Quando c’erano i briganti. Ascesa e repressione del brigantaggio post-unitario (1860-1870)
9 Marzo 2017
Antieuropeisti o anticapitalisti?
10 Marzo 2017
Quando c’erano i briganti. Ascesa e repressione del brigantaggio post-unitario (1860-1870)
9 Marzo 2017
Antieuropeisti o anticapitalisti?
10 Marzo 2017
Mostra tutto

L’Ottobre e l’arte

di Franco Bavila e Antonio Erpice

 

La rivoluzione d’ottobre diede un impulso eccezionale allo sviluppo dell’arte in Russia. Già dal primo decennio del secolo erano emerse nel paese le prime correnti d’avanguardia, accomunate dal rifiuto dell’accademismo dell’arte tradizionale e caratterizzate dalla ricerca di nuove forme espressive.1 Con la creazione della repubblica dei soviet e l’inizio della costruzione di una nuova società, le avanguardie trovarono un terreno ideale per sperimentare nuove possibilità in ogni campo delle arti. Lo sviluppo dell’arte fu accompagnato da un’esplosione di associazioni e riviste, che sostenevano posizioni e tendenze diverse, spesso in lotta tra loro per conquistare l’egemonia nel campo culturale. “Un’appassionata ricerca del vero motivava questi artisti sovietici, e sebbene i risultati fossero spesso eterogenei, c’è, in tutti, una certa forma d’intrepida onestà ed integrità.2

Il fiorire impetuoso della produzione artistica e del dibattito intorno all’arte testimoniano lo sviluppo di un’epoca eccezionale, quella aperta dalla rivoluzione, che sarebbe durata, pur tra mille contraddizioni, per buona parte degli anni ’20, prima di essere stroncata dalla reazione stalinista.

La primavera delle avanguardie: futurismo e dintorni

L’atteggiamento dell’intelligentsia russa nei confronti del potere sovietico fu inizialmente, salvo poche eccezioni, di ostilità o diffidenza, quando non di vero e proprio boicottaggio. Gli intellettuali russi provenivano infatti in larga parte dalle classi sociali medio alte e in ogni caso il loro stile di vita li rendeva un corpo separato da quelle masse operaie e contadine che dopo l’Ottobre si erano ritrovate al vertice della società.

Parte delle personalità di spicco della cultura scelse la strada dell’emigrazione, come fu il caso del celebre pianista Rachmaninov. L’Unione degli artisti non riconobbe la legittimità del governo bolscevico, rifiutando ogni forma di collaborazione. Persino il maestro del realismo russo, il famoso scrittore Maksim Gorkij, che pure negli anni dell’esilio era stato per un certo periodo vicino a Lenin, in una prima fase si oppose al nuovo regime sovietico: il giornale di cui era direttore, la Novaja Zizn, criticò la politica dei bolscevichi sia prima che dopo l’insurrezione d’ottobre.

L’unico gruppo artistico che aderì con entusiasmo alla rivoluzione fu quello dei futuristi. Nei suoi scritti Trotskij fece un’analisi approfondita del movimento futurista, che si era sviluppato nei paesi europei più arretrati come la Russia e l’Italia (al riguardo Trotskij ebbe anche una corrispondenza con Gramsci) e che rifletteva sul terreno culturale quanto avveniva sul terreno materiale negli altri paesi più avanzati.

I futuristi propugnavano la rottura con la tradizione e la nascita di un’arte completamente nuova, un’arte che fosse essa stessa costruzione della vita, contro ogni visione contemplativa (definita con disprezzo “arte da cavalletto”). I futuristi lottavano contro il byt (la quotidianità), auspicavano la democratizzazione dell’arte e proclamavano la morte dell’artista inteso come individuo elitario al di sopra della società. Per loro la rivoluzione non era altro che la grande occasione per rivoluzionare le arti.

Gran parte degli scrittori, pittori, fotografi e registi futuristi durante la guerra civile collaborarono attivamente alle campagne di propaganda organizzate dal Partito bolscevico, realizzando manifesti, murales, fotomontaggi e cinegiornali che oltre a essere efficaci sul terreno dell’agitazione politica avevano un’apprezzabile qualità estetica (molte delle tecniche utilizzate in questo campo gettarono le basi per il successivo sviluppo della grafica moderna).

