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Lenin e l’“oro” del Kaiser: obiettivi e miseria di una calunnia antibolscevica

di Francesco Giliani

 

Il piccolo giornale su carta gialla di uno dei figli di Suvorin, il potente editore del Novoe Vrema, propinò il giorno dopo [5 luglio 1917] ai lettori un documento di intonazione ufficiosa secondo il quale Lenin avrebbe ricevuto direttive e denaro dal governo tedesco. La breccia era stata aperta e, nonostante la proibizione [del comitato centrale dei Soviet], il giorno dopo la notizia sensazionale riempiva tutta la stampa. Così aveva inizio l’episodio più inverosimile di un anno ricco di avvenimenti: i dirigenti di un partito rivoluzionario che per decine d’anni avevano dedicato la loro vita alla lotta contro i potenti del mondo incoronato e non incoronato, venivano presentati al paese e al mondo intero come agenti stipendiati dagli Hohenzollern. Questa calunnia di incredibile portata fu fatta penetrare profondamente tra le masse popolari, la cui schiacciante maggioranza aveva udito per la prima volta il nome dei dirigenti bolscevichi dopo l’insurrezione di febbraio. La diffamazione divenne un fattore politico di primo piano. Per questo è indispensabile studiarne più attentamente il meccanismo

(L. Trotskij, 1932).1

“[Lenin] ha un debito con la Germania, che gli ha promesso di attraversare il suo territorio per tornare in patria dalla Svizzera, e lo paga subito: prima sabota lo sforza bellico e poi, una volta al potere, accetta un trattato di pace umiliante per la Russia

(S. Romano, 2017).2

L’essenza di una questione attuale

Come è noto, presentare le rivoluzioni come processi generati dall’intervento straniero ed i rivoluzionari come agenti sul libro-paga di una qualche potenza estera è una costante sociale nell’agire della classe dominante. La troviamo nelle rivoluzioni borghesi d’età moderna3 (XVII e XVIII secolo) ed anche in quelle proletarie e socialiste del XX secolo. La repressione seguita alle “primavere arabe”4 ha dimostrato che tale tendenza non ha smesso di funzionare nel XXI secolo.

Per quanto riguarda le calunnie su rapporti, durante la Prima guerra mondiale, tra Lenin e i bolscevichi da una parte e lo stato maggiore tedesco dall’altra, noti e reputati storici accademici continuano a veicolare tale leggenda come verità evidente: tra gli altri, ricordiamo D. Volkogonov, H. Carrère d’Encausse e A. Adler. In questo elenco non manca A. Solženicyn, il dissidente sovietico più caro all’Occidente capitalista, il quale non è mai stato uno storico ma, nel suo romanzo Lenin a Zurigo, si comporta come tale e rilancia la calunnia del rapporto segreto tra Lenin e Parvus,5 socialdemocratico russo effettivamente passato al servizio dello spionaggio tedesco agli inizi della Prima guerra mondiale. Nel novantesimo anniversario della rivoluzione bolscevica, il settimanale tedesco Der Spiegel aveva fatto la sua parte nel tenere viva questa leggenda, intitolando un suo servizio La rivoluzione comprata.6 Più vicini a noi, L. Canfora e S. Romano riprendono con imbarazzante superficialità la leggenda sui legami tra Lenin e lo stato maggiore tedesco in un dialogo pubblicato sull’inserto La lettura del Corriere della Sera di fine gennaio 2017 che abbiamo già criticato nel dettaglio.7

B. Souvarine8, pioniere del comunismo francese divenuto poi conservatore, smontò tutta la leggenda sull’“oro” di Lenin già a metà degli anni ’70 – peraltro, all’epoca, era da decenni decisamente anticomunista – ma ciò non ha impedito alle falsificazioni di continuare a circolare e di assumere sempre nuove forme. La questione è decisamente di natura politica: la classe dominante sente il bisogno di calunniare Lenin in ogni modo, se ne vada al diavolo la correttezza storica e filologica! Souvarine, con senso di frustrazione, affermò appunto che su questo tema “si scrive tutto ed il contrario di tutto”.9 È proprio questo il metodo col quale è portata avanti da decenni la battaglia per infangare l’azione di Lenin.

