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Operaismo. La disfatta di un’utopia letale

di Alessandro Giardiello

 

Da una costola dei Quaderni rossi1, nel gennaio del 1964 nasceva Classe operaia2, la rivista che a ragione viene considerata dagli storici la culla dell’operaismo italiano. Del 1966 Operai e Capitale3 è il manifesto politico e teorico del movimento di Mario Tronti, un’opera che ha influenzato un’intera generazione di militanti, che nel ’68-’69 si affacciavano prepotentemente sulla scena politica e sociale.

Classe operaia chiudeva i battenti nel 1967, ma le concezioni operaiste si sarebbero riproposte in varie forme fino ai giorni nostri.

Le premesse

Ma cos’è l’operaismo, questa concezione dal nome apparentemente così accattivante? E soprattutto che effetti ha avuto sul movimento operaio a cui si richiama in maniera così esplicita? Per rispondere a queste domande è necessario risalire alla “rottura” che si realizzò mezzo secolo fa nella redazione dei Quaderni rossi; per ovvie ragioni di spazio non riprenderemo tutta la storia, ci limiteremo a dare la nostra chiave di lettura, rimandando i lettori all’ampia bibliografia esistente4.

Nel farlo non entreremo nel dibattito chic che si svolge negli ambienti accademici. Ci interessa affrontare la questione da un punto di vista militante, mettendo a fuoco gli effetti politici che le concezioni operaiste hanno avuto sul movimento e la sinistra più in generale.

Non si può negare infatti che i retaggi dell’operaismo siano tracimati fino ai giorni nostri esercitando una fascinazione su settori di giovani radicalizzati, anche se meno significativi rispetto agli anni ’70.

L’esistenza di collettivi “diversamente” operaisti o post-operaisti, come Clash city workers5, Noi saremo tutto6, Infoaut7, fino ad arrivare alla galassia disobbediente (Commonware8, Global project9, ecc.) sono la testimonianza di tutto questo.

Si potrebbe obiettare che non esiste un punto di contatto tra operaisti e disobbedienti, in quanto i secondi, a differenza dei primi, negano alla classe operaia un ruolo attivo nel processo di trasformazione della società. Si tratta di una verità solo apparente. In realtà il ceppo ideologico di provenienza è lo stesso. Gli operaisti di ieri sono i disobbedienti di oggi e si tratta di un’evoluzione non casuale, ma pienamente iscritta nel loro Dna.

Naturalmente questo non significa necessariamente che gli operaisti di oggi saranno i disobbedienti di domani, ma per evitarlo è necessario che intervenga una cesura politica con le basi analitiche di partenza, in mancanza della quale, “la storia si ripete due volte, ieri come tragedia, oggi come farsa.”10

Se si parte da una concezione, per quanto eclettica, che si sostanzia nell’idealismo filosofico e in una visione metafisica della classe operaia, è inevitabile che nel momento in cui la realtà si impone, si finisca per svoltare nella direzione opposta, negando ogni ruolo alla classe lavoratrice e persino il suo diritto ad esistere in quanto tale.

La questione assume maggiore importanza in quanto ad essere “contaminati” da certe suggestioni non sono solo i collettivi citati, ma anche il movimento più ampio (o che tale era fino a qualche anno fa) della cosiddetta sinistra radicale.

Basti pensare al dibattito che alla fine degli anni ’90 e negli anni 2000 ha attraversato Rifondazione comunista, quando Fausto Bertinotti civettava con le tesi del capitalismo cognitivo11,dell’Impero di Negri-Hardt12 e la negazione della conquista del potere come obiettivo strategico per la classe lavoratrice.13 L’ironia vuole che chi sosteneva quelle tesi sia finito qualche anno dopo a gestire il potere della grande borghesia, con la partecipazione al governo Prodi.

Non deve quindi sorprendere che nel gennaio del 2007 in un convegno organizzato dalla casa editrice DeriveApprodi (i cui atti sono stati recentemente pubblicati da Commonware), dedicato al quarantesimo anniversario della pubblicazione di Operai e Capitale, l’invitato d’eccellenza, Mario Tronti, abbia concluso il dibattito sostenendo che: “l’operaismo… è un punto di vista potenzialmente dominante.14

Il riferimento non era al 1968-’69 ma si proiettava in avanti; ciò non ha impedito a Tronti, pochi mesi dopo, di aderire al Pd facendosi eleggere al Senato, in quest’ultima legislatura.

Non è dato sapere se mentre votava il Jobs act, il padre dell’operaismo italiano, abbia riflettuto, anche solo per un istante, sulle tesi elaborate in gioventù sull’“uso operaio del capitale”.

Quello che sappiamo con certezza è che quando pensi di usare il capitale è sempre lui che finisce con l’usare te.

Un po’ di storia

Fatta la premessa andiamo alla sostanza del pensiero operaista.

Nel testo citeremo solo di passata Raniero Panzieri15, il fondatore dei Quaderni rossi, non per reticenza, ma perché condividiamo l’opinione già espressa da altri che datano la nascita dell’operaismo con la scissione del ’63.16

Lo storico dirigente della sinistra socialista ebbe il merito di criticare lo stalinismo da un punto di vista non socialdemocratico, ma non comprese a fondo la natura dello stalinismo, né condivise mai per intero le analisi di Trotskij, forse anche perché chi le rappresentava in Italia in quegli anni si era notevolmente adattato all’apparato del Pci.17

Come molti militanti e dirigenti della sinistra italiana, Panzieri subì lo shock delle dichiarazioni di Kruscev successive alla morte di Stalin e la repressione della Rivoluzione ungherese del 1956 da parte dei carri armati sovietici.18

Tentò di liberare la sinistra dalle incrostazioni staliniste, dando però una risposta parziale alla crisi del movimento operaio degli anni ’50, e in ogni caso non ruppe mai completamente con il Psi, partito in cui militò fino all’autunno del ’64, quando morì prematuramente all’età di soli 44 anni.

Il contesto politico di quegli anni era in rapido cambiamento.

