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Perché la rivoluzione in Germania fallì 1918 – 1923

di Walter Held

Walter Held, pseudonimo di Heinz Epe, nacque nel 1910 a Remscheid, in Germania. Studiò legge a Colonia, Vienna e Berlino ed entrò a far parte della Gioventù Comunista e più tardi del partito comunista tedesco (KPD). Nell’ottobre del 1932 però, fu espulso dal KPD in quanto “trotskista”, diventando nel 1933 un dirigente della sezione tedesca dell’Opposizione di Sinistra internazionale. Nello stesso anno fu costretto a lasciare la Germania, a causa delle persecuzioni dei nazisti, raggiungendo dopo varie peregrinazioni la Norvegia. In esilio partecipò alla redazione dei giornale trotskista “Unser Wort” e successivamente alla pubblicazione della “Rivoluzione Permanente”. Held aiutò Trotskij a ottenere asilo in Norvegia e diventò un suo stretto collaboratore, aiutandolo a costruire la Quarta Internazionale. Scrisse una serie di articoli di ottima qualità che vale la pena leggere ancora oggi: analizzò e criticò le politiche staliniste in Unione Sovietica e commentò lucidamente lo stato del movimento operaio tedesco.  Nel 1941 Held, mentre tentava di lasciare in treno la Svezia (dove nel frattempo si era rifugiato)  per fuggire in America attraverso l’Unione Sovietica e la Turchia, venne arrestato dalle autorità sovietiche, interrogato e ucciso dalla GPU. Ancora oggi nessuno sa cosa ne fu della moglie e di suo figlio, che viaggiavano con lui. Quando Walter Held morì, non aveva ancora compiuto 31 anni.

Nel suo articolo “Perché la rivoluzione in Germania fallì 1918-1923”, pubblicato per la prima volta in inglese nel dicembre 1942, Held fornisce un’analisi dettagliata delle ragioni che portarono alla sconfitta del processo rivoluzionario che attraversò la Germania dopo la prima guerra mondiale. Il testo affronta in maniera approfondita il dibattito che si svolse in quegli anni sia nel partito comunista tedesco che nell’Internazionale comunista. Nelle sue argomentazioni Held fa sostanzialmente proprie le posizioni di Paul Levi, il principale dirigente del KPD dopo la morte di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht. Così facendo offre spunti molto interessanti di critica delle tendenze estremiste presenti nel KPD e dei metodi scorretti utilizzati da Zinoviev nel dirigere l’attività del Comintern, ma inevitabilmente nella sua polemica storce eccessivamente il bastone dall’altra parte, minimizzando le responsabilità dello stesso Levi nella sconfitta del partito comunista tedesco. Ci siamo quindi riservati di introdurre alcune note di commento in alcuni dei passaggi più controversi dell’articolo. 

La redazione     

 

La storia del partito bolscevico russo, della rivoluzione d’Ottobre, dei primi anni della Repubblica Sovietica e dell’Armata Rossa è la storia di un successo politico grandioso e senza pari nella storia delle rivoluzioni. Lenin e Trotskij, tuttavia, furono privati del successo nel campo che, in ultima analisi, è quello decisivo: quello della rivoluzione internazionale. La sconfitta della rivoluzione portò al trionfo della controrivoluzione e alla grottesca ascesa, senza precedenti nella storia contemporanea, di Adolf Hitler e del nazismo tedesco.

Fin dall’inizio Lenin e Trotskij erano assolutamente convinti che l’esito dei loro sforzi dipendesse interamente dalle fortune della rivoluzione internazionale. Trotskij aveva posto l’accento su questo punto sin dalla sua formulazione della teoria della rivoluzione permanente nel 1905. Lenin enfatizzava altrettanto vigorosamente quanto la rivoluzione russa dipendesse dall’ondata rivoluzionaria prevista dal movimento internazionale. Durante il settimo congresso del partito comunista russo, nel marzo 1918, Lenin espose la sua convinzione granitica: “È una verità indiscutibile che senza una rivoluzione in Germania saremo condannati – magari non a Pietrogrado, non a Mosca, ma a Vladivostock, in posti più remoti dove forse saremo costretti a ritirarci […] In ogni caso, considerando ogni possibile evenienza, se non arriva la rivoluzione tedesca, siamo condannati.” Durante un intervento dello stesso tenore il mese successivo, ad una seduta del Soviet di Mosca, Lenin dichiarò: “La nostra arretratezza ci ha spinto in prima linea, dove moriremo, se non saremo in grado di resistere finché non riceveremo aiuto dai lavoratori sollevatisi negli altri paesi.” Anche nella sua “Lettera aperta ai lavoratori americani” dell’agosto 1918 Lenin pose la questione in termini simili: “Ci troviamo oggi in una fortezza assediata, dove aspettiamo che gli altri contingenti della rivoluzione mondiale giungano in nostro soccorso.” Zinoviev, traducendo le idee di Lenin su linee più propagandistiche e agitative, com’era sua abitudine, proclamò in maniera roboante nel Manifesto dell’Internazionale comunista del 1 maggio 1919: “Prima che sia passato un anno l’Europa intera sarà sovietica.” Anche se le grandi speranze in una rapida vittoria mondiale non si concretizzarono, Lenin non modificò la sua posizione di principio. Nel 1920 affermò nella sua solita maniera franca e quindi inequivocabile: “Sarebbe assolutamente ridicolo, fantasioso e utopico sperare che l’Unione raggiunga la completa indipendenza economica.” Una citazione del marzo 1923, nel periodo finale del suo contributo teorico, basta a dimostrare come per Lenin il problema fondamentale fosse rimasto inalterato fino alla fine della sua vita: “Ci si pone di fronte la questione – saremo in grado di resistere con la nostra piccola produzione agraria, nella nostra rovinosa condizione attuale, finché i paesi capitalisti dell’Europa occidentale compiranno il loro processo di sviluppo verso il socialismo?” Qualsiasi stratagemma Stalin e i suoi scagnozzi scellerati abbiano impiegato per attribuire a Lenin l’idea del “socialismo in un paese solo” è interamente farina del loro sacco. La scuola revisionista stalinista ebbe origine nel 1924 dopo la morte di Lenin in conseguenza della sconfitta della rivoluzione, e fu essa stessa la causa di una lunga serie di ulteriori disastri.

Possiamo procedere da questo assunto: quando Lenin, Trotskij e i loro compagni introdussero coraggiosamente la dittatura del proletariato e l’economia socialista in una Russia arretrata e completamente devastata dalla guerra, lo fecero avendo piena fiducia  nello scoppio di rivoluzioni socialiste vittoriose nei paesi più avanzati. Il biennio 1918-19 sembrò confermare queste speranze. Le crisi politiche che piegarono la Germania, l’Austria-Ungheria e l’Italia non furono meno significative rispetto a quella russa del febbraio del 1917. I vecchi regimi politici collassarono, le antiche dinastie degli Asburgo e degli Hohenzollern vennero spazzate via, scoppiarono ovunque scioperi e insurrezioni, milioni di schiavi politici insorsero. Nonostante ciò, la rivoluzione non raggiunse da nessuna parte le vette che aveva toccato in Russia nell’Ottobre 1917; il movimento venne arginato a metà strada, batté in ritirata e trovò la sua fine nella barbarie dispotica del fascismo. Poiché questo fu il risultato in ogni paese, c’è chiaramente una causa comune a monte di questi sviluppi. Sembrerebbe logico dedurre che Lenin e Trotskij commisero un errore. Si erano forse ingannati quando, prendendo il polso ad un capitalismo invecchiato, ne avevano dichiarato la morte ormai prossima?

La risposta è un enfatico “no”. L’analisi marxista degli sviluppi oggettivi del capitalismo mondiale trovò una brillante conferma. Le grandi nazioni capitaliste erano passate da un periodo di sviluppo progressista della loro economia a un’epoca di autodistruzione dove guerre e crisi si succedevano l’una all’altra. Quello che Marx aveva predetto si stava verificando: la concentrazione dei mezzi di produzione e il monopolio avevano raggiunto un livello in cui erano inconciliabili con la loro forma capitalista. A questo punto, secondo la previsione marxista, il proletariato avrebbe dovuto distruggere la struttura capitalista e proclamare la nascita di una nuova società. Questa prospettiva venne però portata a termine solo in Russia; in tutte le altre nazioni il proletariato si rivelò incapace di recidere il cordone ombelicale che ancora lo legava alla borghesia. Per quale ragione?

Lenin stesso ci offre una chiave di lettura. Già nel 1902 aveva scritto a proposito della necessità di un’organizzazione fermamente disciplinata di rivoluzionari di professione: “senza ‘dozzine’ di quadri capaci e affidabili […] preparati in maniera professionale, formati dall’esperienza […] nessuna classe in epoca moderna può portare avanti una battaglia determinata.” Delineava in seguito il compito dell’organizzazione: essa doveva porsi alla testa dello scontro di classe in ogni sua fase “dal mantenere alto l’onore, il prestigio e la continuità del partito in momenti di ‘depressione’ acuta del movimento, fino a preparare, fissare e portare a termine l’insurrezione armata a livello nazionale.” Nessuna possibilità di una rivoluzione vittoriosa senza un partito del genere: questa è l’idea alla base di tutti gli scritti di Lenin del periodo tra il 1902 e 1904, gli anni che segnarono la fondazione del partito leninista.

Mancanza di un partito leninista nell’Europa occidentale 

Non esisteva nessun partito ortodosso di questo tipo alla fine della prima guerra mondiale, né in Germania né in nessun’altra nazione dell’Europa occidentale. La socialdemocrazia, inizialmente passiva sul problema della rivoluzione, nel 1914 si era spostata nel campo della classe nemica. Certo emerse un’opposizione – gli spartachisti – ma questo gruppo era piccolo numericamente e debole dal punto di vista organizzativo. I suoi dirigenti, Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, avevano passato in prigione gran parte degli anni della guerra e per di più non condividevano l’idea di Lenin sui compiti del partito. Nel 1903-04 Rosa Luxemburg aveva polemizzato aspramente contro quello che riteneva l’iper-centralismo e il burocratismo di Lenin. Agitazione e propaganda, questi dovevano essere i compiti principali del partito secondo la Luxemburg e Liebknecht. Di contro l’iniziativa cosciente del gruppo dirigente del partito nella formulazione di una tattica e di una strategia era relegata a un ruolo secondario: l’insurrezione rivoluzionaria doveva partire dall’azione spontanea delle masse, mentre il partito doveva limitarsi al ruolo di un mero assistente. Rosa Luxemburg non riformulò mai la sua posizione su questa questione. Questo era lo stato dell’estremismo tedesco. I piccoli gruppi all’opposizione in Italia, Francia, Gran Bretagna erano ancora più lontani dalle idee di Lenin.

