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Mario Mieli e il FUORI. Tra rivoluzione e interclassismo, la parabola del movimento omosessuale italiano negli anni ’70

L’articolo che qui pubblichiamo si basa sulla prima discussione del seminario “Marxismo, famiglia e questione LGBT” (Modena, 12 novembre 2022), che approfondiva la storia del movimento omosessuale italiano dimostrando come storicamente non sia mai stato del tutto separato dal movimento operaio e dalle idee rivoluzionarie. Nel descrivere come abbia avuto luogo questo incontro, e perché questo sia stato in ultima analisi infruttuoso, l’articolo spiega come il marxismo sia uno strumento indispensabile per lo sviluppo in senso rivoluzionario del movimento LGBT.

 

di Federico Picerni e Filippo Boni

 

Origini e nascita del FUORI

Nell’ormai storica notte del 28 giugno 1969 la polizia compie una retata nello Stonewall Inn, un bar gay di New York. Le retate di per sé non erano una novità, facevano parte dei quotidiani soprusi della polizia contro le persone non eterosessuali, ma la novità è che questa volta c’è una reazione, una resistenza, da cui scaturisce una battaglia che dura due giorni. I moti di Stonewall producono un vero e proprio terremoto politico: si comincia a parlare di orgoglio gay rispetto alla precedente strategia dell’“accettazione” della non-normalità, ma soprattutto si passa allo scontro frontale con lo Stato e il capitalismo. Il poeta Allen Ginsberg pare abbia affermato che con quella battaglia i gay avevano perso lo “sguardo ferito” di prima ed erano passati a rivendicare con orgoglio la propria identità e la propria opposizione al sistema di oppressione che la negava. È infatti a questi moti che ci si riferisce nello slogan, che ha ripreso a circolare in diversi pride anche in Italia, “the first Pride was a riot”, o “la prima volta fu rivolta”.

Ne nasce il Gay Liberation Front, che segna una vera e propria virata verso posizioni rivoluzionarie, per quanto spesso confuse. A livello rivendicativo, il GLF non si limita a combattere le discriminazioni e la violenza poliziesca, ma si pone su un piano conflittuale contro la società capitalista in generale. Parte delle attività del GLF consiste nell’apertura di centri di accoglienza per le persone omosessuali che vengono cacciate di casa e consulenza, anche legale, per combattere le discriminazioni subite sui posti di lavoro. Gli attivisti del GLF si dichiarano inoltre apertamente antirazzisti e antimperialisti, il che porterà a una collaborazione con le Pantere Nere, riconosciuta ufficialmente dal loro leader Huey Percy Newton tramite una lettera aperta dell’agosto 1970, dove critica aspramente le discriminazioni contro donne ed omosessuali e dichiara “una coalizione viva e attiva” tra i movimenti: “Dobbiamo trattare queste fazioni proprio come trattiamo qualsiasi altro gruppo o partito che proclama di essere rivoluzionario”1.

Non è da sottovalutare che lo Stonewall era un locale frequentato soprattutto da persone di estrazione popolare, compresi tanti afroamericani, latinoamericani, immigrati. Nonostante certe reinterpretazioni cinematografiche ammansite e posticce, a dare inizio alla rivolta pare fu una trans latinoamericana, Sylvia Rivera. La spinta alla mobilitazione veniva cioè dagli strati più bassi e proletari delle persone gay, lesbiche e trans, che infatti erano interessati non solo a conquistare più diritti civili, ma sentivano l’urgenza di migliorare anche la propria condizione materiale partecipando alla lotta di classe.

Naturalmente una parte fondamentale è giocata dal clima rivoluzionario, internazionalista e in generale di protesta che si respira in quegli anni. Anche grazie a questo afflato internazionalista l’influenza dei moti di Stonewall si riverbera su scala mondiale. Al GLF seguono nel 1971 il Frente de liberacion homosexual in Argentina (dopo l’espulsione dei suoi fondatori dal PC argentino di stampo stalinista) e il Front homosexuelle de liberation in Francia, che sarà fondamentale anche per il primo nucleo di attivisti italiani a Torino data la vicinanza della città ai compagni transalpini.

Sempre nel 1971 prende vita in Italia il FUORI, sigla che sta per Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano, e che gioca sulla necessità di far uscire fuori, allo scoperto, il proprio essere omosessuale (oggi diremmo coming out). A fare da scintilla è la risposta di un libraio torinese, Angelo Pezzana, alla recensione apparsa su La Stampa del libro di un sessuologo, Giacomo Dacquino, dal titolo L’infelice che ama la propria immagine, dove si afferma la natura patologica e narcisistica dell’omosessualità. All’inizio sono un centinaio di militanti divisi tra Torino, Milano e Roma con un giornale omonimo che tira 8mila copie.

La prima uscita pubblica del Fronte avviene il 5 aprile 1972 con la contestazione del congresso internazionale di sessuologia che si svolgeva a Sanremo, con l’eloquente denominazione di “Congresso sulle devianze sessuali”, dove venivano propagandate le “teorie riparative”. È la prima vera e propria manifestazione pubblica di un gruppo apertamente omosessuale. I cartelli contestano il concetto di “normalità” e rivendicano apertamente la libertà di identificarsi come omosessuali, con Pezzana che interviene al congresso dicendo: “Sono omosessuale e sono felice di esserlo”.

Questo atto segna la svolta più radicale e movimentistica dell’attivismo omosessuale, sino ad allora non del tutto assente, ma dominato dalle associazioni cosiddette omofile, nate perlopiù negli anni ’50, che non mettevano minimamente in discussione i ruoli di genere ma professavano una strategia orientata a conquistare rispettabilità nell’alta società borghese, causando il minor disturbo possibile. Queste posizioni saranno duramente criticate dal FUORI perché oltre a essere arrendevoli e innocue sono anche antiproletarie, in quanto i membri della classe operaia hanno ben poco tempo da perdere a supplicare la compassione dei borghesi benpensanti.

Il dibattito tra interclassismo e rapporto con il movimento operaio

Il FUORI nasce criticando esplicitamente la condizione di invisibilità e silenziamento degli omosessuali. Tra i capisaldi del suo programma troviamo la critica alla famiglia monogamica e la negazione dei ruoli sessuali e di genere; la critica alla patologizzazione dell’omosessualità e delle istituzioni psichiatriche che la mettono in atto; la necessità di stringere un legame con l’avanguardia rivoluzionaria e i gruppi femministi allora incipienti.

Da notare che nemmeno la classe operaia viene risparmiata da questa critica verso le discriminazioni a cui sono sottoposti gli omosessuali. Tuttavia fin dal primo momento c’è un tentativo di legarsi al movimento operaio e alle organizzazioni rivoluzionarie. Sul numero zero del Fuori! appare infatti un appello dal titolo “Ai compagni rivoluzionari”, in cui la rivoluzione sessuale viene proposta come parte integrante della rivoluzione sociale e politica:

Siamo convinti della necessità di una ‘Rivoluzione sessuale’ parallela e integrata nella rivoluzione politica che è in atto in tutti i paesi.”2

Su questa base l’appello si rivolge tanto al movimento rivoluzionario affinché abbandoni il “pregiudizio clerico-borghese” che opprime gli omosessuali, quanto a questi ultimi perché non cedano all’illusione “che l’unica possibilità di affrancamento sia quella di ‘conquistare la norma’ nella ‘vita pratica’, o una posizione di privilegio che li riscatti in un ambiente che fa finta di accettarli”, cioè sostanzialmente una posizione riformista che accetta i limiti imposti dalla società capitalista e borghese, anziché metterla in discussione nel suo complesso.

