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Marx e la Prima Internazionale

di Franco Bavila

 

Il 28 settembre 1864 nella St. Martin’s Hall di Londra venne fondata l’Associazione internazionale dei lavoratori, che sarebbe passata alla storia come la “Prima Internazionale”. Per la prima volta la classe operaia si organizzava a livello internazionale.

Il contesto

L’Internazionale nasceva sull’onda di un risveglio del movimento operaio dopo lunghi anni di riflusso. In Europa infatti dopo la sconfitta delle rivoluzioni del 1848 era seguito un periodo di reazione. In Francia si era imposto il Secondo Impero di Napoleone III, ma il bonapartismo dominava anche dall’altra parte del Reno dove il processo di unificazione nazionale della Germania era guidato dallo Stato tedesco più conservatore, la Prussia del cancelliere Bismarck governata dagli Junker (esponenti dell’aristocrazia terriera e della casta militare). Dopo oltre un decennio però si assisteva ai primi segnali di una ripresa delle lotte operaie. In Gran Bretagna la mobilitazione dei sindacati era riuscita ad impedire che il governo inglese intervenisse militarmente al fianco degli Stati schiavisti del Sud nella guerra civile americana; in Francia il regime di Napoleone III entrava in crisi ed era costretto a fare una serie di concessioni alle masse, tra cui un parziale ripristino della libertà sindacale; nel 1863 c’era stata un’insurrezione in Polonia contro l’oppressione della Russia zarista. Man mano che le organizzazioni operaie ritornavano sulla scena, si faceva per loro sempre più pressante la necessità di un collegamento internazionale: in occasione dell’Esposizione universale di Londra del 1862 una delegazione di rappresentanti dei lavoratori francesi si era incontrata con i sindacati inglesi e, sia in Francia che in Inghilterra, c’erano state numerose iniziative di solidarietà internazionale con l’insurrezione polacca. Per la classe operaia è effettivamente imprescindibile organizzarsi a livello internazionale, perché il capitalismo è un sistema globale basato su un mercato mondiale e la posizione del proletariato è la stessa in tutti i paesi capitalistici. Fu proprio sulla spinta di questa esigenza che venne costituita la Prima Internazionale.

A quell’epoca il movimento operaio era ancora nella sua fase embrionale e presentava caratteristiche politiche molto differenti da paese a paese. In Gran Bretagna, dove il capitalismo era più sviluppato e la classe operaia era più numerosa, esistevano forti sindacati (trade unions), che però si limitavano a occuparsi delle condizioni materiali dei lavoratori, senza affrontare questioni politiche più generali. Marx criticò sempre questo atteggiamento (conosciuto come “tradeunionismo”): “Le trade unions compiono un buon lavoro come centri di resistenza contro gli attacchi del capitale; in parte si dimostrano inefficaci in seguito a un impiego irrazionale della loro forza. Esse mancano, in generale, al loro scopo, perché si limitano a una guerriglia contro gli effetti del sistema esistente, invece di tendere nello stesso tempo alla sua trasformazione e di servirsi della loro forza organizzata come di una leva per la liberazione definitiva della classe operaia, cioè per l’abolizione definitiva del sistema del lavoro salariato1.

In Francia, che era stata all’avanguardia nel movimento rivoluzionario, le tendenze politiche dominanti nella classe operaia erano quelle che facevano riferimento a Proudhon e a Blanqui. I proudhoniani si ispiravano ai principi del mutualismo, erano convinti che la nuova società sarebbe nata grazie ad una serie di istituti solidaristici come le “banche del popolo” e rigettavano sia l’attività sindacale che lo strumento dello sciopero. Queste idee rispecchiavano la situazione di demoralizzazione nel proletariato francese dopo il fallimento del tentativo insurrezionale del giugno 1848: “… esso si abbandona a esperimenti dottrinari, banche di scambio e associazioni operaie, cioè a un movimento in cui rinuncia a trasformare il vecchio mondo con i grandi mezzi collettivi che gli sono propri, e cerca piuttosto di conseguire la propria emancipazione alle spalle della società, in via privata, entro i limiti delle sue meschine condizioni d’esistenza…2. L’altra faccia della medaglia era rappresentata dai blanquisti, che concepivano l’azione rivoluzionaria come quella condotta da avanguardie audaci ma minoritarie che facevano ricorso a colpi di mano e fughe in avanti, negando la necessità di una paziente attività quotidiana, fatta di lotte parziali volte a conquistare la fiducia della maggioranza dei lavoratori.