Dalle fila del futurismo provenivano molti dei migliori artisti russi degli anni ’20, primo fra tutti Majakovskij, che fu una delle figure più imponenti prodotte dalla rivoluzione, a cui aveva aderito con entusiasmo, tanto da rappresentare l’emblema stesso del poeta rivoluzionario. La sua grande popolarità, oltre che per il suo grande talento di poeta, derivava dall’aver incarnato le istanze rivoluzionarie, provando a dar vita a un’arte d’avanguardia orientata alle masse, organizzando, ad esempio, discussioni nelle fabbriche e nei quartieri operai, ma anche lavorando alla propaganda sovietica. Majakovskij voleva farla finita con il vecchiume della tradizione letteraria russa e introdusse nella poesia un nuovo linguaggio, che si basava sulla lingua parlata e faceva ricorso a numerosi neologismi, sperimentando così nuove forme al fine di distruggere l’estetica e il buon senso borghese.

Più di ogni altro gruppo, quello futurista sviluppò un approccio che tendeva a fondere i diversi campi dell’arte e dalla sua matrice sarebbero emerse correnti e tendenze diverse. Ad esempio il pittore Malevič, che era stato uno dei sottoscrittori del manifesto dei futuristi russi nel 1913, diede successivamente vita al “suprematismo”, che rifiutava il tradizionale modo di dipingere in maniera figurativa e lo sostituiva con forme geometriche e astratte. Di stile suprematista è il famoso quadro di El Lissitsky, Spezza i bianchi col cuneo rosso, un’opera di propaganda realizzata durante la guerra civile in cui l’Armata rossa è rappresentata come un triangolo rosso che penetra in un cerchio bianco simboleggiante le armate controrivoluzionarie.

Il movimento più importante degli anni ’20 nato in seno al futurismo fu però il costruttivismo, che rifiutava l’idea di un’arte puramente decorativa a favore di un’arte funzionale, diretta a scopi sociali e volta alla trasformazione rivoluzionaria. Per i costruttivisti la nuova arte doveva necessariamente utilizzare materiali nuovi, insoliti, mai utilizzati prima dagli artisti. Tatlin realizzò sculture astratte fatte di fogli di alluminio, di legno e di cavi ed elaborò il grandioso progetto per il “Monumento alla Terza Internazionale”, che non venne mai realizzato ma avrebbe dovuto essere una gigantesca torre a forma di spirale, alta 400 metri e fatta interamente di acciaio e vetro.

Tipica del costruttivismo era la contaminazione tra le diverse discipline artistiche. El Lissitsky per esempio trasferì i suoi interessi progressivamente dalla pittura all’architettura: dapprima creò i proun, opere a metà strada tra la pittura e l’architettura, e successivamente elaborò progetti architettonici per i cosiddetti “grattacieli orizzontali” (anch’essi mai realizzati). Un altro artista particolarmente polivalente fu Rodčenko, che si dedicò alla pittura, alla tecnica del fotomontaggio e al design ma fu soprattutto un fotografo: le sue fotografie ritraevano oggetti quotidiani e familiari, ma ritratti da angolazioni insolite e in situazioni inaspettate, affermando così l’esigenza di guardare alla vita in un modo nuovo.

In campo teatrale a incarnare l’energia sovversiva del futurismo fu Mejerchold, che ribaltò tutte le convenzioni del teatro tradizionale. Elaborò il metodo di recitazione della biomeccanica, per cui gli attori dovevano rinunciare a un’interpretazione realistica, basata sulla ricerca psicologica e sul processo di immedesimazione con il personaggio, per sostituirla con una recitazione astratta e stilizzata, fondata sul mimo, l’acrobazia e la danza. Nella concezione di Mejerchold l’attore non doveva più essere “prigioniero delle quinte”, ma diventare una sorta di saltimbanco che girava liberamente tra il pubblico e ne favoriva la partecipazione attiva allo spettacolo.

Dove lo sperimentalismo delle avanguardie produsse alcuni dei suoi frutti migliori fu nel cinema. I primi registi sovietici furono dei giganti nella storia del cinema mondiale, che trasformarono radicalmente il linguaggio cinematografico dell’epoca. I loro film erano in gran parte dedicati alle lotte operaie e agli avvenimenti rivoluzionari del recente passato: non c’erano personaggi individuali, ma ad essere protagoniste erano le stesse masse lavoratrici e spesso gli attori non erano professionisti. Queste pellicole non erano rivoluzionarie solo nei contenuti, ma anche nelle forme. Ejzenštejn e Pudovkin furono dei pionieri nella tecnica del montaggio, che posero a fondamento dell’arte cinematografica e utilizzarono per stimolare l’immaginazione dello spettatore. Ejzenštejn in particolare sviluppò il procedimento del “montaggio delle attrazioni”, costruito con sequenze di immagini frammentate, disordinate e contraddittorie che in qualche modo riflettevano il caos degli eventi rivoluzionari descritti nei suoi film. Il regista dalla concezione più ardita fu indubbiamente Dziga Vertov, che aveva teorizzato il cinema-verità, contrapponendo il documentario al cinema di fantasia e sostenendo che la ripresa fedele della realtà quotidiana fosse l’unica forma possibile di espressione artistica.

