruppi industriali firmarono un manifesto contro Peròn nel quale tra le altre cose si criticarono gli aumenti salariali.

Peròn non esitò a rispondere: “le forze che hanno firmato il manifesto sono quelle che hanno resuscitato dentro il paese l’eterna oligarchia politica che governò per tanti anni”.

Fece un appello ai sindacati a lottare contro l’oligarchia e diede vita al Partito laburista che organizzava dall’alto (attraverso i funzionari del ministero del lavoro) ampi settori del movimento operaio.

Quando la pressione imperialista lo fece arrestare furono proprio i lavoratori a liberarlo. Il 17 ottobre del 1945 uno sciopero generale convocato dalla Cgt obbligò i militari a liberare Peròn e soltanto quattro mesi dopo lo stesso Peròn vinse le elezioni diventando il nuovo presidente argentino.

La situazione economica resterà molto positiva fino al ‘52 ma quando incomincerà ad invertirsi il ciclo economico inizierà anche il declino dell’esperienza peronista che si concluderà nel ‘55.

Esaurendosi i margini per le riforme Peròn, che non aveva alcuna intenzione di fuoriuscire dai limiti della proprietà borghese, fu costretto a fare i primi attacchi al movimento operaio. Nei contratti del ‘52 vennero arrestati e torturati i dirigenti portuali e venne lanciato un piano di congelamento dei salari con relativo aumento di produttività.

Peròn si trovò tra l’incudine e il martello: da una parte c’era il calo di entusiasmo della classe operaia nei suoi confronti, dall’altra l’imperialismo era disposto a fare affari con il presidente argentino ma non per questo smetteva di considerarlo un impiccio.

Nel ‘52 venne concesso all’Argentina un prestito da una banca americana (Eximbank) di 125 milioni di dollari. Nel ‘53 Peròn accolse il fratello di Eisenhower, cercando la riabilitazione Usa. Sulla base di questo incontro venne concesso lo sfruttamento degli idrocarburi della Patagonia alla Standard Oil ma questo non rendeva meno irriducibile l’opposizione degli Stati Uniti.

L’11 giugno del ‘55 ci sarà la prima manifestazione di massa contro il regime. Ancora una volta Peròn fu abbandonato dalla Chiesa, dalla piccola borghesia e da settori crescenti dell’esercito. Di fronte alla cospirazione controrivoluzionaria sostenuta dalla Cia, la Cgt organizzò uno sciopero generale. Il 31 agosto di fronte a una folle enorme di lavoratori, Peròn disse: “Abbiamo offerto loro la pace, non l’hanno voluta. Lottiamo fino alla fine!”.

Una settimana dopo il segretario generale della Cgt offriva al ministero dell’esercito il sostegno militare dei propri iscritti. Si paventava la formazione di milizie operaie ma a quel punto Peròn rifiutò di armare il proletariato e puntuale nel settembre del ‘55 arrivò il golpe della reazione che si affermò senza colpo ferire. Dopo una trattativa dietro le quinte il generale argentino preferì dimettersi volontariamente ed andare in un esilio dorato.

Si era giunti ai limiti di classe oltre i quali il peronismo non poteva andare. Di fronte allo spettro della rivoluzione proletaria Peròn preferì utilizzare la sua popolarità nel movimento operaio per far rientrare le mobilitazioni.

L’esperienza peronista dimostra una volta di più come il proletariato non possa fare affidamento su esponenti borghesi anche quando questi per qualsiasi ragione si spostano a sinistra e si contrappongono all’imperialismo portando avanti delle misure progressiste.

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Questi dirigenti sono per loro stessa natura inaffidabili, si barcamenano in modo empirico tra le classi e se è vero che in certi momenti si appoggiano sulla classe operaia e anche vero che in un contesto diverso si rivolgono contro di essa e non di rado finiscono col reprimerla brutalmente. È questo il ruolo che hanno giocato in passato altri “bonaparte” populisti e che in certe condizioni potrebbe giocare persino un elemento come Chavèz.

Ciò non toglie che la classe operaia venezuelana non debba sostenere ogni misura progressista che il presidente venezuelano decidesse di portare avanti, mantenendo la propria indipendenza di classe e non subordinandosi al movimento bolivariano della V Repubblica.

Chavismo e peronismo: due movimenti a confronto

Il contradditorio processo venezuelano, che ha visto un ex-parà mettersi alla testa della cosiddetta rivoluzione bolivariana non è dunque un fenomeno nuovo in America Latina.

Un elemento di forte similitudine con l’Argentina è che oggi le masse lavoratrici venezuelane sono prive di chiari riferimenti a sinistra. Il principale sindacato, la Ctv, è guidato da una banda di golpisti legata all’imperialismo, e le opposizioni di classe (includendo il Partito comunista venezuelano) non hanno né il peso specifico né la chiarezza politica necessaria per dare una via d’uscita all’enorme scontento delle masse.