Le mobilitazioni dei primi anni ’60 contro il governo Tambroni, le lotte sindacali che culmineranno con la rivolta di Piazza Statuto (1962)19, creavano un ambiente nuovo, di riscatto nel movimento operaio dopo i difficili anni ’50.

La redazione dei Quaderni rossi apriva i battenti nell’autunno del ’61. Il terreno iniziale di lavoro
era   l’inchiesta operaia (soprattutto nelle grandi fabbriche del torinese). È lì che nacque il concetto di “composizione di classe”, che in ultima analisi si proponeva di derivare i comportamenti operai dalla collocazione nel processo produttivo, secondo un approccio determinista che tendeva a identificare struttura e sovrastruttura; una problematica non nuova che era stata oggetto di discussione anche ai tempi di Marx ed Engels.20

Tuttavia Panzieri non si spinse mai oltre, rimase una figura di frontiera tra la tradizione del  socialismo di sinistra e le concezioni operaiste. L’idea base de Le sette tesi sul controllo operaio21 (elaborate nel 1958 con Lucio Libertini) era quella di costruire una società socialista basata sulla democrazia e il controllo operaio (idea di per sé assolutamente corretta), una posizione che Panzieri non abbandonò fino alla fine dei suoi giorni.

Il punto di rottura con quella tradizione avvenne con Tronti quando questi giunse ad affermare che venivano “prima gli operai e poi il capitale.”22

Un concetto che nel 1978 venne spiegato da Guido Viale, storico dirigente di Lotta continua e per molto tempo convinto assertore delle tesi operaiste, in questi termini:

Secondo Marx con l’abolizione del capitale (e dunque del lavoro salariato) c’è l’estinzione delle classi sociali. Ma Tronti non la pensa così, pretende di dedurre il capitale dalla classe operaia e dalla composizione di classe così come Hegel deduceva la realtà materiale dall’‘Idea’, cioè dal pensiero anteponendolo alla realtà materiale.

In Tronti la Classe Operaia (con tanto di lettere maiuscole) diventa un assoluto a cui va ricondotta ogni cosa. Compresi i suoi sfruttatori. E la lotta di classe si trasforma in una vicenda interna alla composizione di classe.23

Ciò che conferiva un carattere inconfondibile al pensiero di Tronti era già annunciato nell’editoriale del primo numero della rivista, Lenin in Inghilterra, e completato nel saggio del ’66 intitolato Marx, forza-lavoro, classe operaia.24

L’idea ispiratrice era portare “Lenin in Inghilterra”, immaginare la rottura rivoluzionaria nei punti alti dello sviluppo capitalistico, dove si suppone che la classe operaia sia più forte, riprendendo un’ipotesi che in fondo era quella di Marx. Come sappiamo la rottura rivoluzionaria si produsse invece nell’“anello debole”, la Russia arretrata degli zar, che paradossalmente ai tempi di Marx rappresentava il bastione della reazione a livello internazionale.

La questione era stata già trattata da Lenin e il gruppo dirigente dell’Internazionale comunista, che sostanzialmente l’aveva spiegata con il tradimento socialdemocratico e l’impreparazione dei partiti comunisti che, con l’eccezione della Russia, erano troppo giovani e inadeguati ad assolvere i loro compiti storici.

Una risposta che non poteva soddisfare Tronti che preferì assegnare a Lenin il compito di “correggere” Marx, trasformando il rivoluzionario russo in colui che faceva precedere la politica all’economia, la teoria della rivoluzione alla critica economica di Marx.

Lo sbocco di questo volo pindarico era dare una lettura “politica” dell’economia e nella fattispecie dare una lettura “politica” della teoria marxiana del valore-lavoro.

Secondo la “rilettura” di Tronti, la natura del lavoro scoperta da Marx non risiedeva nel concetto di lavoro contenuto nella merce, bensì in quello di classe operaia dentro e contro il capitale: la classe, elemento dinamico del capitale, causa prima dello sviluppo, produce il capitale come potenza economica, ma può rifiutarsi di produrlo separandosi da sé come categoria economica, negandosi come forza produttiva e affermandosi come super-potenza politica.25

La conclusione, per certi aspetti sconcertante, era che la classe operaia, una classe sfruttata, oppressa e dominata che non possiede né i mezzi di produzione, né il dominio politico, culturale ed ideologico, sarebbe in grado di determinare le scelte economiche del sistema, non dopo la conquista del potere ma già prima.

La logica obiezione a questa tesi è: perché mai il proletariato dovrebbe prendere il potere se è in grado di esercitarlo all’interno del capitalismo? Già qui si può vedere in controluce il potenziale riformista dell’ipotesi trontiana.

La conseguenza naturale di tale analisi era individuare le scelte soggettive degli operai come la vera forza motrice della trasformazione sociale. Sarebbe stato quindi possibile saltare a piè pari la necessità di costruire un partito rivoluzionario.

Il partito veniva sostituito dal primato dello spontaneismo e della lotta di fabbrica su tutto il resto concependo l’organizzazione come un coordinamento di collettivi operai, finendo con l’assolutizzare il ruolo della lotta operaia di per sé risolutrice.

Come ha affermato Sergio Bologna quarant’anni più tardi:

Gli operaisti italiani non hanno voluto essere la guida della classe, non hanno voluto essere ceto politico, non hanno voluto essere un partitino vivendo fino in fondo la contraddizione tra chi esercita teoria politica ed al tempo stesso rifiuta i modelli organizzativi tradizionali… Gli operaisti si sentivano al servizio della ricomposizione della classe.”26

Una concezione che nella migliore delle ipotesi possiamo definire antagonista, di certo non rivoluzionaria. Quando ha esaltato Lenin lo ha sempre fatto (più o meno consapevolmente, ma conta poco da un punto di vista politico) per rompere radicalmente con l’impostazione e l’intera esperienza bolscevica.