In Italia, essendo il capitalismo ancora poco sviluppato, la situazione politica era particolarmente arretrata, con le prime società operaie egemonizzate dalle idee di Mazzini e Garibaldi, che di fatto non erano socialisti ma semplicemente repubblicani. In Germania invece le teorie del socialismo scientifico di Marx avevano una grande influenza, ma il movimento operaio era profondamente diviso sulla questione nazionale. Da una parte i lassalliani (dal nome del loro dirigente Lassalle) ritenevano correttamente che l’unificazione della Germania, per quanto condotta dagli Junker, sarebbe stata ugualmente un passo avanti perché avrebbe unito anche la classe operaia tedesca, ma spingevano questa posizione fino all’estremo di essere accondiscendenti nei confronti di Bismarck. Dall’altra gli eisenachiani (dalla località della loro prima conferenza, Eisenach) conducevano una lotta implacabile e sacrosanta contro il governo reazionario prussiano, arrivando però al punto di auspicare un ritorno alla precedente situazione politica tedesca di frammentazione in una serie di staterelli.

Il ruolo di Marx

In questo contesto così variegato era inevitabile che la Prima Internazionale fosse un’organizzazione politicamente eterogenea, il che a sua volta si rispecchiava in una struttura organizzativa fragile. Nonostante questi limiti di cui era ben consapevole, Marx fin da subito intervenne nell’Internazionale perché vedeva che attorno ad essa si erano riunite le avanguardie operaie di tutta Europa e c’era quindi la possibilità concreta di influenzarle ed educarle politicamente proprio nel momento in cui il movimento operaio cominciava a muovere i suoi primi passi in modo indipendente.

Marx divenne rapidamente il principale punto di riferimento politico della Prima Internazionale. Fu lui a scriverne l’Indirizzo inaugurale, gli statuti e il programma. Tutti questi testi furono scritti in modo tale da salvaguardare la natura proletaria dell’organizzazione contro le influenze esterne degli intellettuali e dei politicanti appartenenti alle classi medie che intendevano utilizzare le moltitudini operaie come massa di manovra per i loro fini elettoralistici, riformistici o mutualistici. Negli statuti vennero chiaramente espressi i principi in base ai quali “l’emancipazione della classe operaia non può essere altro che opera della classe operaia stessa; la lotta per l’emancipazione della classe operaia non è una lotta per nuovi privilegi di classe, ma per uguali diritti e doveri e l’abolizione di ogni dominio di classe”. L’Indirizzo generale invece esplicitava come i lavoratori non potessero limitarsi all’attività sindacale o cooperativa, ma dovessero necessariamente lottare per conquistare nelle loro mani il potere politico. Il programma infine conteneva una serie di rivendicazioni, che oggi possono apparire datate (giornata lavorativa di otto ore, abolizione del lavoro notturno per le donne, regolamentazione per il lavoro minorile, ecc.), ma all’epoca riuscirono nel difficile compito di tenere insieme tutte le più disparate tendenze del movimento operaio ed evitare così che l’Internazionale degenerasse in una piccola setta senza seguito. Marx descriveva il suo metodo straordinariamente flessibile in una lettera ad Engels del 4 novembre 1864: “Era difficilissimo condurre la cosa in modo che il nostro punto di vista apparisse in una forma che lo rendesse accettabile all’attuale punto di vista del movimento operaio. Occorre tempo prima che il movimento ridestato consenta l’antica audacia di linguaggio. È necessario essere fermi nei contenuti e delicati nei modi”.