A portare avanti con maggior decisione e costanza questa posizione è Mario Mieli, uno dei principali dirigenti e teorici del FUORI. Nell’articolo “Per la critica della questione omosessuale”, per esempio, Mieli osserva che gli omosessuali stessi hanno un interesse diretto a partecipare alla lotta di classe per cambiare la società, perché la sola emancipazione politica (oggi diremmo i diritti civili) non basta, in quanto “si dilegua nei fatti, mentre resta codificata in leggi astratte”. Così si esprime Mieli:

Nei fatti la libertà che ci garantisce la legge è la libertà di essere degli esclusi, degli oppressi, dei repressi, dei derisi, degli oggetti di violenza morale e spesso fisica, degli isolati in un ghetto che, in Italia, è per giunta pericoloso e d’uno squallore evidente”3.

Mieli cerca di convincere il movimento omosessuale a riconoscere il nesso fra l’oppressione sessuale e gli interessi del capitalismo:

L’omosessuale che, conducendo quel processo critico che procede dall’apparenza della sua esistenza verso la scoperta della sua realtà sociale, riconosca con chiarezza nella famiglia, nella morale, nel fallocratismo [cioè il potere simbolico del pene come espressione di mascolinità, ndr], nell’oppressione della donna ecc., i principali negatori del suo diritto di esistere, gli assassini del suo essere omosessuale, è vicino all’individuare nelle strutture economiche del capitalismo la ragion d’essere delle sovrastrutture famiglia e morale… L’omosessuale diventa allora un rivoluzionario, riconoscendo nel proletariato… il veicolo dell’emancipazione dell’umanità intera”4.

Favorito dalla sua più robusta preparazione teorica, Mieli incarna quella tendenza del movimento omosessuale che, grazie anche all’influenza del clima politico di allora, istintivamente accosta l’oppressione di genere allo sfruttamento capitalistico. Lo spiega, per esempio, un articolo del 1971 di Domenico Tallone (alias Carlo Sismondi), “Gli stregoni del capitale”, dove sostanzialmente si mettono sullo stesso piano la scienza borghese, che fa passare per naturale la proprietà privata e i rapporti di produzione capitalistici, con la scienza medica borghese che patologizza l’omosessualità: sono due facce della stessa medaglia che dimostrano la necessità di lottare contro il capitalismo nel suo complesso per cambiare la società.5

Queste posizioni convivono con un’altra anima che propende invece molto di più verso l’interclassismo. Viene teorizzata l’idea secondo cui ad una repressione interclassista, cioè che riguarda tutte le persone omosessuali a prescindere dalla classe di appartenenza (già di per sé un’affermazione che andrebbe problematizzata), si debba rispondere con un’organizzazione interclassista.

Interprete di questa corrente è lo stesso Pezzana. Questi, nell’articolo “L’interclassismo omosessuale, forza rivoluzionaria?”, partendo da un problema reale, e cioè che per molti rivoluzionari di allora la questione della sessualità era un fatto personale indegno di un’adeguata analisi e azione politica, sostiene che gli omosessuali (nonché le donne) “non possono prendere coscienza dell’urgenza rivoluzionaria se prima non chiariscono a loro stessi/e la natura della propria oppressione”. Da ciò ne deduce che “è proprio dalla collaborazione di tutti gli omosessuali oppressi, a qualsiasi classe appartengono, che nasce il movimento di liberazione”, movimento che dovrebbe collocarsi in parallelo rispetto al movimento operaio.6

Come spesso accade in situazioni di radicalizzazione delle masse, quando le idee rivoluzionarie hanno il vento in poppa e anche chi propugna un programma riformista deve riformulare la propria fraseologia spostandola più a sinistra. Certamente è una contraddizione logica pensare che l’interclassismo possa servire a combattere il capitalismo, società basata sulla divisione in classi, ma anche questo riflette la confusione teorica del FUORI e l’estrema eterogeneità delle posizioni esistenti al suo interno. Al di là delle intenzioni dei protagonisti, la contraddizione si dimostra presto inaggirabile, come dimostra una presa di posizione del gruppo veneziano del FUORI in aperta polemica con l’interclassismo, dove si legge:

Siamo convinti innanzitutto che non sia più possibile parlare genericamente di ‘omosessuali’ perché si verrebbe ad ammettere automaticamente l’esistenza di una classe di persone accomunate da condizioni o da interessi. Niente di più lontano dalla realtà… Sappiamo infatti che sul fronte della liberazione degli omosessuali ci troveremo divisi nella misura in cui apparteniamo alla classe che detiene il potere o alla classe oppressa. Ci troveremo divisi infatti perché omosessuali che godono di tutti i privilegi della legge e delle istituzioni che sorreggono il nostro stato borghese non vogliono lottare con omosessuali proletari che lottano per l’abbattimento delle classi”7.

Il punto è proprio questo, e infatti gli errori teorici e pratici dell’interclassismo sono presto evidenti. Innanzitutto immaginare un movimento omosessuale che viaggia “in parallelo” rispetto alla lotta di classe anziché parteciparvi significa escludere gli omosessuali che fanno parte della classe lavoratrice dalla partecipazione diretta alle battaglie del movimento operaio. In secondo luogo è una soluzione in ultima analisi riformista, perché prefigura che la liberazione omosessuale possa avere luogo anche senza abbattere il capitalismo.

Si tratta di due risposte – quella rivoluzionaria, di rapporto con la lotta di classe, e quella interclassista-riformista – al compito posto davanti al movimento omosessuale, cioè di stabilire tanto sul piano teorico quanto su quello pratico il rapporto tra le proprie lotte più immediate, quelle contro le discriminazioni, la morale e l’oppressione di genere, e le strutture socio-economiche che le sottendono. Quella interclassista evidentemente riflette il pensiero della piccola borghesia che prende parte alle lotte degli anni ’60 e ’70 ma, pur impiegando una fraseologia rivoluzionaria, non si fa scrupoli ad abbandonare le classi subalterne una volta ottenuta più visibilità e “accettabilità”.

I limiti di una politica identitaria ante litteram

L’interclassismo rifletteva una forma di politica identitaria allora incipiente, già manifestatasi nel movimento femminista, per cui le questioni di genere erano prioritarie rispetto al discrimine di classe. È una tendenza spontanea dei movimenti dalla forte impronta identitaria, come quelli legati dall’oppressione sessuale. Subire discriminazioni sulla base del proprio genere od orientamento sessuale spinge istintivamente a identificarsi e associarsi con chi subisce la stessa oppressione.