Un punto essenziale è che mentre i dirigenti del Comintern (Internazionale comunista), fino alla degenerazione stalinista che impose il socialismo in un paese solo, partivano da un punto di vista organicamente internazionalista che vedeva nell’Ottobre l’inizio di un processo che successivamente doveva estendersi ai paesi più avanzati (Germania, Francia, Italia), leggendo e interpretando ogni sviluppo nazionale e particolare a partire da un’analisi complessiva e globale dei processi economici e politici, l’operaismo

si è sempre caratterizzato per un approccio provinciale che sostanzialmente si disinteressava di analizzare il capitalismo, inteso come sistema mondiale di produzione.

Si partiva da un paese (l’Italia degli anni ’60), a volte persino da una fabbrica o un gruppo di fabbriche per trarne delle considerazioni generali sul piano analitico. Non può essere considerato un caso se l’operaismo, così come il bordighismo prima di lui, sia rimasto una corrente fondamentalmente nazionale, che in nessun momento è stata in grado di darsi una dimensione che travalicasse i confini del nostro paese. L’interesse e la simpatia che queste idee hanno raccolto in Francia o in altri paesi tra un gruppo di intellettuali non possono essere confuse con la sostanziale incapacità di strutturarsi come una corrente politica dal profilo internazionale. Un aspetto talmente evidente che quando gli intellettuali anglosassoni parlano dell’operaismo, lo fanno nei termini della cosiddetta “Italian theory”.

Il ritorno a Marx e i Grundrisse

Le tesi di fondo di Classe operaia riprendevano le idee dei socialisti utopici, di Sorel, Proudhon, Bakunin e l’operaismo dei primi anni quando la classe lavoratrice era ancora agli inizi.

Ma gli operaisti italiani avevano la pretesa di essere degli innovatori e di leggere e interpretare Marx meglio di chiunque altro.

Cominciava così una gigantesca operazione di revisionismo politico spacciata come “ritorno a Marx”.

Se una cosa è assolutamente chiara e cristallina nelle posizioni di Marx ed Engels, anche per chi ne ha una conoscenza superficiale, è che sono le contraddizioni del sistema di produzione che generano il conflitto operaio e non viceversa.27

Ma gli operaisti scoprirono i Grundrisse28 e se ne innamorarono: in particolare il celebre Frammento sulle macchine29 (pubblicato per la prima volta in Italia sul numero 4 dei Quaderni rossi) diventò il sacro graal del pensiero operaista. Come disse la filosofa Maria Turchetto: “Per chi si richiama all’operaismo, questo breve testo rappresenta il riferimento a Marx necessario e sufficiente: è tutto quanto di Marx occorre sapere.”30

Una delle citazioni preferite dagli operaisti era la seguente:

Il furto del tempo di lavoro altrui, su cui riposa la ricchezza odierna, appare una base miserabile rispetto a questa nuova base che si è sviluppata nel frattempo e che è stata creata dalla grande industria stessa. Non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande sorgente della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di essere la sua misura, e quindi il valore di scambio (la misura) del valore d’uso.31

A partire da questa citazione Tronti tentò di azzerare la teoria del valore. Negri qualche anno più tardi si spinse oltre, sostenendo che questa sarebbe stata la profezia di Marx che aveva già previsto la società post-industriale.32

Ma Marx non diceva affatto le cose che gli attribuiscono Tronti e compagni e infatti nello stesso Frammento delle macchine si rivolgeva al reazionario James Maitland, conte di Lauderdale, ribadendo i concetti base della teoria del valore:

Da quanto si è detto appare l’assurdità della tesi di Lauderdale, che vuole fare del capitale fisso (cioè del macchinario) una fonte di valore autonoma e indipendente dal tempo di lavoro. Esso rappresenta una fonte di questo genere solo a) in quanto è esso stesso tempo di lavoro oggettivato e b) in quanto crea tempo di lavoro eccedente33 (enfasi nostra).

Non riteniamo di secondaria importanza ricordare che i Grundrisse vennero scritti prima della stesura del primo volume del Capitale, che si trattava di appunti preparatori che Marx non pensava di pubblicare. Detto questo né nei Grundrisse, né nel Capitale, Marx delineava affatto una forma di sociologia operaia per cui la ribellione politica di una classe porta al rivoluzionamento del modo di produzione.

La realtà è che la logica materialista e dialettica del marxismo veniva rovesciata da quella sociologica e moralista degli operaisti. Non a caso lo stesso Tronti ebbe modo di evidenziare come subissero l’influenza del sociologo liberale Max Weber.34

Una forzatura del pensiero di Marx talmente macroscopica non poteva che condurre in un vicolo cieco: nel giro di pochi anni Tronti entrò in un cortocircuito politico finendo per impantanarsi nelle sabbie mobili della “autonomia del politico”.

L’autonomia del politico

Con l’autonomia del politico, l’operaismo scopriva l’uso operaio del capitale e del potere. La classe operaia era potere: secondo Tronti, l’errore della socialdemocrazia non era quello di pensare che si potesse gestire la macchina statale capitalista, ma quello di essere subalterna alla sua iniziativa. “Dentro il lavoro deve nascere una nuova gerarchia, non di valori, ma di poteri, una diversa distribuzione della forza sul terreno della politica diretta.”35

L’ipotesi diventava quella di un’alleanza dei produttori e di una nuova Nep (Nuova politica economica), una gestione dell’economia capitalistica sotto la guida politica operaia che utilizzava la macchina statale (borghese) per sconfiggere le arretratezze della società italiana, per promuovere la riforma dello Stato e rimettere in moto lo sviluppo. Se negli anni ’60, per Tronti, la classe operaia era il soggetto che muoveva i fili del capitale e la sua lotta era l’unica attività capace di demistificare l’ideologia borghese, negli anni ’70 lo diventava la volontà di potere del partito. Nella fattispecie del Partito comunista.

Diventa così evidente come l’“autonomia del politico” si trasformasse in un processo di riconversione culturale della burocrazia del Pci che aspirava a liberarsi dai vincoli della dialettica e del marxismo. Il riformismo già insito nelle concezioni di Tronti del ’64, si dispiegava con tutta la sua virulenza, attraverso una torsione che rendeva impercettibili le differenze tra gli operaisti e la linea del compromesso storico di Enrico Berlinguer. Non a caso l’apparato del Pci accolse il figliol prodigo e lo perdonò per i suoi “peccati di gioventù”.