Ora ci si pone la domanda: se Lenin riteneva che l’esistenza di un partito bolscevico fosse il prerequisito indispensabile per la rivoluzione e, per di più, dava per persa la rivoluzione in Russia senza un aiuto internazionale, come mai fin dall’inizio della sua attività non dedicò tutte le sue energie alla creazione di un partito internazionale di questo tipo? Studiare gli scritti di Lenin prima del 1914 ci fornisce la risposta. Lenin teneva in grande considerazione la socialdemocrazia tedesca tanto quanto tutti gli altri gruppi di sinistra, in essa vedeva l’erede diretta di Marx ed Engels. Lenin, come gli altri marxisti russi, considerava Karl Kautsky, il direttore della rivista teorica settimanale socialdemocratica, un’autorità indiscussa. Attraverso l’interpretazione di Lenin, le generalizzazioni teoriche di Kautsky, corrette da un punto di vista accademico, vennero concretamente applicate con un rigore inconcepibile per il professor Kautsky. Con tanto più grande amarezza Lenin si rivolse contro Kautsky nel 1914, quando la stima che aveva di quest’ultimo si rivelò malriposta. Da quel momento in poi Lenin si pronunciò senza esitazioni a favore della formazione di una Terza Internazionale, senza però ottenere grandi risultati concreti durante la guerra. La maggioranza della conferenza di Zimmerwald si oppose alla proclamazione di una nuova Internazionale; il manifesto della piccola ala sinistra leninista non fu menzionato neanche una volta nelle pubblicazioni degli spartachisti. Dunque, nessuno meglio di Lenin poteva capire che mancava il fattore soggettivo per una rivoluzione vittoriosa in occidente.

Sappiamo che la posizione di Trotskij prima del 1917 era simile a quella di Rosa Luxemburg poiché, come lui stesso disse, era vittima di un certo fatalismo social-rivoluzionario. La rivoluzione di febbraio lo aveva avvicinato a Lenin, a differenza dei vecchi sostenitori di quest’ultimo, che non avevano l’abilità di Trotskij nel mettere in pratica la sua linea politica. In Russia, dove il problema si pose nella pratica, Lenin e Trotskij ridicolizzarono la fede superstiziosa in una vittoria spontanea della rivoluzione; sapevano che il successo o la sconfitta dipendevano dalle loro azioni. Il problema si presentava diversamente agli occhi delle masse. L’apparente facilità della vittoria dell’insurrezione d’Ottobre naturalmente generò grandi speranze tra i lavoratori russi per una vittoria immediata della rivoluzione anche in Europa, senza che essi si ponessero grandi problemi filosofici sulle condizioni soggettive di questa rivoluzione. È abbastanza evidente che perfino Lenin e Trotskij, per non parlare degli Zinoviev e dei Bucharin, si lasciarono trasportare da quest’ondata di ottimismo in un primo momento.

Questo fu particolarmente evidente nel periodo immediatamente successivo alla rivoluzione tedesca del novembre 1918. Gli operai tedeschi radicalizzati non avevano potuto seguire, a  causa della guerra, i complicati eventi della rivoluzione russa tra il febbraio e l’ottobre del 1917. La Repubblica Sovietica appariva loro come un fatto compiuto che dovevano imitare al più presto. I russi non fecero nulla per rendere loro accessibili le lezioni di inestimabile valore della politica bolscevica. Il compito della propaganda internazionale era nelle mani di Zinoviev, che solo l’anno precedente si era opposto all’insurrezione di Ottobre, accuratamente preparata, bollandola di avventurismo irresponsabile, e aveva insistito perché si procedesse attraverso i canali legali dell’Assemblea Costituente. Dunque ai suoi occhi la rivoluzione proletaria in Germania appariva come il problema più semplice del mondo, così come la questione dell’Assemblea Nazionale. “Buttate fuori i traditori, Ebert e Scheidemann!” Così recitava il proclama che inviò da Mosca ai lavoratori tedeschi. “Proclamate la Repubblica Sovietica con a capo Liebknecht!” Avrebbe fatto meglio a consigliare: “Non lasciatevi provocare e spingere in azioni avventate. Spiegate pazientemente alle masse il tradimento della socialdemocrazia. Prima costruite e rendete solido il vostro partito. Il vostro momento arriverà.”

Se questo consiglio sarebbe servito o meno è un’altra questione. Allora non si poteva dire che i rivoluzionari dell’Europa occidentale facessero molto affidamento su Mosca. L’Internazionale comunista doveva ancora essere fondata. Rosa Luxemburg pubblicò dal carcere un’aspra critica delle politiche bolsceviche. La Lega di Spartaco marciò verso la propria distruzione di propria iniziativa. In un momento in cui la radicalizzazione delle masse tedesche era ancora nella sua fase iniziale, i dirigenti spartachisti risposero al governo reazionario di Ebert con l’insurrezione del gennaio 1919, un’insurrezione completamente impreparata ed eseguita in maniera dilettantesca. [1]

Questo evento fu una catastrofe per il movimento tedesco e di conseguenza per gli sviluppi della rivoluzione internazionale. Il giovane partito rivoluzionario tedesco fu letteralmente decapitato; il movimento subì un colpo dal quale non si sarebbe mai più ripreso del tutto. Il significato e la portata di questo disastro all’inizio non furono pienamente riconosciuti a Mosca. Continuarono a levarsi voci ottimiste, che anzi ricevettero nuovo impulso dalla proclamazione di repubbliche sovietiche a Budapest e Monaco di Baviera.

A Budapest il regime del conte Karolyi si era arreso volontariamente ai socialdemocratici di sinistra di Béla Kun, il che portò Lenin a osservare con ottimismo che in altri paesi si sarebbe raggiunto il socialismo “tramite una strada diversa, più umana”. Ciò nonostante si rivelò manifestamente che un partito disciplinato con quadri esperti, formati al marxismo, è ancor più importante il giorno dopo la presa del potere che la sera prima. Il regime di Béla Kun commise errori su errori, alleandosi con elementi opportunisti mentre trascurava il compito di formare i soviet e una milizia operaia, dimenticandosi delle misure rivoluzionarie a vantaggio dei contadini più poveri e dei braccianti. Così facendo perse tutto il potere così facilmente acquisito nell’arco di qualche mese. La Repubblica Sovietica di Monaco non fu che una farsa, la cui caduta servì solo ad accentuare la catastrofe delle giornate di gennaio a Berlino. [2]

Paul Levi, un discepolo di Rosa Luxemburg che Lenin aveva conosciuto in Svizzera durante la guerra, fu il primo tedesco a comprendere i veri bisogni contingenti. Dopo la morte della Luxemburg, di Liebknecht e Jogiches, Levi, nonostante la sua giovane età, fu scelto per guidare il partito da poco ricostituito e lo trovò in un incredibile stato di confusione ideologica. Numerosi elementi radicali e utopisti, privi di formazione teorica e di esperienza politica, si erano legati alla Lega di Spartaco nei primi giorni della rivoluzione. Alcuni di loro consideravano l’insurrezione armata la panacea di tutti i mali e ogni altra forma di attivismo politico un tradimento bello e buono. Altri desideravano creare il loro piccolo angolo “rivoluzionario puro” separato dal resto del mondo, invece che cambiare la realtà esistente attraverso metodi rivoluzionari. Levi era assolutamente convinto che eliminare tutti questi elementi era il primo requisito per la costruzione di un partito serio, così nell’autunno 1919 portò a termine una scissione, nonostante questa decimasse i membri del partito a Berlino, portandoli da parecchie migliaia a qualche centinaio.

Lenin appoggiò la linea di Levi e ne fornì una giustificazione  teorica con l’opuscolo “L’estremismo: malattia infantile del comunismo”, scritto tra l’aprile e il maggio 1920. [3] A quel punto Lenin aveva già abbandonato ogni speranza di una rivoluzione vittoriosa rapida e indolore in occidente, il che non voleva dire affatto che dovesse rivedere le sue posizioni di base. La validità della sua posizione del 1902 , così come era stata espressa nel  “Che fare?”, era doppiamente confermata dall’esperienza, positiva in Russia, negativa in occidente. Dunque in questa fase gli sembrò più opportuno che i rivoluzionari dell’Europa occidentale rivolgessero la loro attenzione ai conflitti ideologici e di frazione riguardanti la costruzione del partito bolscevico. Poiché, come scriveva Lenin, “Solamente la storia del bolscevismo nella sua intera esistenza può spiegare con sufficiente chiarezza perché esso è riuscito a costruire e mantenere, anche nelle condizioni più ardue, la ferrea disciplina necessaria per la vittoria del proletariato“. Inoltre pose l’accento sulle tattiche più caute che i bolscevichi adottarono nel primo periodo della rivoluzione di Febbraio. “Non incitavamo alla caduta del governo, mentre invece spiegavamo come fosse impossibile rovesciarlo senza prima cambiare la composizione e il carattere dei Soviet […] Senza questi lunghi, cauti e esaurienti preparativi non avremmo ottenuto la vittoria nell’ottobre del 1917, né l’avremmo consolidata.” Parole d’oro che, però, arrivarono troppo tardi e caddero su un terreno sterile.

La fondazione del Comintern

L’Internazionale comunista fu fondata nella primavera del 1919. Il Congresso di fondazione non fu particolarmente impressionante a vedersi. Solo pochi delegati di partiti non russi riuscirono ad attraversare le frontiere della guerra civile e a raggiungere Mosca. Dirigenti importanti o eccezionali non erano tra questi. Lenin e Trotskij si videro circondati da gente come i finlandesi Kuusinen e Sirola, che avevano dimostrato la loro mediocrità poco prima della guerra civile finlandese; l’austriaco Steinhardt, il cui entusiasmo sorpassava di gran lunga le sue abilità politiche; il francese Jacques Sadoul, un capitano nella missione dell’esercito francese in Russia passato poi dalla parte dei bolscevichi; l’americano John Reed, scrittore e giornalista brillante, ma di limitata esperienza politica; o infine come il tedesco Hugo Eberlein, che ai tempi era poco conosciuto ma sarebbe poi diventato uno dei più corrotti membri dell’internazionale comunista. Eberlein aveva ricevuto mandato dai suoi compagni di partito di votare contro la fondazione dell’Internazionale Comunista, poiché secondo loro non era ancora giunto il momento opportuno. Il giovane partito comunista tedesco riecheggiava così la posizione espressa da Rosa Luxemburg poco prima di morire, dimostrando così ancora una volta la sua tendenza a prendere il cavallo per la coda. Pur considerando prematura la creazione di una nuova Internazionale comunista, Rosa Luxemburg  ammise che il proletariato berlinese era stato avventurista nell’intraprendere un’insurrezione armata senza prima aver creato un partito. Lenin e Trotskij non avevano alcun desiderio di imporre l’Internazionale al partito comunista tedesco, e si dichiararono disposti a trovare un compromesso. Ma con l’arrivo improvviso di nuovi delegati, che avevano intrapreso il viaggio verso Mosca nelle condizioni più impervie, un’ondata di entusiasmo per la fondazione immediata della nuova Internazionale si diffuse attraverso tutto il congresso ed Eberlein si lasciò convincere ad astenersi. Così venne fondata l’Internazionale comunista. Zinoviev fu eletto presidente e Mosca scelta come centro, dove un certo numero di rappresentanti degli altri partiti avrebbe preso residenza permanente. Si decise inoltre di tenere un congresso annuale, che avrebbe rappresentato l’autorità suprema su tutte le questioni politiche e organizzative.