Tutto questo ha generato un vuoto a sinistra che è stato riempito da Chavèz, che pur mantenendosi in un orizzonte democratico-borghese (propone un capitalismo dal volto umano) è impegnato in uno scontro decisivo con l’imperialismo. Le recenti misure economiche del governo (ci riferiamo in particolare alle leggi sulla pesca, sulla terra e sugli idrocarburi) pur nella loro parzialità hanno obiettivamente un carattere anticapitalista.

Tutti i tentativi fatti da Chavèz, dopo il golpe di aprile, per arrivare a un accordo con la controrivoluzione sono falliti ed è quindi inevitabile che si arrivi a una resa dei conti che potrebbe far precipitare il paese in una guerra civile.

Il cosiddetto sciopero generale di dicembre (in realtà una serrata) è sostanzialmente fallito e ha avuto l’effetto di spingere il livello di coscienza delle masse ancora più avanti.

I circoli bolivariani che si stanno formando in tutto il paese e che sempre di più assumono le sembianze di assemblee popolari sul modello argentino non hanno ancora alcuna forma di coordinamento tra di loro e l’assenza di un partito rivoluzionario fa sì che questi organismi di contropotere restino ancora a un livello embrionale.

Il movimento della V Repubblica ha subito numerose scissioni in questi anni verso la controrivoluzione ma nonostante si sia liberato dagli elementi più corrotti e carrieristi non cambia la sua natura di partito a direzione borghese.

Le masse continuano a vederlo con diffidenza, fino al punto che lo stesso Chavez si è spinto a dire che bisognava sottoporre il partito al controllo di vigilantes rivoluzionari.

A differenza di quanto avvenne col peronismo oggi le masse venezuelane se è vero che non hanno un partito di classe è anche vero che almeno per ora non sono state intruppate in un partito di fronte popolare6 quale è il movimento della V Repubblica di Chavèz.

Chavèz che è un empirico vorrebbe (con due secoli di ritardo) portare a termine il programma di liberazione nazionale di Simon Bolivar, ma questo non è possibile su basi capitaliste. L’unica via è la rivoluzione socialista, ma Chavèz che non è un marxista non prende e non può prendere neanche in considerazione questa opzione.

C’è chi nella sinistra venezuelana sostiene che a differenza di Peròn, Chavez è una persona onesta come Allende e che dunque non tradirà il movimento operaio.

Ma trascurando il fatto che Allende con i suoi errori di prospettiva ha condotto il proletariato cileno alla più devastante delle sconfitte,7 quello che è importante sottolineare è che l’onestà non è un fattore decisivo in politica. La strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni.

Ammettendo che il presidente venezuelano sia una persona onesta e decidesse di convertirsi al marxismo. Anche in un’ipotesi tanto remota la sua volontà soggettiva non sarebbe sufficiente ad aprire la strada a una rivoluzione socialista, resterebbe il problema di trasformare la natura del movimento bolivariano che non è un movimento proletario e non ha né il programma, né la struttura, né i quadri necessari per guidare la classe operaia al potere. Per conquistare un obiettivo del genere è necessario un partito come quello bolscevico.

Per contribuire alla formazione di tale partito Chavez dovrebbe muoversi contro il movimento della V Repubblica che lui stesso ha fondato e questo entrerebbe inevitabilmente in contraddizione con il ruolo di “bonaparte” (per quanto sui generis) che lui stesso gioca in Venezuela.

Se anche la controrivoluzione venisse sconfitta, resta il fatto che senza la partecipazione attiva e indipendente della classe operaia è impossibile dare risposte definitive ai problemi che affliggono le masse venezuelane.

Indipendentemente dalle scelte che farà Chavez la priorità dei marxisti in Venezuela resta quella di sempre: costruire un partito rivoluzionario che conquisti un sostegno di massa.

Il problema è che anche in un contesto favorevole come quello venezuelano porsi un obiettivo del genere non è cosa da poco, considerato qual è il punto di partenza, ci vorrà del tempo.

La rivoluzione non può aspettare, dunque giocoforza il processo rivoluzionario seguirà strade tortuose e complicate con il pericolo serio (contro il quale dobbiamo lottare con tutte le nostre forze) che la rivoluzione possa essere schiacciata nel sangue, come avvenne nel ‘73 in Cile con il golpe di Pinochet.

La controrivoluzione fortunatamente in questo momento è in ritirata ma è inevitabile che presto riprenderà a rialzare la testa. A quel punto se l’imperialismo non scenderà a patti con Chavèz (cosa alquanto improbabile) al presidente venezuelano non resterà altra strada che indurire le proprie posizioni spostando a sinistra il baricentro della sua azione.

