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Lotta di classe e lotta ecologista – Per una critica della teoria della decrescita

di Massimiliana Piro

 

“La soluzione agli stringenti problemi del mondo si può trovare solo in un sistema controllato coscientemente da tutti. Il problema non è dei limiti intrinseci dello sviluppo, ma di un sistema di produzione sorpassato e anarchico che brucia vite e risorse, distrugge l’ambiente e impedisce che le potenzialità scientifiche e tecnologiche vengano completamente sviluppate.”
Alan Woods & Ted Grant

1. Premessa

2. Il pensiero di Marx ed Engels sulla natura

3. Il percorso del pensiero ecologista in Italia e la teoria della decrescita

4. Critiche alla teoria della decrescita

5. L’ecoefficacia ed i nuovi principi del ventunesimo secolo

6. Capitalismo ed ecologia

7. Una nuova prospettiva per l’industria italiana

8. Lotta politica e lotta ambientalista

9. Verso un piano energetico socialista

10. Proposte di transizione

1. Premessa

Il declino del capitalismo a cui abbiamo assistito nell’ultimo decennio, con il suo strascico di crescente disoccupazione,  povertà, sfruttamento, si è sempre più accompagnato al depauperamento delle risorse del pianeta, come è nella sua natura. La critica del saccheggio operato dal sistema nei confronti della Terra è così cresciuta, alimentata da movimenti e lotte che hanno provato a intervenire sulle decisioni politiche ed economiche internazionali. Ciò non ha però determinato alcun sostanziale cambiamento nel rapporto tra uomo e ambiente, come testimoniano i maldestri tentativi di giungere a un accordo sulla produzione mondiale di gas serra, conclusosi con una risoluzione, il noto COP 21, insufficiente e già nei fatti divenuta lettera morta a pochi anni dalla sua trionfalistica approvazione a Parigi. Se una parte della produzione è stata riconvertita per sfruttare fino in fondo le possibilità date da un nuovo settore produttivo, quello dell’economia verde, una parte maggioritaria del padronato mondiale ha ingaggiato una battaglia contro quella che ritiene una camicia di forza per l’accumulo di profitti. L’assenza di un punto di vista di classe e l’incomprensione dei meccanismi che muovono il sistema hanno così posto su fronti contrapposti quanti si sono battuti per la difesa dell’ambiente e della salute e chi ha dovuto difendere il proprio posto di lavoro e il proprio futuro, alimentando un conflitto che non può che risolversi in una sconfitta per tutti. Così gli operai dell’industria automobilistica e siderurgica, solo per fare due esempi, si sono trovati isolati da un lato da chi contestava queste produzioni per il devastante impatto che hanno sull’ambiente e ne chiedeva la fine, dall’altro hanno subito più degli altri i danni generati da una modalità di produzione anarchica e dannosa per la salute umana. Questo testo nasce dalla volontà di sparigliare il campo che vede contrapposti la difesa della salute e dell’ambiente da un lato, e quello del diritto al lavoro dall’altro, offrendo alcuni strumenti di analisi e avanzando alcune parole d’ordine programmatiche che possano unire chi si batte contro la devastazione ambientale e lo sfruttamento.

Il testo tenta di ripercorrere l’evoluzione del pensiero ecologico in Italia soffermandosi su una breve analisi della teoria di Latouche e dei suoi punti di debolezza per offrire poi alcuni spunti di riflessione sulle nuove acquisizioni in campo scientifico e tecnologico in ambito ambientale che consentono, a nostro avviso, di archiviare la teoria della decrescita, non solo come teoria reazionaria e funzionale al sistema economico capitalista, ma anche come teoria priva di validità scientifica.L’elaborazione di una visione marxista e di classe sulla questione ambientale può rappresentare in futuro un utile strumento di lotta per i lavoratori di tutto il mondo

2. Il pensiero di Marx ed Engels sulla natura

Nella riflessione marxiana l’ecologia non ha uno spazio autonomo. Vissuto in un’epoca in cui lo sviluppo industriale non aveva prodotto i danni di cui siamo oggi spettatori, il pensatore di Treviri non si era dovuto confrontare con i problemi posti dalle conseguenze che le produzioni industriali su vasta scala procurano all’ambiente. Ciò non vuol dire che egli non avesse maturato un suo giudizio sul rapporto tra uomo e natura nel quadro della produzione capitalistica e non avesse lasciato intuire possibili soluzioni per correggere le distorsioni che tale sistema produttivo generava in questo rapporto.  In particolare Marx ai suoi tempi si era dovuto confrontare con i primi disastri prodotti dallo sfruttamento incontrollato dei suoli agricoli, che, negli anni ’40 del XIX secolo, provocò un graduale isterilimento e una conseguente crisi agraria con il devastante corollario dell’ultima carestia che abbia colpito l’occidente. Ciò lo indusse a riflettere da un lato sui meccanismi di sfruttamento della natura da parte del sistema di produzione capitalistico, dall’altro sulla collocazione dell’uomo nella natura. Già nei Manoscritti economico-filosofici del ’44 la posizione dell’uomo rispetto alla natura fu intesa come rapporto di reciproca dipendenza, laddove si affermava:

«La natura è il corpo inorganico dell’uomo, precisamente la natura in quanto non è essa stessa corpo umano. Che l’uomo viva della natura vuol dire che la natura è il suo corpo, con cui deve stare in costante rapporto per non morire. Che la vita fisica e spirituale dell’uomo sia congiunta con la natura, non significa altro che la natura è congiunta con se stessa, perché l’uomo è una parte della natura».(1)

Il rapporto tra uomo e natura non è, però, individuale, nel senso che il primo vive appieno la seconda solo quando vive in società. Il capitalismo rompe questo equilibrio, dal momento che, appropriandosi delle ricchezze prodotte dall’uomo, le sottrae sia alla società che le ha prodotte e per le quali dovrebbero essere destinate, sia alla natura, grazie alla quale esse sono state prodotte. In altre parole, il capitalista fa suo il lavoro degli operai e le risorse impiegate nella produzione, generando uno squilibrio tra la società umana e l’ambiente in cui vive. L’obiettivo, che iniziava a delinearsi nella riflessione di Marx, era il comunismo, che, per il nostro discorso, «è la vera risoluzione dell’antagonismo tra la natura e l’uomo, tra l’uomo e l’uomo, la vera risoluzione della contesa tra l’esistenza e l’essenza, tra l’oggettivazione e l’autoaffermazione, tra la libertà e la necessità, tra l’individuo e la specie».(2)

Ma se l’uomo è sempre intervenuto, modificandola, sulla natura per produrre ciò di cui ha bisogno per vivere, le modalità con cui ciò avviene nell’epoca di produzione capitalista è assolutamente peculiare e ha conseguenze specifiche sull’eterno rapporto tra uomo e natura. Il primo problema è dato dall’assenza di pianificazione nel sistema produttivo. Il capitale bada alla sua riproduzione immediata: se una merce può riprodurre il capitale, non esistono vincoli di altra natura che ne possano impedire la produzione. Ciò ha una conseguenza decisiva nel rapporto tra uomo e natura, che Marx ed Engels, come si diceva, osservarono nel caso dello sfruttamento della terra. La ricerca del profitto immediato fu la causa di un ipersfruttamento della terra, che non teneva conto dei tempi di riproduzione naturale del suolo. Per dirlo con le parole di Marx, «il trattamento consapevole e razionale della terra come eterna proprietà comune, come condizione inalienabile di esistenza e di riproduzione della catena delle generazioni umane che si avvicendano, viene rimpiazzato dallo sfruttamento, dallo sperpero delle energie della terra».(3) Engels tornò più puntualmente su questo argomento nella Dialettica della Natura, dove concluse:

«In una società in cui i singoli capitalisti producono e scambiano solo per il profitto immediato, possono esser presi in considerazione solo i risultati più vicini, immediati. Il singolo industriale o commerciante è soddisfatto se vende la merce fabbricata o comprata con l’usuale profittarello e non lo preoccupa quello che in seguito accadrà alla merce o al compratore. Lo stesso si dica per gli effetti di tale attività sulla natura. Prendiamo il caso dei piantatori spagnoli a Cuba, che bruciarono completamente i boschi sui pendii e trovarono nella cenere concime sufficiente per una sola generazione di piante di caffè altamente remunerative. Cosa importava loro che dopo di ciò le piogge tropicali portassero via l’ormai indifeso humus e lasciassero dietro di sé solo nude rocce? Nell’attuale modo di produzione viene preso prevalentemente in considerazione, sia di fronte alla natura che di fronte alla società, solo il primo, più palpabile risultato».

Con questa affermazione i padri del socialismo scientifico fissavano alcuni punti fermi nell’elaborazione circa il rapporto tra uomo e natura. La ricchezza era il prodotto del lavoro e della natura, ma lo sfruttamento irrazionale della seconda da parte del primo nel sistema di produzione capitalista, non solo dimostrava la miopia di tale sistema, ma, alterando il rapporto tra uomo e ambiente, metteva a repentaglio la possibilità stessa di poter continuare a trarre dalla natura risorse indispensabili alla sua sopravvivenza. Ancora una volta il capitalismo si dimostrava un sistema che spingeva l’umanità verso il baratro della barbarie. Questo patrimonio teorico venne però offuscato da una visione unilaterale che lesse il pensiero marxista, esclusivamente in termini di lotta di classe e di sviluppo delle forze produttive, errore da cui lo stesso Marx aveva messo in guardia la nascente socialdemocrazia tedesca.(4) Anche in Italia questa parte della riflessione di Marx ed Engels è stata censurata, restituendo dei due l’immagine, falsa e stereotipata, dei sostenitori dell’industrializzazione senza limiti e dei nemici di ogni salvaguardia del nostro ecosistema.

3. Il percorso del pensiero ecologista in Italia e la teoria della decrescita

Alla fine dell ‘800 un’ansiosa rincorsa dei modelli di sviluppo d’oltralpe causò una furiosa smania, da parte degli amministratori pubblici, di costruzione di opere pubbliche, di estensione smisurata delle terre da mettere a coltura, e di sviluppo industriale. Tutto questo senza nessuna cura dell’impatto ambientale prodotto da un tale modello di crescita economica. La sensibilità nei confronti delle tematiche ambientali era, infatti, segnata allora da un forte patriottismo-nazionalismo (difesa del patrimonio artistico, del territorio, dei confini, etc.), che intendeva la difesa dell’ambiente esclusivamente in termini di tutela della tradizione paesaggistica  e culturale italiana. Un conservatorismo in termini di visione della natura da cui nacque la prima associazione ambientalista italiana: Italia Nostra.

Una prima politicizzazione del tema si verificò negli anni sessanta in risposta all’inquinamento dovuto al boom economico. Quel boom economico, totalmente basato su un’industrializzazione ‘deregolamentata’ e improntata su una logica del profitto del tutto incurante delle conseguenze per l’ambiente. Fu in questi anni che, a sinistra, al binomio fabbrica-lavoro che aveva condizionato, e avrebbe condizionato più che mai dopo Seveso, le posizioni del PCI e dei sindacati, si aggiunse la parola d’ordine della difesa della salute dei lavoratori. Come si dovesse collegare tutela dell’ambiente e della salute non veniva, però, detto chiaramente.

Gli anni del maggiore sviluppo della cultura politica ambientalista – a livello internazionale e, molto spesso solo di riflesso, in Italia – sono però quelli successivi e contestuali alla crisi petrolifera: dalla conferenza di Stoccolma sullo sviluppo umano (1972), alla pubblicazione del Rapporto sui limiti dello sviluppo a cura del Club di Roma, alla tragedia di Seveso (1976) fino al disastro di Cernobyl (1986), che nel nostro paese, ma anche altrove, segnò forse il momento culminante dell’ascolto e del seguito che il movimento avrebbe saputo conquistarsi.