I compagni di strada

I futuristi però non furono gli unici artisti di valore attivi nei primi anni del regime bolscevico. Con il passare del tempo una serie di intellettuali, pur non essendo rivoluzionari o simpatizzanti dei bolscevichi, provarono a riorientarsi nel nuovo quadro politico, sostenendo la rivoluzione pur mantenendo le proprie specificità culturali. Trotskij li definì “compagni di strada letterari della rivoluzione” e proprio a loro dedicò una serie di riflessioni nella sua opera Letteratura e rivoluzione. Si trattava soprattutto di letterati che guardavano con nostalgia al passato della vecchia società contadina piuttosto che affrontare i problemi della costruzione della nuova società socialista; in alcuni casi ereditavano la tradizione delle correnti slavofile e populiste della precedente letteratura russa, ma il gruppo era eterogeneo. Tra i compagni di strada c’erano Boris Pilniak, caratterizzato per il suo stile eccessivo, barocco e “a tinte forti”; Vsevold Ivanov, Nikolaj Tichonov e tutti gli altri giovani scrittori di prosa riuniti nel circolo dei “Fratelli di Serapione”, che rivendicavano un’arte non impegnata politicamente e libera da rigidi parametri estetici; ma anche gli appartenenti alla scuola degli “immaginisti”, che rivendicavano il primato dell’immagine poetica in sé, indipendentemente dal suo significato. Il maggior esponente degli immaginisti era Esenin, il “poeta contadino”, che con la sua lirica “ha riflesso in sé lo spirito prerivoluzionario e rivoluzionario della gioventù contadina che dallo scuotimento del mondo di vita contadino è stata spinta all’insolenza e alla sfrenatezza.3

Tra i poeti che si schierarono apertamente dalla parte dei bolscevichi ci fu Aleksandr Blok, il più importante poeta simbolista russo. Per Blok la rivoluzione era una forza vitale primordiale, una grande istanza di rinnovamento che poteva spazzare via la vecchia Russia. Blok dedicherà alla rivoluzione l’opera I dodici, che gli varrà l’isolamento tra i suoi amici poeti e pesanti stroncature dal mondo della critica letteraria.

Oltre che nella letteratura, anche negli altri campi artistici ci furono artisti importanti, già affermati prima della rivoluzione, che accettarono di cooperare in qualche modo con il regime bolscevico: per esempio i famosi pittori Chagall (che andò a dirigere l’Istituto d’arte di Vitebsk) e Kandinskij (il padre dell’astrattismo, che per alcuni anni collaborò con il Commissariato del popolo all’istruzione), così come il celebre regista teatrale Stanislavskij (il cui teatro ricevette sovvenzioni statali dal governo bolscevico).

Successivamente alcuni dei compagni di strada divennero disillusi e alcuni apertamente ostili al regime sovietico, mentre altri accettarono di diventare poeti di corte sotto lo stalinismo. Più tragicamente alcuni degli artisti più sensibili non riuscirono a reggere di fronte all’asprezza dell’epoca di violenti conflitti in cui si erano venuti a trovare. Per esempio Blok smise di scrivere, si ammalò e morì prematuramente nel 1921, mentre Esenin dapprima si rifugiò in una vita privata disordinata e poi nel 1925 si suicidò. Ciò nonostante i “compagni di strada”, con tutte le loro contraddizioni e tutte le loro tribolazioni, furono l’espressione del cataclisma creato dalla rivoluzione in ambito culturale.

Il dibattito culturale

Sull’onda delle energie liberate dalla rivoluzione, non fu solo l’arte in sé a fiorire, ma si sviluppò anche un dibattito sull’arte molto ricco e appassionato. La formazione di scuole, associazioni e soprattutto riviste fu uno dei canali attraverso cui si espresse la vitalità culturale negli anni successivi alla rivoluzione.