Consapevole di questa prospettiva Chavèz si sta sforzando, come Peròn a suo tempo, di conquistare una propria egemonia sul terreno sindacale nel tentativo di promuovere una scissione nella Ctv dando vita a un sindacato bolivariano.

Quello che vedremo è un processo convulso dove si combineranno misure dall’alto con pressioni spontanee dal basso e nel quale non è facile prevedere tutti gli sviluppi.

Quello che però non ci sentiamo di escludere è che messo con le spalle al muro Chavez possa spingersi in maniera ancora più decisa sulla strada delle nazionalizzazioni, espropriando quelle aziende che attuano il sabotaggio economico per arrivare poco alla volta a nazionalizzare l’intera economia venezuelana. Che cosa questo comporterebbe rispetto alla natura dello Stato venezuelano è una questione che riprenderemo più avanti.

L’azienda decisiva in Venezuela è la Pdvsa. Basterebbe rimuovere l’oligarchia legata con mille fili all’imperialismo Usa, rinazionalizzando l’intera industria petrolifera (oggi è una società per azioni nella quale lo Stato ha una quota di maggioranza).

Proprio alla Pdvsa nel corso della serrata si è verificato un episodio molto istruttivo. Nella raffineria di El Palito i lavoratori sono riusciti a far funzionare ugualmente lo stabilimento nonostante il sabotaggio dei manager. La produzione è ripresa di fatto sotto il controllo operaio e le decisioni venivano prese da un comitato di lavoratori.

Chavèz in qualità di presidente del governo a quel punto ha deciso di inviare un funzionario perchè diventasse il nuovo direttore della raffineria “liberata dai golpisti”. I lavoratori hanno accolto freddamente il funzionario, gli hanno chiesto di mettersi a disposizione ma hanno altresì insistito sul fatto che la produzione sarebbe continuata sotto il controllo democratico del comitato di fabbrica.

Questo episodio di per sé significativo è solo una anticipazione di quello che potremo vedere in futuro: forme di dualismo di potere tra il governo di Chavèz e la classe operaia. Oggi questi fenomeni si avvertono solo in forma embrioniale perché il pericolo di un nuovo golpe è molto tangibile e in maniera quasi naturale la classe operaia si stringe attorno al presidente per sconfiggere l’opposizione filo-imperialista.

Ma se venisse sconfitta la controrivoluzione imperialista si potrebbe arrivare a uno scontro tra lo stesso Chavèz e la classe operaia, soprattutto se il presidente decidesse di seguire la linea che a suo tempo fu di Peròn.

È giusto rilevare comunque che rispetto a Peròn che nel settembre del ‘55 uscì di scena senza colpo ferire, lasciando il potere ai golpisti, Chavez nell’aprile del 2002 dopo molte esitazioni ha scelto di rimanere in campo, smentendo quei gruppi trotskisti sudamericani, tra i quali il Partido Obrero argentino, che vedevano a breve una ritirata di Chavèz nello scontro contro l’imperialismo.8

Quanto si è visto a dicembre con il ritorno dell’imperialismo dimostra invece che almeno per ora Chavèz continua a muoversi su una linea conflittuale e questo lascia pensare che in futuro potrebbe ripercorrere la strada che a suo tempo hanno seguito altri movimenti rivoluzionari di natura piccolo-borghese come il Fsln nicaraguense o il Movimento 26 luglio cubano.

Certo i sandinisti e Castro sono giunti al potere attraverso una guerriglia vittoriosa mentre Chavèz ci è arrivato per altre vie ma questo non significa che come si è visto in altre occasioni (si pensi alla Birmania, alla Somalia, allo Yemen del Nord o all’Afghanistan) un processo guidato dall’alto da settori dell’esercito verso il capitalismo di Stato non possa addirittura concludersi con l’espropriazione totale della borghesia e dunque con la formazione di uno Stato operaio deformato come a Cuba.9

La strada seguita dai sandinisti potrebbe essere una tappa intermedia e forse in questo momento la più probabile considerando che rispetto al ’59 è venuto meno un elemento decisivo che favoriva la formazione di questo tipo di Stati e cioè l’esistenza dell’Urss, che offriva un modello e uno sbocco commerciale a quei paesi che inevitabilmente venivano sottoposti a un embargo commerciale e a pressioni di ogni tipo da parte dell’imperialismo.

Si potrebbe obiettare che in Venezuela l’apparato dello Stato non è così inconsistente come lo era nei paesi sopra citati e dunque è impossibile che Chavèz possa spingersi oltre i limiti del capitalismo per questa via.