E’ inutile dire che il nascente movimento si aspettava da Mosca ogni possibile aiuto fin dall’inizio. Poco prima di essere assassinato, Trotskij ricordava in uno dei suoi ultimi scritti il decreto del Consiglio dei commissari del popolo del 26 dicembre 1917, che portava la firma sua e quella di Lenin:

Tenendo conto che il potere sovietico si basa sul principio della solidarietà internazionale del proletariato e sulla fratellanza dei lavoratori di ogni paese; che la lotta contro la guerra e l’imperialismo può essere vinta definitivamente solo se combattuta su scala internazionale, il Consiglio dei Commissari del Popolo considera necessario offrire assistenza con tutti i mezzi possibili, incluso il denaro, all’ala sinistra internazionale del movimento operaio in tutti i paesi, indipendentemente dal fatto che questi paesi siano in guerra o alleati con la Russia oppure neutrali. Per questo motivo il Consiglio dei commissari del popolo delibera di stanziare due milioni di rubli per le necessità del movimento rivoluzionario internazionale e di metterli a disposizione dei rappresentanti stranieri del Commissariato degli affari esteri.

Ventitré anni dopo Trotskij aggiunse: “Non sarei incline a ritirare la mia firma da questo decreto nemmeno oggi. Era questione di dare un aiuto manifesto ai movimenti rivoluzionari di altri paesi, sotto il controllo delle organizzazioni operaie. I partiti che ricevevano questo aiuto godevano di una completa libertà di critica del governo sovietico. Ai congressi dell’Internazionale comunista era consuetudine tenere degli accesi dibattiti ideologici, e in più di un’occasione Lenin e io fummo messi in minoranza.

Solo i filistei e gli ipocriti si opporrebbero per principio ad un aiuto materiale da parte di un partito internazionalista ai suoi affini in altri paesi. Persino la Prima Internazionale, ai tempi di Marx ed Engels, era fiera del suo fondo di lotta internazionale. La Seconda Internazionale e la Federazione internazionale dei sindacati portarono avanti queste tradizioni. Per non parlare di quel che fanno i borghesi che tanto si indignano per la solidarietà internazionale del proletariato. E’ risaputo che la Germania nazista e imperialista dirige i suoi partiti e gruppi politici in tutto il mondo. L’imperialismo democratico non si comporta diversamente sotto questo punto di vista. Quando il governo britannico di Churchill e Lloyd George finanziò Denikin, Kolciak e Wrangel con parecchi milioni di sterline, non fece altro che seguire le orme di William Pitt, che finanziò le ambizioni dei monarchici contro la rivoluzione francese. Una volta che i bolscevichi intrapresero la lotta per la vita o la morte contro il capitalismo mondiale, furono costretti a battersi con metodi prescritti dalle condizioni dettate dal capitalismo.

Nonostante tutto, questi aiuti da Mosca avevano i loro svantaggi. Se anche in altri paesi fossero esistiti solo partiti ben organizzati, con esperienza e dirigenti dotati di indipendenza di giudizio come Lenin, i rischi connessi agli aiuti di Mosca sarebbero stati minimi, e i benefici molto maggiori. Purtroppo, non fu questo il caso. I soldi servirono solo a mascherare la debolezza di gruppi piccoli e ideologicamente instabili, fornendo una facciata di forza e influenza che in realtà non possedevano. Così gli aiuti di Mosca molto presto contribuirono a rendere indipendente l’apparato del partito dalla militanza. Con la degenerazione della rivoluzione russa gli aiuti si trasformarono poi in strumenti di coercizione e corruzione.

Che l’Internazionale comunista non fosse una creazione artificiale di Mosca, ma rispondesse a una necessità politica diffusa e reale fu dimostrato nei primi anni della sua esistenza. In Germania, Italia, Scandinavia, e persino nell’ultra conservatrice Inghilterra, grandi masse si distaccarono dalle politiche brutalmente controrivoluzionarie o ideologicamente inconsistenti della socialdemocrazia, guardando speranzose ad est. Quello che destava maggior perplessità era che parecchi settori dei vecchi dirigenti socialdemocratici si dichiaravano disposti ad affiliarsi al Comintern. Così i tedeschi Crispien e Dittman, che durante la guerra avevano adottato una debole linea pacifista e quasi-opportunista; i francesi Cachin e Frossard, che erano stati al cento per cento social-patriottici e avevano collaborato con Mussolini; il ceco Smeral, fino a quel momento un agente della monarchia degli Asburgo; e infine persino Ramsay MacDonald, un vecchio dirigente, pacifista e religioso, del Partito labourista indipendente e futuro primo ministro dell’Impero britannico. Tutti questi fecero cortesemente domanda circa i requisiti d’accesso alla nuova Internazionale.

Lenin e Trotskij furono enormemente preoccupati da questi approcci. Non era nelle loro intenzioni creare una riedizione della Seconda Internazionale, nei cui ranghi ognuno seguiva i propri scopi. Dunque, nel secondo congresso, convocato l’estate del 1920, presentarono 21 condizioni per aderire all’Internazionale comunista. Queste richiedevano il riconoscimento dei principi essenziali della politica bolscevica, del sistema dei soviet e della dittatura del proletariato, la rottura con il socialismo ministeriale e il social-patriottismo. Socialdemocratici e liberali di tutte le sfumature hanno trovato in queste tesi di Mosca le radici di tutti i mali e di tutte le miserie del movimento operaio del dopoguerra. Trotskij rispose a lamentele del genere con la sardonica affermazione “Sì, in effetti è possibile che non siano state formulate abbastanza aspramente“. In realtà queste tesi non furono sufficienti come vaccino contro la degenerazione opportunista dell’Internazionale. Il loro scopo fu raggiunto solamente nella misura in cui coloro che erano apertamente opportunisti si rifiutarono di sottostare alle 21 condizioni e vennero esclusi. Tra i firmatari c’era gente come i summenzionati Cachin e Smeral, indifferenti alla teoria e sicuri, nel loro buon senso da filistei, che sarebbe stato difficile fargliele rispettare. Anche tra i firmatari più sinceri era difficile trovarne uno che sapesse tradurre l’algebra delle 21 condizioni nell’aritmetica della politica quotidiana. Né i soldi né i regolamenti severi potevano curare il male di cui soffriva l’estremismo dell’Europa occidentale: la mancanza di una decina di dirigenti eccezionali ed esperti, che fossero nella posizione di portare avanti politiche coerenti sulla base del metodo marxista. Solo attraverso un paziente lavoro di formazione e una selezione accurata si poteva formare un simile gruppo dirigente.

Paul Levi, uno dei primi a rendersi conto delle conseguenze di questa situazione, ebbe l’onore della presidenza al secondo congresso dell’Internazionale. L’opuscolo di Lenin contro l’estremismo stava andando in stampa in quel momento. Il partito comunista tedesco aveva commesso un errore madornale nel marzo 1920 in relazione al colpo di Stato di Kapp e della sua cricca reazionaria di generali e fascisti. In mancanza di Levi, che si trovava in prigione, la Zentrale (il Comitato centrale) aveva dichiarato in risposta al colpo di Stato che lo scontro tra la reazione monarchica e la repubblica non riguardava i lavoratori, in quanto entrambe le fazioni erano nemiche del proletariato. Levi aveva protestato con veemenza dalla prigione contro questa presa di posizione e lanciato un appello per un’energica partecipazione alla lotta contro Kapp. La sua linea era stata adottata nel giro di alcuni giorni e i dirigenti del partito russo avevano riconosciuto apertamente che Levi aveva salvato l’onore del suo partito. Sembrava che Levi avesse ogni ragione per essere felice ma, come dice un proverbio tedesco, nella vita di ciascuno c’è sempre qualche nuvola all’orizzonte e il secondo congresso mondiale non tardò ad aggiungere una goccia di veleno alla sua coppa di felicità. Poiché il dibattito centrale verteva principalmente sui 21 punti, i delegati diressero tutti i loro attacchi contro l’ala destra e così si ritrovarono a dar voce virtualmente alle stesse opinioni degli utopisti della sinistra estremista. Zinoviev e Bucharin, così come gente del calibro di Béla Kun e Rakosi, che grazie ai loro ruoli stellari ma brevi erano divenuti membri del Comitato esecutivo della nuova Internazionale, si opposero all’espulsione da parte di Levi dei baldanzosi estremisti di sinistra. L’espulsione non fu revocata ma gli espulsi, che avevano fondato un “Partito comunista dei lavoratori” (KAPD), furono riconosciuti come “sezione simpatizzante” della nuova Internazionale. L’esistenza di due sezioni, una “ufficiale”, l’altra “simpatizzante”, poteva solo creare confusione tra le fila del movimento operaio tedesco. Con  questa decisione si intraprese un cammino che si sarebbe rivelato pericoloso per il destino del nuovo partito e dell’Internazionale.

Verso la fine del 1920 il giovane partito comunista tedesco si trasformò improvvisamente in un partito influente, con dirigenti riconosciuti, una nutrita rappresentanza nel Reichstag, numerose pubblicazioni, un considerevole seguito all’interno delle fabbriche e un’adesione di massa. Il Partito Socialdemocratico Indipendente (USPD), che si era scisso dalla social democrazia nel 1917 ed era cresciuto fino a diventare un partito di massa durante la rivoluzione, aveva subito un’altra scissione al Congresso di Halle, con la maggioranza che si era espressa a favore dell’entrata nel partito comunista e nell’Internazionale comunista. Lo stesso Zinovev aveva partecipato al congresso di Halle ed era uscito vittorioso in un dibattito con Martov, il vecchio rivale di Lenin. L’ottimismo di Zinoviev toccò nuove vette, contagiando i colleghi Bucharin, Béla Kun, Rakosi, etc. “Ora che abbiamo un vero partito di massa in Germania dobbiamo cominciare a combinarci qualcosa“, filosofeggiavano in un piccolo ufficio del Comintern a Mosca. Uno dopo l’altro apparvero a Berlino Bela Kun, Borodin (proprio quello stesso Borodin che avrebbe svolto un ruolo altrettanto importante e altrettanto disastroso di lì a cinque anni in Cina) e Rakosi, ai quali erano stati delegati ampi poteri dalla presidenza del Comintern per controllare le politiche del partito tedesco. A causa di queste macchinazioni Levi fu persuaso a lasciare il posto di segretario del partito tedesco. Così fu lasciata via libera agli avventuristi. [4]

L’ “Azione di marzo”

Nel marzo del 1921, quando il socialdemocratico Horsing, capo della polizia, ordinò alle forze dell’ordine di marciare sul distretto minerario della Germania centrale, la nuova direzione del partito comunista convocò uno sciopero generale e incitò i lavoratori ad armarsi e a rovesciare il governo. Per le masse dei lavoratori questo pronunciamento arrivò come un fulmine a ciel sereno.