A partire dalla guerra civile si diffuse quello che era una sorta di nuovo genere letterario, fatto di reportage e corrispondenze, che spesso coinvolgevano scrittori non professionisti (i cosiddetti “corrispondenti operai”).

I futuristi da parte loro pubblicarono diverse riviste, tra cui la più nota era Lef, organo dell’omonimo Fronte di sinistra delle arti, guidato da Majakovskij. Il principale centro di elaborazione del costruttivismo fu invece il Vchutemas, l’Istituto superiore di studi tecnico artistici: fu proprio in questo ambito che mosse i primi passi il design, concepito come la fusione tra arte e oggetti legati all’uso quotidiano.

Malevič successe a Chagall alla direzione dell’Istituto d’arte di Vitebsk, nel quale insegnava anche El Lissitsky, e con i suoi allievi fondò il gruppo suprematista Unovis. Mejerchold applicò le sue teorie sulla recitazione nel Feks, la “Fabbrica dell’attore eccentrico”. Ejzenštejn e Poduvkin, oltre che registi, furono anche teorici del cinema che scrissero numerosi testi e per tutta la loro carriera proseguirono la riflessione sull’utilizzo dei mezzi espressivi cinematografici: Ejzenštejn arrivò a teorizzare la possibilità di un montaggio intellettuale, con cui esporre sullo schermo concetti astratti come nei libri, e sognò di realizzare una trasposizione cinematografica del Capitale di Marx.

Tra le numerose riviste nate negli anni ’20 merita di essere citata Krasnaja nov che raggiunse una tiratura di 25mila copie ed era diretta dal critico Voronskij, un bolscevico di vecchia data. La rivista accoglieva scrittori di ispirazione diversa, da Majakovskij a Esenin; sulle sue pagine furono pubblicati i racconti de L’armata a cavallo di Isak Babel,4 il romanzo di fantascienza Aelita di A. Tolstoj5 e alcune delle opere di Pasternak.6

Infine, un ruolo importante fu giocato dal movimento degli scrittori proletari, inizialmente riuniti nella Vapp (Associazione panrussa degli scrittori proletari), che nel 1925 diventerà Rapp (Associazione degli scrittori proletari). Il miglior prodotto di questa scuola fu Demian Bednyj, considerato “il più grande poeta proletario”, che divenne molto famoso per le sue satire umoristiche, che attingevano al repertorio delle favole e delle canzoni popolari, oltre che per le sue celebrazioni del bolscevismo. Nel filone degli scrittori proletari si formarono diversi gruppi, attorno ad alcuni riviste come Kuznica (la Fucina), Oktjabr (Ottobre), e soprattutto Na Postu (Al posto di guardia), la più agguerrita delle riviste sostenitrici dell’arte e della cultura proletarie.

La politica bolscevica sull’arte

Il Commissariato del popolo per l’istruzione guidato da Anatolij Lunacharskij basò la sua politica sull’arte sostanzialmente su tre priorità:

– preservare il patrimonio artistico russo dalle distruzioni della guerra civile;

– rendere l’arte, che prima della rivoluzione era stata esclusivo appannaggio di ristrette élite, accessibile alle larghe masse di operai e contadini;

– aprire canali di confronto e dialogo con la vecchia intelligentsia artistica palesemente ostile.

Era completamente assente l’idea che in qualche modo il governo bolscevico potesse dirigere dall’alto la vita artistica del paese.

Lunacharskij aveva affidato numerosi incarichi pubblici ad esponenti futuristi: Majakovskij e il critico letterario Punin entrarono nel dipartimento artistico del Commissariato, l’Izo; la sezione dell’Izo di Pietrogrado era diretta da Tatlin, quella di Mosca da un altro pittore futurista, Sterenberg; il dipartimento teatrale, il Teo, venne invece affidato a Mejerchold; l’Izo di Pietrogrado pubblicava una rivista, Iskusstvo Kommuny (Arte della Comune), che vantava tra i suoi collaboratori Majakovskij, Sterenberg, Punin, Chagall e Malevič. I dipartimenti artistici del Commissariato del popolo all’istruzione erano dunque egemonizzati dai futuristi, ma questa non era una scelta politica di Lunacharskij: semplicemente i futuristi all’inizio erano stati gli unici artisti che avevano accettato di collaborare con lui.