Nel 1970 il discorso di Nixon sullo stato dell’Unione poneva per la prima volta l’ambiente al centro di un’azione di governo. In Italia sarà Amintore Fanfani a istituire al Senato, nel 1971, un Comitato di orientamento sui problemi dell’ecologia. Si parlerà, dunque, di ‘fanfecologismo’ modellato sull’esempio di Nixon: «siamo tutti sulla stessa astronave; la tecnologia riparerà i danni della passata imprevidenza; si lasci fare al timoniere». Un’ecologia di destra, dunque, che s’inserisce nel solco di uno sviluppo tecnologico a senso unico, che vede le modalità produttive del sistema capitalista come le uniche possibili e in cui l’ecologismo è funzionale al sistema. Nel ’73 veniva istituito in Italia il Ministero dell’ambiente.

Nelle neonate associazioni ambientaliste andava diffondendosi una critica all’economia capitalista come unica risposta possibile alle questioni che venivano sollevate. Tuttavia questa critica veniva intesa come necessità di ‘ritorno alle origini’. Dall’altro lato, a sinistra, non si riusciva a sganciarsi dal modello fabbrica-progresso-lavoro, se non per equiparare il diritto al lavoro a quello alla salute. Non aiutava la critica – che affondava le sue radici nei movimenti di contestazione nati dopo il ‘68 – a tutto il campo della “ricerca” considerata come totalmente asservita al sistema economico capitalista.(5)

Nel dibattito all’interno del Pci s’iniziò a distinguere tra un’origine della protesta ecologica ‘in alto a destra’ e una ‘ecologia rossa’.(6) Purtroppo i limiti della risposta a sinistra furono segnati dal fatto che fu prima di tutto il Pci a non riuscire a superare il binomio fabbrica-lavoro, sacrificando ‒ inoltre ‒ in alcuni casi i temi ambientali sull’altare della solidarietà nazionale.

Nell’immediato dopoguerra il Pci non sviluppò alcuna riflessione sull’ecologia, preoccupato più di dare risposte in tema di occupazione che di ambiente, percepito, soprattutto nella fase della ricostruzione, come una camicia di forza per il primo. Fu solo a partire dagli anni Sessanta, e con maggior vigore nel decennio successivo, che alcuni settori del partito iniziarono a porsi delle domande circa la qualità dello sviluppo capitalistico italiano, che fino a quel momento si era avvantaggiato del beneplacito comunista e della Cgil per massimizzare i profitti, tralasciando ogni minimo rispetto per l’ambiente. In particolare la riflessione si concentrò sulla salubrità degli ambienti di lavoro, il cui miglioramento fu ritenuto parte di una più complessiva battaglia che superasse le rivendicazioni esclusivamente economiciste. Il passo verso un dibattito che provasse a superare la dicotomia oppositiva sviluppo industriale-ambiente fu mosso solo sul finire degli anni Settanta e negli anni ’80, quando il Pci fu spinto a confrontarsi con gli esiti, talvolta drammatici, di una crescita deregolamentata che aveva creato vantaggi solo per il padronato. In quel caso le concezioni neomalthusiane e ostili allo sviluppo avanzate dai movimenti ecologisti spinsero alcuni dirigenti del partito a cercare una via che non sacrificasse l’ambiente sull’altare del lavoro, ma neppure il contrario.(7) Tuttavia si trattava di singole personalità, che non riuscirono a far superare al partito le sue indecisioni. Per un paradosso tipico del più grande partito comunista dell’Europa occidentale, questo si trovò a favorire, anche se involontariamente, politiche di sviluppo deteriori e utili, alla lunga, solo per la classe capitalista.

Nei fatti nel Pci, pur aprendosi importanti spunti di riflessione su alcune tematiche di interesse sociale (come l’apertura dei manicomi, l’approvazione della legge sull’aborto, le prime norme sulla protezione civile, la questione relativa alla salute nelle fabbriche) ci si arenò alle prime battute sulla questione ambientale, lasciando ai margini del dibattito il movimento dei lavoratori, che di certo avrebbe potuto svolgere un ruolo importante in quel cambiamento che iniziava a rendersi necessario con la crisi petrolifera dei primi anni ’70.

Il concludersi della stagione delle lotte unito alla contestuale incapacità da parte dei partiti di raccogliere la sfida ambientalista nei termini corretti, e il progressivo ‘elitarismo’ dell’associazionismo ambientalista, produssero una progressiva spoliticizzazione dei temi ambientali e un arretramento dei movimenti e delle associazioni, che sempre più cominciarono a focalizzarsi sulle questioni del cambiamento climatico e della decrescita come unica soluzione al più generale problema del rapporto tra uomo e ambiente.

In questi anni in Italia nasceranno associazioni come il Wwf, gli Amici della Terra, la Lega per l’ambiente (poi Legambiente); e negli anni ’80, sull’onda del referendum antinucleare, nasceranno, sull’esempio della Germania, le liste verdi.

3.1 La teoria della decrescita

La teoria della decrescita è la principale teoria elaborata in risposta alla crisi ambientale creata dalle modalità produttive assunte nel corso del Novecento dal sistema capitalista.

La teoria matura contemporaneamente, nei fatti, a quella dello sviluppo sostenibile, che mette in discussione, definendo irrealizzabili le capacità di rigenerazione dell’ambiente.(8) Sin dagli anni Sessanta si era avuta una ripresa nel dibattito ambientalista delle teorie maltusiane, secondo cui la terra è un sistema chiuso le cui risorse, non essendo rinnovabili, sono esposte a un impoverimento dovuto alla crescita demografica.(9) Unico sistema per limitare tale depauperamento è la riduzione della popolazione e/o del consumo. Tali proposte costituirono il nocciolo del lavoro di ricerca promosso dal Club di Roma che si concretizzarono nella pubblicazione del report intitolato The Limits of growth,(10) di cui furono vendute oltre 12 milioni di copie, a testimoniare il profondo impatto che tali teorie ebbero su quanti in quegli anni si interrogavano sulle questioni ambientali. Ad elaborare il modello di sviluppo su cui si fondavano queste conclusioni fu il Mit, ma ben presto furono sollevate da parte della comunità scientifica notevoli perplessità sulla correttezza del metodo utilizzato, cosa che mise in difficoltà i sostenitori di questa teoria, almeno finché non è stata rispolverata, in forma aggiornata, dai teorici della decrescita.

Di fatto, la teoria della decrescita ritiene che le attività produttive sottrarrebbero sempre qualcosa alla natura in maniera irreversibile e irrimediabile. Ciò viene sostenuto sulla base di un’errata interpretazione della seconda legge della termodinamica (quella in base alla quale, in un sistema isolato, il tempo determina la degradazione e la morte per l’aumento del disordine, dell’entropia), e ignorando che il nostro pianeta non rappresenta un sistema isolato.

Se la prima legge della termodinamica insegna che nulla si distrugge e nulla si crea, lo straordinario processo di rigenerazione spontanea della natura, anche se assistito dall’uomo, non è in grado di sostenere gli attuali ritmi forsennati e non può in nessun caso restituire nella stessa misura la totalità delle risorse degradate dall’attività industriale. (…) Non siamo in grado di raccogliere i flussi di atomi dispersi per realizzare nuovi giacimenti minerari sfruttabili, azione realizzata dalla natura nel corso di miliardi di anni di evoluzione».(11)

Eppure, come scritto da Alan Woods e Ted Grant ne La rivolta della ragione riprendendo il Premio Nobel Prigogine: «In realtà la natura presenta molti casi non solo di disorganizzazione e decadenza, ma anche del processo opposto di autorganizzazione spontanea e crescita: il legno marcisce ma gli alberi crescono».(12) E ancora sulla seconda legge della termodinamica: «La seconda legge afferma che tutto in natura rappresenta un viaggio di sola andata verso il disordine e la decadenza, eppure questo non quadra con gli schemi generali osservabili in natura».(13)

La natura, i flussi naturali di materiale che non appartengono a un sistema isolato, e che sfruttano l’energia proveniente dal Sole, non solo sono ecoefficienti, tendendo ad annullare gli sprechi, ma consentono un sempre migliore utilizzo delle risorse energetiche e materiali per la crescita e la moltiplicazione degli ecosistemi. Questo non avviene mediante processi improbabili quali la ricostruzione di un giacimento minerario, ma tramite la continua rigenerazione dei materiali nei cicli naturali e potrebbe avvenire anche per i sistemi produttivi che, come già sperimentato in alcune realtà, potrebbero assumere già oggi le regole di organizzazione e di crescita dei sistemi naturali. Questo passo in avanti decisivo per il futuro delle specie viventi, come vedremo, non può essere intrapreso che «dall’essere umano sociale, i produttori associati», mentre per Latouche l’uomo deve limitarsi ad «assistere», rimanendo al di fuori dei processi rigenerativi della natura. Egli così aderisce a una visione conservatrice, pienamente in linea con i sistemi urbani e industriali concepiti durante il capitalismo.

I sostenitori della teoria della decrescita, infatti, ritengono in sintesi i sistemi produttivi e urbani del capitalismo gli unici possibili. Serge Latouche pensa che lo sviluppo capitalistico sarebbe l’unico «realmente esistente» e che «un altro sviluppo è un non senso», ignorando le possibilità aperte dalla ricerca scientifica nella direzione di sistemi industriali e urbani di tipo rigenerativo e con impatto positivo sull’ambiente.

Contrariamente a quanto avvenuto nella storia evolutiva delle specie viventi, che hanno progressivamente migliorato le capacità di adattamento all’ambiente e teso alla moltiplicazione delle specie e delle popolazioni; e a quanto fin qui accaduto nella storia dell’umanità, si dà per scontato che non siano possibili sostanziali modifiche tecnologiche, immutabilità suggerita ai sostenitori della teoria della decrescita da decenni di fallimenti delle politiche riformiste in materia ambientale.

Da molti decenni, infatti, le politiche riformiste hanno previsto complicate normative per regolamentare un sistema produttivo che non ha tra i suoi obiettivi quello di garantire la salute dentro e fuori le fabbriche e che sta progressivamente contaminando l’ambiente, avvelenando le specie viventi. Complicati regolamenti che sono inapplicati e aggirati, come dimostrano, ad esempio, la pratica degli smaltimenti illegali o le continue deroghe ai limiti di legge stabiliti per le sostanze inquinanti.

Eppure la ricerca scientifica mette a disposizione tecnologie che, prendendo a modello i processi naturali, non solo consentirebbero la rigenerazione dei materiali, ma garantirebbero anche nuovi e rivoluzionari impatti positivi sull’ambiente, che aprono, dunque, nuovi orizzonti per una trasformazione anche tecnologica della società.

Il problema non è nei limiti intrinsechi allo sviluppo umano, ma nell’atteggiamento che dimostra il sistema di produzione capitalistico nei confronti dell’ambiente, per cui, se si continua a riversare sostanze tossiche nell’ambiente per non modificare le modalità produttive, è chiaro che la decrescita diviene un’alternativa non solo credibile, ma necessaria. La decrescita, come i “sacrifici”, i licenziamenti, l’arretramento dei diritti conquistati sono di fatto funzionali alla conservazione dello status quo e del capitalismo. Detto altrimenti, Latouche mette insieme crescita e sviluppo, poi sviluppo e capitalismo, così che il suo anticapitalismo non è, alla fin fine, che una denuncia dello sviluppo umano.(14)

Più in generale, gettando via con l’acqua sporca del capitalismo anche il bambino del progresso tecnologico e industriale, la teoria della decrescita assume una connotazione ultra reazionaria.