Poche volte nella storia la massima di Trotskij secondo cui “Il settario è un opportunista che si    teme da solo36, trovava una dimostrazione così plastica nella realtà. Naturalmente ci fu chi, nel campo operaista, continuò ancora per diversi anni a “temere se stesso e il proprio opportunismo”.

Dopo la breve esperienza della rivista Contropiano, la compagine operaista si divise su due linee: la divergenza fu fondamentalmente tattica più che strategica. Pur avendo atteggiamenti opposti rispetto alla proposta politica del gruppo dirigente del Pci, l’operaismo di sinistra di Negri e l’operaismo di destra di Tronti (rispettivamente la linea dell’autonomia del sociale e dell’autonomia del politico) condividevano l’ipotesi di fondo secondo cui la legge del valore si estingueva perché il rapporto politico subentrava al rapporto di produzione come luogo della decisione, del comando: “ogni determinazione economica e sociale scompare, tutto è politica.37

Anche se l’autunno caldo e l’ascesa del movimento di massa avevano costretto gli operaisti a fare i conti con il partito, non ne compresero mai realmente l’importanza.

Se gli operaisti di destra scelsero di tornare al Pci (nel quale aldilà dei proclami iniziali non fecero alcuna battaglia di opposizione), gli operaisti di sinistra diedero vita a Potere operaio, definito da loro stessi partito dell’insurrezione (diremmo noi secondo la concezione di Sorel più che quella di Lenin).38

Per quanto l’intenzione fosse quella di perseguire la ricomposizione politica dei conflitti attorno alle parole d’ordine operaiste, molto presto si passò alla passione per le molotov, il passamontagna e la lotta armata.39

Col fallimento di Potere operaio nel 1973, le contorsioni politiche di Negri condurranno il movimento sul terreno dell’Autonomia operaia.40

L’esaltazione di certe lotte, di certi metodi, di certi slogan come ad esempio il “salario come variabile indipendente”, per il valore, reale o presunto, di rottura con l’establishment impediva agli operaisti di cogliere un dato essenziale: le lotte, anche le più dure, non portavano, nella migliore delle ipotesi, che a una redistribuzione del reddito e a conquiste parziali, non comportavano affatto, di per sé, una dinamica di rottura e di rovesciamento del sistema.

È sulla base di questi tragici errori che l’operaismo si troverà alla fine degli anni ’70 col dar voce e interpretare contemporaneamente il puntello dell’ideologia di regime (il compromesso storico) e la sua opposizione spettacolare (l’autonomia operaia).

Sembra incredibile a dirsi ma tra le due linee (la trontiana e la negriana) non c’era alcuna divergenza teorica di fondo: nella pratica si alimentavano l’un l’altra, in una spirale negativa che trascinò il movimento sempre più in basso fino alla sconfitta del 1980 alla Fiat, che mise la parola fine su un periodo di grandi lotte sociali durato oltre dieci anni.

Una disfatta peggiore di quella non era possibile immaginarla.

Gli aspetti filosofici della questione

Motore negativo del capitale, capace di produrlo come potenza economica e di provocarne la crisi politica, per gli operaisti, la classe operaia non era l’erede della filosofia classica tedesca, dell’economia politica inglese e del socialismo politico francese41 ma “elemento irrazionale”, “unica anarchia che il capitalismo non riesce socialmente a organizzare.42

L’operaismo sul piano filosofico si ricollegava nei fatti alle tesi individualiste di Max Stirner, che un secolo prima erano state oggetto degli strali di Marx ed Engels.43

Max Stirner fu un precursore del nichilismo, dell’esistenzialismo e dell’anarco-individualismo sebbene in nessuna circostanza nel corso della sua vita si definí “anarchico”. Le sue concezioni hanno ispirato molti filosofi, tra cui lo stesso Nietzsche.44 

La prima ricerca sul pensiero negativo di Nietzsche maturò nell’ambito del progetto trontiano di fare incontrare il nichilismo operaio con il pensiero della crisi. L’antiumanesimo, l’irrazionalismo e l’antistoricismo venivano considerati armi pratiche di lotta, strumenti del movimento che abolisce lo stato di cose presenti. Si passava da una prospettiva marxista ad una filosofia della classe operaia, il cui dispositivo teorico fondamentale era configurato dal rapporto di produzione inteso come il prodotto di un’attività soggettiva.

La teoria dell’insubordinazione sociale di Negri, che nel 1973 sostituì la centralità rivoluzionaria dell’operaio massa con quella dell’operaio sociale e dunque di un proletariato giovanile diffuso, perfezionava lo svuotamento delle categorie marxiste e propiziava l’incontro dell’operaismo con la filosofia francese del desiderio e della differenza (Foucault, Deleuze), teorici della biopolitica.45

Un eccellente testo di Jan Rehmann46 chiarisce come il pensiero di Nietzsche sia stato utilizzato proprio dagli strutturalisti francesi in funzione “superatrice” del pensiero marxista. Tale operazione ideologica intervenne quando Foucault, “impressionato dal movimento del Sessantotto”, compì uno spostamento a sinistra che spiazzò completamente molti suoi contemporanei.47

Si individuano qui i limiti di una cultura politica che alla fine degli anni ’70, dopo aver reciso ogni legame con la critica dell’economia politica e aver reso indeterminato il concetto di marxismo, diventava vero e proprio veicolo di subalternità alle idee liberali.

Se l’operaismo di destra giungeva a liquidare l’intera cultura marxista come un ostacolo e l’autonomia del politico si trasformava in elogio dell’impolitico o presa d’atto del tramonto della politica48, l’operaismo di sinistra pur omaggiando formalmente il marxismo lo svuotava di ogni contenuto rivoluzionario preparando la strada alle concezioni post-operaiste e disobbedienti.