I futuristi però abusarono della fiducia che Lunacharskij aveva concesso loro. Innanzitutto manifestarono una vera e propria furia iconoclasta contro tutte le precedenti tradizioni artistiche, rivendicando la distruzione e l’abbandono di tutta l’arte precedente alla rivoluzione, che ai loro occhi non era altro che vecchio ciarpame di cui sbarazzarsi come la rivoluzione si era sbarazzata della vecchia società. Lunacharskij si ritrovò così in una posizione piuttosto imbarazzante: da una parte si affannava a conservare l’eredità artistica russa e dall’altra uno degli organi ufficiali del suo Commissariato, la Iskusstvo Communy controllata dai futuristi, definiva quella stessa eredità come immondizia da bruciare.

Un altro problema era rappresentato dal fatto che i futuristi attaccavano violentemente tutte le altre tendenze artistiche e pretendevano di avere una sorta di monopolio in campo culturale. Il più scatenato in tal senso fu Mejerchold, che rivendicava un “Ottobre teatrale”, che prevedesse l’imposizione di repertori “rivoluzionari” alle compagnie teatrali e la nazionalizzazione di tutti i teatri privati.

Tra i bolscevichi a simpatizzare con le posizioni della sinistra futurista era Bucharin, che nei primi anni dopo la rivoluzione era il direttore della Pravda e capeggiava l’ala sinistra del partito. In un articolo intitolato La lotta contro i bianchi nell’arte, Bucharin faceva un parallelismo tra l’arte e lo Stato: come la classe operaia non aveva potuto utilizzare per i propri fini il vecchio Stato borghese, ma aveva dovuto spezzarlo e creare un nuovo Stato operaio, allo stesso modo non poteva limitarsi ad impossessarsi dell’arte borghese, ma doveva distruggerla e crearne una nuova. Su questo punto tuttavia Bucharin era in netta minoranza all’interno del partito. Il resto del gruppo dirigente non voleva distruggere le vecchie opere d’arte, ma metterle a disposizione delle masse per accrescerne il livello culturale. Soprattutto Lenin e Trotskij non erano disposti a far diventare il futurismo l’arte ufficiale di Stato. Lenin, che nei suoi gusti letterari era piuttosto conservatore e alle avanguardie preferiva i classici, criticò aspramente Lunacharskij per aver lasciato le celebrazioni del Primo maggio 1918 completamente nelle mani dei futuristi, che avevano colto l’occasione per mettere in scena le loro stravaganze trasformando la festa dei lavoratori in una grande presa in giro.7 Trotskij nei suoi scritti, pur riconoscendo i risultati da loro raggiunti (soprattutto nella poesia con la rivitalizzazione del linguaggio da parte di Majakovskij), evidenziò come lo spirito rivoluzionario dei futuristi fosse soprattutto ribellismo bohémien e individualismo intellettuale.

Il regime bolscevico dei primi anni si rifiutò di fornire l’appoggio governativo a un singolo gruppo artistico ma restò sempre imparziale e tollerante di fronte alle diverse tendenze artistiche in conflitto tra loro, garantendo a tutti la massima libertà di espressione. Lunacharskij difese l’autonomia e le tradizioni delle compagnie teatrali contro le sperimentazioni di Mejerchold, cooperò anche con intellettuali conservatori per salvaguardare collezioni d’arte o musei e, appena se ne presentava l’occasione, estendeva il suo appoggio agli artisti di altre tendenze. Quando Gorkij, dopo i primi mesi di opposizione, accettò di collaborare con il nuovo governo, Lunacharskij gli affidò la direzione di una casa editrice che aveva il compito di tradurre in russo e pubblicare i classici della letteratura europea. Gorkij entrò poi nel Lito, il dipartimento letterario del Commissariato, e lo stesso fece Blok.

Trotskij difese sempre i “compagni di strada” dagli attacchi che subivano: “Il campo dell’arte non è uno di quelli dove il partito è chiamato a impartire gli ordini. Esso può e deve salvaguardare, incoraggiare e solo indirettamente dirigere. Esso può e deve accordare il credito simbolico della sua fiducia ai vari gruppi artistici che aspirano sinceramente ad avvicinarsi di più alla rivoluzione, e così favorisce la riproduzione poetica della nuova realtà. E in ogni caso il partito non può mettersi e non si metterà sulle posizioni di un circolo letterario che lotti e concorra con altri circoli letterari.8

La cultura proletaria

Nel 1917 era nato il Proletkult, l’organizzazione per la cultura proletaria, che ebbe un ruolo importante nell’organizzazione della cultura, con la creazione di club, teatri, laboratori, periodici e case editrici. Non era un’associazione di scrittori o letterati, per la maggior parte era composto da operai autodidatti. Attraverso questa organizzazione centinaia di operai venivano coinvolti nell’elaborazione artistica. Dopo il 1920 il Proletkultarrivò a contare 400mila membri e quindici differenti giornali.