Ora, una cosa è mantenere sempre un atteggiamento critico e vigile, verificando che le nuove tecnologie immesse nella produzione non siano nocive, altro è prendersela in generale con la società industriale e inserire come punto programmatico quello di «Decretare una moratoria sull’innovazione tecnologica».(15)

Ancora, molte questioni vengono affrontate principalmente sul piano morale.(16) Se si può, infatti, concordare con Latouche che la produzione di un frigorifero con materiali scadenti al solo scopo di ottenere maggiori profitti, secondo quella che viene definita una logica produttivista, vada superata, questo non significa che non sia giustificata la produzione di un articolo, anche del tipo ‘usa e getta’, solo perché ha durata breve. Molti prodotti ‘usa e getta’ hanno, infatti, apportato un generale miglioramento della qualità della vita (come è stato, ad esempio, per le donne con l’introduzione dei pannolini usa e getta). Molti prodotti del tipo ‘usa e getta’ possono, quindi, essere considerati a tutti gli effetti dei beni d’uso, esattamente come lo divenne la ruota agli albori della civiltà e se, come vedremo, la ricerca può consentire di disfarsene facendo un regalo alla natura, non vi è alcun sensato motivo per non convertirne la produzione, secondo i criteri di una nuova progettazione industriale.

4. Critiche alla teoria della decrescita

Nonostante la teoria della decrescita abbia raccolto un crescente consenso negli ambienti accademici e nei circoli intellettuali, non sono mancate le voci critiche che hanno provato a mettere in crisi quello che sembra sia diventato il nuovo paradigma ecologista.

Uno dei contributi più interessanti in questo senso è quello di Daniel Tanuro,(17) uno studioso membro del “Climate Change” e sostenitore dell’ecosocialismo. Egli considera come inscindibili la lotta contro lo sfruttamento umano e quella contro la distruzione delle risorse naturali da parte del capitalismo.(18) Per Tanuro: «La questione chiave è quella del nesso dialettico tra le lotte economiche e la lotta per la protezione dell’ambiente. In linea generale, i sostenitori della decrescita non si interessano delle rivendicazioni immediate per il salario e l’occupazione, che considerano consumistiche. Ma si sbagliano. (…)»(19)

Si sbagliano perché solo cominciando a riappropriarsi collettivamente dei mezzi di produzione sfruttati e oppressi possono riappropriarsi del primo mezzo di produzione del quale sono stati espropriati dal capitalismo e cioè della natura e delle risorse, e solo attraverso questo processo si potrà arrivare a una gestione responsabile dell’ambiente.(20)

Il limite delle riflessioni di Tanuro è quello di rimanere schiacciato su un ragionamento relativo solo al cambiamento climatico, che non consente di inquadrare in una visione più ampia una serie di concetti che pure vengono intuiti. Egli inoltre imputa a Marx e ad Engels il mancato incontro tra marxismi ed ecologia e criticandoli per la loro posizione sulle scelte energetiche vista come produttivista.

Marx ed Engels scrivono nell’Ottocento e come Tanuro stesso specifica, «[in quel periodo storico] non vi è padronanza dell’impatto perché non si considerano le condizioni della chiusura del ciclo del carbonio».Eppure sembra evidente che la principale causa del difficile incontro tra marxismo ed ecologia sia invece da imputare a quell’uguaglianza industria = male, successiva a Marx ed Engels, che non ha finora consentito agli ambientalisti, per loro stessa ammissione, di guardare oltre le modalità produttive del sistema capitalista.(21)

5.  L’ecoefficacia e i nuovi principi del ventunesimo secolo

Nonostante all’epoca in cui Marx ed Engels scrivono la produzione industriale non avesse ancora assunto la connotazione fortemente dissipativa(22) che assumerà a partire dalla crisi del 1929,(23) capiscono subito che la produzione capitalista inaugura un capitolo assolutamente inedito nel rapporto tra popolazione e risorse, così come nelle dimensioni di scala dello sfruttamento economico della natura.

I nuovi principi di ecoefficacia e di biomimesi, che si stanno promuovendo nella ricerca scientifica, rendono possibile il passaggio verso un’industria di tipo rigenerativo e l’uscita dalla crisi ambientale, passaggio che la borghesia, a livello internazionale, si sta dimostrando incapace di gestire.

In particolare, a differenza del modello che si prospetta con la teoria della decrescita, che vede una diminuzione dell’occupazione, nel caso di una trasformazione produttiva basata sui nuovi principi, si avrebbe una generale riorganizzazione dei sistemi produttivi e urbani con un rivoluzionario impatto positivo sull’ambiente e un aumento dei posti di lavoro.Inoltre si contrasterebbe il generale abbassamento del livello di vita previsto dalla teoria di Latouche, in buona parte a discapito dei ceti produttivi e in particolare delle donne (in quanto le pratiche dell’autoconsumo, l’abolizione dell’usa e getta, il ritorno ai pannolini di stoffa ecc. graverebbero soprattutto sulle donne).

5.1 Il principio di ecoefficacia

Su questo importante principio scrivono William McDonough e Michael Braungart nel libro dal titolo Dalla culla alla culla del 2003,(24) motivo per cui esso viene anche indicato come approccio ‘Cradle to Cradle’.(25)

Fa parte di quelle sperimentazioni iniziate alla fine del Novecento sul ‘metabolismo industriale’ e sulla ‘simbiosi industriale’ volte ad introdurre analogie tra la ciclicità che regola gli ecosistemi naturali e la regolazione del sistema industriale.(26)

In base a questi principi s’iniziano a concepire le industrie come se fossero una serie di ecosistemi interconnessi ed interfacciati con l’ambiente globale. In particolare, la simbiosi industriale è un processo che coinvolge industrie tradizionalmente separate con un approccio finalizzato a promuovere lo scambio di materia, energia, acqua e/o sottoprodotti.(27)

Per comprendere il principio dell’ecoefficacia occorre partire dalle caratteristiche del sistema produttivo capitalista che (28):

– riversa ogni anno miliardi di chili di materiali tossici nell’aria, nell’acqua e nel suolo;

– genera quantità enormi di rifiuti;

– stipa materiali pregiati in buche disseminate su tutto il Pianeta, dove non potranno mai più essere recuperati;

– richiede migliaia di complicati regolamenti,

un sistema, dunque, che depreda le fonti della ricchezza, le risorse planetarie, da cui attinge fino all’esaurimento dei giacimenti e di cui si sbarazza in discarica, con smaltimenti illegali e attraverso l’incenerimento, rendendone impossibile la rigenerazione.

La produzione industriale capitalista richiede, inoltre, una complessa legislazione ambientale che in realtà non riesce (né potrebbe riuscirci) a tutelare la salute né dentro le fabbriche né fuori.

Essendo progettisti McDonough e Braungart non si limitano alle enunciazioni teoriche, ma arrivano a modificare un’industria tessile fino a rendere superflua l’applicazione della legislazione ambientale, in quanto sin dalla progettazione i tessuti vengono ideati escludendo le sostanze tossiche e allo scopo di rigenerarli completamente.(29)

All’Earth Summit del 1992, durante il quale s’incontrarono i due scienziati, gli industriali proposero la strategia dell’’ecoefficienza’, termine che fu coniato ufficialmente cinque anni più tardi dal Business Council for Sustainable Development. Con questa parola si vuole semplicemente dire «fare di più con meno», un precetto le cui radici risalgono all’inizio dell’industrializzazione, quando Henry Ford diceva che «bisogna sfruttare al meglio l’energia, i materiali e il tempo».(30)

L’ecoefficienza serve, dunque, a garantire maggiori profitti dissipando meno energia, rilasciando meno materiali tossici e generando meno rifiuti da stipare in discarica, senza apportare sostanziali modifiche alla progettazione industriale del sistema.(31)

Con l’ecoefficienza il sistema capitalista tenta una via di uscita dalla stretta ambientale e, all’Earth Summit del 1992, prevede che «I macchinari sarebbero [dovuti essere] dotati di motori più puliti, più veloci, più silenziosi. L’industria si sarebbe [dovuta] riscatta[re] senza cambiare in modo significativo la sua struttura e senza compromettere il suo interesse esclusivo per il profitto».Sono passati oltre due decenni dall’enunciazione di questa teoria e siamo ben lontani dall’acquisizione su ampia scala perfino di questo principio che, come abbiamo visto, è ancora del tutto funzionale all’attuale sistema economico e produttivo e non consente il reale superamento della stretta ambientale.La nuova progettazione industriale prospettata da William McDonough e Michael Braungart è, invece, di tipo ecoefficace e punta verso:(32)
– edifici che, come gli alberi, producano più energia di quella che consumano e purificano le proprie acque di scarico;

– fabbriche i cui scarti siano acqua potabile;

– prodotti che al termine della loro vita non diventino rifiuti inutili, ma possano essere gettati a terra, decomporsi e diventare cibo per piante e animali, e sostanze nutritive per il terreno; o, in alternativa, che, reinseriti nei cicli industriali, possano fornire materie prime di elevata qualità con cui fabbricare nuovi prodotti;

– mezzi di trasporto che migliorino la qualità della vita;

– un mondo di abbondanza, non uno di limiti, inquinamento e rifiuti.

Questo tipo di progettazione può consentire il superamento del sistema industriale capitalista, lasciandosi alle spalle stretta ambientale e teoria della decrescita, orientando la società verso modalità produttive degne della natura umana e rigenerative. Vediamo meglio perché.

In sintesi, i teorici dell’ecoefficacia rifiutano l’idea di ridurre il numero e le dimensioni delle industrie e i sistemi umani, ma propongono di progettarli in modo che diventino più grandi e migliori arricchendo, reintegrando e nutrendo il resto del mondo.(33) Quindi la crescita ecoefficace, è una crescita nella quale i prodotti si rigenerano, rinascono di continuo, ‘dalla culla tornano alla culla’. Non solo, ma essi superano il concetto di impatto zero per sviluppare un rivoluzionario impatto positivo.

Il metabolismo industriale non solo mutua la ciclicità degli ecosistemi naturali ma, come questi, apporta vantaggi all’ambiente e nutre ciò che gli sta intorno esattamente come in natura fanno gli alberi. Perché ciò sia realizzabile, i materiali vengono suddivisi in nutrienti biologici e nutrienti tecnici. Un esempio di nutriente biologico è un tessuto messo a punto dagli autori,(34) tessuto che dopo l’uso può essere tranquillamente restituito al terreno come fertilizzante. Un nutriente tecnico è invece un materiale o un prodotto studiato per rientrare nel ciclo industriale, come, ad esempio, l’acciaio delle carrozzerie delle auto.