C’è un fondo di verità nell’affermare che certi sprazzi di liberazione omosessuale sono conquistabili anche all’interno del capitalismo. Tuttavia decenni di politiche identitarie da parte del movimento dimostrano che le conquiste ottenute non solo non sono definitive, ma restano perlopiù confinate agli omosessuali delle classi dominanti o comunque abbienti e privilegiati, mentre per la massa sono sempre condizionate da mille ostacoli, cavilli, restrizioni di fatto, che ne svuotano buona parte del contenuto sostanziale.

Le persone LGBT delle classi subalterne hanno sicuramente da guadagnare dalla diffusione di un clima meno violento e discriminatorio, ma ne scoprono tutti i limiti se non vedono corrispondere anche un miglioramento delle proprie condizioni di vita e di lavoro.

È la realtà materiale a dimostrare quanto sia fondamentale la discriminante di classe. È solo sulla base dell’antagonismo di classe che è possibile stabilire chi sono gli amici e i nemici del movimento omosessuale, chiarire che un lavoratore salariato LGBT non può essere alleato di un padrone LGBT che trae profitto dal suo sfruttamento, e che i diritti civili non possono essere vissuti pienamente senza i diritti sociali.

Per inciso bisogna aggiungere che questa linea interclassista porta il movimento omosessuale a entrare in contraddizione persino con il movimento femminista di allora. Nonostante l’oppressione degli omosessuali e quella delle donne abbiano una origine comune (l’istituzione della famiglia monogamica come strumento di difesa e trasmissione

patrilineare della proprietà privata), questa forma di politica identitaria ante litteram impedì loro di vedere nella divisione in classi della società la fonte comune della loro oppressione, isolando ciascuna lotta.

Reciproche accuse sul piano identitario impediscono che si trovi una convergenza: le femministe accusano gli uomini gay di “fallocratismo”, il FUORI denuncia i pregiudizi delle femministe contro le donne lesbiche. Questa mutua ostilità porta al fallimento del congresso convocato il 15 ottobre 1972 per confrontarsi sulle divergenze.8 Chi di separatismo ferisce di separatismo perisce, a danno della lotta comune.

Un fattore cruciale che favorisce le posizioni interclassiste è la mancanza di un legame organico con il movimento operaio. Sin da subito il FUORI partecipa ai cortei del Primo Maggio e ad altre mobilitazioni sindacali o di massa, dove però registra la diffidenza, quando va bene, se non l’aperta ostilità della sinistra. Pensiamo che pure il manifesto censurò la parola “omosessuale” dal messaggio con cui il FUORI accompagnò la sua sottoscrizione al giornale all’atto della sua nascita.9 Ciò mette in estrema difficoltà gli operai omosessuali, in prima battuta, e il movimento nel suo complesso, allontanandolo progressivamente dalla lotta di classe. Queste contraddizioni peraltro emergono nelle interviste agli operai omosessuali che vengono pubblicate sul Fuori! Un dato interessante è che lo scoppio delle lotte favorisce l’unità d’azione permettendo di superare i pregiudizi omofobi che albergano anche nella classe operaia, ma a costo di mettere da parte la propria identità omosessuale10.

In effetti l’egemonia detenuta dallo stalinismo tanto a livello sindacale quanto in tante organizzazioni di sinistra o estrema sinistra non solo ostacola terribilmente l’incontro tra movimento operaio e movimento omosessuale, ma va anche a inficiare il rapporto di quest’ultimo con il socialismo in generale. Un testo influente e per molti versi avanzato come il “Manifesto omosessuale” di Carl Wittman del 1970, pubblicato da Red Butterfly, la “cellula marxista del GLF”, accompagna la sua netta critica del capitalismo con una altrettanto esplicita presa di distanza dal marxismo, perché “Sia i paesi capitalisti che quelli socialisti ci hanno trattato come persone sgradite”11. Il tema divisivo per eccellenza, anche all’interno del FUORI così come sul piano internazionale, è Cuba, con la discriminazione degli omosessuali da parte del regime12.

Il ragionevole disgusto verso lo stalinismo (compreso quello della burocrazia cubana) viene talvolta esteso al marxismo tutto. Una poesia che appare nel numero 0 è piuttosto emblematica di certi pregiudizi che circolano tuttora: essa cita tra i nemici Marx (“ignora il problema sessuale”), i marxisti (“l’omosessualità una malattia borghese-decadente”) e il proletariato (“si è autocreato il mito di uomo maschio, virile, burbero, dall’andamento ciondolante tipo Marlon Brando nel Fronte del Porto”). In un articolo del gruppo di Bologna, che critica un fascicolo del PCd’I (uno dei gruppi dell’estrema sinistra), La scuola nell’attuale fase dell’imperialismo, l’attacco a tutto spiano colpisce “feticci d’altri tempi: cazzo=barba=Marx-Lenin-Che Guevara”, plagiati dalla “loro concezione operaista e produttivista”.13 Questo nonostante tutto il collettivo redazionale, Pezzana compreso, si dichiari marxista e libertario14 – lasciando intendere anche una debolezza di analisi nella differenza tra marxismo-leninismo, da una parte, e stalinismo dall’altra, nonché una palese incapacità di darsi una linea coerente su questo punto.

Il marxismo è omofobo?

Qui vale la pena soffermarci su una critica che viene spesso rivolta a Marx ed Engels da parte di attivisti LGBT, cioè che i due sarebbero stati dei “produttivisti”, cioè interessati solo all’economia declassando tutte le altre questioni, come quella di genere, e addirittura omofobi. In questo, aggiungono, si troverebbe la radice profonda dei soprusi compiuti dallo stalinismo. È un po’ una riedizione della trita e ritrita nenia secondo cui il germe della degenerazione stalinista si troverebbe già nel bolscevismo se non addirittura nel pensiero di Marx. Ed è altrettanto falsa.

L’accusa di omofobia si aggrappa a un carteggio del 1869 nel quale Marx ed Engels si abbandonano a battute a sfondo omofobo commentando in forma privata i libri che erano stati inviati loro da Karl Heinrich Ulrichs, un autore omosessuale di metà Ottocento che aveva scritto sul tema15. Da marxisti che non hanno una visione fideistica o religiosa, sappiamo che questi giganti rivoluzionari, da uomini dell’Ottocento, non erano impermeabili a certi pregiudizi. Le cose vanno però viste nelle giuste proporzioni: uno scambio di lettere private non può certo rivaleggiare con un’opera monumentale come L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, dove, mettendo a nudo il rapporto della famiglia monogamica patriarcale con la nascita della società divisa in classi, Engels ha fornito gli strumenti teorici più forti, precisi e validi per analizzare le origini dell’oppressione patriarcale e di genere, e quindi combatterla.