Ben presto però il Proletkult iniziò ad impiegare le sue energie per teorizzare la creazione di una “cultura proletaria”,9 e a pretendere pieni poteri in campo culturale, entrando in concorrenza con gli organismi del Commissariato di Lunacharskij. Nel gruppo dirigente del Proletkult erano per giunta affluiti numerosi intellettuali piccolo borghesi che, come disse Lenin, “hanno considerato gli istituti di insegnamento per gli operai e i contadini come il terreno più favorevole per le loro fantasticherie personali nel campo della filosofia e delle cultura […] e hanno servito roba stravagante e assurda come pura arte proletaria e cultura proletaria.10 Per Lenin si trattava di elaborazioni fantasiose che distoglievano il proletariato dallo studio e dall’assimilazione degli elementi culturali già acquisiti dalla società. Dal suo punto di vista il Proletkult doveva primariamente assolvere al compito di elevare il livello culturale della popolazione, essere un’organizzazione educativa di massa che doveva collaborare strettamente con il Commissariato del popolo all’istruzione.

Anche Trotskij condivideva questa opinione: “Ma se si rinuncia al termine di cultura proletaria, che fare del… proletkult? Accordiamoci allora nel dire che ‘proletkult’ significa diffusione della cultura tra il proletariato, cioè lotta tenace per l’elevamento del livello culturale della classe operaia. Davvero, il significato di proletkult non sarà diminuito di uno iota da questa interpretazione.”11

Lenin era preoccupato soprattutto per la presenza nella direzione del Proletkult di Bogdanov, che in precedenza era stato un membro del Partito bolscevico e, durante il riflusso seguito alla sconfitta della prima rivoluzione russa del 1905, aveva sviluppato idee filosofiche idealistiche, antidialettiche e per certi aspetti mistiche. Lenin aveva polemizzato contro Bogdanov nel suo libro Materialismo ed empiriocriticismo del 1909. All’epoca lo scontro nel partito si concluse con l’espulsione della frazione bogdanoviana, ma ora Lenin temeva che le idee antimarxiste di Bogdanov avessero ampia diffusione sotto le mentite spoglie della cultura proletaria.

Fu su queste basi che Lenin spinse per arrivare alla risoluzione del Comitato centrale del 1° dicembre 1920, conosciuta come Lettera sui Proletkult, in cui, oltre a sancire la subordinazione del Proletkult al Commissariato del popolo all’istruzione, si affermava con chiarezza che futuristi e bogdanovisti non avrebbero potuto arrogarsi il diritto di stabilire la natura e gli sviluppi della cultura proletaria.

Sul piano teorico fu soprattutto Trotskij a smontare la teoria schematica e superficiale della cultura e dell’arte proletarie contrapposte a quelle borghesi. Il punto di partenza della critica è che la dittatura del proletariato non è la società socialista, ma un periodo di transizione in cui le forze del proletariato erano concentrate nello scontro decisivo volto a conquistare il potere e a difenderlo: “La dittatura del proletariato non è l’organizzazione produttivo-culturale della nuova società, bensì l’ordine bellico-rivoluzionario che lotta per instaurare tale società.12

Una nuova cultura potrà emergere solo con l’affermazione del socialismo, non accentuando ma dissolvendo le caratteristiche di classe. “Se ne deve trarre la conclusione generale che la cultura proletaria non solo non c’è, ma neppure ci sarà; e non c’è veramente alcuna ragione di dolersene: il proletariato ha preso il potere proprio per farla finita con la cultura di classe e aprire la via a una cultura umana. Spesso ce ne dimentichiamo.13

Per Trotskij esiste “un’arte della rivoluzione”, che rispecchia le contraddizioni della fase di transizione e può contare su artisti di valore, ma questa non può essere scambiata per l’arte socialista. Pur riconoscendo l’importanza dei giornali murali o dei corrispondenti operai, Trotskij non li riteneva di per sé sufficienti a determinare una nuova arte proletaria, quando ancora non c’era stato uno sviluppo complessivo della cultura tra le masse.