A partire da questi principi, McDonough e Braungart progettano e realizzano produzioni che separano i materiali fra quelli recuperabili nel ciclo biologico (o anche metabolismo biologico) e quelli recuperabili nel ciclo industriale (o anche metabolismo tecnico), e puntano su una progressiva sostituzione delle sostanze nocive con altre non dannose. In questa direzione vengono superate le attuali modalità di riciclo dei materiali.(35)

La produzione di autoveicoli, tra le più inquinanti in assoluto, è il banco di prova di tale teoria. Le auto attualmente prodotte rientrano tra quelli che gli autori definiscono «‘ibridi mostruosi’ misture di materiali tecnici e organici, nessuno dei quali può essere salvato una volta che la vita dell’oggetto sia finita».(36) Per risolvere il problema dovuto, rimanendo fermi agli attuali standard produttivi, all’impossibilità di riutilizzo di materiali per lo stesso tipo di industria,(37) occorre puntare verso il ‘sovraciclaggio’, ossia verso una differente progettazione del prodotto, che contempli anche una nuova fase di vita dei materiali impiegati, senza che ciò comporti un loro decadimento. Detto altrimenti, «con una progettazione più attenta si potrebbe fare con l’auto quello che i nativi americani facevano con la carcassa del bisonte: sfruttare ogni elemento, dalla lingua alla coda. I metalli verrebbero fusi solo con metalli simili per mantenere l’elevata qualità e lo stesso accadrebbe alla plastica».38 Perché questo possa accadere si dovrebbe puntare, ad esempio, su vernici biodegradabili, facilmente raschiabili dal substrato di acciaio o su polimeri che non richiedano di essere verniciati, o, ci permettiamo di ipotizzare, su auto che invece di essere verniciate siano scolpite come opere di scultura moderna.

Gli autori introducono a questo punto il concetto di prodotto di servizio:

«Invece di dare per scontato che tutti i prodotti vadano comprati, posseduti e quindi eliminati dai ‘consumatori’, i beni contenenti preziosi nutrienti tecnici – per esempio auto, televisori, moquette, computer e frigoriferi – dovrebbero essere considerati come ‘servizi’ per le persone. In questo senso i clienti (è questo il termine più adatto a indicare chi utilizza prodotti) acquisterebbero non l’apparecchio in questione, bensì un servizio per un determinato ‘periodo di utilizzo’: diciamo, nel caso di un televisore, 10.000 ore di visione».(39)

Il quadro all’interno del quale si colloca la proposta dei due studiosi è, ovviamente, quello capitalistico, ma i risultati a cui arrivano mettono in crisi alcuni dei suoi presupposti, come l’utilizzo personale dei prodotti da parte dei consumatori. Tanto basta a collocarla in aperta contraddizione, sebbene in maniera inconscia, con il sistema.

Dal concetto di prodotto di servizio alla messa in discussione del principale pilastro del capitalismo, cioè la proprietà privata dei mezzi di produzione, il passo è breve e viene compiuto nel libro Pomigliano non si piega:

«In questa logica, nutrienti tecnici, come l’acciaio delle auto, potrebbero essere considerati, al pari dell’acqua, dei beni non economici, dei beni non finalizzati a scopo di lucro, ma alle possibilità aperte dal nuovo processo di crescita ecoefficace e, come nel caso dell’acqua, le migliori condizioni di fornitura per gli utenti sarebbero assicurate dalle nazionalizzazioni».(40)

Ancora, prevedendo una pianificazione a monte delle produzioni, la teoria dell’ecoefficacia confligge apertamente con la modalità anarchica di produzione del capitalismo e la mette in crisi. Quello che sfugge a McDonough e Braungart, o meglio, su cui non si interrogano, è come si dovrebbe approdare a un tale tipo di industria; quale dovrebbe essere, in sostanza, la transizione tra l’attuale modo produttivo e quello da loro ipotizzato. Gli autori, sia perché non interessati a questo problema, sia perché paralizzati dalla incoerenza in cui ricadrebbero volendo difendere l’attuale sistema economico, non offrono risposte. L’unica che si possa dare, infatti, è che l’attuale sistema, vittima delle sue stesse contraddizioni, non può applicare tale pianificazione dell’economia, motivo per cui a farlo dovrà essere un altro tipo di società, frutto di un processo rivoluzionario, nella quale potrebbero dispiegarsi tutte le potenzialità di una tale modello di sviluppo.

5.2 La biomimesi

Altre teorie hanno messo in discussione l’approccio maggioritario all’ambientalismo, quello più compatibile con il capitalismo. A contestare l’idea di una possibile green economy nel quadro dell’economia di  mercato è stata avanzata quella di una blue economy, basata sulla biomimesi. Con questo termine si designa la disciplina che studia e imita le caratteristiche degli esseri viventi come modello cui ispirarsi per il miglioramento di attività e tecnologie umane.(41) Contestando il concetto di tutela dell’ambiente, strettamente connesso a quello di green economy, Gunter Pauli, il principale sostenitore dell’economia blue, afferma la necessità di andare verso la rigenerazione ambientale, assicurando «le possibilità dei percorsi evolutivi degli ecosistemi affinché tutti possano beneficiare dell’eterno flusso di creatività, adattamento e abbondanza della natura».(42) Una concezione in aperto contrasto con la teoria della decrescita, tanto da far dire a Pauli che la blue economy è la proposta di un’economia dell’abbondanza.(43) Pauli ha già sperimentato alcune delle sue teorie, applicando modelli biologici alla produzione, in particolare nel settore della chimica, che nell’attuale sistema produttivo vanta il primato nell’impatto ambientale negativo. La sostituzione di alcuni procedimenti chimici inquinanti con procedimenti fisici hanno in pratica dimostrato la validità delle sue idee.(44)

Anche in questo caso, però, la blue economy viene pienamente inserita nell’attuale sistema economico e si rivolge al mondo imprenditoriale come suo principale interlocutore (d’altronde lo stesso Pauli è un imprenditore). Pur riconoscendo pienamente il fallimento della green economy che ha preceduto la blue economy, egli si rivolge, ostinatamente, a quello stesso modello produttivo perché compia un passaggio notevolmente più complesso spingendosi verso la rigenerazione: un po’ come chiedere ad un infermo che non riesce nemmeno a camminare di correre alle olimpiadi. Pauli sembra capire che l’attuale sistema non è in grado di spingersi verso la rigenerazione e lascia intuire la necessità di una qualche trasformazione sociale, ma non ne delinea l’effettiva dinamica.

5.3 Ecoinnovazione e tentativi di approccio ecoefficace nell’Unione Europea: i limiti

«L’ecoinnovazione è la produzione, l’introduzione o l’utilizzo di un prodotto, di un processo, un servizio, un sistema di gestione o una metodologia di impresa che sia nuovo per l’azienda o per l’utilizzatore e che garantisca, durante tutto il suo ciclo di vita, una riduzione del rischio ambientale, dell’inquinamento e di altri impatti negativi dovuti all’utilizzo di risorse (inclusa l’energia) rispetto alle alternative possibili».(45)

Siamo, dunque, principalmente nell’ambito dei tentativi di prolungare l’esistenza del sistema produttivo capitalista puntando sull’ecoefficienza, traguardo che, ammesso che si riesca a raggiungere, si limiterebbe a poter seguire l’insegnamento di Ford, risparmiando sui costi e consentendo di distruggere l’ambiente un po’ più lentamente.

All’approccio ecoefficiente è stato affiancato negli scorsi anni anche un tentativo di approccio Cradle to Cradle (ecoefficace).

Sembrerebbe un risultato incoraggiante ma in realtà:

«Nonostante il ruolo dell’ecoinnovazione e dell’approccio Cradle to Cradle sia riconosciuto dalle più recenti politiche internazionali ed europee e sia oggetto di studio e di approfondimento anche attraverso progetti pilota, tuttavia, la diffusione di questi approcci tra le aziende europee risulta ancora abbastanza limitata, soprattutto per quanto riguarda le Pmi».(46)
Circa l’approccio ecoefficace, la Commissione Europea ha finanziato la rete europea ‘Cradle to Cradle Network’ ma le azioni del Network sembrerebbero ferme al 2012.(47)

Si tratta, inoltre, di azioni spalmate anche su edilizia ed altro, limitate a pochi progetti nei più diversi settori industriali e a solo una decina di città del centro-nord dell’Europa (la città più a sud è Milano). Inoltre, la prospettiva localistica e soggetta alla logica capitalista delle proprietà industriali non prevede l’individuazione di settori industriali strategici, come quello delle auto, sui quali poter operare a livello di filiera, ignorando di fatto uno dei principali strumenti di un possibile cambiamento.

6. Capitalismo ed ecologia

 “Attraverso la propria esperienza molti scienziati arriveranno alla conclusione che l’unico sbocco allo stallo sociale, culturale ed economico in cui ci troviamo invischiati è attraverso un qualche tipo di società pianificata, in cui la scienza e la tecnologia siano messe a disposizione dell’umanità e non del profitto. Una tale società deve essere democratica nel vero senso della parola, inclusi il controllo e la partecipazione coscienti di tutta la popolazione. Il socialismo è democratico per sua propria natura; come osservava Trotskij, «un’economia statalizzata e pianificata ha bisogno di democrazia, come il corpo umano ha bisogno di ossigeno»“.(48)

Alan Woods & Ted Grant

Tutte le teorie sopra ricordate cercano di far passare l’industria del sistema capitalista come l’unica possibile. Non si tiene, dunque, conto che le trasformazioni sociali e quelle tecnologiche vanno di pari passo, come è avvenuto nel corso dei secoli che hanno visto l’affermazione della borghesia. Borghesia che trasformò, dapprima lentamente e poi rapidamente, anche le tecnologie nella direzione ad essa più funzionale.

Nelle società seguite alle prime rivoluzioni comuniste, per motivi storici complessi, l’unico rilevante impulso alla trasformazione tecnologica è stato quello verso le conquiste spaziali, ma, di fatto, sono state adottate le modalità produttive del sistema capitalista. Scelte produttive del sistema capitalista che impediscono lo sviluppo delle potenzialità scientifiche e tecnologiche, portando alla rottura dei cicli ecologici e causando l’attuale stretta ecologica.

L’unica soluzione, come ricordano Alan Woods e Ted Grant ne La rivolta della ragione, «agli stringenti problemi del mondo si può trovare solo in un sistema controllato coscientemente da tutti. Il problema non è dei limiti intrinseci dello sviluppo, ma di un sistema di produzione sorpassato e anarchico che brucia vite e risorse, distrugge l’ambiente e impedisce che le potenzialità scientifiche e tecnologiche vengano completamente sviluppate».

 La causa della stretta ecologica è tutta lì, in quell’impedire lo sviluppo delle potenzialità scientifiche e tecnologiche dell’umanità attuato dal sistema capitalista.

La natura fornisce risorse letteralmente illimitate di energia come quella solare o come quella della fusione nucleare che (diversamente dalla fissione) fornisce un potenziale di risorse infinito, pulito e a costi infimi. «Ma lo sviluppo di una fonte alternativa non rientra negli interessi dei grandi monopoli del petrolio; ancora una volta la proprietà privata dei mezzi di produzione opera come una gigantesca barriera sul cammino dello sviluppo dell’uomo. Il futuro del pianeta viene sempre dopo l’arricchimento di pochi».(49)

Dunque, in uno dei principali settori produttivi la proprietà privata opera come una gigantesca barriera allo sviluppo e lo abbiamo visto esaminando quanto sarebbe possibile realizzare – e sotto il capitalismo non lo è ‒ con le possibilità aperte dal nuovo principio dell’ecoefficacia.

Come dice Ilya Prigogine «la comprensione scientifica del mondo attorno a noi è appena cominciata».(50)  Abbattendo l’attuale sistema avremmo ‘possibilità senza limiti’. La lotta comunista si rivela, dunque, decisiva anche allo scopo di rivoluzionare le tecnologie in campo ambientale e di superare la stretta ecologica, a cui le modalità produttive dissipative e incontrollate dell’attuale sistema ci hanno condotto.

Se è vero che i sistemi urbani e produttivi anarchici e dissipativi caratteristici del capitalismo stanno portando all’esaurimento di alcune importanti risorse minerarie, e tra queste anche risorse non reperibili su altri corpi celesti come quelle che derivano dalle molecole biologiche quali le fosforiti, da cui si estrae il fosforo, è altrettanto vero che prospettive ben diverse potrebbero aprirsi se i sistemi umani assumessero le regole di organizzazione e di crescita caratteristiche, non del legno che marcisce, ma degli alberi che crescono.