Sotto la direzione di Levi il partito aveva perseguito fino ad allora una politica di fronte unico operaio e ora improvvisamente si regrediva a un putschismo infantile. Per ironia della sorte, lo sciopero generale venne convocato un giorno prima del Venerdì Santo, quando la maggior parte delle fabbriche chiudeva per quattro giorni. Mentre la gran parte dei lavoratori tedeschi celebrava la Pasqua, i dirigenti del partito comunista tedesco stavano guidando una rivoluzione. Questi dirigenti fraternizzarono con i putschisti del “Partito comunista dei lavoratori” e tentarono di gridare più forte di loro. C’era un certo Max Holz che, come un moderno Robin Hood, derubava le case dei capitalisti e divideva il bottino tra i poveri. L’anno precedente il partito comunista aveva escluso dai suoi ranghi questo filibustiere, mentre ora lo osannava come un eroe. I dirigenti comunisti commisero idiozie anche peggiori. Con lo scopo di “galvanizzare” le masse, misero in scena attacchi ai loro funzionari e alle loro pubblicazioni, condotti da membri stessi del partito camuffati come “nemici”, per poter “rispondere” a queste azioni con sabotaggi delle ferrovie, bombe nei tribunali, attacchi a casse di risparmio e alla polizia – una tattica che Adolf Hitler emulò con un successo di gran lunga maggiore nel 1933. L’Azione di marzo si risolse in un fiasco terrificante; il giovane partito, che appena cominciava ad essere un fattore di rilievo nella vita politica della Germania, fu ricoperto di ridicolo. In un rapporto confidenziale, poco prima dell’Azione di marzo, Paul Levi aveva messo in guardia la direzione del partito dal prendere la strada dell’avventurismo. Quando cominciarono le sommosse putschiste Levi era a Vienna. Si affrettò a ritornare in Germania, dove Clara Zetkin, una vecchia dirigente del movimento operaio e un membro della sua frazione, lo dissuase dal pubblicare un manifesto contro questa azione nel pieno della lotta. Invece, subito dopo la conclusione degli eventi, pubblicò un brillante opuscolo chiamato Unser Weg: wider den Putchismus (La nostra strada: contro il putschismo). Al di là del programma della Lega di Spartaco scritto da Rosa Luxemburg, fu questo uno dei contributi politici più degni di nota di tutta la storia del Partito comunista tedesco. Scrisse nella prefazione: “Mi rivolgo con fiducia ai membri del partito con questa descrizione che non può non far piangere  il cuore di chiunque abbia aiutato a costruire quello che oggi è stato distrutto. Questa è l’amara verità. Ma è una medicina, non veleno, quello che vi offro’“. Nonostante ciò, Mosca rifiutò questa medicina e riconobbe ufficialmente la fazione putschista. Qualche mese più tardi, al terzo congresso mondiale dell’Internazionale, Zinoviev dichiarò: “Quando per la prima volta abbiamo ricevuto notizia dell’Azione di marzo, abbiamo tutti avuto la sensazione che finalmente le cose cominciassero a muoversi. Finalmente il movimento era partito in Germania. Finalmente una ventata di aria fresca“. Di conseguenza venne mandato un telegramma ai putschisti: “Avete agito correttamente” era scritto, mentre Levi e i suoi sostenitori venivano bollati come una “minaccia di destra”. Fu così che gli eroi dell’Azione di marzo si sentirono giustificati nell’espellere dal partito lo scomodo Levi. [5]

Lenin e Trotskij scuotevano il capo di fronte a questa follia. Non sapevano che l’Azione di marzo fosse stata escogitata dal segretariato del Comitato esecutivo dell’Internazionale. Ritenendo che il movimento rivoluzionario internazionale fosse in una fase di riflusso, la loro attenzione era stata rivolta all’introduzione della Nuova Politica Economica in Russia. Il “comunismo di guerra”, con il suo sistema di requisizioni obbligatorie, aveva alienato una grossa parte dei contadini dallo Stato sovietico e condotto la produzione industriale in un vicolo cieco. Come Kronstadt aveva chiaramente dimostrato, anche i lavoratori trovavano intollerabili queste privazioni. Già dal 1920 Trotskij aveva suggerito che ai kulaki dovesse essere garantita una certa percentuale del loro raccolto e che fosse consentito il libero mercato in una sfera limitata. In principio Lenin si oppose, ma alla fine, non avendo ragione di temere un passo indietro, accettò il piano di Trotskij al fine di raggiungere una posizione più vantaggiosa per un ulteriore avanzamento. Il capitale privato fu reintrodotto in una certa misura nell’industria e nell’artigianato. Lenin in realtà arrivò anche a considerare l’idea di attrarre capitale straniero per la ricostruzione industriale in Russia, attraverso un esteso sistema di concessioni, e Trotskij era d’accordo. Proprio come ogni altra svolta audace nella politica di Lenin, anche questa generò opposizione tra le sue fila. “Non possiamo permettere all’Unione Sovietica di degenerare in uno Stato di bottegai!” era uno dei discorsi preferiti del segretariato del Comintern, tra Zinoviev, Bucharin e Bela Kun. Dal momento che Lenin e Trotskij avevano spiegato che era divenuto necessario introdurre la NEP in Russia visto il fallimento di una rivoluzione su scala mondiale, Zinoviev e i suoi seguaci nel segretariato avevano pensato di poter fornire un rapido rimedio. Questa era stata la motivazione principale per cui avevano messo in moto l’infantile Azione di marzo.

Il terzo congresso mondiale

La questione dell’Azione di marzo fu la causa di un duro scontro all’interno del partito russo. Il loro giudizio sull’Azione del marzo portò Lenin e Trotskij all’estrema destra del loro stesso partito. Il terzo congresso mondiale dell’Internazionale comunista era alle porte. Solo con grande sforzo il partito russo riuscì a raggiungere un accordo generale. Si raggiunse l’unanimità sulla base di un compromesso, “un compromesso a sinistra”, come lo descrisse Trotskij al congresso, intendendo per “sinistra” la tendenza estremista putschista.

Superficialmente, il terzo congresso dell’Internazionale comunista (22 giugno – 12 luglio 1921) fu uno spettacolo imponente. L’influenza della Seconda Internazionale in Europa andava diminuendo in maniera costante, così che delegati di ogni razza e colore, da quasi tutti i paesi del mondo, erano riuniti a Mosca: un totale di 602 delegati, a rappresentare 58 paesi. In Germania, Italia, Francia, Cecoslovacchia e Scandinavia la nuova Internazionale contava decine di migliaia di membri, e persino in Oriente cominciava ad emergere un potente movimento. Il brillante apice del congresso fu l’analisi di Trotskij sulla situazione politica mondiale, che durò diverse ore e fu da lui presentata in un unica giornata sia in russo, che in francese e in tedesco, una performance di capacità oratorie senza precedenti. Tuttavia, nonostante il suo svolgimento apparentemente brillante e corretto, il terzo congresso già conteneva i germi della malattia che qualche anno più tardi avrebbe precipitato la degenerazione dell’Internazionale comunista e, insieme a questa, dello Stato sovietico.

Il “compromesso a sinistra” sulla questione tedesca fu approssimativamente il seguente: l’Azione di marzo rappresentava un “avanzamento” nella misura in cui il partito tedesco aveva guidato larghe masse nella lotta; nondimeno, rappresentava un grave errore in quanto il partito aveva abbandonato una linea difensiva in favore di una offensiva; la critica di Levi, sebbene in generale corretta, rappresentava una rottura della disciplina di partito e pertanto la sua espulsione era giustificata.

Che Trotskij non fosse pienamente soddisfatto del compromesso è evidente dalla sua relazione. Infatti tentò di minimizzare per quanto possibile l’idea che l’Azione del marzo fosse un passo in avanti. “Quando diciamo che l’Azione del marzo fu un avanzamento, intendiamo – almeno io intendo (gli sembrò necessario chiarire che fosse un suo punto di vista personale NdA) – il fatto che il Partito comunista… si ponga… come un partito  unito, indipendente, integrato e centralizzato in grado di intervenire in maniera indipendente nella lotta del proletariato.” Dopo questa concessione alla retorica generale del congresso, l’oratore assunse un tono completamente diverso affrontando più in concreto l’avventura di marzo. “Difendere l’Azione di marzo […] non avrà successo […] Il tentativo del partito di giocare un ruolo in una mobilitazione di massa non è andato a buon fine […] Se ora diciamo che vogliamo buttar fuori dalla finestra Paul Levi e limitarci a borbottare qualche frase sul fatto che l’Azione di marzo era solo un primo tentativo, un passo in avanti, in breve se nascondiamo le nostre critiche dietro parole vuote, allora non abbiamo adempiuto al nostro dovere.

Eppure, osservata con attenzione, la critica del terzo congresso mondiale non consisteva forse proprio in parole vuote? Le tesi della delegazione russa dichiaravano che il partito tedesco era stato spinto dalle provocazioni del governo a intraprendere l’Azione di marzo (sic!); la consideravano un passo in avanti rispetto alle pazienti politiche di Levi durante il 1920 (laddove rappresentava invece un passo indietro anche peggiore rispetto alle idiozie del gennaio 1919); le tesi si limitavano a condannare la cosiddetta “teoria dell’offensiva”, secondo cui il partito era obbligato ad assumere l’offensiva in ogni circostanza a prescindere da un’effettiva partecipazione di massa [6]. Mentre trattavano i putschisti con i guanti di velluto, le tesi erano un anatema contro i critici degli estremisti [7]. Non c’è da stupirsi allora se i dirigenti dell’Azione di marzo non ebbero riserve ad “adottare in linea di principio le tesi presentate dai delegati russi” e si limitarono ad esprimere obiezioni nei confronti dell’ “interpretazione di Trotskij delle tesi” [8].

Forse il ruolo più infelice in questo congresso lo giocò Karl Radek. La verità sull’andazzo nel piccolo ufficio dell’Esecutivo venne alla luce in seguito, quando Zinovev e Radek ebbero uno scontro nella primavera del 1924 e si attaccarono pubblicamente l’un l’altro sui giornali. Nel corso di questo dibattito, Radek ripeté quello che Levi aveva detto tre anni prima: addossò a Zinoviev la responsabilità per l’Azione di marzo. Secondo Radek la proposta di Levi per una tattica di fronte unico con la socialdemocrazia (appoggiata da Radek), fu “respinta da una parte dell’influente direzione dell’Esecutivo (del Comintern)” verso metà febbraio 1921 e “solo l’intervento del compagno Lenin impedì che venisse bocciata”. Tuttavia non venne presa alcuna decisione ufficiale del Comitato esecutivo, mentre Zinoviev e Bucharin continuarono con le loro macchinazioni ai danni delle politiche di Levi e il risultato fu l’Azione di marzo. Nelle sue conclusioni al quinto congresso mondiale (1924), Zinoviev confermò a modo suo la correttezza delle affermazioni di Radek e si vantò perfino di aver osteggiato Levi e favorito gli estremisti di sinistra dal 1920 in poi.

Ciò nonostante, al terzo congresso mondiale del 1921, durante la discussione sull’Azione del marzo, dal cui esito dipendeva il destino del movimento tedesco, Radek mantenne il più completo silenzio riguardo queste vicende del Comitato esecutivo di Mosca e tenne il suo discorso nel peggior spirito di solidarietà di cricca. Non solo l’Esecutivo era assolutamente innocente, ma perfino i putschisti tedeschi non erano colpevoli tanto quanto i loro oppositori. “Noi diciamo al partito tedesco: voi avete combattuto e avete commesso errori nel corso della battaglia. Ma il solo fatto che abbiate combattuto basta a dimostrare che siete un degno partito comunista.” Levi era già stato espulso ai tempi del congresso e quindi non era presente. Ai suoi più importanti sostenitori, come Hoffman, Brass e Daumig, era stato impedito con ogni sorta di intrigo di arrivare a Mosca. Erano presenti solo una manciata di militanti di base sostenitori dell’opposizione di Levi, che erano in soggezione rispetto ai tanti celebri oratori presenti e quindi avanzarono il loro punto di vista molto timidamente. Fu di conseguenza molto facile per i membri dell’Esecutivo assumere il ruolo degli accusatori [9].