Dall’operaio massa al general intellect

Lo scioglimento di Potere operaio nel 1973 e le prime riflessioni di Negri sull’operaio sociale49 anticipavano le successive teorie del post-fordismo, della produzione immateriale e del capitalismo cognitivo. Vediamo attraverso quali percorsi.

La premessa della teoria operaista è la ricostruzione della storia come una successione di figure egemoni, di soggetti della trasformazione che si rinnovano ad ogni processo di ristrutturazione capitalistica. Secondo questa tesi ad ogni ristrutturazione, indotta dalle lotte operaie, corrisponde la nascita di una nuova composizione tecnica della forza-lavoro che determina a sua volta una nuova composizione politica.

Nel tentativo di interpretare la ristrutturazione come un processo destinato a promuovere la ricomposizione di classe e a suscitare un nuovo soggetto capace di estendere a tutta la società la potenza antagonista che l’operaio massa ebbe nell’autunno caldo dopo la cosiddetta crisi petrolifera (in realtà crisi di sovrapproduzione) del 1973, la lettura di Negri fu che in reazione alla caduta del saggio di profitto, il capitale fosse costretto a diffondere il processo di valorizzazione alla società. Di conseguenza dalla fabbrica si passava al territorio e dall’operaio massa all’operaio sociale.

La compenetrazione tra struttura e sovrastruttura nell’analisi di Negri diventava totale, la sfera della circolazione e quella della produzione si unificavano nella dimensione della riproduzione.

Lo scontro prefigurato in Operai e Capitale tra fabbrica e società capitalistica si ridisegnava come scontro tra il lavoro sociale e lo Stato rappresentante del capitalista collettivo. Il comando d’impresa, sganciato dal valore, diventava mero rapporto di forza, disegno soggettivo e arbitrario di dominio; il capitale non era più considerato valore che si valorizza ma volontà di potere, autonomia del politico, dunque “la critica dell’economia politica è immediatamente critica dell’amministrazione, della Costituzione, dello Stato50, un passaggio che dimostrava fino a che punto Negri, a distanza di anni, continuasse ad avere in Tronti un indiscusso punto di riferimento.

Ancora nel 2007 nel citato convegno di DeriveApprodi, dirà che senza le lenti di Tronti non avrebbe mai compreso il Capitale di Marx.51 Un concetto ribadito da Sergio Bologna nella recensione al libro di Wright L’assalto al cielo.
Per una storia dell’operaismo:

(…) Tronti pone i ‘fondamentali’ dell’operaismo. Lo stesso concetto di composizione di classe non è che un tentativo di tradurre in pratica alcuni concetti che Tronti per primo aveva esplicitato. Aver capito appieno l’importanza e il significato degli scritti di Tronti in quel periodo dà a Steve Wright la chiave di lettura giusta per ricostruire la storia dell’operaismo italiano.” 52

Dalla fine degli anni ’70 in poi la ricerca di

nuovi soggetti si esaspererà oltre misura tra i lavoratori del pubblico, dei servizi, nel sottoproletariato, ecc.53 e l’operaismo diventerà sempre più visionario.

Col passare degli anni si affermerà un linguaggio, uno stile di pensiero riconoscibile nei concetti di “imprenditorialità comune”, “intellettuale massa”, “moltitudine”, “cognitariato”. Secondo le tesi più recenti il lavoro parcellizzato e ripetitivo sarebbe relegato in posizione residuale e il sapere astratto, divenuto principale risorsa produttiva, corrisponderebbe alla realizzazione del concetto di general intellect.

Mentre per Marx, però, il general intellect era capitale fisso, capacità scientifica oggettivata nel sistema delle macchine, per i post-operaisti la distinzione tra capitale costante e capitale variabile viene meno: il lavoro vivo, depositario di competenze cognitive non oggettivabili nel sistema delle macchine, non è forza-lavoro sfruttata dal capitale, ma imprenditorialità comune, intellettualità di massa.

Gli ultimi anelli di questa catena di illusioni sono i lavoratori della conoscenza e i lavoratori autonomi di seconda generazione, descritti rispettivamente come nuova avanguardia in grado di incarnare il punto più alto della contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione e pionieri di un “esodo” consapevole e spontaneo dalla condizione di lavoratore dipendente.

Con gli studi sulla rivoluzione informatica, si ipotizza anche il passaggio ad un nuovo modello di accumulazione caratterizzato dalla flessibilità e smaterializzazione dei processi produttivi, dalla delocalizzazione delle imprese, dall’introduzione di sistemi modulari o a rete. Negri rivendicherà il legame tra queste tesi e le concezioni operaiste della prima ora: “Dentro l’esperienza di Potere Operaio siamo riusciti ad intuire che la proposta di comunismo non veniva ormai più dalla fabbrica ma dall’autonomia di un nuovo proletariato sociale, immateriale e produttivo“. E aggiungerà un riferimento ai “commilitoni americani che cominciarono a fare gli imprenditori di software a Silicon Valley, alleando la spontaneità del rifiuto del lavoro con un certo leninismo imprenditoriale.”54

Lo sfruttamento del lavoro informatico (per quanto d’élite) finiva col diventare “rifiuto del lavoro e leninismo imprenditoriale”. Niente di meno.

Tesi che non potevano non provocare un legittimo disgusto e che diventavano ancora più stridenti con la realtà quando cominciava la crisi economica nel 2008. In questi anni si è fatta piazza pulita di molte illusioni riportando la discussione su terreni più razionali anche nel campo antagonista. Questo spiega la nascita di collettivi più marcatamente operaisti e la pubblicazione di libri che, pur provenendo da quel campo, rifiutano con decisione la deriva negriana.

Si tratta di un elemento che valutiamo positivamente, il che non ci impedisce di segnalare che la via d’uscita non può essere quella di “tornare indietro”, risalendo la catena operaista per aggrapparsi agli anelli precedenti, delle origini o a quelli successivi (’68-’69, ’73, ’77). Il problema non sta nel singolo anello ma nel materiale con cui è stata forgiata la catena.

Rovesciando lo slogan del convegno di Potere operaio del 197355 potremmo dire che “tornare indietro non significa ricominciare da capo”, significa condannarsi all’eterno fallimento politico.