La natura, i flussi naturali di materiale, non solo tendono ad annullare gli sprechi – sono ecoefficienti come abbiamo visto – ma consentono un sempre migliore utilizzo delle risorse energetiche e materiali per la crescita e la moltiplicazione degli ecosistemi. In futuro questo potrebbe avvenire anche per i sistemi produttivi che, come già sperimentato in alcune realtà, potrebbero assumere già oggi le regole di organizzazione e di crescita dei sistemi naturali.

Si pensi, ancora, alle modalità di diffusione della vita sul nostro pianeta, che da pochi microscopici organismi evolutisi negli oceani, sbarca sulla terraferma e da questa si diffonde nell’atmosfera, emergendo dalle sue crisi cicliche, note come estinzioni di massa, non con una riduzione, ma con una sempre maggiore diffusione e crescita delle specie viventi. Se le specie viventi avessero applicato i principi della teoria della decrescita probabilmente oggi saremmo ancora negli oceani.

Ancora, se è vero che il nostro pianeta è l’unico che abbiamo e va preservato modificando l’attuale sistema produttivo e urbano, è anche vero che «fra circa quattro miliardi di anni il sole comincerà ad espandersi, col lento restringersi del suo nucleo di elio. I pianeti vicino al sole saranno sottoposti a temperature spaventose. La vita sulla Terra diverrà impossibile, dato che gli oceani evaporeranno e l’atmosfera sarà distrutta».(51)

Ma: «la fine del sole non comporterà necessariamente l’estinzione della nostra specie. Lo sviluppo di astronavi potenti, capaci di viaggiare a velocità che adesso sembrano impossibili, potrebbe preparare il terreno per l’ultima avventura, l’emigrazione verso altri sistemi solari e, alla fine, verso altre galassie. Anche andando all’un per cento della velocità della luce, un obiettivo chiaramente raggiungibile, sarebbe possibile raggiungere pianeti abitabili nell’arco di qualche secolo. Se sembra un tempo lungo, occorre ricordarsi che i primi uomini ci misero milioni di anni per colonizzare il mondo, partendo dall’Africa».(52)

Di fatto la sfiducia verso il progresso tecnologico può danneggiare la nostra specie e quelle che potremo mettere in salvo nel corso dell’emigrazione dal pianeta Terra, non meno dell’eccesso di fiducia nelle possibilità di riforma del sistema produttivo capitalista.

Le prime conquiste spaziali hanno consentito alla nostra specie di portare per la prima volta la vita anche fuori dall’atmosfera terrestre e le recenti scoperte in campo scientifico e tecnologico aprono orizzonti ampi, in cui stiamo muovendo solo i primi passi; passi oggi sempre più ostacolati da un sistema che si basa sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e non sulla liberazione in ogni campo delle sue grandi potenzialità.

I sistemi umani produttivi e urbani potrebbero, infatti, assimilare le forme di organizzazione dalla natura, inserendosi nei cicli ecologici e determinando effetti benefici a cascata. Non solo, ma a differenza del modello che vede l’industria capitalista come l’unica possibile e che finisce per imporre decrescita e sacrifici, un differente modello, basato su sistemi produttivi e urbani caratterizzati da un rivoluzionario impatto positivo sull’ambiente, consentirebbe l’aumento dei posti di lavoro, in quanto la diffusione di industrie e di sistemi urbani diverrebbe a quel punto auspicabile.(53)

Questo non può accadere nel capitalismo, per almeno tre principali ragioni:

– la prima è che il capitalismo è un sistema acefalo. È produzione per i profitti non razionalmente pianificata per soddisfare i bisogni umani e, così come non c’è ragione per cui la produzione di auto, acciaio, cibo o qualunque altra cosa debba coincidere con ciò che gli economisti chiamano ‘domanda effettiva’, allo stesso modo non c’è ragione per cui la produzione non possa avvelenare progressivamente le specie viventi del pianeta, provocando quello che Chavez ha definito un vero e proprio ‘autosterminio della specie umana’;

– anche la seconda ragione è inerente proprio alla struttura del capitalismo in quanto sistema caratterizzato dalla frammentazione delle proprietà industriali. Con produzioni spezzettate tra i vari padroni risulta, infatti, difficile articolare quelle modifiche sull’intera filiera produttiva necessarie per produzioni realmente sostenibili e rigenerative; molto più facile delocalizzare o continuare ad inquinare facendo pagare tutto solo ai lavoratori e alla collettività;

– l’ultima, ma non la meno importante, è che la forza di trasformazione sociale, e quindi anche tecnologica, era e resta il movimento dei lavoratori e, come è ben verificabile ormai da diversi decenni, finché il movimento operaio non sarà pienamente investito della questione ambientale e non riprenderà un processo rivoluzionario che cambi i processi produttivi a partire dal basso, essi resteranno impigliati nelle gigantesche barriere descritte sopra.Vedremo nei paragrafi che seguono alcune possibili alternative di transizione.

7. Una nuova prospettiva per l’industria italiana

Stiamo attraversando una fase storica in cui a livello internazionale la borghesia non riesce a modificare il principale settore che ne vide la nascita e cioè l’industria. Non in un solo paese ma in tutto il mondo, e già da diversi decenni, essa non sembra in grado di compiere i più elementari passi, nemmeno quelli verso l’ecoefficienza, nella direzione di una rivoluzione industriale che le servirebbe a mantenere l’egemonia politica e di cui ci sono già tutti i presupposti scientifici. Il suo dominio ostacola in maniera sempre più evidente lo sviluppo delle forze produttive.

I lavoratori sempre più sfruttati e vittime dei licenziamenti e i giovani che non riescono nemmeno ad entrare nel mondo del lavoro iniziano a non poterne più di una condizione di sfruttamento senza sbocco che si fa ogni giorno più gravosa.

A questo riguardo, durante la lotta, i lavoratori di Pomigliano d’Arco, nel 2009 si sono posti una serie di interrogativi sulla difesa del proprio stabilimento e sulle proposte per salvarlo ed è grazie a questi interrogativi che iniziarono a porre le basi per la costruzione di una visione di classe sulla questione ambientale, di un’ecologia rossa. Infatti, se la produzione della Panda che Marchionne ha voluto imporre non ha permesso un futuro all’intero stabilimento, lo avrebbe, invece, e segnerebbe l’inizio di una svolta importante, la proposta dei lavoratori di produrre auto ecologiche. In particolare, auto progettate secondo quei nuovi principi che consentono di trasformare l’impatto ambientale negativo delle attuali produzioni industriali in un rivoluzionario impatto positivo.

I padroni non progettano, non scelgono di operare sull’intera filiera industriale con conseguenze disastrose sull’indotto e sugli stabilimenti Fiat. Possono altri, consumatori o chi per loro, svolgere un ruolo attivo nel processo di cambiamento di portata altrettanto ampia? Abbiamo visto nei precedenti paragrafi che il potere dei consumatori è in realtà piuttosto limitato, specie in un periodo di crisi economica.(54) Inoltre, diversi decenni d’insuccesso delle politiche riformiste dimostrano con sufficiente chiarezza che dalla stretta ambientale non si esce senza una trasformazione profonda della società; una trasformazione guidata dal movimento operaio e con il decisivo sostegno e il coinvolgimento di strati sempre più ampi della popolazione, come è avvenuto nella lotta contro la privatizzazione dell’acqua.

Le potenzialità del movimento dei lavoratori che, riacquistando piena coscienza di classe, decidesse di guidare l’innovazione tecnologica non su singole aziende, ma su intere filiere, rivoluzionando anche tecnologicamente l’attuale sistema produttivo, sarebbero grandissime. Si tratterebbe di un processo rivoluzionario in grado di orientare le scelte verso il raggiungimento degli interessi della collettività, la rigenerazione e il pieno dispiegamento delle capacità scientifiche e tecnologiche dell’umanità.

Per intera filiera intendiamo una linea produttiva che va estesa il più possibile. Nel caso delle auto sarebbe importante un centro di ricerche comune Fiat-Iaa (ex Irisbus)-Ilva (e relativi indotti) che lavori sulla produzione di nuovi acciai, di nuovi materiali e sulle modalità rigenerative necessarie per il sovraciclaggio dei veicoli, con il coinvolgimento pieno ed attivo dei lavoratori nella fase della progettazione industriale.

La ripresa delle lotte operaie nel Mezzogiorno d’Italia, così come nel resto del paese, può segnare una svolta decisiva verso un sistema industriale ecoefficace, in cui la rigenerazione dei prodotti sia prevista, a partire dalla progettazione. Su questo fronte la battaglia per la conversione dell’Ilva, quella per la produzione di veicoli elettrici alla Fiat e all’Iaa, così come la difesa dei relativi indotti, fanno parte di un’unica grande battaglia che può segnare una svolta decisiva non solo per l’Italia e per il Mezzogiorno d’Italia. Una battaglia in cui differenti comparti industriali operino in sinergia verso il superamento della frammentazione delle proprietà e il passaggio a un nuovo tipo di produzione in cui i mezzi di trasporto diventino completamente rigenerabili nel ciclo industriale, utilizzino energie rinnovabili e siano studiati per la progressiva sostituzione di quelle sostanze che non possono essere rigenerate nell’industria o in natura.

Il ruolo centrale del Mezzogiorno si impone ancora di più se si tiene conto che è una zona in cui i disastri prodotti da un ciclo produttivo che implica la produzione di rifiuti di ogni tipo è particolarmente evidente, soprattutto nelle sue ricadute devastanti in termini di impatto sulla salute pubblica. Dato notevole è che il sud Italia, a differenza di altre enormi pattumiere mondiali (Africa, India) è un luogo di produzione e consumo, spesso di quegli stessi inquinanti che ne devastano il territorio: ciò riproduce e mostra in maniera evidente la contraddizione ambientale in un modo che non ha confronti con altri contesti occidentali.

8. Lotta politica e lotta ambientalista

Oggi nel mondo ambientalista si registra una mancanza di volontà politica o, quanto meno, un forte ritardo, nel recepimento della portata innovativa delle nuove scoperte scientifiche, e in particolare dei principi di ecoefficacia e biomimesi.

Di metabolismo e simbiosi industriale s’inizia a parlare alla fine del Novecento, l’ecoefficacia si delinea dall’inizio del millennio, ma a oltre dieci anni di distanza, i nuovi principi scientifici vengono di fatto ignorati dall’ambientalismo di destra, quando non addirittura snaturati inserendoli nel solco della teoria della decrescita.

La destra ambientalista resta attestata sull’idea che occorra riformare l’attuale sistema economico operando lente trasformazioni che, in nome di un presunto ‘realismo’, prevedono scelte tecnologiche superate come gli inceneritori; invocano controlli sul territorio – sappiamo bene quanto attuati – e si basano su normative sempre più complesse e difficilmente applicabili. L’idea che le modalità produttive debbano essere completamente rifondate dal basso con una ripresa su scala internazionale delle lotte del movimento operaio non sfiora l’ecologismo reazionario. Viene invece proposta come attuabile la confusa e illusoria idea che la generica categoria dei consumatori possa realmente modificare le condizioni di produzione del sistema capitalista, secondo l’idea di un’autoriforma del capitalismo sostenuta da padroni e consumatori, mentre i produttori sono totalmente marginalizzati.