Grazie al suo inestimabile contributo politico Marx riuscì a conquistare una vera e propria egemonia politica sull’organismo dirigente dell’Internazionale, il Consiglio generale. Per esempio fu ancora lui ad assumersi la responsabilità di condurre la polemica contro John Weston, un membro dell’Internazionale che sosteneva fosse sbagliato da parte dei lavoratori rivendicare aumenti salariali, sulla base del falso presupposto che l’aumento dei salari avrebbe provocato l’aumento dei prezzi. Marx colse l’occasione non solo per dimostrare che non c’era alcun legame meccanico tra il livello dei salari e quello dei prezzi, ma anche per esporre le sue teorie economiche con uno scritto che venne poi pubblicato con il titolo di Salario, prezzo, profitto, ancora oggi una valida introduzione all’economia marxista.

Marx si spese anche per garantire il sostegno proletario a tutte le cause progressiste a livello internazionale. Già nell’Indirizzo inaugurale aveva invitato la classe operaia a “padroneggiare i misteri della politica internazionale”. Poco dopo scrisse personalmente a nome dell’Internazionale una lettera di congratulazioni a Lincoln per la sua rielezione a presidente, esprimendo in questo modo il suo pieno appoggio alla lotta rivoluzionaria per l’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti. Marx sapeva che Lincoln non era un comunista, ma sapeva anche che la classe operaia americana non si sarebbe mai potuta emancipare veramente finché fosse esistito lo schiavismo e questa analisi si dimostrò corretta quando, poco dopo la vittoria nordista nella guerra civile, i sindacati americani fecero propria la rivendicazione della giornata di otto ore contenuta nel programma dell’Internazionale.

Un’altra battaglia sostenuta da Marx fu quella per l’indipendenza polacca: in quegli anni la Russia era un paese profondamente arretrato e contadino dove le possibilità di una lotta rivoluzionaria erano pressoché nulle e quindi una Polonia indipendente rappresentava l’unico modo per indebolire il regime zarista, che costituiva il baluardo della reazione in tutta Europa.

In virtù della direzione di Marx l’Internazionale nei suoi primi anni riportò una serie di importanti affermazioni, costruendo sezioni in più di dieci paesi, compresi Russia e Stati Uniti. Si trattava di forze numericamente ancora esigue e spesso costrette ad operare in precarie condizioni di semi-clandestinità, ma l’influenza dell’Internazionale era decisamente superiore rispetto alle sue piccole sezioni. Le campagne di solidarietà internazionale con gli scioperi in un singolo paese, volte ad impedire che i padroni reclutassero crumiri all’estero, avevano grande successo e coinvolgevano migliaia di operai.

Sotto la spinta dell’Internazionale, i sindacati britannici si convinsero finalmente ad impegnarsi in una battaglia politica a favore di una riforma elettorale per dare il diritto di voto anche agli operai. La campagna riscosse un successo di massa e nel 1867 erano affiliate all’Internazionale più di trenta trade unions, che raccoglievano complessivamente 50mila membri. Per un certo periodo si ventilò la possibilità di trasformare le trade unions nella sezione inglese dell’Internazionale, il che avrebbe trasferito la direzione del potente movimento operaio britannico nelle mani del Consiglio generale e di Marx. Ma i dirigenti sindacali inglesi preferirono raggiungere accordi elettorali con i settori liberali della borghesia e accettare un cattivo compromesso sulla legge elettorale, che limitava il diritto di voto agli operai maschi che avevano un alloggio, tagliando fuori le donne e i numerosi lavoratori che ai tempi abitavano ancora in dormitori pubblici.

In compenso l’influenza di Marx sull’Internazionale venne ulteriormente rafforzata quando a partire dal 1870 Engels si trasferì a Londra ed entrò a far parte del Consiglio generale.