Un esame storico più attento rivela che in realtà le organizzazioni che si rifacevano al marxismo erano attivamente impegnate nelle battaglie contro le oppressioni di genere prima degli anni ’30 del Novecento. Nella Russia sovietica l’omosessualità è depenalizzata già nel 1918, e nel 1925, nell’intervento dal titolo La rivoluzione sessuale in Russia, Batkis può affermare che:

La legislazione sovietica non fa differenza tra l’omosessualità e gli intercorsi cosiddetti ‘naturali’. Tutte le forme di intercorso sono trattate come questioni personali. La prosecuzione criminale viene implementata solo in casi di violenza, abuso o violazione dell’interesse altrui”16.

Non solo: nel 1898 i principali esponenti dell’allora socialdemocrazia tedesca, Bebel, Bernstein e Kautsky, sostennero l’appello di Magnus Hirschfeld e del Comitato scientifico-umanitario per l’abolizione del paragrafo 175 del Codice Penale, che penalizzava gli atti omosessuali. La questione fu ampiamente dibattuta negli ambienti spartachisti durante i moti rivoluzionari del 1918-1919 e nel 1929 l’abrogazione del famigerato paragrafo 175 passò grazie al voto dei deputati comunisti e socialdemocratici. Naturalmente, l’avvento del nazismo causò una brusca battuta d’arresto a tutto questo, almeno in Germania, dove bisognerà aspettare il 1969 (il 1968 nella DDR) per una parziale depenalizzazione giuridica dell’omosessualità.

Nel frattempo, tuttavia, la controrivoluzione burocratica dello stalinismo in URSS ebbe per effetto una reazione morale e bigotta, sintetizzata da Trotskij, nel capitolo 7 della Rivoluzione tradita, come “culto della famiglia”, che rifletteva “il bisogno, da parte della burocrazia, di una stabile gerarchia dei rapporti sociali e di una gioventù disciplinata da quaranta milioni di famiglie, che servano da punto d’appoggio all’autorità e al potere”17. Questa reazione, che poi avvelenò in generale tutti i partiti dell’allora Terza Internazionale, distrusse gli iniziali e proficui contatti tra le istanze omosessuali e il movimento operaio, lasciando così solo il movimento gay e favorendo al suo interno il prevalere dei metodi e idee borghesi e interclassiste.

Va però riconosciuto che diversi esponenti del FUORI, Mieli su tutti, non respingono il socialismo tout court ma hanno le idee molto più chiare sullo stalinismo. Infatti da parte del Fronte c’è anche una ricerca di contatto con la sinistra extraparlamentare e sulle pagine della rivista viene lungamente documentato un incontro avuto con rappresentanti dell’allora Quarta Internazionale e di Lotta Continua, largamente infruttuoso, anche per l’impreparazione di queste due organizzazioni.

La crisi finale del FUORI

Purtroppo però il cocktail di interclassismo e riformismo riesce ad imporsi nel movimento omosessuale per l’incapacità del settore più vicino al marxismo di cristallizzare una posizione di classe conseguente. Dall’altra parte, l’ostilità delle organizzazioni del movimento a partire dal PCI, ma non solo, ostacola ulteriormente quel chiarimento teorico che sarebbe stato necessario, contribuendo ad allontanare il FUORI da una prospettiva rivoluzionaria.

In mancanza della classe operaia gli omosessuali cercano rifugio tra le femministe e altri “esclusi”, soprattutto nel sottoproletariato, classe perlopiù informe e priva del potenziale rivoluzionario detenuto dalla classe operaia in virtù del suo collocamento nei rapporti di classe e nel modo di produzione capitalistico.

Una naturale conseguenza di ciò si manifesta nel 1974 con la decisione del FUORI, egemonizzato da Pezzana, di federarsi con il Partito Radicale. Ciò corona una collaborazione iniziata in realtà quasi fin da subito con la visita di Pannella alla libreria di Pezzana nel 1972, a margine del congresso radicale svoltosi a Torino, cui fa seguito la partecipazione a iniziative e mobilitazioni dei radicali, che tra l’altro ospitano il FUORI nelle loro sedi. Dal 1976 si decide di presentare candidati nelle liste del PR.

Per comprendere il contesto va ricordato che il Partito comunista già dal 1973 aveva formalizzato la strategia del “compromesso storico”, che si proponeva di arrivare a un governo assieme alla Democrazia cristiana e al Partito socialista “per evitare il rischio della svolta reazionaria”. Dopo i successi elettorali del PCI nel 1975-76 questa linea si concretizzò nell’appoggio esterno al governo Andreotti. Il compromesso storico implicava una netta rottura con la radicalizzazione di massa che aveva investito l’Italia dal 1968 in avanti, sul piano della lotta di classe (“politica dei sacrifici” e austerità), della politica internazionale (accettazione della NATO), ecc. Già nel 1974 la preoccupazione ossessiva dei dirigenti del PCI per il “dialogo con i cattolici” aveva determinato una posizione debolissima sul referendum per il divorzio, che fino all’ultimo il PCI tentò di evitare, conducendo poi una campagna molto timida che lasciò uno spazio enorme ai Radicali, che avevano fatto del diritto al divorzio e all’aborto la loro principale bandiera.

Fu in questo quadro che il Partito Radicale, in sostanziale alleanza coi socialisti guidati da Craxi, condusse una campagna per assorbire quadri e militanti dall’area dell’estrema sinistra e dei movimenti giovanili, già in fase di ripiegamento politico con il progressivo riflusso del movimento, soprattutto dopo il 1977. La traiettoria del FUORI si collocava quindi all’interno di questo processo.

Alla fine degli anni ’70 il riflusso dei movimenti giovanili si fa sentire anche sul FUORI. Pezzana dirà che “prendiamo atto della crisi dei movimenti spontanei”18; sempre Pezzana, oggi un uomo apertamente di destra, arriverà clamorosamente a negare che il FUORI abbia mai creduto veramente alla rivoluzione. Il VII congresso nel 1980 si riposiziona sulla questione del matrimonio egualitario e delle unioni civili. È una svolta significativa se si tiene conto che inizialmente il movimento omosessuale aveva risposto alla discriminazione nell’accesso al matrimonio criticando questa istituzione borghese: ora l’orizzonte strategico si sposta dalla lotta rivoluzionaria contro queste strutture sociali all’integrazione in esse delle persone LGBT. Non a caso a questo cambiamento programmatico corrisponde anche la svolta verso la creazione di circoli politici, culturali e ricreativi e il ritiro di molti attivisti. Sempre in quegli anni si afferma anche Arcigay, nata a Palermo in risposta al delitto di Giarre del 1980, che sposa una linea pienamente riformista.

Ormai in assoluta crisi identitaria, e nel pieno del trauma causato dall’epidemia di AIDS, il FUORI si scioglie nel 1982.

Mario Mieli

Poco prima Mario Mieli e i Collettivi omosessuali milanesi avevano rotto con il FUORI in disaccordo con la scelta di federarsi al Partito Radicale. Rimasero legati alla sinistra extraparlamentare, che però di lì a poco sarebbe a sua volta entrata in crisi.

Lo stesso Mieli si tolse la vita nel 1983.