Che questo non sia possibile, specie in periodo di crisi economica, lo dimostra anche quanto accaduto dopo la tragedia avvenuta in Bangladesh il 24 aprile 2013.  Infatti, dopo il crollo della fabbrica tessile, che ha causato 1.129 morti, i padroni hanno cercato nuove aree in cui spostare le produzioni,(55) e alcuni colossi dell’industria tessile (Walmart, Gap, Target, Macy) si sono rifiutate di sottoscrivere anche i più miseri accordi sindacali per migliorare le condizioni di lavoro nel paese.

La nuova area di conquista, nello specifico, è l’Indonesia, dove si possono sfruttare i lavoratori con il paravento di una legge, i cui effetti sono tutti da verificare, sulla sicurezza nelle fabbriche.(56)

Dunque, quei ‘progressisti’, secondo i quali la generica categoria dei consumatori può realmente cambiare qualcosa all’interno di questo sistema, possono verificare da subito gli effetti di quanto sostengono.

Eppure un altro tipo di fabbrica è possibile! Ma affinché le fabbriche e i luoghi di lavoro possano divenire luoghi in cui non si muore, non ci si ammala, in cui ci siano luce ed ambienti gradevoli occorre ben altro che l’azione dei consumatori che le leggi del profitto troveranno sempre nuovi sistemi per eludere, occorre che una nuova stagione di lotta del movimento dei lavoratori inizi a rivoluzionare strutturalmente, e da tutti i punti di vista, le attuali modalità produttive.

Negli anni l’avvelenamento e la distruzione sistematica del territorio hanno prodotto mobilitazioni importanti sul territorio meridionale. Nel farne un bilancio emerge come attraverso di esse una fascia di attivisti, in particolare di giovani, abbia trovato su questo terreno il canale, pur tra mille contraddizioni, attraverso cui esprimere la propria insofferenza verso questo sistema.

Di lotte fiorite su questi temi ce ne sono state diverse, a partire da quella di Scanzano nel 2003, contro l’ipotesi che venissero impiantate scorie nucleari sul territorio lucano. Dopo la mobilitazione di massa che coinvolse i cittadini, ma anche il movimento operaio, il governo fu costretto a fare dietro front. Si trattò di una mobilitazione importante per il popolo lucano, che servì anche nel processo di politicizzazione della giovane classe operaia di Melfi.

Anche l’estrazione di idrocarburi e la costruzione di reti per la loro distribuzione ha provocato la resistenza di comunità locali in Campania, Basilicata e Puglia. I movimenti No Triv e No Tap hanno avvicinato alla lotta politica alcune migliaia di giovani e lavoratori, ma anche in questo caso la fragilità delle direzioni politiche e la confusione ideologica hanno reso inevitabilmente marginale la classe operaia e la possibilità di coinvolgerla attivamente nelle lotte, che, rimaste isolate, non hanno prodotto i risultati che ci si poteva augurare.

Più complesso è il quadro delle lotte contro i rifiuti in Campania: Acerra, Chiaiano, Terzigno, Taverna del re, ecc. Mobilitazioni su queste tematiche si sono sviluppate anche in Calabria e Puglia.

Quella di Acerra, per una serie di ragioni, è stata probabilmente quella più emblematica e con maggiori potenzialità: un’area densamente abitata, con una forte tradizione del movimento operaio e quello dei disoccupati alle spalle, un peso significativo delle forze della sinistra. Eppure questa lotta, a differenza di quella di Scanzano, è stata sconfitta. Il motivo risiede sicuramente nella mancanza di direzione, a partire dal tradimento compiuto da Rifondazione Comunista, che sacrificò quella battaglia all’alleanza con la giunta Bassolino. Il riflusso nella mobilitazione e la svolta repressiva da parte del governo Berlusconi, attraverso la militarizzazione del territorio, provocò la sconfitta di quel movimento.

Esiste però anche un limite intrinseco che accumuna queste vertenze e cioè una difficoltà a uscire da una dinamica territoriale in cui rischiano di rinchiudersi, la mancanza del coinvolgimento ampio del movimento operaio, ma anche la difficoltà di utilizzare la questione specifica per una critica generale del sistema, a volte solo accennata. Questo ha fatto in modo che le vertenze ambientali si sviluppassero in primo luogo attraverso comitati territoriali – anche la costruzione di reti spesso era solo un tentativo di costruire legami politici da parte di questo o quel pezzo del movimento – mancando di un ragionamento generale, finendo poi per rinchiudersi e rimanere legati all’emergenza specifica del territorio e in qualche modo a tempo determinato. Non si è prodotto cioè, in queste mobilitazioni, quel salto di qualità che abbiamo visto da parte del movimento NoTav e cioè la capacità di costruire attorno a una battaglia territoriale un immaginario più ampio, che tenesse dentro il sindacato, gli studenti e gli altri settori della società che a partire dalla lotta contro la costruzione della Tav, allargavano il proprio orizzonte alla critica complessiva del modello di produzione capitalistica.Va detto che nei momenti più avanzati di queste mobilitazioni la lotta non è stata semplicemente per non costruire l’inceneritore o per non far aprire la discarica sotto casa, ma si è arrivati a una critica verso l’intera gestione di produzione e smaltimento dei rifiuti, e denunciare gli intrecci tra i grandi gruppi industriali che gestiscono lo smaltimento rifiuti e la criminalità organizzata.

9. Verso un piano energetico socialista

La natura fornisce risorse letteralmente illimitate di energia: il sole, il vento, il mare e, soprattutto, la materia stessa che contiene considerevoli riserve non sfruttate di energia. La fusione nucleare (diversamente dalla fissione) fornisce un potenziale di risorse infinito, pulito e a costi infimi. Ma lo sviluppo di una fonte alternativa non rientra negli interessi dei grandi monopoli del petrolio; ancora una volta la proprietà privata dei mezzi di produzione opera come una gigantesca barriera sul cammino dello sviluppo dell’uomo.

Alan Woods & Ted Grant

In questo periodo storico la questione energetica ne comprende diverse altre; tra queste:

– l’adesione ai principi dell’ecoefficacia e dello sviluppo sostenibile rispetto, non solo alla scelta delle fonti energetiche, ma anche riguardo alla progettazione delle nuove centrali e dei piccoli impianti (ad esempio, la progettazione dei pannelli solari ne deve prevedere la rigenerazione nel ciclo industriale, così come le future centrali a fusione andranno progettate in base ai nuovi principi);

– tutte le problematiche connesse all’uso sbagliato e “guerrafondaio” delle tecnologie da parte del sistema capitalista. Prime tra tutte quelle a forte impatto, non solo ambientale, ma anche sociale, come le grandi dighe, che incidono nell’escalation dei conflitti in molti paesi.
Nel paragrafo si proverà ad affrontare queste tematiche dall’angolo visuale delle motivazioni per cui è necessario un piano di progressiva dismissione delle fossili e delle altre energie guerrafondaie e/o non ecocompatibili che compromettono uno sviluppo ecoefficace e rispettoso del diritto alla pace internazionale e all’autodeterminazione dei popoli.

Seguirà una rassegna altrettanto sintetica di quali fonti possano considerarsi davvero pulite, in questa fase storica.

Innanzitutto occorre chiarire il motivo per cui è necessario un piano energetico alternativo rispetto a quelli attualmente impiegati dai paesi capitalisti.

In una società socialista si sarebbe provveduto, già da decenni, all’elaborazione e all’attuazione di un piano di progressiva dismissione dalle fonti fossili e questo per due principali motivi:
– per il principio di precauzione. Preso atto dell’aumento delle temperature terrestri nell’ultimo secolo, in concomitanza con l’aumento delle concentrazioni dei gas serra nell’atmosfera, e delle rilevazioni sullo scioglimento dei ghiacciai (stimato nel nostro paese, per i ghiacciai alpini, in una riduzione di circa il 30-40%);

– per la non rinnovabilità di queste risorse.
Nel sistema capitalista gli interessi economici delle lobby del petrolio spingono invece esattamente nella direzione contraria, tanto che il presidente americano Trump si affretta a promettere da subito un piano energetico basato sulle fossili e a farsi garante di una riduzione delle regole ambientali, promesse che si sono concretizzate nella richiesta ai paesi dell’OPEC, su tutti all’Arabia Saudita, di aumentare l’estrazione di greggio.

Del resto anche la Conferenza mondiale sul clima COP21 tenutasi a Parigi nel 2015, al di là dei proclami solenni, ha portato a un ennesimo nulla di fatto, senza impegni vincolanti né sulla legislazione, né sulle ripartizioni dei finanziamenti.(57)

Nonostante gli ingenti finanziamenti elargiti per la ricerca di nuovi giacimenti e la scoperta di nuove tecniche (alcune delle quali ad alto impatto ambientale, come il fracking), secondo recenti studi, se i consumi continueranno ai ritmi attuali, le fonti fossili potrebbero essere sufficienti per i prossimi 70 anni, ma non oltre. Che siano 70, 50 o 100, resta la non rinnovabilità di queste risorse che rende insensata la mancata elaborazione di un piano di dismissione.Oltre agli idrocarburi, vengono oggi comunemente impiegate numerose tecnologie obsolete e dannose, che, spacciate per ‘pulite’, andrebbero invece progressivamente dismesse. Tra queste:

Gli inceneritori.

Se nel 2017 la maglia nera per l’energia se l’è già assicurata il Governo Trump degli Stati Uniti, nel 2015 è stata del Governo Renzi in Italia per scelte che hanno:

– penalizzato il solare con uno spalma-incentivi;

– effettuato tagli fino al 40% per l’eolico e posto uno stop all’eolico offshore;

– effettuato tagli del 24% per il mini idroelettrico;- rilanciato le trivellazioni di petrolio e gas con lo sblocca Italia;

– introdotto incentivi per i rifiuti da bruciare negli inceneritori che possono ora  beneficiare di tariffe più alte rispetto a quelle previste per l’eolico.
La lobby degli inceneritori è riuscita a far approvare gli incentivi nella Commissione Europea, usando quello che gli ambientalisti hanno definito un ‘trucco politico’, che consiste nel sostenere che l’Europa starebbe riducendo, in questo modo, lo smaltimento in discarica dei rifiuti. Per gli ambientalisti questo è in palese contraddizione con la gerarchia dei rifiuti, in quanto gli incentivi economici per l’incenerimento continuano ad essere superiori a quelli per riciclo e rigenerazione industriale. Di certo, l’incenerimento non ha nulla a che vedere con la rinnovabilità ed è in netta opposizione con i principi dell’ecoefficacia, di cui ostacola il dispiegamento tramite la sottrazione di fondi. Nulla a che vedere, dunque, con lo sviluppo ecocompatibile, trattandosi di una fonte energetica funzionale al sistema produttivo obsoleto e dissipativo basato sulle discariche e sulla non rigenerabilità di materia ed energia.

Le grandi dighe.

Sarebbe forse importante fare una maggiore chiarezza a sinistra sugli effetti dell’effetto serra, ad esempio, sotto la voce siccità, perché storicamente sono state occultate anche cause che poco hanno avuto a che vedere con fattori climatici(58) e tra queste oggi s’inseriscono a pieno titolo le grandi dighe. Poco si è indagato, ad esempio, su quanto abbia inciso la riduzione del 50% delle portate del fiume Eufrate, attuata dalla Turchia mediante le dighe del progetto Gap, sulla siccità che viene indicata tra le principali cause del conflitto siriano, con una aridità che ha distrutto il 60% delle fattorie e ucciso l’80% del bestiame. Va anche specificato che il fatto che nell’Eufrate resti un 50% delle portate potrebbe non significare che la Turchia si limiti a prelevarne l’altro 50%. Infatti, potrebbero esserci degli effetti nascosti dovuti all’inversione dei rapporti falda–fiume. Potrebbe infatti essere accaduto che mentre prima il fiume alimentava le falde usate in agricoltura, dopo la costruzione delle dighe potrebbero essere le falde ad alimentare il fiume, svuotando ulteriormente i territori siriani dalle acque prima impiegate in agricoltura.