La guerra franco-prussiana

Un punto di svolta nella storia dell’Internazionale fu lo scoppio della guerra tra la Francia di Napoleone III e la Prussia di Bismarck nel 1870. Le guerre rappresentano sempre un banco di prova decisivo per le organizzazioni politiche, soprattutto per quelle internazionali. Per esempio nel 1914 lo scoppio della Prima guerra mondiale mise a nudo tutti i limiti politici della Seconda Internazionale: i partiti socialisti si schierarono al fianco delle loro borghesie nazionali e votarono in parlamento i crediti di guerra, avallando politicamente il massacro imperialista agli occhi della classe operaia. Così come la Seconda guerra mondiale certificò la bancarotta politica in cui la direzione stalinista aveva condotto la Terza Internazionale, che venne infatti sciolta nel corso del conflitto. La Prima Internazionale invece fu in grado di superare la prova della guerra franco-prussiana, soprattutto grazie alla guida di Marx che seppe orientare politicamente il movimento operaio europeo di fronte a una grave crisi internazionale in modo davvero magistrale.

Marx interpretò correttamente la guerra come un tentativo francese di impedire l’unificazione della Germania: di conseguenza, sebbene sia Napoleone III che Bismarck rappresentassero la reazione, il proletariato non poteva rimanere neutrale nel conflitto. Una vittoria francese avrebbe consolidato il bonapartismo in Francia e avrebbe lasciato la classe operaia tedesca divisa in una serie di piccoli Stati, prigioniera di una questione nazionale irrisolta. Un successo militare tedesco invece avrebbe portato alla caduta del Secondo Impero in Francia e, creando una Germania unita, avrebbe allo stesso tempo creato le condizioni per unificare e centralizzare la classe operaia tedesca, facendola diventare una potenza: il centro principale del movimento operaio europeo sarebbe passato dalla Francia, avvelenata dalle idee proudhoniane, alla Germania dove invece era egemone la teoria marxista. L’Internazionale prese quindi giustamente posizione a sostegno della guerra difensiva tedesca contro l’aggressione francese, ma seppe sempre mantenere ben distinte le esigenze del proletariato tedesco dagli interessi dinastici prussiani, per esempio opponendosi a qualsiasi annessione di territori francesi da parte della Prussia.

La svolta della guerra avvenne con la battaglia di Sedan, in cui Napoleone III venne sonoramente sconfitto e addirittura fatto prigioniero. In Francia venne proclamata la Repubblica e Bismarck proseguì la guerra con l’obiettivo di annettersi l’Alsazia-Lorena. A questo punto lo scenario politico era completamente cambiato, il Secondo Impero non esisteva più e la guerra prussiana non aveva più un carattere difensivo, bensì di rapina. Marx seppe adeguare rapidamente le proprie posizioni di fronte alla nuova situazione. Il compito del movimento operaio tedesco adesso era diventato quello di battersi per la pace con la Repubblica francese e opporsi all’annessione dell’Alsazia-Lorena. Il proletariato francese da parte sua doveva mobilitarsi per difendere il territorio nazionale contro l’invasione delle truppe prussiane, ma senza nutrire alcuna illusione nella Repubblica, che era interamente dominata da partiti borghesi e conservatori. Marx riteneva che, mentre Parigi era assediata dagli eserciti di Bismarck, le condizioni fossero troppo sfavorevoli per tentare un’insurrezione e consigliava quindi ai lavoratori francesi di sfruttare le libertà repubblicane per rafforzare le loro organizzazioni prima di passare all’azione.

Le indicazioni di Marx trovarono applicazione concreta. In Germania sia i lassalliani che gli eisenachiani votarono contro i crediti di guerra in parlamento, mentre in Francia il proletariato di Parigi entrò in massa nelle file della Guardia nazionale per difendere la capitale. Ma la situazione conobbe una nuova precipitazione, quando il governo repubblicano francese, che aveva più paura dei lavoratori armati che degli invasori tedeschi, siglò la pace con Bismarck e pretese il disarmo della Guardia nazionale. I lavoratori si rifiutarono di consegnare le armi e insorsero contro il governo, dando vita alla Comune di Parigi.