Mieli rappresenta l’ala più di sinistra del FUORI, che non rinuncia alla prospettiva del comunismo e della rivoluzione. È anche quello con uno sguardo maggiormente internazionalista, essendosi peraltro avvicinato alla militanza con il Gay Liberation Front britannico, durante gli studi in Regno Unito. Complici però diverse circostanze, quali il riflusso dei movimenti, l’estraneità rispetto al movimento operaio e l’esposizione a teorie piccolo-borghesi, alla fine si allontana sempre più da una comprensione marxista della realtà, della lotta di classe, e financo del problema sessuale. Questo isolamento produce anzi un’assolutizzazione della propria condizione di oppressione, per cui la questione sessuale non viene più letta come una conseguenza delle diseguaglianze materiali della società divisa in classi, ma assunta come chiave di lettura generale della realtà nel suo complesso.

Il Mieli più maturo è quello di Elementi di critica omosessuale, il suo libro del 1977, tuttora citato in ambito militante e accademico. In esso si trovano diverse intuizioni interessanti, per esempio quando Mieli spiega che la violenza omofoba instillata dai padroni anche tra gli operai, i poveri e gli emarginati come valvola di sfogo per la loro oppressione, ha l’effetto di spingere le persone gay a cercare aiuto da parte dello Stato e delle sue forze di polizia, perpetuando lo stereotipo del gay borghese, riformista, se non reazionario. In questo Mieli scorge con precisione il rischio di cooptazione delle soggettività LGBT da parte del capitalismo una volta che la borghesia si sarebbe resa conto della possibilità di mercificarle “nell’industria del ghetto, nell’industria cinematografica, editoriale, dell’abbigliamento”19– oggi diremmo attraverso il rainbow-washing o il queer baiting –, che Mieli correttamente vedeva come l’antitesi dell’autentica liberazione, anche perché il prezzo è la “normalizzazione” delle persone LGBT secondo gli standard della morale borghese.

Tuttavia rispetto ai primi anni ’70 si vede consolidata, nella mente di Mieli, l’influenza di certe teorizzazioni di Freud e altri pensatori non marxisti o pseudo tali, come Marcuse, e in generale la Scuola di Francoforte. Questo si traduce in un’analisi che tende a vedere sempre più il solo aspetto simbolico, culturale, psicologico dell’oppressione sessuale, e a considerarlo prioritario rispetto alla realtà materiale (come farà, in forma compiuta, il postmodernismo). In particolare, gli Elementi identificano nella causa dell’oppressione omofobica la paura, da parte delle persone etero, dell’“omosessualità latente in loro”20, quindi una ragione psicologico-ideale e in ultima analisi individuale, non materiale e sociale.

La definitiva discesa di Mieli nell’idealismo filosofico si condensa nella sua teoria della “transessualità”, cioè “la disposizione erotica polimorfa e ‘indifferenziata’ infantile, che la società reprime e che, nella vita adulta, ogni esser umano reca in sé allo stato di latenza oppure confinata negli abissi dell’inconscio sotto il giogo della rimozione”21. Una specie di ermafroditismo originale dell’essere umano, che l’imposizione della “Norma” eterosessuale costringe entro rigide categorie – uomo, donna – producendo anche la divisione in orientamenti sessuali, prevalentemente verso l’uno o l’altra. Per Mieli, dunque, la “liberazione dell’eros” permetterà di superare i ruoli di genere e gli orientamenti sessuali “fissi”, ma anche la polarizzazione uomo/donna e quindi persino del sesso biologico, in quanto ciascun individuo riconoscerà in sé, “nel proprio corpo e nella mente, la presenza dell’‘altro’ sesso”22.

È evidente che la sessualità è una componente fondamentale della psiche, del carattere, della natura stessa di ciascun individuo. A loro volta i pregiudizi di genere, prodotti dalla divisione del lavoro nella società di classe, una volta che si sedimentano nella cultura e vengono così “naturalizzati” (trasformati cioè in ideologia, ossia falsa coscienza, secondo la definizione di Marx), giocano un ruolo fondamentale nello sviluppo della coscienza sessuale. Non è nemmeno da escludersi che, storicamente, la regolamentazione dei comportamenti sessuali abbia influito in maniera determinante sulla rigida divisione degli orientamenti sessuali che siamo abituati a conoscere ed esperire. Tuttavia, se adottiamo la prospettiva del materialismo dialettico, riconosciamo tutto questo come un effetto della divisione della società in classi, che ha portato con sé anche una graduale gerarchizzazione e stabilizzazione dei rapporti famigliari, non la sua causa. Inoltre, tanto su un piano filosofico quanto nell’analisi delle origini storiche dell’oppressione eteropatriarcale, non possiamo prescindere dalla materialità del corpo, e quindi del sesso biologico, naturalmente non come fatto immodificabile o di per sé motivo di oppressione. L’analisi marxista spiega infatti come non sia la naturale divisione del lavoro legata alle funzioni riproduttive della donna la causa della sua oppressione, ma che questa divisione ha assunto un carattere rigido e oppressivo in virtù della nascita della proprietà privata dei mezzi di produzione e della divisione in classi della società.

Mieli invece, pur continuando a rifarsi a Marx a parole, negli Elementi rifiuta questa visione. Rimasticando Freud, sostiene che la repressione sessuale – cioè la repressione della “transessualità” come la intende lui – è alla base del capitalismo perché soffoca le pulsioni erotiche sublimandole nel lavoro produttivo salariato:

 

il lavoro stesso, e quindi l’intera struttura economica della società, dipende dalla sublimazione dell’Eros. Alla base dell’economia, si cela la sessualità: l’Eros è sottostrutturale23.

 

A livello teorico è un ribaltamento del rapporto tra causa ed effetto: non è più la società di classe ad avere generato l’oppressione della donna e la conseguente morale familiare, inclusa l’oppressione sessuale, bensì il contrario, e l’oppressione sessuale diventerebbe concausa, se non addirittura causa primaria, dello sfruttamento.

Quella sessuale diventa insomma la contraddizione principale della società, da cui discendono tutte le altre, compresa quella di classe. Il lavoro stesso diventa frutto di una condizione psicologica (la sublimazione, deviazione e sottomissione della pulsione erotica) e non una necessità materiale per la sopravvivenza.

Persa la centralità della lotta di classe e quindi del proletariato nel processo rivoluzionario, quale unica classe in grado di bloccare la produzione e sabotare i profitti della borghesia, Mieli sposa la fascinazione dei post-strutturalisti per il “marginale” (a cui ascrive anche il proletariato, che però appunto non è marginale per niente). Categorie identitarie, come donne, omosessuali e neri (senza distinzione di classe), o persino politicamente amorfe, come i bambini e gli schizofrenici, vengono elette a soggetti rivoluzionari:

 

Nelle donne soggette al ‘potere’ maschile, nei proletari soggetti allo sfruttamento capitalistico, nella soggezione degli omosessuali alla Norma e in quella dei neri al razzismo dei bianchi, si riconoscono i soggetti storici concreti in grado di ribaltare i piani odierni della dialettica sociale, sessuale e razziale, per il conseguimento del ‘regno della libertà’. Non nelle personificazioni della cosa per eccellenza, e cioè del capitale e del fallo, noi riconosciamo la soggettività umana: bensì nella soggezione di donne, omosessuali, proletari, bambini, neri, ‘schizofrenici’, vecchi ecc. al potere che li sfrutta e reprime. La soggettività rivoluzionaria o potenzialmente rivoluzionaria si coglie nella soggezione24.