Questa obiezione non è priva di senso ma ha il difetto di essere statica. La solidità degli Stati dipende anche e soprattutto dal contesto sociale. L’imperialismo Usa è stato all’offensiva per tutti gli anni ‘80 e ‘90, ma ora va incontro a un’evidente crisi di egemonia. La classe operaia e i popoli oppressi sono oggi di nuovo in marcia, c’è una ripresa delle mobilitazioni su scala mondiale che potrebbe cambiare in modo decisivo i rapporti di forza. Inoltre la crisi economica mondiale che ha ripercussioni devastanti sui paesi dipendenti influenza l’opinione di chi compone questi apparati militari. Lo Stato non è qualcosa di immutabile; è sottoposto anch’esso alle pressioni che esistono nella società. Questi fattori possono indebolire e perfino disgregare Stati che in passato godevano di una certa forza e stabilità.

Inoltre va detto che lo Stato borghese venezuelano per particolari ragioni storiche non presenta per la borghesia le stesse garanzie di quello cileno o argentino. Le forze armate venezuelane hanno sempre visto la presenza di forti tendenze di sinistra al proprio interno. Quando la guerriglia venne sconfitta in Venezuela all’inizio degli anni ’60 tutti i gruppi della sinistra rivoluzionaria e lo stesso Partito comunista venezuelano (Pcv) hanno concentrato la loro attività nelle file dell’esercito.

Già prima del ’92 c’erano 270 ufficiali che appartenevano a formazioni di sinistra e l’Accademia militare in Venezuela è parificata alle università civili. Questo ha spinto molti giovani provenienti dalle classi più umili ad entrare nell’esercito per poter studiare. Per le famiglie comuniste venezuelane era una prassi mandare i propri figli nelle forze armate.

Lo stesso Chavèz ha origini molto umili ed ha militato almeno a partire dall’82 in un movimento di sinistra radicale che illegalmente si muoveva nelle forze armate.

Nel prossimo periodo si produrranno spaccature e divisioni nell’esercito e non possiamo escludere che un settore significativo delle forze armate decida di continuare a muoversi in direzione anticapitalista. A qualcuno potrà sembrare un paradosso che pezzi dell’apparato dello Stato borghese si muovano sulla strada del capitalismo di Stato o addirittura verso uno Stato operaio deformato ma come diceva Lenin “la storia conosce trasformazioni di ogni tipo” e non è la prima volta che i compiti storici di determinate classi (in questo caso del proletariato) vengano portati avanti, seppure in forma distorta, a volte mostruosamente distorta (è il prezzo che si paga), da altre classi.

L’esperienza della rivoluzione dei garofani del 1975 in Portogallo sta a dimostrare come uno scenario di questo tipo non sia così inverosimile.

È comunque emerso con chiarezza nel golpe di aprile che la borghesia non può fare affidamento sull’insieme dell’esercito mentre certamente può fare affidamento sulla magistratura (che da un punto di vista marxista è parte integrante dell’apparato statale) e in particolare sul Tribunale Supremo di Giustizia.

Tutto questo, sia ben chiaro, non lo diciamo perché pensiamo che il proletariato debba accodarsi a Chavez, al contrario come si diceva poc’anzi è indispensabile che i lavoratori mantengano la propria indipendenza, perché senza la partecipazione cosciente e protagonista dei lavoratori nella migliore delle ipotesi (che in ogni modo non riteniamo la più probabile) si darebbe vita a una transizione per via burocratica.

Questo implica che la transizione non verrebbe mai completata, i lavoratori sarebbero comunque sottoposti a nuove forme di totalitarismo e sarebbe necessaria una nuova rivoluzione politica per liberare la popolazione dalla camicia di forza di una burocrazia parassitaria che si stabilirebbe al potere.

L’esperienza guerrigliera 

La debolezza dei partiti operai in America Latina oltre a favorire la crescita di movimenti populisti ha fornito un terreno fertile anche alla diffusione di movimenti guerriglieri. In certi casi, si pensi ai Montoneros argentini (che provenivano dalla sinistra peronista) a scendere sul terreno guerrigliero sono state le tendenze di sinistra dei movimenti nazionalisti radicali.

Ma a contribuire maggiormente alla diffusione delle concezioni guerrigliere sono state alcune formazioni comuniste che pur criticando lo stalinismo da sinistra hanno deviato il movimento su posizioni che per quanto più radicali non comprendevano un aspetto centrale del marxismo e cioè il rifiuto a qualsiasi forma di sostituzionismo nei confronti della classe lavoratrice.