Note

1Quaderni rossi fu una rivista della sinistra italiana promossa nel 1961 da Raniero Panzieri e Mario Tronti. Chiuse nel 1965. Vennero pubblicati tra il 1961 e il 1965 sei numeri, di cui il sesto dopo la morte di Panzieri. Dal gruppo originario uscirono nel 1963 Mario Tronti, Toni Negri ed altri per fondare Classe operaia.

2Classe operaia pubblicherà nove numeri nel 1964 (di cui tre doppi), quattro numeri nel 1965, diradando le pubblicazioni fino alla chiusura nel marzo del 1967. Oltre al direttore Mario Tronti apparterranno alla redazione, tra gli altri, Alberto Asor Rosa, Massimo Cacciari, Toni Negri, Sergio Bologna.

3Operai e Capitale è unanimemente riconosciuto come il testo fondamentale dell’operaismo italiano. Il libro consiste in una raccolta di testi prodotti tra il 1964 e il 1966 tra i quali spiccano Lenin in Inghilterra, editoriale del primo numero di Classe operaia, Vecchia Tattica per una nuova strategia (n. 4-5), 1905 in Italia (n. 8-9), Classe e partito (n. 10-12) e il più sostanzioso Marx, forza lavoro, classe operaia. Edito per la prima volta da Einaudi, è stato ripubblicato nel 2013 da DeriveApprodi.

4Sulla storia dell’operaismo ci limitiamo a segnalare: Steve Wright, L’assalto al cielo. Per una storia dell’operaismo, Roma, Edizioni Alegre, 2008; G. Borio, F. Pozzi e G. Roggero, Futuro Anteriore. Dai “Quaderni Rossi” ai movimenti globali: ricchezze e limiti dell’operaismo italiano, Roma, DeriveApprodi, 2002; G. Trotta e F. Milana (a cura di), L’operaismo degli anni Sessanta da “Quaderni Rossi” a Classe Operaia, Roma, DeriveApprodi, 2008;

5I Clash city workerssono un collettivo nato nell’autunno del 2009 presente a Napoli, Roma, Firenze e Padova che si occupa di fare lavoro d’inchiesta e di analisi, ma soprattutto di sostenere, connettere e organizzare le lotte che sono in corso in Italia” (dalla loro presentazione). In Dove sono i nostri (La casa Usher, 2014), il libro-manifesto del movimento, si possono ritrovare molte delle tematiche operaiste della prima ora: la centralità della composizione di classe, la riproposizione dell’inchiesta come strumento di conoscenza e organizzazione, la connessione delle lotte a partire dai collettivi operai. Coerentemente con la classica impostazione operaista il libro, pur facendo un pregevole lavoro di analisi della struttura produttiva italiana, non parte da un’analisi dalla crisi economica del capitalismo, dalle sue contraddizioni e non traccia prospettive, né sul piano politico, né su quello organizzativo (per quale società lottiamo? quale organizzazione per il proletariato?)

6Noi saremo tutto è una coalizione di collettivi presenti in diverse città italiane. Il libro Classe e Partito, di Emilio Quadrelli (rintracciabile su http://www.rifondazionegenova.org), può considerarsi il principale contributo teorico del collettivo genovese, Genova city strike. Le tesi operaiste riprese nel capitolo Che cos’è il proletariato d’oggi sono presentate in una versione che ha forti tratti di somiglianza con le posizioni negriane dei primi anni ’70. Nel capitolo successivo La forma organizzativa della classe subalterna si polemizza esplicitamente con le tesi dell’Impero di Negri rivendicando l’esistenza della teoria del valore. Il libro ripropone il metodo operaista sul campo della ricerca delle figure egemoni individuandole nel proletariato non garantito e nel “partito delle banlieu” (pag. 39).

7Oggi l’ideologia operaista e l’autorganizzazione delle lotte che caratterizzava l’Autonomia operaia trova continuità in alcuni gruppi vicini ai centri sociali occupati e/o autogestiti e in collettivi autonomi all’interno dell’area politica di Autonomia Contropotere, riconducibile al network infoaut.org.

8Commonware nasce nel 2012 all’interno del progetto UniNomade. Organizza laboratori seminariali sui temi storici e attuali del post-operaismo. Sul loro sito si presentano così: “la crisi morde in profondità e accelera in superficie, il general intellect viene rottamato, l’università delle conoscenze banalizzate e del declassamento permanente comincia a essere disertata dal lavoro cognitivo, i precari di seconda generazione non si sentono più defraudati del futuro, perché di quel futuro non ne hanno nemmeno sentito parlare. Commonware vuole riproporre non le soluzioni ma le domande: come organizzare reti indipendenti della produzione dei saperi, di autoformazione e conricerca, ovvero le istituzioni autonome dell’intelletto generale? Perché scorciatoie non ce ne sono: l’intelletto è generale, o semplicemente non è (…).

9Global project è l’area politica disobbediente che fa capo alla “Coalizione dei centri sociali” che ha come riferimento il network globalproject.info.

10Citazione di K. Marx da Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte.

11Per la letteratura sul capitalismo cognitivo, ci limitiamo a segnalare Y. Boutang, L’eta del capitalismo cognitivo. Innovazione, proprietà e cooperazione, Verona, Ombre Corte, 2002; C. Vercellone, Capitalismo cognitivo. Conoscenza e finanza nell’epoca post-fordista, Roma, Manifestolibri, 2006; A. Fumagalli, Bioeconomia e capitalismo cognitivo, Roma, Carocci, 2007.

12La categoria di imperialismo viene dichiarata obsoleta, come è noto, da M. Hardt, A. Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Milano, Rizzoli, 2002.

13Si veda l’articolo di Claudio Bellotti, La rifondazione comunista alla prova del movimento, pubblicato su FalceMartello n. 154 (vecchia edizione).