La Comune di Parigi

Marx aveva sconsigliato di tentare la strada di un’insurrezione prematura, ma quando questa si verificò ugualmente, si schierò dalla parte della Comune senza un attimo di esitazione. Marx esaltò il coraggio degli operai parigini, che nelle condizioni più difficili avevano tentato di dare “l’assalto al cielo”. A Parigi l’esercito e la polizia erano stati sostituiti da una milizia operaia, la burocrazia statale era stata rimpiazzata da funzionari democraticamente eletti e revocabili, che non potevano ricevere uno stipendio superiore a quello di un operaio. Fu proprio sulla base dell’esperienza concreta della Comune che Marx poté approfondire le sue idee sul potere statale, traendo la conclusione che “la classe operaia non può impossessarsi puramente e semplicemente di una macchina statale già pronta e metterla in moto per i suoi propri fini3. Con la loro azione rivoluzionaria i comunardi avevano dato concretezza alla “dittatura del proletariato” che Marx aveva tratteggiato a livello teorico generale nei suoi scritti.

Marx non aveva però nessun controllo diretto sugli avvenimenti di Parigi. Nel Consiglio della Comune la maggioranza era composta da blanquisti; gli esponenti dell’Internazionale erano solo una minoranza ed erano pure proudhoniani. La Comune venne sconfitta e schiacciata nel sangue in meno di tre mesi, soprattutto a causa del suo isolamento e degli errori dei suoi dirigenti. Ciò nonostante Marx si assunse il compito di difendere politicamente e storicamente la Comune di Parigi e lo fece in una serie di indirizzi dell’Internazionale, che vennero raccolti nel libro La guerra civile in Francia, uno dei suoi capolavori.

La sconfitta della Comune ebbe però pesanti conseguenze sui destini della Prima Internazionale. Dopo che i lavoratori avevano preso il potere in una capitale europea, anche se per breve tempo, la classe dominante in tutto il mondo era letteralmente terrorizzata e attribuiva la responsabilità degli avvenimenti di Parigi alla longa manus dell’Internazionale, della quale tendeva ad ingigantire le forze. Di conseguenza un’ondata di repressione statale si abbatté su tutte le sezioni locali dell’Internazionale e il Consiglio generale dovette dedicare gran parte delle sue energie per trovare una sistemazione alle centinaia di attivisti politici che fuggivano dalla Francia per non finire fucilati.

Gli attacchi dall’esterno esacerbarono anche gli scontri interni tra le diverse tendenze politiche che componevano l’Internazionale. Il primo a scagliarsi contro la radicalità della Comune e a voltare le spalle all’Internazionale fu Mazzini (Garibaldi invece, nonostante tutti i suoi errori e le sue idee confuse, rimase fedele all’Internazionale nella quale vedeva il “Sol dell’avvenire”). Fu poi la volta delle trade unions inglesi, che non volendo spaventare la borghesia liberale con cui erano alleate, iniziarono a prendere le distanze dai discorsi di Marx in difesa della Comune, provocando una prima scissione nella sezione inglese. Ma indubbiamente gli attacchi più duri vennero dagli anarchici guidati da Bakunin.

Le manovre degli anarchici

Inizialmente Bakunin non aveva aderito all’Internazionale operaia, ma ad un’organizzazione borghese, la Lega della pace e della libertà. Nel 1868 era poi uscito dalla Lega per formare una propria organizzazione indipendente, l’Alleanza internazionale socialdemocratica. Impressionato dai successi iniziali dell’Internazionale, Bakunin chiese di aderirvi, ma pretese che l’Alleanza mantenesse un’organizzazione separata, con il proprio statuto e il proprio programma. Il Consiglio generale rifiutò una simile pretesa, che avrebbe creato il caos all’interno dell’Internazionale, ma acconsentì ad ammettere i gruppi anarchici locali a condizione che l’Alleanza si fosse ufficialmente sciolta. Bakunin finse di accettare le condizioni, ma in realtà l’Alleanza continuò ad esistere segretamente come organizzazione parallela all’interno dell’Internazionale.