In America Latina i gruppi guerriglieri erano nella maggioranza dei casi legati al maoismo o al foquismo guevariano. Queste tendenze esaltavano il ruolo dei contadini e negavano il ruolo dirigente della classe lavoratrice. Purtroppo anche coloro che si richiamavano al trotskismo hanno civettato con queste posizioni.

La IV Internazionale che aveva una certa presenza in America Latina (soprattutto in Bolivia e Argentina) fece molte concessioni a queste posizioni scorrette. La negazione del ruolo fondamentale della classe operaia determinò nella pratica l’abbandono del criterio dell’indipendenza politica del proletariato.10 

Nel XX secolo decine di gruppi hanno operato in zone rurali e di montagna in paesi come Cuba, Nicaragua, Messico, Guatemala, El Salvador, Colombia, Honduras e Perù. L’influenza di questi metodi si è fatta sentire anche in paesi fortemente urbanizzati come l’Argentina, l’Uruguay e il Cile dove negli anni ‘70 si è vista l’esplosione delle guerriglie urbane, che costituiscono una variante ancora più nociva e controproducente della lotta armata.

Nel primo gruppo di paesi la tradizione guerrigliera aveva se non altro una ragione d’essere per il peso schiacciante dei contadini. La guerriglia tradizionalmente è stata una delle forme di lotta della classe contadina, la quale, per la sua dispersione sul territorio, non potendo praticare strumenti di lotta collettiva quali lo sciopero, ha impugnato lo strumento della lotta armata nelle campagne.

Ma rispetto agli anni ’70 la composizione sociale, anche nei paesi più arretrati, si è notevolmente rafforzata a favore del proletariato e questo fa emergere anche lì con più chiarezza il ruolo preminente della classe operaia nella lotta al capitalismo.

Al di là del peso quantitativo di una classe rispetto all’altra, quello che è decisivo è che la classe operaia è il prodotto più genuino del sistema capitalista. Le altre classi oppresse (compresi i contadini poveri) oscillano tra la borghesia e il proletariato e in molti casi sono condannate a sparire nel corso dello sviluppo capitalista. È per questo e per nessuna altra ragione che il marxismo considera i lavoratori salariati il soggetto rivoluzionario per eccellenza.

Il ruolo che occupa nella produzione, genera nella classe operaia quella mentalità collettiva, quella capacità di lotta e di organizzazione infinitamente superiore a quella di qualsiasi altro settore oppresso nella società. Nessun altro soggetto può sostituirsi a essa senza provocare gravi distorsioni nel processo rivoluzionario.

Per le particolari condizioni di vita e di lavoro la classe operaia ha sviluppato storicamente propri metodi di lotta e di organizzazione. Questi metodi sono: la lotta di massa (scioperi, manifestazioni, occupazioni delle fabbriche, ecc.), l’organizzazione in partiti e sindacati e nelle fasi rivoluzionarie, le insurrezioni e la creazione di organismi di contropotere (assemblee, comitati, coordinamenti, soviet) che si trasformano in caso di vittoria nei nuovi organi su cui deve poggiare lo Stato operaio che sorge dopo la rivoluzione.

Il marxismo non ha una preclusione assoluta verso la guerriglia ma la considera un mezzo di lotta secondario, che deve essere subordinato all’azione della classe operaia nelle città. Anche la Russia del ‘17 era un paese arretrato. Ma lì la rivoluzione si è affermata seguendo i metodi classici di lotta del proletariato: lotta e insurrezione di massa nelle città attraverso organismi di potere operaio (soviet).

Come diceva Marx: “l’emancipazione dei lavoratori deve essere opera dei lavoratori stessi”. I lavoratori devono partecipare stabilendo il controllo operaio sul processo rivoluzionario. La rivoluzione proletaria implica la partecipazione attiva e cosciente di milioni di lavoratori, a differenza del metodo guerrigliero che riduce a zero il ruolo della classe operaia. La guerriglia colloca i lavoratori al margine, al massimo come simpatizzanti.

Se sono sufficienti qualche migliaio di uomini armati che combattono nella selva mentre una massa di lavoratori resta con le braccia incrociate a vedere chi vince lo scontro tra guerriglieri e forze armate (limitandosi a simpatizzare per i primi), a cosa serve la lotta quotidiana nei luoghi di lavoro, la militanza in sindacati e partiti?

Queste considerazioni hanno più importanza di quanto possa apparire. Nella misura in cui, in un processo rivoluzionario, non c’è la partecipazione cosciente della classe operaia, se anche si arrivasse al potere per via guerrigliera (come è successo a Cuba) lo Stato che ne sorgerebbe in nessun modo potrebbe essere considerato uno Stato operaio realmente democratico.

Nella misura in cui i lavoratori, per il ruolo subordinato che hanno avuto nella rivoluzione, non avranno formato strumenti consiliari, la degenerazione è inevitabile.