14Le conclusioni di Mario Tronti al convegno organizzato dalla casa editrice DeriveApprodi  il 31 gennaio 2007 si possono trovare su: http://www.infoaut.org/index.php/blog/seminari/item/9091-rileggere-%E2%80%9Coperai-e-capitale%E2%80%9D-conclusioni-di-mario-tronti. La citazione a cui si fa riferimento è la seguente: “Lì c’è una cosa importante che ho sempre consigliato: l’operaismo è sì un punto di vista parziale, ma non è un punto di vista subalterno. Direi che è un punto di vista potenzialmente egemonico, se egemonia non fosse una parola debole. C’è una parola che a me piace di più: è un punto di vista potenzialmente dominante.

15Per una conoscenza approfondita degli scritti di Raniero Panzieri suggeriamo La ripresa del marxismo leninismo in Italia. Antologia degli scritti di Panzieri a cura di D. Lanzardo, Roma, Sapere edizioni, 1973.

16Un’opinione espressa tra gli altri da G. Trotta e F. Milana (a cura di), L’operaismo degli anni Sessanta da “Quaderni rossi” a “classe operaia”, cit.; G. Viale, Il sessantotto tra rivoluzione e restaurazione, Milano, Gabriele Mazzotta Editore, 1978; S. Mancini, Socialismo e democrazia diretta. Introduzione a Raniero Panzieri, Bari, Dedalo, 1977.

17Per un’analisi approfondita sulla politica dei Gcr, sezione italiana della Quarta Internazionale e delle altre tendenze di sinistra del Pci si veda: C. Bellotti. Cercando la rivoluzione, Cenni sulla storia dell’estrema sinistra in Italia.

18Sui fatti dell’Ungheria del 1956 si veda P. Brouè, La rivoluzione ungherese dei consigli operai

19Sulle mobilitazioni dei primi anni ’60 e i fatti di Piazza Statuto si veda D. Giachetti, Anni Sessanta comincia la danza. Giovani, capelloni, studenti ed estremisti negli anni della contestazione, Pisa, Bfs, 2002; Raniero Panzieri (a cura di) Cronache dei Quaderni Rossi, n. 1, settembre 1962, interamente dedicato ai fatti di Piazza Statuto; Grazia Cherchi, Cronaca dei fatti di Piazza Statuto attraverso la stampa, Quaderni Piacentini, n. 4-5, ottobre 1962.

20In una lettera a Joseph Bloch del 21 settembre 1890, in Marx-Engels, Opere, volume 50, Roma, Editori Riuniti, 1977 p. 111, Engels si esprimeva in questi termini: “Del fatto, che da parte dei più giovani si attribuisca talvolta al lato economico più rilevanza di quanto convenga, siamo in parte responsabili anche Marx ed io. Di fronte agli avversari dovevamo accentuare il principio fondamentale, che essi negavano, cioè il fattore economico, la produzione, ecc., e allora non sempre c’era il tempo, il luogo e l’occasione di riconoscere quel che spettava agli altri fattori che entrano nell’azione reciproca.

21Consultabile su: www.workerscontrol.net/system/files/docs/Sette%20tesi_0.pdf

22Abbiamo visto anche noi prima lo sviluppo capitalistico, poi le lotte operaie. È un errore. Occorre rovesciare il problema… ripartire dal principio: e il principio è la lotta di classe” (tratto da Lenin in Inghilterra di Mario Tronti).

23Citato dal capitolo Miseria dell’operaismo in G. Viale, Il sessantotto tra rivoluzione e restaurazione, op. cit.

24Testo contenuto in Operai e Capitale di M. Tronti (vedi nota n. 3).

25Secondo Tronti la classe operaia doveva solo “guardare se stessa per capire il capitale. Ha solo da combattere se stessa per distruggere il capitale. Deve riconoscersi come potenza politica. Deve negarsi come forza produttiva” (tratto da Operai e Capitale, pag. 261).

26Dalla recensione di Sergio Bologna al libro di Steve Wright, L’assalto al cielo. Per una storia dell’operaismo.

27La contraddizione esistente nel modo capitalistico di produzione consiste proprio nella sua tendenza allo sviluppo delle forze produttive, che vengono continuamente a trovarsi in conflitto con le specifiche condizioni di produzione, entro le quali il capitale si muove e può solo muoversi” (Marx, il Capitale). “Solo la grande industria sviluppa, da una parte quei conflitti che rendono ineluttabilmente necessario un rivoluzionamento del modo di produzione: conflitti non solo tra le classi che essa forma, ma anche tra le stesse forze produttive e le forma di scambio che essa parimenti crea…” (Engels, Anti-Dühring).

28K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, Firenze, La Nuova Italia, cioè gli otto quaderni scritti da Marx dall’agosto del 1857 al maggio 1858 conosciuti come Grundrisse. I Grundrisse furono editi per la prima volta in versione integrale dall’Istituto Marx-Engels-Lenin di Mosca nel 1939-41 e cominciarono a circolare in Europa e nell’Occidente tra gli anni ’60 e ’70.

29K. Marx, Frammento sulle macchine, in Quaderni rossi n. 4 (1964) pag. 289-300, (traduzione a cura di Renato Solmi).

30M. Turchetto, Operaismo: ascesa, metamorfosi, eclissi, in “Cassandra” n. 22 (2008) p. 18.

31K. Marx, Frammento sulle macchine, p. 298.

32Negri non ha dubbi, la profezia di Marx è già realizzata: a creare ricchezza non è più il lavoro, ma la scienza e la tecnica, il general intellect che non risiede nella fabbrica ma nella società” in M. Turchetto, Operaismo: ascesa, metamorfosi, eclissi, p. 17.

33K. Marx. Frammento sulle macchine, p. 295.

34Nei Quaderni Rossi c’erano dei non marxisti: la disputa era se partire da Karl Marx o partire da Max Weber, poi la risolvemmo dicendo ‘partiamo da Marx Weber’ e trovammo una sintesi”, Mario Tronti, Sognando comunismo, intervista rilasciata a L’Unità, 8 dicembre 2001.

35M. Tronti, Sull’autonomia del politico, Milano, Feltrinelli, 1977.

