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L’insurrezione al cinema. Le quattro giornate di Napoli

di Franco Bavila

 

Il regista

Nanni Loy (1925-1995) era noto ai suoi tempi soprattutto per il – discutibile – merito di aver introdotto per primo la candid camera nella televisione italiana, con la trasmissione televisiva Specchio segreto del 1965. In realtà è stato un importante regista cinematografico con all’attivo una ventina di film girati tra gli anni ’50 e gli anni ’90. Sebbene alcune delle sue pellicole (soprattutto nell’ultima fase della sua carriera) siano tutt’altro che memorabili, altre sue opere sono invece degne di riguardo, a partire da Audace colpo dei soliti ignoti del 1959, uno dei più riusciti e spassosi esempi di commedia all’italiana. Molta della cinematografia di Loy – e sicuramente la migliore – può essere catalogata nel filone di cosiddetta “denuncia sociale” e questo vale soprattutto per i suoi film degli anni ’70, che rispecchiano visibilmente il clima politico esplosivo dell’epoca.
Detenuto in attesa di giudizio del 1971 è uno dei suoi film più belli, dove la maschera da italiano medio di Al-berto Sordi viene messa al servizio di un drammatico atto d’accusa contro il sistema giudiziario. In Sistemo l’America e torno del 1974, nonostante il titolo ironico e la presenza di un attore comico come Paolo Villaggio, la condanna del razzismo e delle disuguaglianze sociali nella società americana è molto calcata e si tinge di tragico. Signore e signori, buonanotte del 1976 è addirittura un film sperimentale, scritto e diretto da un collettivo di sceneggiatori e registi denominato Cooperativa 15 Maggio, in cui viene condotta una satira spietata contro tutti i pilatri dell’ordine costituito dell’epoca, dalla Democrazia cristiana alla Rai, dalla Chiesa all’esercito.
Il vero capolavoro di Nanni Loy risale però ad un decennio prima ed è Le quattro giornate di Napoli del 1962, un autentico tributo alla straordinaria insurrezione popolare che, tra il 27 e il 30 settembre del 1943, portò alla cacciata delle truppe di occupazione tedesche da Napoli prima dell’arrivo degli Alleati, il primo esempio di un’insurrezione antifascista vittoriosa in una grande città europea.

Il contesto

Le quattro giornate di Napoli si inserisce in un particolare processo che all’inizio degli anni ’60 porta il cinema italiano a riscoprire le tematiche legate alla Resistenza dopo quasi un decennio di oblio.
Nell’immediato dopoguerra, grazie allo slancio politico rivoluzionario della Resistenza, si erano create le condizioni per lo sviluppo del Neorealismo, che con i capolavori di registi come Roberto Rossellini, Vittorio De Sica e Luchino Visconti ha rappresentato il movimento probabilmente più importante e di maggior rilevanza in-ternazionale nella storia del cinema italiano. In questo periodo di fermento culturale erano stati numerosi i film ambientati durante la Resistenza: qui ci basti citare il film manifesto di tutta la corrente neorealista, Roma città aperta (1945) di Roberto Rossellini, che descrive la resistenza della popolazione romana contro l’occupazione tedesca.
Negli anni ’50 era però seguito un periodo di reazione politica che aveva frustrato gran parte delle aspettative che la Liberazione aveva suscitato e anche l’esperienza neorealista si era progressivamente andata esaurendo. Dopo l’eccellente Achtung, banditi (1951) di Carlo Lizzani, che racconta di partigiani e operai che lottano fianco a fianco per impedire lo smantellamento di una fabbrica da parte della Wehrmacht, negli anni successivi sarebbero stati assai rari i film dedicati alla lotta partigiana.
La situazione cambia all’inizio degli anni ’60 quando cominciano le prime mobilitazioni operaie che saranno il preludio alla grande esplosione dell’Autunno caldo del 1969. Il risveglio del movimento operaio ha un riflesso nel cinema italiano, che torna ad occuparsi della Resistenza in numerose pellicole. Il primo film a rompere il ghiaccio è il magnifico Tutti a casa (1960) di Luigi Comencini, in cui all’indomani dell’8 settembre il viaggio di ritorno a casa di un sottoufficiale si accompagna al suo percorso di presa di coscienza che lo porterà ad unirsi ai partigiani. Un simile sviluppo è al centro anche del primo film in cui Nanni Loy affronta il tema della lotta antifascista: Un giorno da leoni (1961) si ispira ad un episodio reale (l’azione partigiana di sabotaggio al ponte Sette Luci sulla linea ferroviaria Roma-Formia) e tratta soprattutto delle vicende di tre ragazzi romani che, sulla base della loro esperienza concreta, comprendono la necessità di partecipare attivamente alla resistenza armata. Da questo punto di vista Le quattro giornate di Napoli rappresenta un ulteriore passo avanti: qui il processo che induce le persone comuni ad uscire dalla paura e a porsi sulla strada della ribellione aperta non viene più affrontato a livello individuale, ma abbraccia invece le masse di un’intera città.