Dietro una grande diga c’è quasi sempre una minoranza etnica che ne subirà gli effetti. Questi effetti sono dovuti:

– a monte dello sbarramento, all’allagamento di intere regioni, centri abitati e aree archeologiche compresi;

– a valle dello sbarramento, al prosciugamento più o meno ingente di fiume e falde. Si tratta, quindi, di vere e proprie armi usate contro popolazioni ignare e inermi come quella siriana.

Le grandi dighe sono dunque delle vere e proprie tecnologie guerrafondaie, il cui uso andrebbe dismesso a vantaggio di tecnologie che possano invece aumentare le disponibilità idriche delle popolazioni. Tra queste una delle più semplici prevede la costruzione di torri per distillare acqua marina. Il processo prevede di portare l’acqua marina ad ebollizione mediante energia solare che potrebbe avere anche altri impieghi. Le acque distillate così ottenute hanno caratteristiche uguali a quelle di pioggia e sono ottime per l’impiego in agricoltura. In Australia è stata recentemente costruita una torre solare con caratteristiche di questo tipo per irrigare il deserto.

Jean Fallot scrive (59) che «la bomba atomica o il transistor o più semplicemente qualsiasi oggetto, non è il risultato dello sviluppo “naturale” della scienza, d’uno sviluppo extra-materialistico-storico, ma dello sviluppo della scienza in condizioni sociali determinate della produzione e del pensiero». E questo è chiarissimo per le grandi dighe che potrebbero essere tranquillamente sostituite per la produzione energetica da centrali solari a concentrazione in aree desertiche e disabitate, o per gli scopi irrigui da opere di captazione meno invasive come i pozzi.(60)

Dunque, nel piano socialista si potrebbe mettere al bando la costruzione delle mega dighe, preferendo il ricorso ad altre fonti energetiche ed idriche e promuovere il controllo concordato tra le popolazioni e dal basso in merito alla gestione di quanto già realizzato, compresa la possibilità di immediata dismissione.Un piano energetico alternativo, basato sulla pianificazione economica dei lavoratori, dovrebbe invece puntare sulle principali energie rinnovabili pulite, come:

L’energia solare.

Le critiche a questa fonte energetica s’incentrano sull’impatto dei pannelli solari. Impatti che già oggi si stanno però riducendo con produzioni sempre più orientate alla rigenerazione dei pannelli nel ciclo industriale, a una progressiva riduzione delle superfici occupate e all’uso di spazi inutilizzati quali, ad esempio, i bordi stradali delle autostrade. Praticamente nulli gli impatti su popolazioni ed ambiente, se comparati con quelli di fonti fossili ed altre tecnologie guerrafondaie come le grandi dighe.
Si tratta di una fonte energetica che potrebbe senza dubbio svilupparsi secondo linee ecoefficaci che ne rendano sempre più positivi gli impatti per salute e ambiente. Immense le possibilità aperte dallo sviluppo del solare termodinamico nelle aree desertiche: in Marocco è stata realizzata la prima parte di una mega centrale e il paese sta puntando fortemente sul settore delle rinnovabili, che entro il 2030 dovrebbero fornire il 52% dell’energia. Prima dell’era Trump, anche negli Usa è stata realizzata una centrale, nel deserto del Mojave, in grado di alimentare 140.000 abitazioni. Ma Trump ha subito annunciato un piano energetico a partire dai giacimenti di carbone e dato il via libera alla costruzione degli oleodotti Keystone XL e Dakota Access Pipeline a cui si oppongono i nativi americani.

Secondo Legambiente «Nel 2015 i 305MW installati nel nostro paese, sono meno di un quinto delle installazioni realizzate in Germania e un decimo di quelle inglesi». Questo a causa delle disastrose politiche degli ultimi governi che hanno preferito favorire fossili e inceneritori, con scelte non meno reazionarie di quelle di Trump.

L’eolico.

Anche questa fonte energetica ha già impatti incomparabilmente minori rispetto a tecnologie obsolete, guerrafondaie e in contrasto con lo sviluppo ecocompatibile come fossili e  mega dighe. Anche per questa tecnologia gli sviluppi scientifici e tecnologici possono portare a un eolico sempre più ecoefficace. In Italia l’installazione dell’eolico è diminuita nel 2015 da una media di 770 a 474 MW per le scelte energetiche sbagliate del Governo Renzi.

La fusione nucleare, definita dalle associazioni ambientaliste come ‘nucleare pulito’, si tratta di una fonte energetica che fornisce un potenziale di risorse infinito, senza i danni della fissione. Ritardi pluridecennali per adeguati investimenti in questa tecnologia, di non facile realizzazione, ne hanno causato numerosi slittamenti. Al momento col progetto Iter è in costruzione una macchina per studiare la fusione e il meccanismo replicabile per ottenerla. Si parla di una trentina di anni per il passaggio a una centrale a fusione che consenta la distribuzione dell’energia. Tecnicamente già oggi le future centrali a fusione potrebbero essere progettate secondo i principi dell’ecoefficacia.

10. Proposte di transizione

Per saldare i settori politici più avanzati e il movimento dei lavoratori è necessario un primo percorso di contrasto alla desertificazione industriale in atto in Italia, per provare a portare la realtà industriale italiana fuori dalla crisi economica ed ambientale del sistema capitalista, verso la riconversione ecoefficace delle fabbriche.

La gravità della situazione italiana è stata descritta qualche anno fa dal Forum economisti Cgil (61), secondo cui la nostra struttura produttiva non produce i beni e i servizi che il mercato domanda. Ad esempio, su 100 pannelli solari, 98 erano importati, 1 era prodotto da un’impresa estera in Italia, e solo 1 da un’impresa italiana. In base ai dati Eurostat il tasso di variazione degli investimenti è crollato del 17% tra il 2008 e il 2013, contro una media europea di meno del 10%. In Italia vi è stata, dunque, una crisi nella crisi, in cui le imprese italiane continuano a de-industrializzare.

Purtroppo non basta evocare, come fanno spesso i dirigenti sindacali, la necessità che il governo e il padronato si occupino di ‘politiche industriali’, ma è necessaria una lotta generale per imporre, anche a livello legislativo, la possibilità di esproprio dei siti produttivi abbandonati dai padroni.

Le leggi nazionali esistenti prevedono la possibilità di nazionalizzazione temporanea, decisa dal Ministero, laddove si ravvisi l’opportunità di salvare determinati impianti, ma sempre nella logica di ristrutturarli e riconsegnarli ai privati, mai nella logica che siano i lavoratori stessi a subentrare nella conduzione aziendale.

A questo va aggiunta la necessità di un potenziamento della ricerca scientifica e tecnologica, in grado di trasformare le possibilità aperte dai nuovi principi in progettazioni e, quindi, in riconversioni ecoefficaci.

Durante la crisi i lavoratori sono stati spesso promotori in tutta Italia di strategie per la riconversione. Tra le proposte, oltre a quella già citata dei lavoratori della Fiat di Pomigliano D’Arco, anche quella di un restyling ecocompatibile dei pullman da parte dei lavoratori dell’Iaa e quella dei lavoratori della Leuci di Lecco che ha visto la firma del Politecnico di Milano su un progetto noto come ‘Cittadella della luce’ che puntava su fotovoltaico di ultima generazione e risparmio energetico; anche i lavoratori dell’Ilva di Taranto si sono fatti promotori di denunce e proposte.

Questo in un quadro italiano in cui sono assenti:
– direttive governative che individuino con chiarezza almeno un settore d’importanza strategica nazionale su cui concentrare gli sforzi;

– direttive governative che individuino enti o istituiscano centri di ricerca in grado di progettare e seguire la riconversione ecoefficace delle industrie almeno del principale settore individuato come strategico nazionale, definendo anche risorse e tempi.
In questa direzione il movimento operaio potrebbe agire da protagonista appoggiandosi sui lavoratori delle diverse aziende.

Per questo proponiamo:

– che le organizzazioni politiche e sindacali promuovano una Prima assemblea meridionale sulla riconversione ecoefficace delle fabbriche, in cui si possano discutere le possibili modalità di superamento della frammentazione delle proprietà industriali nelle filiere di questo settore, in particolare per Fiat e relativo indotto, Iaa e Ilva di Taranto;

– che venga riconosciuta l’importanza strategica nazionale (ISN) del settore mobilità ecoefficace – rigenerazione dei materiali ferrosi – energie rinnovabili;

– la creazione, a livello nazionale, di un piano energetico basato sui principi dell’ecoefficacia che includa impianti per la ricarica di autoveicoli elettrici su tutto il territorio nazionale;

– l’esproprio da parte dei lavoratori dei siti produttivi abbandonati dai padroni, delle fabbriche che inquinano e di quelle in cui i padroni non compiano investimenti nella direzione della riconversione ecoefficace delle produzioni;

– il finanziamento e l’istituzione centri di ricerca pubblici in grado di progettare e seguire la riconversione ecoefficace delle industrie Isn. Enti o centri di ricerca il cui scopo sarebbe la realizzazione di studi e progettazioni sull’intero processo di riconversione che vadano dalla produzione di nuovi acciai e materiali, alle modalità di sovraciclaggio dei veicoli,  alle modifiche che possano renderli sempre più ecoefficaci, e che vedrebbero il coinvolgimento pieno ed attivo dei lavoratori nella fase della progettazione industriale;

– di chiedere in tempi brevi la completa revisione dei sussidi alle fonti energetiche, con uno stop immediato per quelli ad inceneritori e fossili e un significativo aumento di quelli per solare ed eolico e per i centri di ricerca ad essi connessi;

– di vincolare  l’incentivazione di cui al punto precedente all’istituzione di centri di ricerca gestiti dai lavoratori del settore energetico;

– di organizzare iniziative con i lavoratori per discutere la bozza dell’elaborato: “Verso il piano energetico socialista: le proposte dei lavoratori”.