In mancanza dei consigli operai su cui poggiare il nuovo Stato, sarà la gerarchia dell’esercito guerrigliero che occuperà il vuoto di potere che verrà a crearsi sostituendo le vecchie istituzioni dello Stato borghese, introducendo un elemento di burocratizzazione fin dal sorgere della nuova società, indipendentemente dai desideri e dalle intenzioni soggettive dei leader guerriglieri.

Questo porterà con sè ogni tipo di distorsioni, differenze e diseguaglianze sociali e forti elementi di autoritarismo. Tutti elementi tipici di uno Stato operaio deformato.

In questi paesi la borghesia viene espropriata e la classe operaia è la classe economicamente dominante, ma allo stesso tempo non esercita il dominio politico che resta nelle mani di una casta burocratica.

Una forma di bonapartismo che differisce da quello borghese per il semplice fatto che l’economia non è più capitalista e che proprio per questo i marxisti definiscono di bonapartismo proletario.11

Per quanto progressivo uno Stato di questo tipo non è la soluzione, come ha dimostrato ampiamente la crisi dei regimi stalinisti dell’Europa dell’est alla fine degli anni ’80.

Se è vero che la crisi economica e la pressione soffocante dell’imperialismo spinge settori della borghesia, della piccola borghesia e dell’esercito a ricercare una via d’uscita a sinistra è altrettanto vero che solo il proletariato con la sua azione indipendente può spezzare definitivamente le catene del capitalismo, aprendo la strada a un sistema autenticamente socialista.

Oggi non possiamo escludere che sia Chavèz in Venezuela, che le Farc in Colombia, a certe condizioni, possano rovesciare il capitalismo ma non per questo offrirebbero una soluzione definitiva ai bisogni materiali delle masse.

La risposta è un’altra; ce la danno i lavoratori argentini che in oltre 200 aziende producono sotto il controllo operaio o i lavoratori venezuelani che con la loro autorganizzazione hanno sconfitto la serrata e il sabotaggio padronale, che dimostrano che non abbiamo bisogno dei padroni per governare la società.

La classe operaia può condurre l’umanità in un mondo nel quale non si produca per i profitti di una piccola minoranza di industriali, banchieri e latifondisti ma per il beneficio dell’intero genere umano.

Febbraio 2006

Note

1. Per approfondire il processo rivoluzionario cubano e il ruolo giocato dal Psp rimandiamo i lettori all’opuscolo di Falcemartello: Cuba una rivoluzione al bivio (http://www.marxismo.net/opuscoli/cuba.htm).

2. Si veda il documento di Falcemartello Nicaragua: due secoli di rivoluzione e controrivoluzione (http://www.marxismo.net/opuscoli/nicaragua.htm) e il più recente articolo “Nicaragua, una rivoluzione che non si completò” (giugno 2016, https://www.marxismo.net/index.php/teoria-e-prassi/storia-delle-rivoluzioni/184-nicaragua-una-rivoluzione-che-non-si-completo).

3. Per una conoscenza più approfondita della teoria di Trotskij rimandiamo alla lettura de La Rivoluzione Permanente edito da AC Editoriale (2004).

4. Ci riferiamo in particolare al testo “Discusion sobre America Latina” (Discussione sull’America Latina) che il rivoluzionario russo ebbe con alcuni militanti della IV Internazionale il 4 novembre del 1938, pubblicata nelle opere di Trotskij in spagnolo da edizioni Pluma e in inglese da Pathfinder. Il testo in spagnolo è rintracciabile sul sito www.ceip.org.ar.

5. Per la polemica dell’Opposizione di sinistra contro la linea staliniana nella rivoluzione cinese del ‘25-’27 si vedano i seguenti testi: I problemi della rivoluzione cinese e altri scritti su questioni internazionali di Lev Trotskij, edizioni Einuadi (1970), Scritti e discorsi sulla rivoluzione in Cina 1927 di Trotskij, Vujovic, Zinoviev, edizioni Iskra (1977)

6. Sempre in “Discusion sobre America Latina”, Trotskij parlava di partiti di fronte popolare riferendosi a quelle formazioni politiche che nei paesi coloniali riassumono in un solo partito una coalizione tra forze della borghesia e forze del proletariato. Sono da considerarsi tali oltre al Partito Justicialista di Peròn, il Kuomintang cinese, il Prd messicano, l’Apra peruviana, il Ppp pakistano, ecc.

7. Per un approfondimento sui fatti cileni rimandiamo i lettori a http://www.old.marxismo.net/cile/america-latina/cile/a-30-anni-dal-golpe-di-pinochet.