Nel maggio del ’24 il Comitato centrale organizzò una riunione sulla letteratura dove la maggior parte dei dirigenti bolscevichi polemizzarono con il gruppo Na postu, che attaccava i “compagni di strada” ed incensava il ruolo degli scrittori proletari. La linea prevalente tra i bolscevichi fu di netta opposizione a questa concezione settaria che privilegiava l’appartenenza al partito e alle sue direttive all’effettivo valore artistico. Tanto più che le associazioni di scrittori proletari difendevano, dietro l’idea di una letteratura di classe, la promozione del loro circolo letterario attac-cando con arroganza chi era distante dalle loro posizioni. Secondo Trotskij il problema artistico non poteva essere trattato come un problema puramente politico: “Sì, l’arte va trattata come arte, la letteratura come letteratura, cioè come una sfera assolutamente specifica della creazione umana. Naturalmente noi abbiamo un criterio di classe anche nell’arte, ma questo criterio di classe va interpretato in senso artistico, cioè conformato alla peculiarità assolutamente specifica della creazione cui applichiamo il nostro criterio.14

La risoluzione finale difendeva la linea del partito rispetto ai “compagni di strada” e rilanciava l’investimento verso i corrispondenti operai e rurali al fine di far emergere da quelle fila nuovi giornalisti ma anche nuovi scrittori. Riaffermava inoltre il rifiuto del monopolio di qualsiasi gruppo. Ancora nel 1925, quando la battaglia di Stalin per prendere il controllo del partito era già ad uno stadio avanzato, il rifiuto del monopolio a qualsiasi tendenza e la libera competizione tra i diversi gruppi venne confermata in una risoluzione del Comitato centrale sulla politica del partito in campo letterario, ma questa linea sarebbe durata ancora per poco.

L’inverno staliniano

L’affermazione di Stalin al potere ebbe degli effetti decisivi anche sull’arte. La vitalità artistica degli anni ’20 cedette il passo al conformismo e alla subordinazione dell’espressione artistica alla celebrazione del leader sovietico. La teoria che si impose, dopo un’aspra battaglia volta a zittire qualsiasi voce autonoma, fu quella del realismo socialista.

Già sul finire degli anni ’20 l’Associazione degli scrittori proletari (Rapp) venne imposta alle altre tendenze, chiedendo a tutti gli scrittori di aderirvi, compresi i futuristi e i “compagni di strada”, in quanto associazione che meglio rifletteva la politica del partito. Allo stesso modo venne utilizzata l’Associazione degli artisti della Russia rivoluzionaria nel campo delle arti pittoriche. Le associazioni avevano lo scopo di eliminare il pluralismo ed essere meri strumenti di propaganda. La stessa Rapp venne sciolta assieme a tutte le altre organizzazioni con una risoluzione del partito del 23 aprile 1932. Al loro posto venne istituita l’Unione degli scrittori sovietici, completamente controllata dal partito.

La canonizzazione del realismo socialista avvenne nel congresso degli scrittori del 1934 ad opera di Zdanov, il potente burocrate stalinista incaricato di essere il gendarme delle arti. Il congresso si svolse all’insegna delle lodi a Stalin, guida in ogni campo, anche in quello artistico. Un ruolo decisivo venne tristemente giocato da Gorkij, utilizzato come padre nobile del realismo socialista e della nuova linea del partito.

Il realismo socialista doveva essere realista nella forma, e socialista nei contenuti. Ogni sperimentalismo era bollato come arte borghese e decadente e il risultato sarebbe stato un’arte appiattita e retorica al servizio della propaganda staliniana.

Nel 1932 venne allestita a Leningrado una mostra sui primi quindici anni dell’arte sovietica con lo scopo di dimostrare come i diversi artisti fossero giunti nei loro percorsi individuali a padroneggiare il realismo socialista. L’arte dell’avanguardia del comunismo di guerra fu “per ragioni di spazio” eliminata dal programma. La mostra venne replicata a Mosca e la censura fu ancora più netta.

Nei confronti degli artisti Stalin utilizzò l’arma delle pressioni e dei ricatti per poterli piegare e farli diventare docili esecutori dei propri ordini. Alcuni di questi cedettero per continuare il proprio lavoro, rinunciando alle proprie ricerche. Con altri venne usata la repressione più brutale.

Nell’architettura venne messa fine alle sperimentazioni costruttiviste e venne imposto lo stile grigio, pesante e omologato del “classicismo socialista”. In campo musicale Shostakovich e Prokofiev furono oggetto a più riprese di pesanti attacchi da parte di Zdanov contro le loro “perversioni formaliste” e sottoposti a censura.