L’accusatore Radek fu abbastanza tollerante da concedere le attenuanti all’opposizione. Non si poteva certo biasimare l’Esecutivo internazionale, dunque la direzione del partito tedesco doveva assumersi parte delle responsabilità. “E’ chiaro che se i compagni tedeschi non avessero commesso errori e che se si fosse sollevata un’opposizione all’Azione del marzo, questa opposizione dovrebbe essere espulsa. Gli errori commessi invece rendono necessario un approccio più mite nei confronti degli oppositori, considerando che non ci è chiaro se sono tutti opportunisti o semplicemente allarmisti. Perciò è necessario fare delle concessioni ai destri.” Ma l’opposizione doveva capire: “L’Internazionale comunista non perdonerà lo stesso errore una seconda volta”. Di solito è questo il difetto dei compromessi ideologici: si prestano a interpretazioni differenti e non chiariscono nulla. Quello che per Trotskij era un “compromesso a sinistra”, era un “compromesso a destra” per Radek e per la maggior parte dei partecipanti al terzo congresso mondiale.

Levi fu comunque nel giusto quando dichiarò dopo il congresso: “Chiunque abbia suggerito al partito comunista di accettare questo compromesso, gli ha suggerito di prendere un veleno […] Se l’Azione di marzo è stata un passo avanti, non dovremmo avere esitazioni nel compiere il passo successivo. Ma se l’Azione di marzo è stata un crimine, allora bisogna dirlo chiaramente, affinché tutti possano prendere una posizione definita.” Il compromesso trasformò la crisi aperta nel partito tedesco in una ‘crisi nascosta’. Levi profetizzò che il partito comunista tedesco non avrebbe mai retto a questa crisi occulta. “Forse accadrà, e a meno che non si compia un miracolo accadrà davvero, che il Partito comunista subirà lo stesso fato del fiume Tarim, che sgorga dalle montagne dell’Asia Centrale con molti torrenti… e non raggiunge mai il mare. Scompare fra le steppe della Siberia come se non fosse mai esistito. Sarà allora necessario ricominciare un grande compito dall’inizio, sotto nuove circostanze ma armati delle vecchie convinzioni.” [10]

Lenin su Levi

Nelle sue discussioni con Clara Zetkin durante il terzo congresso mondiale, Lenin criticò le posizioni di Levi, in quanto non distinguevano tra un’azione difensiva dei lavoratori in lotta e un attacco mal concepito lanciato dalla direzione. La critica di Levi mancava di solidarietà verso il partito e aveva amareggiato i compagni più nei toni che nei contenuti. Un argomento sorprendente da parte di un politico che aveva ridicolizzato qualsiasi critica all’asprezza dei toni come prova di debolezza politica. Anche ammettendo che l’argomento di Lenin era corretto e che il pamphlet di Levi contro l’Azione del marzo esprimesse “una forte tendenza verso l’isolamento, l’autocompiacimento e una certa vanità letteraria” rimane difficile comprendere come Lenin e Trotskij potessero seguire il terzo congresso nel porre la forma al di sopra del contenuto. I principi politici di Levi avrebbero “trionfato brillantemente” al congresso, esclamò Lenin, e invece “il congresso condannerà Paul Levi e lo tratterà con asprezza”. D’altro canto il congresso avrebbe spazzato via la famosa teoria degli estremisti di sinistra dell’offensiva ad ogni costo e ne avrebbe condannato le tattiche.

Quanto alle personalità coinvolte, “Non ci porremo con durezza nei confronti dei sinistri, leniremo anzi le loro ferite. Presto torneranno al lavoro energici e felici”, perseguendo una corretta linea politica. Ovviamente Lenin non voleva perdere Paul Levi, le cui qualità teneva in alta considerazione. “Ho fatto la sua conoscenza in Svizzera e nutrivo grandi speranze per lui. Ha dimostrato il suo valore nel periodo delle peggiori persecuzioni, è stato coraggioso, intelligente e generoso […] Per Paul Levi la strada per tornare da noi è aperta, se non sarà lui stesso a bloccarla […] Non dobbiamo perdere Paul Levi, per il suo bene e per il nostro. Non abbiamo talenti in sovrabbondanza e perciò dobbiamo conservare quelli che abbiamo […] Se Levi si sottopone alla disciplina e si comporta bene – può, per esempio, contribuire con uno pseudonimo alla stampa di partito, scrivere opuscoli, etc – allora nel giro di tre o quattro mesi chiederò in una lettera aperta la sua riammissione.” Quando Lenin si rivolgeva così a Clara Zetkin era ovviamente con l’intenzione di spingerla a usare il suo ascendente su Levi. Mantenere un relazione con la sinistra da un lato e con Levi dall’altro sembrava necessario a Lenin per mantenere l’unità del partito tedesco. Considerava l’Azione di marzo come un risultato dell’ “infantilismo” e voleva mostrare un atteggiamento di “tolleranza paterna” verso i dirigenti del partito tedesco. Trotskij nel 1928, in un opuscolo sarcastico e pungente contro i dirigenti del Comintern, riportò una conversazione che ebbe con Lenin  e Clara Zetkin qualche tempo dopo l’Azione di marzo. Entrambi concordavano con la Zetkin sul fatto che fossero state commesse enormi stupidaggini. Tuttavia Lenin osservò: “I giovani faranno molte stupidaggini, ma dopotutto faranno anche una buona rivoluzione.” Clara Zetkin protestò dicendo che “non ne faranno neanche una cattiva”. Lenin e Trotskij si guardarono e, come quest’ultimo riporta, non riuscirono a trattenere un sorriso. In questo caso la storia avrebbe dimostrato che Clara Zetkin aveva ragione; il suo errore fu quando successivamente si unì a degli sciocchi in una cattiva rivoluzione.

L’errore di Lenin e Trotskij fu nel sottovalutare il fatto che non erano stati “i giovani e inesperti” tedeschi, ma le bambinate politiche di adulti vaccinati come Zinoviev, Bucharin e Béla Kun a condurre il movimento all’avventura di marzo. Il primo dovere del terzo congresso mondiale sarebbe dovuto essere quello di denunciare pubblicamente e condannare l’infelice intervento dell’Esecutivo internazionale nelle politiche del Partito tedesco, sollevare i responsabili dai loro incarichi e sottoporre l’attività del nuovo Esecutivo ad un controllo democratico permanente. Dopo di che si sarebbe stati ancora in tempo a correggere gli errori formali di Levi e dei suoi sostenitori. Ma nell’evoluzione delle cose si perse ogni senso delle proporzioni e i delegati dovettero trarre l’impressione che fosse sempre meglio commettere un errore seguendo le direttive del Comintern che agire nel giusto violando la disciplina. Fu così che si pose la prima pietra di quello sviluppo che nel giro di qualche anno avrebbe trasformato l’Internazionale in una congrega di mammalucchi, che dipendevano in maniera servile dalla fazione dominante a Mosca, e infine in un mero strumento della politica estera opportunista e nazionalista di Stalin. [11]

Che ne fu di Levi

Per quanto riguarda Levi, è un peccato che non accettò mai la mano tesa di Lenin. Sicuramente questo tentativo di ricondurre il movimento sulla strada giusta avrebbe prodotto i suoi frutti. Che Lenin e Trotskij fossero estranei a qualsiasi spirito di cricca fu dimostrato in seguito, con la loro assoluta opposizione alle tendenze burocratiche nel loro stesso partito. Sicuramente non sarebbero rimasti a lungo all’oscuro sul fatto che quelle tendenze si fossero insinuate anche all’interno del Comitato esecutivo internazionale: quello sarebbe stato il momento della rivincita di Levi. La cosa peggiore è che Levi non ebbe abbastanza pazienza, fiducia in se stesso e forza di carattere per continuare il lavoro con i suoi sostenitori. Lui e il suo piccolo gruppo di fedelissimi si unirono al Partito socialdemocratico indipendente (USPD), che poco più tardi si riunì a sua volta alla vecchia socialdemocrazia. Certamente egli non dimenticò mai del tutto i suoi trascorsi; non fu mai ministro della sciagurata Repubblica di Weimar e nemmeno sindaco, rimanendo su posizioni di opposizione e di critica. Il marciume della politica tedesca lo segnò così profondamente che nel 1930 si suicidò. Si buttò da una finestra di un appartamento di Berlino, in un rimando involontario al passaggio di Trotskij al terzo congresso mondiale a proposito di buttar Levi fuori dalla finestra.

L’atteggiamento del terzo congresso mondiale nei confronti di Levi sembrò essere giustificato dal suo percorso politico successivo. Nel suo “Note di un pubblicista”, scritto nel 1922 ma pubblicato postumo, Lenin si rammaricò di aver fatto aperture a Levi. Il quadro è però parziale, se si guarda solo agli sviluppi successivi della storia di Levi e non al partito che si lasciò alle spalle. Nel Che fare? il giovane Lenin aveva enfatizzato la grande importanza della continuità della direzione e dei quadri nella costruzione di un partito. Nelle sue discussioni con Clara Zetkin durante il terzo congresso mondiale la invitava a prestare attenzione a questo punto. “E’ particolarmente importante trattenere tra le nostre fila compagni abili che si sono guadagnati i gradi nel movimento operaio. Penso a compagni come Adolf Hoffman, Geyer, Daumig, Brass e altri… compagni come questi portano un’esperienza considerevole e una certa competenza nel partito e sono, soprattutto, il nostro legame vivo con le grandi masse operaie, di cui si sono guadagnati la fiducia.” Lenin non lesinava lodi anche alla base dell’opposizione di Levi: “Ottimi compagni, questi lavoratori tedeschi come Mazalin e i suoi amici. Certo è che non troverebbero lavoro come mangiafuoco in un circo di radicali e non so se sarebbero buone truppe d’assalto, ma sono certo che gente di questo tipo è il pilastro saldo, ben organizzato e combattivo del proletariato rivoluzionario, oltre che le sue fondamenta e il suo sostegno nelle fabbriche. Dobbiamo avvicinare a noi elementi di questo tipo e reclutarli.

Solo qualche mese dopo il terzo congresso mondiale tutti coloro menzionati da Lenin, “il solido legame tra il partito e le masse”, avevano abbandonato un partito in cui non avevano più fiducia. La frazione del partito nel Reichstag passò da 26 a 11 deputati. La continuità della direzione del partito andò perduta e non fu più riconquistata. Anche se la crisi permanente dell’economia e della politica tedesca portò al partito di estrema sinistra molti nuovi voti e sostenitori, una relazione stabile di fiducia tra il partito e le masse non fu più ristabilita. La direzione del partito fu per un periodo nelle mani del quartetto Brandler, Thalheimer, Walcher e Frolich, cui va aggiunta l’“opposizione” Maslow-Ruth Fischer. Heinrich Brandler era un buon funzionario sindacale con un talento organizzativo e un certo senso pratico, ma non aveva nessuna formazione teorica di base, né immaginazione né creatività nella direzione. August Thalheimer, cui  Lenin e Trotskij, Dio solo sa perché, in un’occasione avevano dato l’appellativo di studioso teorico, non era in realtà altro che un arido eclettico, sempre pronto a giustificare la prassi opportunista del suo amico Brandler con la teoria giusta. Allo stesso modo Jacob Walcher e Paul Frolich si completavano a vicenda. Dato che l’orizzonte politico di Walcher era più limitato di quello di Brandler, egli lasciava ancor più libero sfogo al suo istinto. La conoscenza della teoria di Frolich era superiore a quella di Thalheimer, anche se quest’ultimo aveva maggior abilità letteraria. Per quanto riguarda l’accoppiata Maslow-Fischer il loro livello politico era vicino a quello dei teppisti dell’estrema destra, la feccia che si riuniva attorno a Streicher e Strasser.