Marx ed Engels dovettero sostenere a più riprese una dura battaglia politica contro le concezioni anarchiche che, se fossero passate, con il loro carattere di radicalismo verbale e di dilettantismo, avrebbero trasformato l’Internazionale in una setta separata dalla classe lavoratrice nel suo insieme. La polemica aveva riguardato alcuni aspetti fondamentali come la centralità della classe operaia nel processo rivoluzionario, che Marx faceva discendere da un’analisi scientifica del ruolo del proletariato nella produzione capitalista. Per cambiare la società Bakunin guardava invece al sottoproletariato e, in misura maggiore, alla piccola borghesia. Non è un caso che le idee anarchiche incontrarono maggior successo nei paesi in cui la classe operaia era più debole, come la Spagna e l’Italia. Così Engels descriveva ironicamente i seguaci di Bakunin in Italia: “Tutte le pretese sezioni dell’Internazionale italiana sono dirette da avvocati senza cause, da medici senza malati e senza scienza, studenti di biliardo, da venditori di commercio e piazzisti vari, e principalmente da giornalisti della piccola stampa di una reputazione più o meno equivoca4.

Un altro punto di dibattito fu l’attività politica. Per Marx era compito della classe operaia formare un proprio partito indipendente da tutti gli altri partiti borghesi e condurre la lotta per la conquista del potere. Bakunin propugnava invece l’astensione dall’attività politica, che per lui non era altro che opportunismo dal momento che lo Stato doveva semplicemente essere distrutto…

La discussione aveva toccato anche le rivendicazioni programmatiche dell’Internazionale. Bakunin per esempio proponeva la parola d’ordine dell’uguaglianza delle classi, laddove Marx ed Engels ponevano chiaramente l’obiettivo della soppressione di tutte le divisioni di classe. Ci fu una lunga polemica sulla rivendicazione anarchica dell’abolizione del diritto di successione ereditaria. Bakunin sosteneva che vietando per legge ai figli dei borghesi di ereditare il patrimonio dei genitori, si sarebbe creata una situazione di uguaglianza. Marx rispose che in una società divisa in classi non era il diritto ereditario a determinare i rapporti di proprietà ma era esattamente il contrario e contrappose alle fumosità di Bakunin sull’eredità la parola d’ordine dell’esproprio dei mezzi di produzione.

Un primo scontro importante con gli anarchici fu al congresso dell’Internazionale di Basilea del 1869, ma fu soprattutto dopo la sconfitta della Comune che gli anarchici inasprirono la lotta interna. Alla faccia della propaganda libertaria e delle campagne che calunniavano Marx come un “dittatore”, l’Alleanza era un’organizzazione fortemente autoritaria in cui Bakunin prendeva tutte le decisioni e ricorreva ad ogni tipo di intrigo e di manovra con l’obiettivo di assumere il controllo dell’Internazionale. Spesso le polemiche interne venivano fatte trapelare sulla stampa borghese, creando un danno al prestigio dell’Internazionale proprio mentre questa doveva affrontare i colpi della repressione. Addirittura Bakunin non esitò ad utilizzare argomentazioni razziste anti-tedesche e antisemite contro Marx.

Le divisioni e la confusione erano ulteriormente accresciute dal collegamento esistente tra l’Alleanza e società segrete russe, che utilizzavano metodi criminali ed erano infiltrate da ogni tipo di agente provocatore. I bakuninisti dimostrarono altrettanta spregiudicatezza realizzando un blocco senza principi con l’ala destra dell’Internazionale, i tradeunionisti inglesi guidati da Hales, per condurre una guerra all’ultimo sangue contro il Consiglio generale. L’obiettivo che accomunava sia gli estremisti anarchici che gli opportunisti inglesi era quello di dare una struttura federativa all’Internazionale, dove ogni singola sezione potesse portare avanti la propria linea politica in modo indipendente. Marx ed Engels si batterono contro le proposte federaliste, che avrebbero avuto come conseguenza quella di disorganizzare le fila del proletariato, proprio mentre era invece necessario rafforzare il centralismo dell’Internazionale per far fronte all’attacco concentrato da parte del capitale.

La resa dei conti finale venne al congresso di Basilea del 1872 in cui gli argomenti all’ordine del giorno erano sostanzialmente due: il ruolo del Consiglio generale e l’importanza della lotta politica per la conquista del potere da parte della classe operaia. Su questi due punti Marx ed Engels potevano contare sul sostegno dei blanquisti (che a modo loro erano favorevoli sia all’attività politica che alla centralizzazione) e riuscirono ad ottenere una maggioranza grazie ai delegati tedeschi e francesi, sconfiggendo la coalizione tra bakuninisti e tradunionisti. Il congresso inoltre, accertata l’attività clandestina e cospiratoria dell’Alleanza anarchica tra le fila dell’Internazionale, votò per l’espulsione di Bakunin.