Malevič si rassegnò a dipingere quadri figurativi, Tatlin si rifugiò nel disegno industriale, Rodchenko fu ridotto a fare foto alle parate e agli eventi sportivi, mentre El Lissitzky se la cavò meglio organizzando i padiglioni russi alle esposizioni internazionali. Ejzenstejn, sottoposto ad una critica sempre più serrata per le sue deviazioni intellettualistiche, fu costretto ad abbandonare i temi rivoluzionari dei suoi primi lavori e a circoscrivere le sue invenzioni formali in film di carattere storico-patriottico. Il controllo poliziesco del regime sull’arte ebbe conseguenze particolarmente pesanti sul cinema sovietico che, dopo essere stato per tanti anni tra i più influenti a livello mondiale, venne asfissiato fin quasi a scomparire: nel 1951 in tutta l’Urss vennero prodotti meno di dieci film.

Persino il “cantore della rivoluzione” Bednyj, dopo essere stato per anni un favorito di Stalin, venne espulso dal partito ed emarginato. Nel teatro il metodo Stanislaskij divenne il dogma indiscutibile, mentre Mejerchold fu arrestato e giustiziato durante le Grandi purghe degli anni ’30. Anche gli scrittori Pilniak e Babel e il critico Voronskij sarebbero morti nei gulag.

L’elenco degli scomparsi è lungo, ma probabilmente fu il suicidio di Majakovskij nel 1930, pochi mesi dopo la sua adesione alla Rapp, a rappresentare più di ogni altra cosa la manifestazione della fine di un’epoca eccezionale e l’aria soffocante propria della degenerazione staliniana.

 

Note

1. “Gli artisti rivoluzionari che emersero dall’Ottobre poterono basarsi su una tradizione molto ricca. C’era l’influenza dei cubisti francesi e dei futuristi italiani. Simbolisti, futuristi, costruttivisti, proletkult e una miriade di altre scuole competevano in uno stupefacente spiegamento di varietà artistiche. Anche prima della Rivoluzione la Russia era un focolaio di creazioni artistiche, sperimentazioni e avanguardismo. La strada era stata aperta dagli artisti prerivoluzionari russi come Valentin Serov, Mikhail Vrubel e Victor Borisov-Musatov, che avevano sperimentato nuove avvincenti forme d’arte.” (A. Woods, Il marxismo e l’arte, reperibile sul sito www.marxismo.net).
2. ibidem.
3. L. Trotskij, Letteratura e rivoluzione, Einaudi, Torino, 1973, p. 57.
4. Si trattava di racconti autobiografici sull’esperienza dell’autore nell’esercito rosso durante la guerra civile, con una descrizione molto realistica della guerra.
5. Aleksej Nikolaevič Tolstoj era un aristocratico che durante la guerra civile si era schierato con i bianchi ed era emigrato all’estero, per poi tornare in Russia nel 1923.
6. Boris Pasternak nel secondo dopoguerra sarebbe stato famoso per aver vinto il premio Nobel con il romanzo Il dottor Zivago ma all’epoca faceva parte dei circoli dei poeti futuristi.
7. Gli alberi attorno al Cremlino vennero pitturati con colori sgargianti e vernici indelebili, mentre vennero realizzati una serie di monumenti eccentrici: in uno Karl Marx veniva trasportato da 4 elefanti, in un altro Marx ed Engels erano seduti dentro a una piscina…
8. L. Trotskij,Letteratura e rivoluzione, cit., p. 193-194.
9.“L’idea di ‘arte proletaria’ era nata non in Russia, ma in Francia, dove nel 1913 Marcel Martinet pubblicò un articolo intitolato ‘L’art proletarien’ sulla rivista L’effort libre. Ancor prima di quest’articolo il vecchio anarchico Charles Albert aveva coniato l’espressione ‘arte proletaria’. Le origini di questo concetto risiedono dunque non nel marxismo ma nell’anarchismo e risentono di tutta l’unilateralità rozza e confusa caratteristica del pensiero anarchico in generale. Lo spirito rivoluzionario primitivo che sostiene che la classe lavoratrice debba distruggere tutte le vestigia della vecchia società di classe può avere ascendente sulle menti immature, ma manca di una qualsiasi reale base scientifica.” (A. Woods, Il marxismo e l’arte, cit.).
10. S. Fitzpatrick, Rivoluzione e cultura in Russia, Editori riuniti 1976, p. 130.
11. L. Trotskij, Letteratura e rivoluzione, cit., p. 183.
12. ibidem, p. 170.
13. ibidem, p. 166.
14. ibidem, p. 505.

Condividi sui social