Lenin era estremamente preoccupato per gli sviluppi del partito tedesco. Al quarto congresso del Comintern, che non fu altro che una ripetizione meno spettacolare del terzo, ebbe occasione di riprendere la discussione con Clara Zetkin. Una sera, dopo il discorso di Ruth Fischer, Lenin confidò alla vecchia compagna. “Mh, posso capire come nella vostra situazione si crei un’opposizione di sinistra nel partito… Le cose vanno avanti così lentamente, non sembra che la storia mondiale vada molto di fretta. Ma i lavoratori scontenti pensano che i vostri dirigenti non la vogliano far accelerare per niente. Tutto questo lo capisco. Ma quello che non capisco sono questi dirigenti dell’opposizione di sinistra che ho appena ascoltato… No, dirigenti di questo tipo non mi hanno fatto una buona impressione. Però ti dirò apertamente che il vostro Comitato centrale non mi sembra meglio; non capiscono, non hanno abbastanza energia per sbarazzarsi di questi demagoghi meschini. Dopotutto dovrebbe esser cosa facile occuparsi di questa gente, separare i lavoratori rivoluzionari da costoro ed educarli politicamente. Proprio perché questi ultimi sono lavoratori rivoluzionari, mentre i “radicali” di questa stoffa (Fischer e Maslow) sono in fin dei conti la peggior specie di opportunisti.” Questo ritratto venne confermato in pieno dalla successiva attività di entrambi, ma non servì ad impedire che per un certo periodo di tempo si trovassero al vertice del partito tedesco. E’ sorprendente che a Lenin non sia venuto in mente di collegare la disperata situazione del partito tedesco con lo svolgimento dell’Azione di marzo e la sua gestione da parte del terzo congresso mondiale. Dopo essersi liberati degli elementi più seri, non è sorprendente che fossero burocrati sterili e demagoghi avventuristi a prendere il controllo. [12]

La crisi rivoluzionaria del 1923

L’anno 1923 confermò le oscure previsioni di Lenin sul movimento tedesco. In quell’anno la Germania si trovò alle prese con un’eccezionale situazione rivoluzionaria. Il governo tedesco rispose all’occupazione francese della Ruhr con un appello alla “resistenza passiva”, accompagnato dall’inflazione. Dietro la maschera del patriottismo ebbe luogo la più losca rapina nella storia della società moderna da parte del capitale finanziario ai danni della classe media e del proletariato. Secondo i calcoli del famoso economista tedesco, il professor Lederer, il profitto netto del capitalismo finanziario tedesco da questa inflazione fu di 78 miliardi di marchi oro, a cui vanno aggiunti tassi elevati. Mentre Stinnes, Thyssen, Krupp, Duisberg e Cuno, che questi avevano scelto come timoniere della nave dello Stato, saccheggiavano a piacimento, gridavano, come si è soliti fare in questi casi, “al ladro!” indicando Poincarè. O, per meglio dire, lo facevano gridare da altri per conto loro. Come risultato del collasso della società borghese, si stava sviluppando una nuova tendenza politica, quella dei fascisti o nazisti, i cui primi membri vennero reclutati tra la piccola borghesia in bancarotta, gli ufficiali in congedo e il sottoproletariato e la cui ideologia demagogica nascondeva una realtà di sciovinismo e distruzione della democrazia. I baroni ladri diedero una piccola percentuale del loro gigantesco bottino ai nazisti, la cui propaganda revanscista forniva una vantaggiosa cassa di risonanza per le malefatte dell’imperialismo francese. I soldi dati ai nazisti erano ben spesi e portavano un doppio guadagno: da un lato l’odio fanatico verso la Francia distoglieva l’attenzione delle persone dalle manovre dei baroni ladri e dei principi del ferro e dell’acciaio, dall’altro l’ascesa del nazismo metteva la socialdemocrazia in uno stato tale di terrore del “pericolo fascista” da farle ingoiare la politica inflazionistica di Cuno come il male minore.

Il partito comunista annaspava senza speranza. Con la sua anima avventurista andava in scia della propaganda sciovinista dei nazisti; con la sua anima elettoralista e burocratica si adattava all’antifascismo sterile e limitato della socialdemocrazia. Non c’era alcuna svolta della situazione politica tedesca in cui il partito comunista non prendesse una sbandata, persino nel particolarismo delle amministrazioni provinciali. Brandler e soci fecero della Sassonia e della Turingia il centro della loro politica, al posto di Berlino. [13] La confusione raggiunse il suo apice quando, a Mosca, Radek  fece un elogio di Schlageter, un soldato anti-semita. “Schlageter, il coraggioso soldato della controrivoluzione, merita di essere onorato da noi, soldati della rivoluzione”, dichiarò Radek, in un discorso improvvisato di fronte alla plenaria del Comitato esecutivo internazionale, il giorno dopo che le truppe d’occupazione francesi avevano sparato a Schlageter. L’oratore si rivolse al “partito dei lavoratori tedeschi” (come si facevano chiamare allora i nazisti) con la domanda: “Contro chi volete combattere, il capitalismo dell’Intesa o i lavoratori russi? Con chi volete unirvi, con i lavoratori e i contadini russi, nella nostra lotta comune per rovesciare il capitale finanziario, o con il capitale dell’Intesa per rendere schiavo il popolo della Germania e della Russia?”. Con le parole di Radek i comunisti si dichiaravano pronti a fare lega coi nazisti: “Faremo ogni cosa in nostro potere affinché uomini come Schlageter, disposti a morire per una causa comune, non vengano condannati all’oblio, ma ci accompagnino verso un futuro migliore per l’umanità intera.” A questa conferenza solo un delegato, il tedesco-boemo Neurath, protestò contro questa infausta alleanza nazionalista-comunista. All’infuori di questo episodio, il discorso di Radek scatenò un applauso generale. In Germania fu la base per una serie di azioni comuni tra i comunisti e i nazisti; case editrici comuniste pubblicarono opuscoli in cui dichiarazioni naziste e comuniste apparivano fianco a fianco. Questa disintegrazione ideologica avanzò a passi da gigante.

Gli eventi del 1923 in Russia

In verità né Lenin né Trotskij erano presenti a quella riunione dell’Esecutivo internazionale. La mente di Lenin era ormai persa per sempre, nonostante il corpo che conteneva il suo spirito continuasse a svolgere le sue funzioni. E Trotskij? Nonostante non fosse noto al pubblico, già a quel tempo si trovava in profondo contrasto con il centro burocratico del suo partito: il segretario generale Stalin e i suoi accoliti Zinoviev e Kamenev. All’inizio dell’anno Lenin e Trotskij avevano raggiunto un accordo per un’azione comune contro il burocratismo strisciante nel partito e nello Stato. Tutti gli ultimi articoli e lettere di Lenin sono diretti contro le politiche e i metodi di Stalin. Lenin e Trotskij avevano intenzione di sferrare il colpo decisivo contro Stalin e la sua cricca di burocrati all’imminente dodicesimo congresso del partito russo. Poco prima dell’apertura del congresso Lenin ebbe il suo secondo colpo, dal quale non si sarebbe più ripreso. Nella sua ultima lettera al partito, che sarebbe poi divenuta nota come il suo testamento, richiese le dimissioni di Stalin dalla posizione di segretario generale; tra le sue altre richieste c’erano l’espulsione di Ordzonikidze, che aveva schiaffeggiato un compagno georgiano nel corso di una discussione, e la rimozione di Dzerzinskij dalla sua posizione di responsabilità a capo della Ceka. Sebbene Lenin fosse fuori gioco, aveva comunque lasciato in eredità al suo alleato Trotskij eccellenti e potenti armi nella forma dei suoi ultimi articoli e lettere.

E’ interessante capire come lo stesso Trotskij in quella fase valutasse quali fossero le sue probabilità di successo contro le tendenze burocratiche disgregatrici. Scrisse nella sua autobiografia: “Un’azione unitaria da parte nostra contro il comitato centrale all’inizio del 1923 ci avrebbe senza ombra di dubbio portato alla vittoria. E, quel che più conta, non ho dubbi che se alla vigilia del dodicesimo congresso mi fossi fatto avanti nello spirito del ‘blocco di Lenin e Trotskij’ contro la burocrazia stalinista, ne sarei uscito vittorioso anche se Lenin non avesse preso parte diretta alla lotta.” Lenin aveva espressamente raccomandato a Trotskji di non fare concessioni agli avversari: “Stalin farà un compromesso marcio e poi non lo rispetterà nemmeno”. In previsione della guarigione di Lenin, Trotskij accettò invece un compromesso. Convocò Kamenev, al tempo un sostenitore di Stalin, e gli disse: “Ricordati e dì agli altri che l’ultima cosa che voglio a questo congresso è cominciare una lotta per cambiamenti organizzativi. Sono a favore di preservare lo status quo… Sono contrario a rimuovere Stalin, espellere Ordzonikidze e destituire Dzerzinskij… Ma sono d’accordo con Lenin nella sostanza. Voglio un cambiamento radicale nella politica sulla questione nazionale, la cessazione delle persecuzioni degli oppositori georgiani di Stalin e la cessazione dell’oppressione amministrativa del partito.

Kamenev e Stalin fecero esattamente quello che Lenin aveva previsto: accettarono tutto e fecero l’esatto opposto. Di certo non è particolarmente consigliabile affidare a dei burocrati un programma anti-burocratico, è come mettere una volpe a guardia del pollaio. Quando Trotskij parlò della sua possibile vittoria al dodicesimo congresso, aggiunse: “Quanto solida questa vittoria si sarebbe dimostrata è, ovviamente, un’altra questione.” Questo è condivisibile. Considerando l’arretratezza russa e il mancato manifestarsi di una rivoluzione mondiale, la reazione in Russia era inevitabile. Ma se Trotskij si fosse fatto avanti pubblicamente nella primavera del 1923, le tendenze termidoriane sarebbero state costrette ad una battaglia aperta, la reazione non avrebbe assunto il suo carattere velato, il significato degli eventi in Russia sarebbe stato compreso meglio in Europa e nel resto del mondo e forse sarebbe stato possibile strappare l’Internazionale comunista dalle mani dei burocrati.