La fine dell’Internazionale

Prendendo atto del fatto che oramai in Europa la base di sostegno all’Internazionale si era ristretta a causa delle persecuzioni poliziesche, al congresso di Basilea Engels propose di trasferire la sede del Consiglio generale da Londra a New York, nella speranza che il giovane movimento operaio americano in ascesa potesse rigenerare l’Internazionale, facendola uscire dalle secche in cui l’avevano condotta le diatribe interne del vecchio continente. Marx ed Engels temevano anche che, se il Consiglio generale fosse rimasto in Europa, sarebbe caduto nelle mani dei blanquisti, che così avrebbero potuto utilizzare il nome dell’Internazionale per portare avanti avventure e colpi di mano minoritari che avrebbero avuto effetti devastanti per il movimento operaio nel contesto europeo di reazione trionfante.

La proposta di Engels passò di misura nonostante l’opposizione accanita dei blanquisti e il Consiglio generale si trasferì effettivamente a New York, ma la rigenerazione auspicata non ci fu. L’Internazionale subì una serie di scissioni: prima i bakuninisti, poi l’intera sezione britannica guidata da Hales e infine anche i blanquisti francesi. I tedeschi rimasero fedeli, ma erano impegnati nel tentativo di costruzione di un partito operaio unificato in Germania e prestavano scarsa attenzione alle questioni internazionali. L’Internazionale era quindi entrata in una fase di agonia. Ci fu un ultimo congresso a Ginevra nel 1873, al quale però parteciparono solo delegati dalla Svizzera: l’Associazione non aveva nemmeno il denaro necessario a far venire i membri del Consiglio generale da New York. Il congresso di Ginevra rappresentò il certificato di morte per la Prima Internazionale, che pochi anni dopo, nel 1876, si sciolse anche formalmente.

La Prima Internazionale fu quindi un fallimento? No, fu soprattutto un tentativo generoso e pioneristico di dare un’organizzazione, un programma e una politica indipendente alla classe operaia a livello mondiale. All’epoca però le organizzazioni operaie non erano ancora mature e di conseguenza l’Internazionale poteva contare su forze limitate, era politicamente eterogenea e organizzativamente debole. Da una parte l’ondata di reazione dopo la sconfitta della Comune e dall’altra i complotti interni degli anarchici fecero emergere tutte le debolezze dell’Internazionale, che non riuscì a sopravvivere alla sfida.

Rimase però il contributo politico di Marx ed Engels, che avevano fatto prevalere il socialismo scientifico su tutte le altre tendenze politiche e avevano gettato le basi teoriche per ricostruire dalle macerie della Prima Internazionale. Sulla base di queste fondamenta si formarono partiti operai in tutti i principali paesi europei, che nel giro di pochi anni avrebbero ridato vita all’Internazionale ma ad un livello più alto. Nel 1889 venne fondata la Seconda Internazionale, che al di là della sua successiva degenerazione, inizialmente rappresentò un enorme passo in avanti, in quanto era composta da partiti operai di massa, politicamente omogenei e influenzati dal marxismo.

Ancora oggi, a più di 150 anni dalla nascita della Prima Internazionale e nel mezzo della peggiore crisi della storia del capitalismo, è necessario richiamarsi alle punte più alte della tradizione rivoluzionaria e al patrimonio teorico del marxismo per chiunque voglia fornire una prospettiva di emancipazione alla classe lavoratrice del XXI secolo.

 

Note

1. Karl Marx, Salario, prezzo, profitto, Milano, AC Editoriale, 2013, p. 111.

2. Karl Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, Roma, Editori riuniti, 1991, p. 19.

3. Karl Marx, La guerra civile in Francia, Roma, Editori riuniti, 1990, pag. 31.

4. Friedrich Engels, L’Internazionale e gli anarchici, Roma, Editori riuniti, 1975, pp. 94-95.

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