8. In un articolo pubblicato pochi giorni dopo il golpe di aprile (Prensa Obrera n° 750 del 18-4-2002) Jorge Altamira sosteneva la seguente prospettiva:

(…) Un ‘45 o un ‘55? All’inizio di ottobre del 1945, Peròn, vicepresidente e ministro della guerra, venne arrestato, dopo una multitudinaria manifestazione “democratica”, a metà di settembre. Recuperò la libertà ed infine il potere, il 17 ottobre. Nel giugno del 1955, resistette a un golpe militare, ma venne rovesciato tre mesi più tardi, nonostante avesse offerto una “conciliazione nazionale”. Chavez ha già avuto ‘i suoi’ ottobre in vari momenti, ha esercitato il potere per tre anni e la struttura sociale del paese è la stessa di sempre. In questo senso, è più vicino al ‘55: però a giugno del ‘55 Peròn venne salvato dall’esercito e non da una sollevazione popolare. Se l’imperialismo persiste nel voler imporre un settembre del 1955, può succedere che accada lo stesso all’apprendista stregone (Chavez. NdT.)”. [La traduzione è nostra. L’articolo originale in spagnolo si trova su www.po.org.ar].

9. Per maggiori delucidazioni rimandiamo i lettori al testo di Ted Grant “La teoria marxista dello Stato”, pubblicato in italiano ne “Il lungo filo rosso” (AC Editoriale, 2007). In questo testo del 1949 e successivamente ne “La Rivoluzione coloniale e il ruolo dei quadri marxisti” ( del 1964) il dirigente marxista, a cui si richiama in Italia la tendenza Sinistra Classe Rivoluzione, fornisce gli strumenti analitici per comprendere i processi che nel dopoguerra portarono alla formazione di Stati operai deformati.

Richiamandosi ad una citazione dell’Antiduhring di Engels, T. Grant nella sua Teoria marxista dello Stato, spiegherà come:

Quando, a un certo stadio, lo Stato borghese è costretto a prendere possesso di questo o quel settore dell’economia, le forze produttive non perdono il loro carattere capitalista. L’essenza del problema è che, dove la statalizzazione è completa, la quantità si trasforma in qualità e il capitalismo si trasforma nel suo opposto”.

Già Trotskij nella sua opera maestra, “La Rivoluzione tradita” (AC Editoriale, 2000) aveva chiarito che non poteva esistere alcuno Stato capitalista che poggiasse su un’economia completamente nazionalizzata: “Si è tentato di decifrare l’enigma sovietico con l’aiuto dell’espressione capitalismo di Stato(…) Sul piano della teoria si può immaginare una situazione in cui la borghesia intera si costituisca in società per azioni, per amministrare tutta l’economia nazionale(…) In un “capitalismo di stato” integrale la legge della distribuzione eguale dei profitti si applicherebbe direttamente senza concorrenza di capitali, con una semplice operazione contabile. Non è mai esistito un regime del genere e non esisterà mai a causa delle profonde contraddizioni che dividono i possidenti tra di loro(…) tanto più che lo Stato, rappresentante unico della proprietà capitalista, costituirebbe per la rivoluzione sociale un obiettivo troppo allettante”.

10. Il IX Congresso della IV Internazionale dell’aprile del 1969 negò nella pratica un concetto fondamentale del marxismo, che vede nel proletariato la classe fondamentale nel processo rivoluzionario. Si voltarono così le spalle al proletariato urbano dando un ruolo strategico al conglomerato sociale formato dai lavoratori salariati dell’agricoltura, ai minatori e in particolare ai contadini, a cui si attribuiva un ruolo decisivo. Si trattava sul piano politico di un adattamento progressivo alla teoria stalinista dei fronti popolari e alla rivoluzione per tappe, e sul piano tattico-militare di un adattamento alla teoria maoista dell’accerchiamento dalle campagne alle città. Nel suo ultimo libro Livio Maitan (La strada percorsa, edizioni ErreEmme 2002, pag. 357) si rivolge polemicamente nei confronti di Almeyra perché nel suo Guevara un pensiero ribelle (edizioni Datanews, 1996) sostiene la tesi, da chi scrive totalmente condivisa, che la Quarta Internazionale alla fine degli anni ‘60 avrebbe idealizzato le posizioni guerrigliere di Castro e Guevara.