Gli avvenimenti storici

Il film di Loy si caratterizza per la ricerca costante del massimo realismo possibile. La schermata iniziale prima dei titoli di testa, quella stessa in cui abbiamo letto un’infinità di volte “Gli episodi di questo film sono ispirati alla realtà”, in questo caso suona quasi come un manifesto programmatico, una dichiarazione d’intenti. Le scene in esterna, invece che essere realizzate in studio (a Cinecittà, come si faceva all’epoca), sono state in gran parte girate nei vicoli di Napoli e la popolazione locale ha partecipato attivamente alle riprese a fianco degli attori professionisti. L’eccellente lavoro di scenografia per ricostruire la Napoli martoriata dai bombardamenti alleati e dalle demolizioni tedesche di vent’anni prima traspare da ogni inquadratura e l’effetto complessivo è di grande autenticità. Soprattutto, nel film gli avvenimenti storici non sono semplicemente lo sfondo su cui si muovono i personaggi, ma coincidono interamente con la trama.
Nel “settembre nero” del 1943 le truppe tedesche in ritirata prendono il controllo di Napoli e, per impedire che la città diventi una base navale degli Alleati, iniziano a distruggere tutte le infrastrutture portuali e tutte le fabbriche. Per tenere la popolazione in soggezione gli occupanti fanno ricorso a rappresaglie ed esecuzioni sommarie. I quartieri più vicini al litorale vengono evacuati con la forza e 240mila persone sono costrette ad abbandonare le loro case. Su richiesta del comandante della guarnigione tedesca, il prefetto di Napoli emana un’ordinanza per il lavoro obbligatorio, in base alla quale 30mila uomini tra i 18 e i 33 anni devono presentarsi ai centri di reclutamento, per poi essere deportati in Germania. Si presentano solo 150 persone e allora il comando germanico fa partire rastrellamenti strada per strada allo scopo di fucilare i renitenti.
Dopo due settimane di terrore nazista i napoletani, esasperati, raccolgono le armi abbandonate dall’esercito italiano in disgregazione e si ribellano. Il 27 settembre nel quartiere Vomero alcune centinaia di insorti attaccano pattuglie tedesche e depositi di armi. Il giorno dopo l’insurrezione è già diffusa in tutta la città, che si ricopre di barricate. I nazisti prendono una cinquantina di ostaggi e li rinchiudono in un campo sportivo. I combattimenti continuano per tutto il 29 settembre e, nonostante l’impiego di carri armati e artiglieria, gli occupanti non riescono ad avere ragione dell’accanita resistenza della popolazione armata alla bene e meglio. La Wehrmacht, un fatto senza precedenti, è costretta a trattare su un piano di parità con i ribelli: accetta di rilasciare gli ostaggi in cambio del libero passaggio per uscire da Napoli. Il 30 le truppe germaniche si ritirano dalla città e, quando il giorno dopo arrivano i primi carri armati anglo-americani, a Napoli non è rimasto un solo soldato tedesco.
Significativamente il film si conclude con la ritirata nazista e l’arrivo degli Alleati non viene mostrato: niente liberatori a stelle e strisce in questo film, neanche nel finale.