 

Note

(1) Marx 1968, pag. 77.
(2) Ibid. pag. 111.
(3) Marx 1974, pag. 925.
(4) A cui, ne La critica al programma di Gotha, rimproverava l’attribuzione della produzione di ricchezza esclusivamente al lavoro dicendo che «il lavoro non è la fonte di ogni ricchezza. La natura è fonte dei valori d’uso (e in questi consiste la ricchezza effettiva!) altrettanto quanto il lavoro, che, a sua volta, è soltanto la manifestazione di una forza naturale, la forza-lavoro umana […] e il lavoro dell’uomo diventa fonte di valori d’uso, e quindi di ricchezza, in quanto l’uomo è fin dal principio in rapporto, come proprietario, con la natura, fonte di tutti i mezzi e oggetti di lavoro, e li tratta come cosa che gli appartiene» (Roma, 1973, pag. 23).(5) Nell’ambito del dibattito che si sviluppò nel PCI, le posizioni più interessanti restarono marginali, come quella dell’antropologo Giuseppe Di Siena, che criticò l’’ecologia di destra’, per la quale «l’imputata diventa la scienza, la scienza in generale, non i rapporti capitalistici di produzione, non quella scienza sussunta sotto questi rapporti sociali» (cit. Citoni-Papa 2010, pag.122). Critica ancora oggi di assoluta attualità. Nel 1971 il PCI organizzò il convegno ‘Uomo natura società. Ecologia e rapporti sociali’. Il convegno costituì anche «il tentativo di interlocuzione con alcuni intellettuali ed esponenti della cultura ecologica esterni al PCI (Giorgio Nebbia, Virginio Bettini, Dario Paccini e altri), indicando la teoria marxista e la lotta del movimento operaio per il socialismo come l’unico contesto in cui sia possibile affrontare coerentemente una crisi ambientale letta come frutto dello sviluppo capitalista». (cit. Citoni-Papa 2010, pag. 118 ).
(6) Cit. Citoni-Papa 2010, pagg. 121-122.
(7) Particolarmente significativa la citazione di un dirigente locale del partito piemontese che rivendicava: «i comunisti non vogliono la chiusura di cave e fabbriche, al contrario sono per lo sviluppo e l’espansione dell’attività industriale, e sono sicuri che già oggi ci siano gli strumenti tecnici e scientifici necessarie per eliminare i danni o ridurne l’impatto sull’ambiente» (cit. in Von Hardenberg, Pellizzari 2008, pagg. 86-87, utile anche per il discorso in  generale).
(8) Rapporto Brundtland elaborato nel 1987 dalla Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo.
(9) Contro le teorie malthusiane si erano già schierati Marx e Lenin.
(10) La storia e gli obiettivi del Club di Roma, un’organizzazione di scienziati, industriali e intellettuali di varia estrazione, sono reperibili nell’introduzione al volume.
(11) Cit. Latouche 2007, pag. 28.
(12) Cit. Woods, Grant 1997, pag. 193.
(13) Cit. Woods, Grant 1997, pag. 193.
(14) Cit. Tanuro 2011, pag.193.
(15) Latouche 2007, pag. 169.
(16) Come accade nell’ultimo libro di Latouche dal titolo Usa e getta. Le follie dell’obsolescenza programmata.
(17) Il suo lavoro fondamentale è intitolato L’impossibile capitalismo verde, Roma, Edizioni Alegre, 2011.
(18) Cit. Tanuro 2011, pag. 196.
(19) Cit. Tanuro 2011, pag. 197.
(20) Tanuro propone anche una ricostruzione storica per spiegare perché la deriva stalinista abbia portato l’Unione Sovietica a mutuare dai paesi occidentali il sistema di produzione capitalista. Le imprese di stato erano, infatti, gestite da direttori nominati dall’alto che, con una misura ripresa dal sistema capitalista, ricevevano incentivi individuali proporzionali al tonnellaggio delle materie prime impiegate. I direttori avevano, quindi, un interesse personale a seguire la logica produttivista di ‘produrre per produrre’, infischiandosene della domanda finale, secondo quello che Tanuro definisce un produttivismo burocratico, mentre un’economia collettiva non può funzionare senza il motore della democrazia dei produttori, e senza estendersi all’intero pianeta. Cit. Tanuro, 2011, pagg. 187-189.
(21) «A quei tempi credevo ancora che i due campi fossero destinati a scontrarsi. Mi ero lasciato convincere che l’industria fosse un male e che l’ambientalismo le fosse eticamente superiore». Cit. McDonough, Braungart 2003, pag. 11.
(22) Cit. Bevilacqua 2010, pagg. 72-73.
(23) Rende un’idea della dissipazione in atto quanto riportato in State of the World 2008:  «Ogni anno vengono estratte, elaborate e infine gettate via più di cinquecento miliardi di tonnellate di materie prime, delle quali meno dell’1% è incorporato in un prodotto e ancora utilizzato sei mesi dopo la vendita. Tutto il resto si trasforma in rifiuti». Cit. Hunter Lovins 2008, pag.102.
(24) W. McDonough, M. Braungart, Dalla culla alla culla, Torino: Blu Edizioni, 2003.
(25) «Il concetto ‘dalla culla alla culla’ è stato introdotto in Europa da Walter Stahel (…) nel 1976, come direttore di un progetto di allungamento della vita dei prodotti presso i laboratori di ricerca Battelle di Ginevra». Cit. Hunter Lovins 2008, pag. 113.
(26) «La necessità di armonizzare i nostri metabolismi con quelli naturali e le modalità per farlo sono ormai da vari anni oggetto di riflessioni, studi e proposte di diverse discipline come, per esempio, l’Industrial Ecology (l’ecologia industriale), rappresentata anche da un’apposita organizzazione scientifica, l’International Society for Industrial Ecology (si veda il sito http://www.is4ie.org)». Cit. Bologna in  Hawken, Lovins, Hunter Lovins 2011, pag. XIV.
(27) per approfondimenti si rimanda ai seguenti link: http://www.enea.it/it/produzione-scientifica/EAI/anno-2012/verso-la-green-economy/ruolo-della-simbiosi-industriale-per-la-green-economy; http://ec.europa.eu/environment/ecoap/about-eco-innovation/experts-interviews/212_it.htm. 
(28) Cit. McDonough, Braungart 2003, pag. 16.
(29) Cit. McDonough, Braungart 2003, pagg. 103-105.
(30) Cit. McDonough, Braungart 2003, pag. 48.
(31) Cit. McDonough, Braungart 2003, pag. 59.
(32) Cit. McDonough, Braungart 2003, pagg. 86-87. (33) Cit. McDonough, Braungart 2003, pag. 74.
(34) Cit. McDonough, Braungart 2003, pagg. 103-105. (35) Modalità che sono definite dagli autori di ‘subciclaggio’, in quanto riducono nel tempo la qualità dei prodotti puntando verso il ‘sovraciclaggio’, mantenendo, cioè, i materiali all’interno di un ciclo industriale chiuso e conservandone l’elevata qualità.
(36) Cit. McDonough, Braungart 2003, pagg. 94-95.
(37) alle pagine 106 e 107 McDonough e Braungart spiegano che: «La gran massa dei prodotti industriali può essere progettata specificamente in modo che conservi la sua elevata qualità in successivi impieghi. Attualmente quando un’auto viene rottamata, tutte le sue parti d’acciaio vengono riciclate in un amalgama che comprende anche le leghe d’acciaio di altri prodotti. L’auto viene schiacciata, pressata e sottoposta a lavorazione; così l’acciaio duttile della carrozzeria e gli acciai inossidabili vengono fusi insieme con altri frammenti e materiali che ne compromettono la qualità e riducono drasticamente le possibilità di ulteriori impieghi. (Per esempio, non possono più essere utilizzati per fare altre scocche.) Il rame dei cavi viene fuso in un unico composto e perde le caratteristiche che sarebbero richieste per utilizzi tecnici specifici (non può più essere utilizzato per i cavi)».
(38) Cit. McDonough, Braungart 2003, pagg. 106-107.
(39) Cit. McDonough, Braungart 2003, pag. 107.
(40) Cit. Pomigliano non si piega, Milano: A.C. Editoriale Coop, 2011, pag. 138.
(41) Link: http://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/domande_e_risposte/lessico/lessico_194.html: i principi della biomimesi sono enunciati nel testo di Gunter Pauli dal titolo Blue Economy (Edizioni Ambiente, 2010): «il modello di “green economy” ha richiesto alle imprese di investire di più e ai consumatori di spendere di più, per ottenere la stessa cosa o anche meno, preservando nel contempo l’ambiente. Sebbene ciò fosse già arduo durante il periodo d’oro della crescita economica, è una soluzione che ha poche speranze in un periodo di congiuntura economica, infatti la “green economy” nonostante l’impegno e le buone intenzioni non ha ottenuto il successo che tanto desiderava. La “blue economy” affronta le problematiche della sostenibilità al di là della semplice conservazione, lo scopo non è investire di più nella tutela dell’ambiente ma spingersi verso la rigenerazione».
(42) Pauli 2010, pag. 43. (43) «La trasformazione dell’attuale ciclo economico negativo, utilizzando la logica che regola gli ecosistemi, ci permetterà di soddisfare i bisogni primari e di creare una vera economia, una “blue economy”, un’economia dell’abbondanza». (Pauli 2010, pag. 59).
(44) Un esempio tra i molti che si potrebbero fare è il seguente: «Ma vi siete mai chiesti come facciano i fiumi a ripulirsi? Usano la fisica e il fabbisogno di nutrienti di due diverse famiglie di batteri. L’incessante corrente del fiume favorisce la creazione continua di vortici nell’acqua. Il vortice fa aumentare la pressione al centro del suo mulinello a livello di nano pressione e l’attrito rompe la membrana dei batteri. I batteri sono dunque trasformati in nutrienti che altri più a valle nel sistema possono utilizzare.[…]Con la nascente tecnologia dei vortici si possono eliminare sostanze chimiche inquinanti con l’aiuto della fisica. I potenziali risparmi energetici favoriti dalla tecnologia dei vortici e una miglior comprensione della geometria dei vortici permettono di sviluppare buone opportunità sia per le aziende sia per le società. Combinando queste conoscenze con i tetti a scacchi idrofili e idrorepellenti presi a prestito dal coleottero tenebrionide del deserto del Namib, si può ridurre il consumo energetico di materiali e produrre acqua dal tetto di un edificio». (Pauli 2010, pagg. 83-84).
(45) Cit. Sala, Castellani 2011, pag. 25.
(46) Cit. Sala, Castellani 2011, pag. 53.
(47) si veda al sito www.c2cn.eu.
(48) Woods, Grant 1997, pag. 32.
(49) Woods, Grant 1997, pag. 452.
(50) La citazione è riportata da Woods e Grant a pag. 451.
(51) Woods, Grant 1997, pag. 460.
(52) Woods, Grant 1997, pag. 461.
(53) Circa le possibilità di aumento dei posti di lavoro va tenuto conto ad esempio che «nel comparto manifatturiero circa un quarto della forza lavoro è occupata nella fornitura delle materie prime (acciaio, cemento, vetro ecc.) e tre quarti nelle produzioni vere e proprie. Gli input di energia hanno l’andamento contrario: tre quarti vengono utilizzati per estrarre le materie prime e un quarto per fabbricare i prodotti». Cit. Hawken, Lovins, Hunter Lovins 2011, pag. 42. Quindi rigenerare i prodotti significa poter offrire più posti di lavoro e usare meno energia.(54) E può addirittura ritorcersi contro i lavoratori come sta avvenendo nel Bangladesh, cfr. infra
(55) After Bangladesh, Seeking New Sources, The New York Times, 15 maggio 2013, link: http://www.nytimes.com/2013/05/16/business/global/after-bangladesh-seeking-new-ources.html?pagewanted=all&_r=0.
(56) Franco Bavila, ‘BANGLADESH Il Capitalismo uccide!’,  FalceMartello n. 253, 8 maggio 2012.
(57) Massimiliana Piro, ‘COP21 un accordo storico?’, Rivoluzione n. 12, 16 dicembre 2015.
(58) «In questo libro non si parla soltanto delle decine di milioni di poveri contadini morti in maniera terrificante, ma anche del fatto che sono morti in modi e per ragioni che contraddicono parecchie teorie classiche della storia economica del XIX secolo. Per esempio, come facciamo a spiegare il fatto che nel medesimo mezzo secolo in cui la carestia in tempo di pace è scomparsa in modo permanente dall’Europa occidentale, è cresciuta in maniera tanto devastante in gran parte del mondo coloniale?». Davies 2002, pag. 18.
(59) Cit. Fallot 1971, pag. 22.
(60) Massimiliana Piro, ‘L’assassinio di Berta Caceres e la ‘sporca scienza’ dell’imperialismo’, visibile a  https://www.rivoluzione.red/lassassinio-di-berta-caceres-e-la-sporca-scienza-dellimperialismo/
(61) in un articolo su Il Manifesto del 30 luglio 2013.

Bibliografia

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