A tal proposito forniamo alcune citazioni, a beneficio dei nostri lettori e dello stesso Maitan, il quale essendo stato in quegli anni responsabile della Quarta Internazionale per l’America Latina dovrebbe conoscerle meglio di noi:

(…) Sfruttare tutte le possibilita suscettibili di moltiplicare i fuochi di guerriglia rurale, e di stimolare delle forme di lotta armata particolarmente adatte a certe zone e iniziare nelle grandi città delle azioni che mirino sia a colpire i centri nevralgici da un punto di vista economico (rete dei trasporti, ecc.), sia a punire i boia del regime, a riportare dei successi sul terreno psicologico-propagandista (l’esperienza della resistenza europea contro il nazismo sarà utile al riguardo)” (Risoluzione del IX Congresso mondiale della IV Internazionale)

Per il carattere particolare della struttura di questi paesi, la principale forza del proletariato non risiede nei lavoratori delle fabbriche industriali, che, con l’eccezione dell’Argentina, rappresentano solo una minoranza dei salariati e una frazione molto piccola della popolazione attiva di questi paesi (…) l’enfasi deve essere messa sui minatori, gli operai delle piantagioni, i lavoratori agricoli e nel gran numero di disoccupati (…) Nell’espansione della guerriglia, i contadini hanno giocato, indubbiamente, un ruolo molto più radicale e decisivo nella rivoluzione coloniale di quello che era stato previsto dalla teoria marxista…” (Testo citato dalla: “Risoluzione sulle prospettive” – Comitato Internazionale Quarta Internazionale” Agosto ’68)

Il metodo della guerriglia difeso dai cubani è applicabile a tutti i paesi sottosviluppati, anche se le forme devono variare secondo le peculiarità di ogni paese. In quei paesi dove esiste una gran massa contadina afflitta dal problema della terra, le guerriglie devono ricavare le loro forze dai contadini. La lotta guerrigliera spingerá le masse all’azione, risolvendo il problema agrario armi alla mano, come è successo a Cuba, cominciando dalla Sierra Maestra. Ma negli altri paesi sarà il proletariato e la piccola borghesia radicalizzata delle città che fornirá le forze alla guerriglia” (50 Years of World Revolution 1917-1967, Ed./E.Mandel, Merit Pp. 194/95).

La direzione rivoluzionaria cubana è stata spinta ad allinearsi alle posizioni del proletariato internazionale, della rivoluzione proletaria, anche se il proletariato cubano non ha giocato un ruolo preponderante” (Denise Avenas, Lutte Ouvrière et la Revolution Mondiale, Ed/Maspero 1971 p.17).

Appare evidente come ci fosse un totale adattamento alle tesi guerrigliere. D’altra parte non si capisce, se così non fosse, perché nel Prt argentino (principale sezione della Quarta Internazionale in America Latina) ci sia stata una scissione guidata da Santucho che rompendo con il trotskismo ha portato alle sue più estreme conseguenze le suggestioni castriste che erano proprie del gruppo dirigente della Quarta Internazione.

Da quella scissione nacque l’Erp un gruppo che faceva della guerriglia urbana il punto centrale della propria politica e che spinse migliaia di giovani rivoluzionari ad abbracciare metodi di lotta erronei e a cadere di conseguenza sotto i colpi della giunta militare argentina.

11. Nel suo scritto “Lo Stato operaio, il termidoro e il bonapartismo” pubblicato nel luglio del 1935, Trotskij, sviluppa le analogie e le differenze storiche tra la Rivoluzione francese del 1789 e la Rivoluzione Russa del 1917  e su “le controrivoluzioni corrispondenti”.

In questo frangente utilizza il termine di “bonapartismo sovietico” riferendosi al regime stalinista. Questo termine verrà successivamente utilizzato dal movimento trotskista per definire quegli Stati come Cina, Cuba, Vietnam e i paesi dell’Est europeo, ecc., che per vie diverse dopo la Seconda guerra mondiale finirono con l’assumere le sembianze dell’Urss. Si parlerà più in generale di bonapartismo proletario, in quanto l’unica caratteristica progressiva di quei regimi era quella di difendere le forme proletarie di produzione: la nazionalizzazione dei mezzi di produzione e l’economia pianificata.

Trotskij nel testo citato si espresse nei seguenti termini: “Stalin non soltanto protegge le conquiste della rivoluzione d’Ottobre contro la controrivoluzione feudale borghese, ma anche contro le rivendicazioni degli operai, la loro impazienza e il loro scontento; schiaccia la sinistra, che esprime le tendenze storiche progressive delle masse lavoratrici senza privilegi; crea una nuova aristocrazia attraverso una estrema differenziazione dei salari, i privilegi, le gerarchie, ecc. Appoggiandosi sui settori più alti della nuova gerarchia sociale contro i più bassi – e a volte viceversa – Stalin ha conseguito di concentrare totalmente il potere nelle sue mani. In che altro modo può chiamarsi questo regime se non bonapartismo sovietico?”

Il testo pubblicato in forma di opuscolo nel 1988 da FalceMartello, è in appendice alla edizione de “La Rivoluzione tradita” pubblicata dalla AC Editoriale.

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