 

L’epilogo teorico del Mieli maturo è insomma all’insegna dell’idealismo filosofico e della confusione teorica, condita da svarioni deleuziani sulla schizofrenia come porta d’accesso al sapere rivoluzionario25. Come sempre, poi, a errori teorici seguono errori politici. Se infatti l’oppressione di genere viene assolutizzata come fonte di tutte le oppressioni, sul piano pratico e militante ne consegue un’anticipazione di politica identitaria radicale (in contraddizione, peraltro, con il Mieli precedente), attraverso una proposta di separatismo omosessuale:

“Liberare in sé, – dice – e non astrattamente nella società, il proprio desiderio gay, implica liberare la propria passione rivoluzionaria dalle catene repressive della politica. Non più politici, i veri rivoluzionari saranno amanti. Noi omosessuali coscienti non possiamo che trovare in noi stessi le forze per difenderci e per vivere in questa società omicida/omocida. Nessuna delega è più possibile”26.

Se da una parte qui si scorge la delusione cocente per le precedenti esperienze organizzative del movimento omosessuale, d’altro canto l’abbandono tout court del compito di darsi un’organizzazione politica e il ripiegamento su una prospettiva identitaria disinnesca il potenziale militante della lotta per il “gaio comunismo” proposta da Mieli. Semmai anticipa la fascinazione per le battaglie puramente simboliche e performative della moderna “teoria queer”.

Abbandonata la bussola del marxismo, anche per Mieli non restano altre strade che quella idealista sul piano teorico e identitaria su quello militante, sia pure in una forma più radicale e teoricamente sofisticata. È chiaro che questo vicolo cieco, accanto agli indubbi fattori soggettivi (in particolare un’assimilazione mai completa da parte di Mieli del materialismo dialettico), rispecchia la crisi del movimento omosessuale e l’isolamento prodotto dall’ostracismo delle burocrazie del movimento operaio e del PCI.

 

La questione sessuale in Italia: il ruolo del PCI e dei Radicali

La mancata sinergia delle lotte omosessuali con le mobilitazioni della classe lavoratrice in Italia nel corso di tutti gli anni ’70 è senz’altro da imputarsi anche alla mancata valorizzazione della questione omosessuale da parte delle organizzazioni operaie, in primis del Partito Comunista Italiano, che avviò un dibattito – seppur debole e insoddisfacente – su queste tematiche solamente a partire dal 1977, sulla base di spinte sia esterne, come l’attivismo militante di gruppi e collettivi omofili, sia interne, in particolar modo l’interesse per settori della sua federazione giovanile ad affrontare questa questione.

Il Partito Comunista Italiano aveva per decenni, sin dalla sua ricostituzione nel secondo Dopoguerra, subìto una duplice influenza negativa: mentre infatti da una parte agiva la tenaglia dello stalinismo, che tendeva a derubricare l’omosessualità come “vizio piccolo-borghese”27 e a promuoverne una penalizzazione28, dall’altra si verificava la tendenza conciliazionista coi partiti borghesi e con la Chiesa e, di conseguenza, l’assorbimento di alcuni retaggi culturali della morale dominante.

Le posizioni arretrate del PCI sulle questioni della morale sessuale si articolavano complessivamente nella difesa del modello della famiglia tradizionale, come dimostrato dalla duratura ostilità dei vertici del partito all’apertura sui temi di divorzio e aborto.

Già all’indomani della guerra, nel 1945, l’opuscolo La famiglia, il divorzio, l’amore esplicitava la contrarietà dei comunisti italiani al divorzio in quanto “la rivendicazione non è sentita dalla grande maggioranza delle donne del popolo”29 e, nei fatti, proponeva di impostare la linea politica del partito sui temi sessuali in aderenza alle convinzioni dei settori più arretrati non solo della classe lavoratrice ma dell’intero “popolo”.

Sulla stessa scia si colloca l’intervento del segretario Togliatti alla prima conferenza femminile del partito il 5 giugno dello stesso anno, secondo il quale, sul modello della Russia staliniana: “abbiamo bisogno di ricostruire e difendere l’unità familiare. Ed è per questo che dobbiamo essere contrari a porre qualsiasi problema che tenda a rompere o affievolire l’unità familiare”.30

Gli anni ’60 costituirono un primo timido momento di apertura del partito sulla questione del divorzio, sulla spinta di settori giovanili del partito: nonostante la contrarietà dei dirigenti storici, che lo ritenevano un’esigenza dei soli ceti medi, il PCI fu costretto ad elaborare proposte di riforma del diritto di famiglia. Questo fu possibile soprattutto per la pressione di settori di base del partito e sulla scia di un dibattito che stava scoppiando nella società: lo schieramento a favore della legge sul divorzio nel 1970 fu condizionato dal timore che socialisti e radicali, che nell’elaborazione su questi temi superavano a sinistra il Pci, erodessero un settore della propria base.

Il referendum sul divorzio del maggio 1974, la cui campagna fu condotta dai comunisti con scarsa convinzione, determinò una netta vittoria per i sostenitori della legge sul divorzio, cogliendo di sorpresa i comunisti, a dimostrazione della loro abissale distanza dalle masse italiane sui temi della famiglia e del costume.

Se fosse dipeso delle posizioni difese dai vertici del partito, senza la pressione delle masse, questioni come divorzio e aborto non sarebbero mai state poste. Ogni forma di libertà sessuale era moralisticamente associata all’influsso negativo del sistema capitalista, ritenuto responsabile di ogni tendenza libertina, edonistica o esterna alla morale sessuale tradizionale. È evidente dunque che la questione omosessuale costituiva quasi un tabù.

Neppure la grande stagione di lotta del biennio 1968-1969, che favorì un processo di profonda trasformazione dei costumi e di denuncia dell’etica dominante bigotta, fornì al più grande partito comunista d’Europa l’occasione per elaborare un ripensamento sui temi sessuali: ancora all’altezza del 1975 nei tanti articoli pubblici di denuncia dell’omicidio di Pier Paolo Pasolini il partito evitava anche solo di menzionare esplicitamente l’orientamento sessuale del compagno ammazzato.

La vicenda Pasolini costituì però una prima importante tappa nell’apertura di alcuni settori del partito e della sua giovanile, la Fgci, alla necessità di interessarsi all’oppressione vissuta dalla comunità omosessuale e di avviare un dialogo con le organizzazioni omofile: il settimanale Giorni diede alle stampe nel 1977 l’inserto “Diversi di tutto il mondo unitevi” nel quale denunciava la condizione di marginalità degli omosessuali in Italia e che fece da apripista ad una serie di contributi anonimi scritti da giovani militanti comunisti e omosessuali per alcune testate del partito come La città futura e Rinascita31.