36Lev Trotskij, L’indipendenza dell’Ucraina e i confusi settari (https://www.marxists.org/italiano/trotsky/1939/7/indUcraina.htm)

37Citato in V. Dini, A proposito di Toni Negri. Note sull’operaio sociale, sul dominio e sul sabotaggio, in Ombre rosse, n. 24, 1978, p. 5.

38Per Sorel il concetto di rivoluzione era sinonimo di violenza. Si veda a tal proposito il suo libro più conosciuto: G. Sorel, Considerazioni sulla violenza, Bari, Laterza, 1970. Secondo Sorel, il proletariato non ha bisogno di guide e, attraverso l’auto-organizzazione, può rendersi consapevole della sua funzione rivoluzionaria. Considera l’azione diretta, senza mediazione politica alcuna, come il principale strumento dell’azione rivoluzionaria.

39Sulla deriva insurrezionalista di Potere operaio e altri gruppi dell’estrema sinistra nei primi anni ’70 si veda G. Donato. La lotta è armata, Roma, DeriveApprodi, 2013.

40Per una storia dell’autonomia operaia suggeriamo: Sergio Bianchi e Lanfranco Caminiti (a cura di), Gli autonomi. Le storie, le lotte, le teorie. Vol. 1-2-3. Roma, DeriveApprodi, 2007-2008

41Il riferimento è a Lenin e al suo Tre fonti e tre parti integranti del marxismo (1913). Consultabile su https://www.marxists.org/italiano/lenin/1913/3/font-mar.htm.

42M. Tronti, Operai e Capitale, op. cit., p. 82.

43Il riferimento è a L’Ideologia tedesca, K. Marx- F. Engels, Roma, Editori Riuniti, 1958, nel quale Stirner viene ironicamente apostrofato San Max. Da notare il seguente passaggio: “Nei diversi stadi della vita Stirner non vede che ‘scoperte di se stesso’, e queste ‘scoperte di se stesso’ si riducono sempre a una data situazione di coscienza. La diversità della coscienza dunque è qui la vita dell’individuo. La modificazione fisica e sociale che si opera negli individui e che produce una modificazione nella coscienza naturalmente non lo interessa…”, pag. 108.

44Per quanto pare che Nietzsche non abbia mai riconosciuto pubblicamente il suo debito verso Max Stirner è indubbio che ne venne influenzato. Si veda a tal proposito Bernd Laska, Nietzsches initiale Krise. Germanic Notes and Reviews, vol. 33, n. 2, fall/Herbst 2002, pagg. 109-133.

45Si veda a tal proposito M. Foucault La volontà di sapere, Milano, Feltrinelli, 1978; M. Foucault, Nascita della biopolitica (corso al Collège de France anni 1978-1979), Milano, Feltrinelli, 2005.

46J. Rehmann, I nietzscheani di sinistra, Deleuze, Foucault e il postmodernismo: una decostruzione, Roma, Odradek edizioni, 2009.

47Bisogna tener presente che prima del ’68 il libro foucaultiano di maggior successo, Le parole e le cose, del 1966, a causa del suo aspro regolamento di conti con Marx era stato interpretato da molti come un libro “di destra”.

48M. Tronti, La politica al tramonto, Torino, Einaudi, 1998, p. 79.

49Si veda lo scritto di Toni Negri del 1973, Partito operaio contro il lavoro, contenuto in: Toni Negri, I libri del rogo, Roma, DeriveApprodi, 2006.

50A. Negri, La forma Stato. Per la critica dell’economia politica della Costituzione, Milano, Feltrinelli 1977, p. 18.

51Negri aprirà la sua relazione così: “Un presupposto, sono diventato marxista con la lettura di Operai e Capitale. Prima ero solo un comunista, di origini diverse e strane: un po’ cristiane, un po’ ebraiche, un po’ familiari, un po’ altrove. Ho cominciato a leggere Marx nei primi anni Sessanta, a leggerlo veramente, con la guida di questo libro. Di più: non riesco a leggere Marx fuori da Operai e Capitale; probabilmente sono un po’ settario, anche teoricamente, ma è un fatto che non riesco a leggerlo se non con questi occhiali”. Consultabile su: http://www.infoaut.org/index.php/blog/seminari/item/9092-rileggere-%E2%80%9Coperai-e-capitale%E2%80%9D-relazione-di-toni-negri.

52Dalla recensione di Sergio Bologna al libro di Steve Wright, L’assalto al cielo. Per una storia dell’operaismo.

53Significativi a fine anni ’70 la rivista Magazzino (Gennaio 1979) e il supplemento al numero zero di Metropoli, Autonomia possibile (dicembre 1978). In Magazzino appare un concetto di classe basata sui servizi e sull’economia sommersa, “generatore delle forze più dinamiche nell’azione antisistema.Autonomia possibile spinge all’estremo, esplicitandole di più, le idee di Magazzino. Il centro dell’elaborazione risiede nel concetto di lavoro non operaio: “L’idea-forza con cui il lavoro non-operaio va costruendosi come soggettività – scrive Piperno – è quella del comando del valore d’uso sul lavoro sociale (…) Valore d’uso è il disgusto del posto fisso, magari sotto casa: è l’orrore per il mestiere; è mobilità: è fuga dalla prestazione stupidamente irrigidita come resistenza attiva alla merce, a farsi merce, ad essere posseduto interamente dai movimenti della merce (…) Valore d’uso è la pensosa allegria del furto di oggetti utili, desiderati – che è rapporto diretto con le cose, libero dalla mediazione sporca perché inutile del denaro; ma anche nostalgia del vivere gratis, di una pienezza di consumo e godimento come possibilità latente, materiale della società moderna.

54Citato da una recensione di Toni Negri al libro di Bifo: F. Berardi, La nefasta utopia di Potere Operaio, Milano, Castelvecchi, 1998) pubblicata da il manifesto il 20 maggio 1998.

55Ricominciare da capo non significa tornare indietro” è lo slogan con cui vennero pubblicati gli atti del seminario di Padova, tenutosi dal 28 luglio al 4 agosto 1973, in cui si sanciva lo scioglimento di Potere operaio nell’Autonomia operaia.

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