Il film

Le quattro giornate di Napoli non è una piccola produzione indipendente, ma è realizzato da una famosa casa di produzione dell’epoca, la Titanus, con un certo dispendio di mezzi ed è stato anche candidato all’Oscar sia come miglior film straniero che per la miglior sceneggiatura. Il cast è di tutto rispetto con Lea Massari, Aldo Giuffré, Jean Sorel, Frank Wolff e George Wilson; su tutti spiccano Regina Bianchi, straordinaria attrice teatrale della compagnia De Filippo, e Gian Maria Volonté, uno dei più grandi attori italiani di sempre. Ciascuno di questi attori recita però in una piccola parte e appare sullo schermo solo per pochi minuti. Nel film infatti non ci sono personaggi principali e la storia si compone di tanti piccoli frammenti che si intrecciano tra loro. Si tratta di un film corale, per certi aspetti addirittura “collettivo”, visto che tutti gli attori hanno accettato di non essere citati né nei titoli di testa né in quelli di coda, a sottolineare come l’unico vero protagonista fosse solo ed esclusivamente il popolo napoletano.
La regia di Nanni Loy è ispirata. Le scene di combattimento sono vigorose e non hanno nulla da invidiare ai più spettacolari film bellici dell’epoca. Nella miglior tradizione del cinema italiano, gli elementi tragici si fondono perfettamente con quelli comici e proprio grazie a questo connubio viene evitato il rischio della retorica. Nel film infatti non c’è traccia di quell’eroismo posticcio che caratterizza il peggior cinema di guerra anche ai giorni nostri. Loy descrive il “popolo” senza nasconderne i limiti e i pregiudizi. Nemmeno viene edulcorata l’inevitabile durezza della guerra, come si vede bene nella scena in cui gli insorti si vedono costretti a sparare sugli ostaggi – usati come scudi umani – per impedire la sortita tedesca dal campo sportivo.
Altissimo è il livello di coinvolgimento emotivo dello spettatore, che si sente partecipe sia delle sofferenze della popolazione napoletana sotto il tacco nazista, che dell’esaltazione nel momento della riscossa. Si pensi all’inquietudine delle scene in cui interminabili colonne militari sfilano per le vie di una città semideserta tra gli sguardi attoniti di pochi passanti. Oppure alla disperazione delle famiglie costrette ad abbandonare le loro case e ad elemosinare ospitalità dai conoscenti, che è resa in modo palpabile, così come l’umiliazione delle persone costrette con le armi ad assistere alla fucilazione “esemplare” di un giovane marinaio. Ed è impossibile non entusiasmarsi di fronte a scene come quella in cui una colonna tedesca che attraversa un vicolo è costretta a ritirarsi dalla pioggia di tavoli, mobili, lampadari e gabinetti che gli abitanti, in mancanza di armi, le gettano addosso dalle finestre.
Uno dei punti di forza de Le quattro giornate di Napoli è la naturalezza con cui viene descritto un processo rivoluzionario concreto e non idealizzato. Questo riguarda innanzitutto il ruolo delle donne e dei giovanissimi, che furono tra i principali protagonisti delle Quattro giornate – un elemento ricorrente in tante altre rivoluzioni nel corso della storia. Nel film si vede infatti che il primo gesto di ribellione viene compiuto proprio dalle donne, che travolgono le sentinelle e assaltano i camion per liberare i loro uomini catturati. I giovani invece sono ben rappresentati dagli scugnizzi della “Banda Aiello”, interamente composta da adolescenti evasi dal riformatorio che si riveleranno essere tra i combattenti più risoluti; i momenti più melodrammatici della pellicola peraltro sono proprio quelli che riguardano la tragedia di Gennarino Capuozzo, dodicenne ucciso mentre tentava di attaccare un carro armato con una bomba a mano e alla cui memoria è dedicato il film.
Nanni Loy è efficace soprattutto nel raccontare come i grandi eventi possono determinare un salto di qualità nella coscienza collettiva. Di fronte al crollo delle istituzioni e di tutte le certezze, in un contesto di rottura con tutte le abitudini di una vita “normale” (il direttore del riformatorio si lamenta del fatto che “non c’è più legge, non esiste polizia e cadono le bombe”), anche le persone più semplici possono cambiare molto rapidamente il loro modo di pensare e di agire.
Il film comincia significativamente con uno dei cliché della napoletanità, una processione della Madonna, che però viene bruscamente interrotta dall’allarme aereo costringendo i fedeli a disperdersi per cercare riparo, quasi a simboleggiare l’impossibilità di proseguire con la consueta esistenza. Esemplificativo è anche il caso della pattuglia di soldati italiani che di fronte all’aggressione tedesca si liberano delle armi e delle divise e tentano di squagliarsela via mare; solo dopo aver assistito impotenti al massacro di alcuni fuggiaschi inermi su una piccola imbarcazione, si renderanno conto che non è possibile salvarsi con la fuga, torneranno a riprendere le armi e saranno in prima fila nei combattimenti. La rapidità nella trasformazione delle coscienze viene resa efficacemente nella scena in cui un signore distinto armato di fucile, subito dopo aver abbattuto un soldato tedesco, esclama sconsolato: “Chi l’avrebbe mai detto stamattina quando mi sono alzato che avrei ucciso un uomo, io che non ho mai ammazzato nemmeno una mosca?.”