Il PCI avviò le prime simboliche iniziative di dialogo col FUORI solamente nel 1979, quando le amministrazioni comunali comuniste di Torino e Roma si impegnarono a portare avanti iniziative di sensibilizzazione sui temi sessuali con gli esponenti locali del suddetto movimento omofilo, che avevo però negli anni immediatamente precedenti cementificato il proprio legame col Partito Radicale.

L’avvicinamento di settori di giovani e di attivisti al Partito Radicale non avveniva primariamente sulla base di un’adesione politica complessiva, ma era favorito dalla tendenza di questa formazione politica ad affrontare in modo esplicito i dibattiti sulle questioni sessuali e di genere.

I radicali, formazione liberale che non proponeva in alcun modo un punto di vista di classe, cercavano di cavalcare i grandi temi etico-sociali sui quali i comunisti assumevano posizioni più arretrate, come dimostrato dallo sfogo del giovane omosessuale Eugenio Manca sulle pagine dell’Unità del 26 giugno 1979:

 

I comunisti dei problemi sessuali continuano a non occuparsi. In Iran gli omosessuali li ammazzano? In Unione Sovietica li tengono in manicomio? in Italia gli fanno l’elettroshock? Niente, per le sinistre e come se non accadesse. I radicali non sanno dire molto ma almeno protestano, tirano fuori un cartello e gridano che non è giusto. Io voglio dire che tra i diritti civili, tra le libertà inalienabili di ciascuno deve esserci anche quella di vivere liberamente la propria sessualità”.

 

Il Partito Radicale, sin dalla sua genesi attento alla questione laica e al contrasto allo strapotere democristiano, era un partito liberale nato su basi anticomuniste e atlantiste: nelle lotte dei ’68-’69 i radicali avevano avuto un ruolo decisamente marginale, soprattutto per la loro incapacità di sviluppare parole d’ordine di classe e di intercettare la radicalità contro il sistema espressa da giovani e lavoratori, che ponevano la messa in discussione dell’intero sistema capitalista.

Nel corso degli anni ’70 i radicali avviarono una serie campagne come quelle per la legalizzazione delle droghe leggere e per l’abrogazione del reato d’aborto, aprendo le fila del partito a nuovi gruppi federati come il FRI (Fronte Rivoluzionario Invalidi), il FUORI e svariati altri.

Le rivendicazioni dei radicali sui diritti civili, pur dimostrandosi spesso più audaci di quelle timidamente avanzate dal PCI, avevano però un vincolo tassativo: la piena compatibilità col sistema capitalista e la divisione in classi della società.

Il prevalere dell’impostazione liberale della lotta per l’emancipazione, ancora oggi predominante nel dibattito sulle questioni di genere, ha avuto di conseguenza un ruolo nefasto per il movimento omosessuale e per il FUORI, che abbandonava così del tutto un punto di vista di classe e si avviava verso una lunga stagione di declino e arretramento. Il conseguente predominio dell’approccio introspettivo e dei metodi individualistici di emancipazione smorzarono tutto il potenziale di lotta che il movimento si proponeva alla sua nascita. Lo dimostrano bene anche le parole dello storico del Partito Radicale Gianfranco Spadaccia:

La parola rivoluzionario era allora di moda, anche il F.U.O.R.I. era nato nel 1972 come Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano, ma al momento dell’adesione al Partito Radicale abbandonò gli iniziali richiami al marxismo e fece cadere le interpunzioni, ritenendo che bastasse la parola FUORI (‘fuori’ dalla clandestinità, dalla vergogna, dal disprezzo, dalla necessità di nascondersi per portare allo scoperto la propria diversità: questa diventava la vera rivoluzione)”32.

La responsabilità delle derive controrivoluzionarie alle quali il FUORI andò incontro sono indubbiamente da imputarsi a svariati fattori, in primis l’incapacità dei propri dirigenti di assumere nel profondo un punto di vista realmente anticapitalista e l’influenza nefasta giocata dai radicali che depotenziò connotati e parole d’ordine del movimento, ma un ruolo decisivo fu giocato anche dalla condotta del Partito Comunista Italiano che, impregnato dalle più arretrate concezioni staliniane e interessato ad una linea politica di compromesso con Chiesa e borghesia, non fu in grado di articolare in modo adeguato né tempestivo una piattaforma rivendicativa sui temi dell’emancipazione omosessuale e non ha voluto connettersi al potenziale espresso dal FUORI e dai settori più avanzati delle lotte per i diritti civili.

 

Marxismo e questione LGBT

Nonostante tutti i suoi limiti e il guazzabuglio teorico da cui non riuscì mai a districarsi, il FUORI ha dato non solo un apporto fondamentale all’affermazione delle lotte LGBT, ma ci ha anche lasciato un esempio concreto delle potenzialità insite nel rapporto tra il movimento LGBT e la prospettiva rivoluzionaria anticapitalista. La perdita di questi punti di riferimento, con la crisi del FUORI, e il mancato incontro con il movimento operaio, hanno fatto fare dei notevoli passi indietro all’elaborazione teorica del movimento omosessuale, che si possono sintetizzare nell’avvento delle politiche identitarie.

È chiaro che l’oppressione di genere ricade in modo molto diverso sulle diverse classi nella società. In questo senso agganciare le rivendicazioni per la parità nei diritti civili alla lotta per diritti sociali basilari (salario, casa, sanità, ecc.) rafforza enormemente tutte le persone LGBT creando le basi per una maggiore indipendenza economica e dando maggiore possibilità di difendersi dalla violenza omotransfobica in famiglia, sul posto di lavoro, nella  società. Ma il legame tra la lotta contro l’oppressione e la lotta di classe va ben oltre questo terreno immediato. L’oppressione di genere in tutte le sue forme potrà essere definitivamente sconfitta solo quando i rapporti familiari, sentimentali, personali, saranno liberati dalle catene imposte dal profitto, dalla proprietà privata e dalla società di classe. Non a caso fin dal Manifesto del partito comunista il marxismo ha dichiarato guerra non solo alla proprietà borghese, ma anche alla famiglia borghese.

I limiti del FUORI ci ricordano anche quanto sia fondamentale avere un’impostazione teorica chiara e corretta per poter analizzare le radici dell’oppressione e produrre un programma veramente in grado di combatterle ed estirparle, pena la paralisi organizzativa o il ripiegamento in politiche identitarie che dividono le lotte anziché unirle.

Per questi motivi riteniamo che il marxismo abbia ancora un contributo fondamentale da offrire all’avanzamento delle lotte LGBT, in quanto è l’unico strumento adatto ad analizzare, criticare e combattere la società capitalista. Il marxismo ci insegna a partire sempre dalle condizioni materiali dello sfruttamento per capire che la subordinazione della donna e l’esclusione delle sessualità non conformi nascono con la divisione e allo sfruttamento del lavoro nella società divisa in classi e sono funzionali ad essa. Chiaramente poi tutto questo viene assorbito nella cultura e produce in tutta la società e in tutte le classi pregiudizi difficilissimi da sradicare e contro i quali è necessario essere inflessibili, anche all’interno del movimento operaio e nell’organizzazione rivoluzionaria. Tuttavia identificare nel capitalismo la causa primaria delle oppressioni è essenziale per capire perché la classe lavoratrice resta il soggetto rivoluzionario per eccellenza, l’unica in grado di bloccare la produzione, espropriare la borghesia e prendere il controllo della società.