Cinquant’anni prima, in una lettera a Bebel, Engels aveva difeso la posizione sua e di Marx sulla scissione della Prima Internazionale al congresso di Hague: “Sapevamo molto bene che la bolla doveva scoppiare… tutta questa gentaglia che si era affiliata [all’Internazionale], i settari al suo interno erano diventati arroganti e avevano abusato dell’Internazionale nella speranza che gli sarebbe stato permesso compiere tutte le peggiori idiozie e volgarità. Noi non potevamo stare al loro gioco. Ben sapendo che la bolla prima o poi doveva scoppiare, per noi non si trattava di ritardare la catastrofe, ma di assicurarci che l’Internazionale ne uscisse pura e intatta nel suo carattere rivoluzionario […] E se ci fossimo posti in maniera conciliatoria ad Hague, se avessimo fatto passare in sordina lo scoppiare della scissione – quale sarebbe stato il risultato? I settari […] avrebbero avuto un altro anno in cui perpetrare, a nome dell’Internazionale, infamie e stupidità ancora più grandi; i lavoratori dei paesi più avanzati ci avrebbero voltato le spalle con disgusto; la bolla non sarebbe scoppiata ma, punta da minuscoli aghi, si sarebbe afflosciata lentamente…

Trotskij e la crisi in Germania

L’unica opportunità di “far scoppiare la bolla” fu mancata da Trotskij nella primavera del 1923. Di conseguenza Stalin e i suoi complici guadagnarono il tempo necessario a commettere le peggiori infamie nel nome del partito russo e dell’Internazionale. “La bolla non scoppiò ma, punta da minuscoli aghi, si afflosciò lentamente.” Il puzzo che ne emanò rese l’ascesa di un nuovo movimento impossibile per lungo tempo.

Noi non ci sappiamo spiegare come mai Trotskij non partecipò alla plenaria del CEI che acclamò il discorso di Radek su Schlageter. Forse, mentre aspettava la guarigione di Lenin, esercitava la massima cautela e, dopo l’esperienza del dodicesimo congresso, non voleva prendersi la responsabilità per decisioni a cui non aveva preso parte. La sua assenza non indica che fosse indifferente agli sviluppi in Germania; al contrario, li seguiva con grande attenzione – e preoccupazione.

Le condizioni oggettive per una soluzione rivoluzionaria alla crisi tedesca erano così favorevoli che il Partito comunista crebbe enormemente, a discapito delle politiche incoerenti che portava avanti. Scoppiarono scioperi diffusi e generalizzati di cui non si vedeva la fine; i consigli di fabbrica, organismi in cui erano eletti i delegati dei lavoratori nelle fabbriche, creati dalla rivoluzione di Novembre e riconosciuti dalla Repubblica di Weimar, conquistarono grande importanza, in qualità di direzione organizzata delle masse in rivolta; in molti centri industriali i lavoratori si organizzarono in milizie (in unità da cento persone ciascuna) e cominciarono ad armarsi. “Siamo sull’orlo di un vulcano e la rivoluzione ci si para davanti” dichiarò ai primi di luglio Stresemann, il principale politico borghese e futuro Cancelliere del Reich.

In questa situazione tutto dipendeva da una corretta gestione da parte della direzione del partito tedesco e Trotskij non aveva più fiducia nella direzione di quanta ne avesse espressa Lenin durante la sua discussione con Clara Zetkin. Alla plenaria di settembre del comitato centrale del partito russo, Trotskij fece un discorso che, secondo il verbale ufficiale, fece infuriare tutti i membri del comitato. Affermò che la dirigenza del partito [tedesco] non era buona a nulla, che il comitato centrale del partito era imbevuto di fatalismo e zeppo di incompetenti. Questi dirigenti condannavano la rivoluzione tedesca al fallimento. Il suo discorso, come riferisce il verbale, “ebbe un effetto deprimente su tutti i presenti”. “Per vincere, i dirigenti tedeschi devono munirsi di un piano serio e rigoroso per la presa del potere”, Trotskij ricordò alla direzione tedesca. “Il partito comunista non può prendere il potere sfruttando un movimento rivoluzionario dalle retrovie, ma solo assumendo la guida diretta e immediata, politica e organizzativa, tattica e  militare delle masse rivoluzionarie”, spiegava in un articolo in cui tentava di venire in aiuto del partito tedesco. Alla fine Trotskij pretese, come aveva fatto Lenin sei anni prima in Russia, che si scegliesse una data definitiva per l’insurrezione in Germania.

Zinoviev e i dirigenti tedeschi vacillarono. Non si era mai discusso seriamente dei preparativi per un’insurrezione. Da parte sua Mosca si offrì di inviare alcuni quadri esperti in Germania per aiutare la direzione tedesca. Fu così che Stalin e i suoi accoliti  ebbero una brutta sorpresa: dato che nessuno sapeva del nuovo equilibrio di potere in Russia, i tedeschi chiesero l’invio di Trotskij! Il triumvirato burocratico (Stalin, Zinoviev e Kamenev) corse ai ripari dichiarando che Trotskij era indispensabile in Russia e inviando una delegazione capeggiata da Radek.

Nel frattempo la direzione del partito tedesco aveva compiuto ulteriori errori dai quali Lenin e Trotskij l’avevano messa in guardia durante il quarto congresso mondiale del 1922 – entrarono a far parte dei governo socialdemocratici in Sassonia e Turingia. In un momento in cui le porte del potere in tutta la Germania erano spalancate di fronte al partito comunista, se solo avesse saputo come usare la chiave nelle sue mani, Brandler e Thalheimer bussavano alla porta sul retro e imploravano un paio di posizioni ministeriali in governi provinciali senza nessun potere! [14] Di fronte a tanta incapacità, la borghesia riconquistò fiducia. Ebert e Stresemann mandarono la Reichswehr a Dresda in Sassonia e a Weimar in Turingia a deporre i governi locali.

I dirigenti del partito comunista si erano per lungo tempo vantati che un’azione del genere da parte del governo sarebbe stata il segnale per l’insurrezione. Quello che accadde in realtà, lo spiegò Radek alla plenaria dell’Esecutivo internazionale prima del quinto congresso mondiale. “Quando i rappresentanti dell’Esecutivo internazionale raggiunsero Dresda la notte dopo che la Reichswehr aveva occupato la città, il compagno Brandler ci disse di aver ordinato la ritirata, e che se i rappresentanti dell’Esecutivo internazionale pensavano fosse un errore, si sarebbe rimesso alla loro decisione senza discutere (i messaggi non erano ancora stati inviati). I  rappresentanti dell’Esecutivo, dopo aver constatato la situazione, ritennero che fosse impossibile cominciare una lotta e approvarono questa decisione.” Bisognerebbe aggiungere che la delegazione dell’Esecutivo internazionale, prima di partire da Mosca, aveva ricevuto una lettera da Stalin il quale, sfruttando per la prima volta la propria posizione di potere all’interno del partito russo anche nel campo dell’Internazionale, sosteneva che il partito tedesco dovesse essere trattenuto, non incoraggiato. In questo modo sembrava davvero che Brandler fosse coperto da ogni parte quando ordinò la ritirata. A causa di un errore, però, la direzione di Amburgo ricevette l’ordine [della ritirata] troppo tardi; qui diverse centinaia di comunisti si scontrarono con la polizia per giorni. Nel resto della Germania il partito si arrese senza dar battaglia. La borghesia tedesca aveva superato la sua crisi peggiore. Per il partito comunista tedesco il 1923 significò l’approfondimento degli errori del 1921. Al quel tempo vollero mantenere l'”offensiva” a discapito delle circostanze; ora nel bel mezzo del momento più vantaggioso si scoprirono incapaci di agire. [15] Il risultato fu una nuova, grave crisi di partito, nel corso della quale, con l’aiuto di Zinoviev, la Fischer e Maslow – battezzati da Lenin “demagoghi meschini” – presero le redini del KPD per un certo periodo. Fu l’inizio di un decennio di disintegrazione del movimento operaio tedesco che si concluse con il trionfo di Hitler nel 1933.

Non sappiamo se il risultato sarebbe stato diverso, se il partito avesse dato il via all’insurrezione a una data prestabilita nel corso del mese di ottobre del 1923. Come è certo che Trotskij avesse correttamente valutato la crisi politica in Germania, è altrettanto certo che il suo tentativo di correggere la linea politica del partito arrivò troppo tardi. La linea del partito tedesco era stata inadeguata fin dall’inizio. Il suo rapporto con le masse e le sue relazioni interne non furono mai sufficientemente chiariti e le sue direttive politiche concrete furono sbagliate in ogni momento decisivo, a partire dal gennaio 1919, in occasione del golpe di Kapp (1920), durante l’Azione del marzo (1921), fino agli eventi dell’anno 1923. Gli errori del 1923 non cominciarono con la mancata organizzazione dell’insurrezione, ma l’11 di gennaio, il giorno dell’occupazione della Ruhr da parte delle truppe francesi. A causa delle sue politiche fluttuanti nazional-bolsceviche, il partito in ottobre era così disorientato che un tentativo di insurrezione difficilmente poteva avere successo. [16] Con il collasso tedesco il sogno della rivoluzione mondiale fu seppellito per lungo tempo. A questo fallimento è riconducibile anche la caduta del principale sostenitore della rivoluzione mondiale, Trotskij.

Il lettore potrebbe domandarsi perché attribuiamo così tanta importanza alla storia del movimento tedesco e invece trascuriamo la storia delle altre sezioni del Comintern. La risposta è che in quegli anni la Germania era l’anello debole nella catena dei paesi capitalisti, dove la rivoluzione socialista era più vicina. Il partito tedesco era coinvolto in vere mobilitazioni di massa e in avvenimenti di vasta portata e le sue politiche furono al centro della discussione per i primi cinque congressi mondiali del Comintern. Gli eventi nel partito tedesco, attraverso Mosca, si riflettevano negli altri partiti. Così il destino del partito tedesco decise del destino del Comintern.

Un ruolo in qualche modo indipendente, anche se estremamente breve, fu giocato dal partito italiano. Il partito socialista italiano, ad eccezione del piccolo gruppo di Mussolini, aveva mantenuto una posizione anti-sciovinista con tinte pacifiste durante la guerra mondiale. Si trovò così in rotta con tutta la Seconda Internazionale e l’intero partito, dal riformista di destra Turati, all’estremista anti-parlamentare Bordiga, si unì alla Terza Internazionale. Questo partito così eterogeneo era tenuto insieme dall’abilità tattica di Serrati, un Bebel italiano. Il tentativo dell’Esecutivo del Comintern di scindere il partito e trasformare la sua ala sinistra in un partito bolscevico ebbe poco successo. Un tentativo del genere era destinato al fallimento perché tra il centrista Serrati e gli estremisti Bordiga e Bombacci c’era un vuoto. Anche qui mancavano marxisti di grande levatura, formati teoricamente e abili nella prassi rivoluzionaria. Quando l’Esecutivo di Mosca, nella sua battaglia contro Serrati, gettò il suo peso a favore di Bordiga e Bombacci, stava di fatto rafforzando quelle stesse tendenze contro cui Lenin aveva scritto l’”Estremismo: malattia infantile del comunismo” e Levi aveva combattuto in Germania. La scissione del partito socialista italiano, compiuta dall’inviato di Zinovev, Rakosi, al congresso di Livorno del 1921, fu di fatto il preludio agli eventi di Marzo in Germania. Il radicalismo italiano rimase legato a doppio filo all’anti-parlamentarismo, il male comune del movimento operaio in tutti i paesi latini, e ben presto fece una fine deplorevole. [17] A dispetto della sua forza numerica, il socialismo italiano, a causa della mancanza di politiche rivoluzionarie decise e coerenti, dovette soccombere di fronte alla spericolata ascesa di Mussolini. L’Italia anticipò il destino del resto dell’Europa, in modo tanto più ineluttabile dal momento che le lezioni della sconfitta italiana non furono comprese in Europa, così come non lo erano state le lezioni della vittoria russa dell’Ottobre.