Le questioni politiche

Alla sua uscita Le quattro giornate di Napoli è oggetto di una serie di attacchi reazionari da parte del governo e della stampa della Germania Ovest, che accusano Loy di essere fazioso, difendono l’onorabilità della Wehrmacht e denigrano in modo sprezzante i napoletani. Si tratta di campagne tanto becere che in Italia, giocoforza, si moltiplicano le iniziative istituzionali a difesa dell’opera di Loy e ben presto il giudizio sul film si trasforma in una questione patriottica. D’altronde il 1962 è l’anno in cui si forma il primo governo di centrosinistra, guidato dal democristiano Fanfani, con l’appoggio esterno dei socialisti e un’opposizione molto benevola da parte del Pci: l’esperienza avrà vita breve e risultati deludenti, ma per il momento un po’ di propaganda tricolore a buon mercato torna utile a consolidare i nuovi orientamenti governativi.
Se la retorica patriottica abbonda nelle mozioni congiunte dei consiglieri e dei deputati democristiani, socialisti e comunisti, nel film invece scarseggia. Si veda come, dopo l’armistizio, tutti festeggiano la fine della guerra, “anche se la guerra l’abbiamo persa”. Gli insorti chiaramente non combattono per l’onore nazionale, ma innanzitutto per autodifesa e poi per riappropriarsi delle loro vite. Si pensi al soldato interpretato da Aldo Giuffré, che spara a più non posso contro un panzer con un pezzo di artiglieria strappato al nemico, animato solo dal desiderio di tornare a Sorrento per vedere suo figlio appena nato. Persino gli ufficiali che si uniscono alla ribellione non lo fanno certo come fedeli servitori del re e della patria, ma solo dopo aver ripensato criticamente alla loro precedente esperienza nell’esercito: il capitano interpretato da Volonté ha servito in Albania, Jugoslavia e Russia ed è pure rimasto mutilato, ma dopo il tracollo dell’8 settembre capisce di essere stato strumentalizzato, di essere stato “il più fesso di tutti i fessi” e si mette al servizio dei ribelli.
Al di là di questo, a non essere banale è soprattutto la scelta del soggetto. In quel periodo le Quattro giornate non erano un argomento molto gradito, in primo luogo nella stessa Napoli dove nel corso degli anni ’50 a prevalere erano state le forze reazionarie facenti capo al sindaco Achille Lauro. L’insurrezione napoletana era però un episodio dimenticato anche nelle celebrazioni della Resistenza, per il semplice fatto che l’antifascismo ufficiale non vi aveva giocato alcun ruolo. Il Fronte nazionale, diretta emanazione dei partiti antifascisti del Comitato di liberazione nazionale, rifiutò di partecipare all’insurrezione sostanzialmente per motivi di lealtà nei confronti del governo legittimo, cioè quello presieduto dall’ex generale fascista Badoglio.