Questo non significa, come ci accusano spesso gli antimarxisti, rimandare a un secondo momento la lotta contro le discriminazioni, ma piuttosto concepire quest’ultima come parte integrante della lotta di classe. Al contrario, settorializzare la lotta significa depotenziarla, riducendola a conquiste parziali o a battaglie perlopiù simboliche (per esempio sul piano linguistico), che mettono sì in discussione le diverse forme di oppressione, ma non sono in grado di rovesciarle, perché sono legate a doppio filo ai rapporti di classe.

Questa è la proposta che facciamo noi anche al movimento LGBT in questa fase di crisi del capitalismo, di risveglio rivoluzionario, e di attacchi reazionari da parte del governo. L’esperienza storica di questo movimento che oggi abbiamo provato a inquadrare secondo un’analisi marxista dimostra il grande potenziale che c’è nel suo incontro con la classe lavoratrice. La bancarotta dello stalinismo toglie di mezzo un grosso ostacolo affinché questo possa oggi realizzarsi su un piano più proficuo e conseguente. È compito dei marxisti lavorare all’interno del movimento per legarlo alla lotta di classe e al movimento operaio. Solo così potrà sprigionare appieno tutto il suo potenziale rivoluzionario e, per usare le ultime parole di Trotskij, contribuire a liberarci finalmente “da ogni male, oppressione e violenza”.

 

Note

1 Huey P. Newton, “Lettera di Huey alle sorelle e ai fratelli rivoluzionari”, in I movimenti omosessuali di liberazione, a cura di Mariasilvia Spolato, Asterisco Edizioni, p. 86

2 “Ai compagni rivoluzionari”, in I movimenti omosessuali di liberazione, cit., pp. 162-63

3 Mario Mieli, “Per la critica della questione omosessuale”, in La gaia critica, Feltrinelli, p. 36

4 Ibidem, p. 40

5 Domenico Tallone, “Gli stregoni del capitale”, Fuori! n. 1, giugno 1972, p. 7

6 Angelo Pezzana, “L’interclassismo omosessuale, forza rivoluzionaria?”, Fuori! n. 5, novembre 1972, p. 1

7 Fuori! n. 5, novembre 1972, p. 15

8 “Processo alla società maschile – Milano – Incontro-scontro tra femministe e omosessuali”, Fuori! n. 5, novembre 1972, pp. 2-3

9 “Angelo Pezzana: un autoritratto”, intervista di Giorgio Umberto Bozzo, in Fuori! Fuori! Fuori! 1971-2021: 50 anni dalla fondazione del primo movimento omosessuale in Italia, a cura di Roberto Matroianni e Chiara Miranda, hopefulmonster editore, p. 123

10 “Sono un operaio omosessuale”, Fuori! n. 6, dicembre 1972, pp. 5-6

11 Carl Wittman, “Il manifesto omosessuale”, in I movimenti omosessuali di liberazione, cit., p. 57

12 Le politiche attivamente omofobe (campi di lavoro, retate, persecuzioni) rimasero in vigore fino alla metà degli anni ’70. Solo con la fine del cosiddetto “quinquennio grigio” (1971-75), che indica il periodo di massima identificazione del regime cubano con quello di Mosca, sarebbe iniziata una svolta. Ma si dovette attendere il 1979 per vedere depenalizzata l’omosessualità. Successivamente la legislazione cubana ha visto una drastica svolta, con il riconoscimento dei diritti delle coppie omosessuali compreso il diritto di adozione.

13 Mauro Bertocchi, “Sulla politica della liberazione”, Fuori! n. 11, inverno 1973, p. 4

14 Collettivo redazionale, “Quale giornale?”, Fuori! n. 7, gennaio-febbraio 1973, p. 5

15 Le espressioni incriminate fanno parte di un carteggio in cui Marx ed Engels commentano non le teorie di Ulrichs sull’omosessualità, ma nello specifico un suo testo, Incubus, in cui pare avanzare una ambigua difesa rispetto a due macabri casi di cronaca nera, associando omosessualità, pedofilia e propensione a crimini cruenti.

16 Grigory Batkis, “The Sexual Revolution in Russia”, https://www.marxist.com/the-sexual-revolution-in-russia.htm

17 Lev Trotskij, La rivoluzione tradita, AC Editoriale, p. 211

18 “Angelo Pezzana: un autoritratto”, intervista di Giorgio Umberto Bozzo, in Fuori! Fuori! Fuori!, cit., p. 129

19 Mario Mieli, Elementi di critica omosessuale, Feltrinelli, p. 121

20 Ibidem, p. 136

21 Ibidem, p. 19

22 Ibidem, p. 20

23 Ibidem, p. 219

24 Ibidem, p. 239

25 Ibidem, p. 108

26 Ibidem, p. 173

27 Ancora all’altezza del 1967 un celebre studio di carattere sociologico dello psichiatra Klaus Dörner sosteneva che il sesso omoerotico fosse una tendenza tipica non delle classi subalterne bensì della classe media.

28 In seguito alla vittoria della linea di Stalin al XVIII congressi del Pcus, difesa dapprima come misura per incrementare le nascite, fu promossa una linea contraria alla precedente depenalizzazione bolscevica dell’omosessualità: col decreto Kalinin si arrivò addirittura a penalizzare quest’ultima come “crimine sociale” punito con la reclusione. Per approfondire la svolta omofoba dello stalinismo si rimanda all’articolo di Fred Weston, Dall’emancipazione alla criminalizzazione: la persecuzione stalinista degli omosessuali a partire dal 1934 (https://www.marxismo.net/index.php/teoria-e-prassi/storia-delle-rivoluzioni/382-dall-emancipazione-alla-criminalizzazione-la-persecuzione-stalinista-degli-omosessuali-a-partire-dal-1934). Il rilancio della “moralità sovietica” si servì talvolta, nella sua propaganda interna, anche della associazione tra diffusione dell’omosessualità e fascismo europeo (vd. Maksim Gorki, Umanesimo proletario, “Pravda”, 23-05-1934)

29 Rita Montagnana, La famiglia, il divorzio, l’amore, editrice L’Unità, Roma 1945, pp. 3-4.

30 Palmiro Togliatti, Discorso alle donne alla conferenza femminile del PCI (2-5 giugno 1945), editrice L’Unità, Roma 1945.

31 Seppure queste lettere e questi articoli non produssero l’elaborazione di una nuova linea del partito su questi temi, si arrivò a denunciare come la disattenzione verso i problemi degli omosessuali costituisse un colpevole “vuoto che riguarda anche la sinistra” (“Rinascita” 27 luglio 1979).

32 Gianfanco Spadaccia, Il Partito Radicale. Sessant’anni di lotta tra memoria e storia, Sellerio 2021, p. 236.

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