Nell’autobiografia di Leon Trotskij quasi non si fa cenno all’Internazionale comunista, ma il capitolo sul Comintern recupera abbondantemente quello spazio nelle sue opere complete. Egli attribuì sempre la principale causa della sconfitta della sua tendenza in Russia alla sconfitta della rivoluzione tedesca. Gli scritti di Trotskij spiegano in maniera brillante come il fallimento dell’Internazionale Comunista favorì l’ascesa della burocrazia reazionaria sovietica, e come questa burocrazia a sua volta distrusse definitivamente l’Internazionale. La questione, però, rimane aperta: perché Lenin e Trotskij non riuscirono a costruire una seria Internazionale marxista negli anni dal 1917 al 1923?

La nostra analisi storica ci offre la seguente risposta: la concezione socialdemocratica e fatalista della rivoluzione, profondamente radicata in Europa occidentale; lo smascheramento tardivo di Kautsky come il più dotato teorico di questo fatalismo; e conseguentemente il ritardo nel fondare l’Internazionale comunista, con il risultato che nei primi anni della sua esistenza essa mostrò eccessiva impazienza nell’aspettarsi che partiti giovani e immaturi potessero portare a compimento la rivoluzione; infine l’Azione di marzo e come venne affrontata al terzo congresso mondiale, dove la forma venne posta al di sopra del contenuto e fu sancita una concezione burocratica di disciplina, facendo così venire menola fiducia dei migliori elementi operai dell’Europa occidentale nella nuova Internazionale e gettando le basi per la catastrofica sconfitta del 1923.

Note

[1] Nei passaggi su Rosa Luxemburg Held è decisamente sbrigativo. Sebbene avesse profonde differenze con Lenin sulla questione del partito, Rosa Luxemburg si adoperò per contrastare le tendenze estremiste esistenti nel KPD e si oppose all’insurrezione del gennaio 1919.

[2] Se la valutazione degli errori di Bela Kun in Ungheria, per quanto sintetica, è condivisibile, quella sugli avvenimenti in Baviera è assai meno equilibrata. I dirigenti comunisti a Monaco erano inizialmente contrari alla proclamazione di una Repubblica Sovietica, ma la sollevazione delle masse di fronte all’avanzata delle truppe controrivoluzionarie li costrinse ad assumere la direzione della lotta, nonostante le condizioni nel resto del paese fossero sfavorevoli.

[3] In realtà Lenin, pur condividendo le tesi di Levi sul piano politico, era contrario alla scissione. Dal suo punto di vista era preferibile avviare un confronto politico con l’opposizione estremista, piuttosto che escluderla pregiudizialmente dal dibattito.

[4] Effettivamente Zinovev e i suoi emissari in Germania lavoravano a minare la posizione di Levi. La crisi nella direzione tedesca si verificò nel febbraio del 1921 in occasione di un dibattito sull’Italia. Levi si mise in una posizione di debolezza criticando la rottura appena consumata con il PSI e la fondazione del Partito Comunista d’Italia al Congresso di Livorno. I rappresentanti dell’Esecutivo Internazionale ne approfittarono per contrattaccare e riuscirono a metterlo in minoranza in una votazione al comitato centrale. In conseguenza Levi e i suoi sostenitori, tra cui Clara Zetkin, rassegnarono le dimissioni dal comitato centrale. Lenin, cui nella storia del partito bolscevico era capitato più di una volta di trovarsi in minoranza, criticò aspramente la scelta di dimettersi da parte di Levi e della Zetkin come un gesto irresponsabile che esasperava i contrasti interni e comprometteva il processo di maturazione del giovane partito tedesco.

[5] La pubblicazione del suo opuscolo fu invece un errore fatale da parte di Levi, che violò gravemente la disciplina e la solidarietà interna attaccando pubblicamente la direzione, mentre il partito era ancora sotto i colpi della repressione. Così facendo si mise in una posizione insostenibile agli occhi della maggioranza dei militanti comunisti e, pur avendo ragione su molti punti, bruciò ogni possibilità di far passare le sue posizioni. La direzione del KPD ebbe infatti gioco facile nel distogliere l’attenzione dalle sue pesanti responsabilità politiche, mettendo al centro della polemica il “tradimento” di Levi. Come ebbe a dire Lenin, “Paul Levi è il peggior nemico di se stesso”.

[6] Secondo Lenin l’errore della direzione tedesca nell’Azione di marzo era stato quello di cadere in una provocazione delle forze controrivoluzionarie. Invece di assumere una vantaggiosa posizione difensiva, il KPD era passato sconsideratamente all’offensiva convocando lo sciopero generale e facendo tutte le altre sciocchezze. In quest’ottica Lenin riteneva esagerato e fuorviante parlare di un putsch, come faceva Levi, e considerava invece prioritario demolire la teoria dell’offensiva rivoluzionaria.

[7] La ricostruzione del congresso da parte di Held è molto parziale. In realtà la delegazione tedesca, ben lungi dall’essere trattata con i guanti, venne ripetutamente attaccata da Lenin e Trotskij, che invece ebbero colloqui molto amichevoli con i rappresentanti dell’opposizione, in primis Clara Zetkin.

[8] Anche in questo caso lo svolgimento del congresso non fu proprio quello descritto da Held. I delegati tedeschi, con l’appoggio di quelli italiani e austriaci, cercarono ostinatamente di introdurre numerosi emendamenti alla risoluzione russa per spostarla a loro favore. Lenin e Trotskij dovettero sostenere una dura battaglia per difendere il compromesso originario.

[9] Se Levi non poté difendere le sue posizioni al congresso, la responsabilità fu interamente sua. Lo stesso Lenin gli aveva consigliato di rinunciare a rendere pubblica la sua critica per discuterla invece al congresso internazionale, dove i due con ogni probabilità si sarebbero trovati dalla stessa parte della barricata. Questa possibilità andò in fumo per l’ostinazione di Levi nel voler pubblicare a tutti i costi il suo pamphlet. In compenso Lenin invitò personalmente al congresso alcuni esponenti dell’opposizione perché anche il loro punto di vista fosse rappresentato. Peraltro Clara Zetkin e gli altri sostenitori di Levi furono tutt’altro che timidi nei dibattiti congressuali e in più occasioni polemizzarono violentemente con la maggioranza tedesca e con l’Esecutivo internazionale.

[10] Alla base della diversa valutazione sul compromesso del terzo congresso mondiale, c’erano due atteggiamenti profondamente diversi. Quello di cui Held non tiene conto è che il compromesso era soprattutto volto a ristabilire l’unità nel partito tedesco, oramai profondamente lacerato dallo scontro frazionistico. Se da una parte Levi aveva esacerbato questo scontro con le dimissioni, le polemiche pubbliche, etc., dall’altra Lenin e Trotskij lavoravano ad una riappacificazione tra maggioranza e opposizione sulla base di una chiarificazione politica, con lo scopo di impostare su basi più sane le relazioni interne al KPD.

[11] Se è indubbio che i metodi di Zinovev spianarono la strada a quelli di Stalin, nel 1921 l’Internazionale era ancora un organismo sano e vitale, che non aveva niente a che fare con la successiva caricatura stalinista. Proprio il dibattito sulla questione tedesca dimostra, contrariamente alle conclusioni di Held, il carattere straordinariamente democratico del Comintern di quegli anni, dove si svolgevano discussioni appassionate su posizioni diverse e anche i dirigenti più prestigiosi, come Lenin e Trotskij, erano tutt’altro che certi di aver una maggioranza garantita.

[12] Il bilancio di Held è eccessivamente a tinte fosche. Per quanto all’interno della sua direzione rimanessero una serie di problemi, la storia del KPD non prese affatto una china irreversibile dopo l’uscita di scena di Levi. Anzi, proprio in applicazione delle tesi approvate al terzo congresso del Comintern, il partito abbandonò le sue politiche estremiste e si pose risolutamente sulla strada del fronte unico con gli altri partiti operai e del lavoro nei sindacati. Grazie a queste tattiche corrette, il KPD conobbe un periodo di ripresa dopo il disastro dell’Azione di marzo, crescendo in termini di militanza, influenza e soprattutto di radicamento nel movimento operaio.

[13] Non fu questa una scelta consapevole della direzione. La verità è che il partito comunista ottenne i suoi successi maggiori in Sassonia e Turingia, mentre a Berlino era maggiore l’influenza dell’opposizione estremista di Maslow e della Fischer.

[14] In realtà l’entrata nei governi di Sassonia e Turingia non fu dettata da ragioni opportuniste, ma serviva a conquistare alcune posizioni chiave nelle roccaforti comuniste, in applicazione del piano per l’insurrezione che era stato concordato tra la direzione del KPD e l’Internazionale.

[15] A dirla tutta il fiasco del partito comunista tedesco nel 1923 fu dovuto ad un atteggiamento che era esattamente l’opposto del putschismo denunciato da Paul Levi. Dopo essersi scottati le dita con l’Azione di marzo, i dirigenti tedeschi vedevano solo i rischi di una lotta aperta per la conquista del potere.

[16] Il nocciolo del problema fu affrontato da Trotskij nel suo testo “Lezioni dell’Ottobre”, in cui si spiega che il momento più difficile per un partito rivoluzionario è il passaggio da un lungo periodo di agitazione e propaganda alla lotta aperta per il potere. In questa delicata fase di svolta è inevitabile che ci siano dei tentennamenti. Era capitato anche al partito bolscevico, quando alla vigilia dell’Ottobre 1917 Zinovev e Kamenev si erano opposti all’insurrezione. Se in Russia Lenin e Trotskij erano riusciti a vincere le resistenze e a orientare correttamente il partito, nel 1923 in Germania furono invece le vacillazioni a prevalere nel gruppo dirigente del KPD.

[17] Il giudizio di Held sul congresso di Livorno del 1921 rispecchia quello di Levi, che peraltro lo portò alle dimissioni. Al di là dell’omissione su Gramsci a proposito di “marxisti di grande levatura”, la ricostruzione degli eventi è faziosa. Innanzitutto il partito socialista aveva clamorosamente mancato di sfruttare l’occasione rivoluzionaria presentatasi durante il Biennio Rosso 1919-19120. Ciò nonostante l’Internazionale non condusse una “battaglia” contro Serrati, ma cercò a lungo di convincerlo a rompere con l’ala apertamente riformista di Turati. A Livorno la mozione di Serrati prese la maggioranza con 98.000 voti, contro i 14.000 ai riformisti di Turati e i 58.000 ai comunisti di Bordiga e Gramsci. Se il Partito Comunista d’Italia finì nelle mani degli estremisti di Bordiga, la responsabilità fu soprattutto di Serrati che preferì rimanere legato ai 14.000 riformisti, piuttosto che andare con i 58.000 comunisti.

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