Proprio perché così marcata era stata la distanza tra l’antifascismo rivoluzionario delle masse e l’antifascismo istituzionale di vertice, le Quattro giornate stonavano in particolar modo con la linea adottata dal Partito comunista italiano sotto la direzione di Togliatti nel ’43-’45. In nome dell’unità nazionale il gruppo dirigente del Pci aveva costantemente subordinato l’azione del movimento partigiano all’unità con la vecchia classe dirigente, che si era appena tolta la camicia nera per indossare il tricolore. Per questo motivo le Quattro giornate erano finite ai margini della memorialistica della Resistenza, considerate poco più di un sussulto momentaneo, caotico e sostanzialmente apolitico. Curiosamente questa medesima ricostruzione è in maniera speculare anche alla base di un orientamento storiografico opposto, quello di stampo più “meridionalista” teso ad esaltare lo spontaneismo napoletano e il carattere di una rivolta “davvero di popolo” – perché vi partecipavano tutti i ceti sociali – da contrapporre alla Resistenza del Nord più organizzata e caratterizzata a sinistra.
L’opera di Nanni Loy risente inevitabilmente di questa chiave di lettura, egemone nel campo intellettuale di allora (fortemente influenzato dal Pci) e ampiamente diffusa ancora oggi. Il film sceglie di concentrarsi sulle giornate dell’insurrezione e di conseguenza l’orizzonte politico rimane quello della cacciata dell’invasore straniero, mentre non si entra negli aspetti più controversi che si verificarono soprattutto all’indomani dell’arrivo degli Alleati, che presero il controllo della città, disarmarono gli insorti e lasciarono in tutti i posti chiave il personale ex fascista. D’altra parte stiamo parlando solo di un film, non di un trattato politico, e non spetta certo ad un regista – per quanto progressista – il compito di offrire una linea politica alternativa alla direzione del movimento operaio. Semmai a stupire è che il film offra una serie di spunti interessanti sul rapporto tra le classi sociali e la guerra, che è un peccato non siano stati maggiormente sviluppati. Ne citeremo qui solo alcuni.
La natura industriale e proletaria di Napoli appare chiaramente in una delle scene più suggestive, quando i nazisti nel corso della notte distruggono un impianto industriale e tutto attorno gli operai, le loro famiglie e gli abitanti del quartiere osservano sconsolati la loro fabbrica bruciare senza riuscire a dire nemmeno una parola. Il professore che dirige la battaglia al Vomero è chiaramente (anche se non esplicitamente) ispirato alla figura di Antonio Tarsia, un comunista dissidente rispetto alla linea togliattiana, che assieme ad altri aveva fondato un Fronte unico rivoluzionario con sede nel liceo Sannazzaro. Il personaggio femminile interpretato da Lea Massari è divisa tra il marito, “una persona per bene, un ragioniere con tanto di croce di cavaliere” che durante i combattimenti se ne resta al sicuro in casa, e l’uomo che ama, un ferroviere che è tra i primi ad accorrere sulle barricate. A un certo punto si vede che gli insorti assaltano un forno per distribuire la farina e il proprietario invoca l’aiuto dei “camerati tedeschi” per difendere il suo negozio. Quanto al ruolo della classe operaia è degno di nota che ad accogliere la resa tedesca sarà un “altofornista di Bagnoli”.
Per tutti questi motivi le Quattro giornate di Napoli ancora oggi rappresenta una boccata d’aria fresca contro tutte quelle commemorazioni mummificate e istituzionalizzate della Resistenza, che cercano di seppellire sotto una coltre di stucchevole moderatismo tutto lo spirito sovversivo e la vitalità rivoluzionaria della lotta antifascista.

 

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