Tutto nasce nel 1917 in Russia

Le accuse di germanofilia erano un’abitudine per i bolscevichi. Sin dallo scoppio della Prima guerra mondiale, l’opposizione internazionalista di quel partito al conflitto – considerato un prodotto dell’imperialismo da ogni lato – gli valse insinuazioni e accuse di intelligenza più o meno volontaria col “nemico” da parte dei patrioti di ogni tendenza, compresi i socialisti “difensivisti” favorevoli alla guerra. Le accuse colpivano anche partiti ben più moderati dei bolscevichi. Nel 1915 il presidente della Duma, Rodžjanko, scrisse a proposito di un discorso del socialrivoluzionario (Sr) Cheidze che “gli avvenimenti successivi hanno dimostrato i contatti di Cheidze con gli ambienti tedeschi”.10 Talora, le accuse degli ambienti militari e di corte toccavano anche i liberali, sempre pronti a scaricare tali responsabilità sui partiti alla propria sinistra. Non può, dunque, meravigliare che la stessa rivoluzione di febbraio sia stata interpretata da ben più di un reazionario come il frutto di un complotto i cui fili si tenevano a Berlino. Così, lo slavofilo e zarista P. Von Struve, malgrado le sue origini tedesche, non aveva dubbi: “Quando la rivoluzione russa, tramata e meditata in Germania, ebbe esito positivo, in sostanza la Russia abbandonò la guerra”.11 Appena più sfumato, il liberale P. Miljukov, membro del governo provvisorio fino alle manifestazioni di protesta dei soldati ad aprile ’17 contro le sue posizioni di guerra a oltranza, scrisse: “Il ruolo delle ‘fonti oscure’ nell’insurrezione di febbraio non è affatto chiaro, ma a giudicare da tutto quello che ne è seguito, è difficile negarlo”.12 Specularmente, governo e stato maggiore germanici erano impregnati della convinzione che lo zarismo fosse stato rovesciato sulla base di una macchinazione inglese – Londra era timorosa di una pace separata tra l’impero tedesco e lo zar – al punto da diffondere nelle trincee russe, dopo la rivoluzione di febbraio, un proclama del genere: “All’inizio, gli inglesi marciavano con il vostro zar, ma ora si sono ribellati contro di lui, perché non teneva conto delle loro interessate esigenze. Hanno rovesciato il vostro zar, unto dal Signore. Perché è accaduto questo? Perché egli ha compreso e smascherato l’intrigo perfido e menzognero dell’Inghilterra”.13 Come si vede, la filosofia della storia di un generale zarista, di un ufficiale degli Hohenzollern e di un liberale russo non differiscono su nulla di fondamentale quando devono dar conto dell’irrompere della lotta degli sfruttati nella storia umana. Complotto, complotto, complotto: la rivoluzione non può essere l’opera creatrice di quei milioni di operai e contadini considerati “inferiori” e sottomessi per natura. Il senso del proclama germanico diventa ancora più grottesco se si considera che, sin dal 1914, l’impero germanico aveva cercato di fomentare le tendenze nazionaliste in Ucraina e nel Caucaso.

Le accuse di germanofilia contro i bolscevichi si intensificarono quando, nell’aprile del 1917, divenne chiara la prospettiva di Lenin per la rivoluzione russa: pace, pane e terra come asse programmatico e “tutto il potere ai soviet” come indicazione strategica.

Prima delle “giornate di luglio”, tuttavia, gli attacchi ai bolscevichi presentavano la politica di Lenin come ausilio “oggettivo” alla vittoria militare degli imperi centrali. È vero, d’altronde, che nelle trincee gli ufficiali andavano meno per il sottile coi termini ben prima del luglio. Comunque, dopo la “quasi-insurrezione” del 3 luglio, contenuta dai bolscevichi persuasi che l’accumulazione di forze non fosse ancora sufficiente per la presa del potere in tutta la Russia, la repressione governativa si scagliò con inaudita violenza contro il partito di Lenin e contro i reggimenti che avevano animato la rivolta. La tipografia della Pravda, comprata ad aprile al prezzo di 75mila rubli grazie a una sottoscrizione tra gli operai, venne distrutta e saccheggiata da bande di ufficiali. Sui dirigenti del partito si abbatterono l’accusa governativa di “complotto e insurrezione armata” e una serie di perquisizioni e arresti. Il partito fu temporaneamente sospinto in una situazione di semilegalità. La minaccia rivoluzionaria del bolscevismo era ormai manifesta. La domanda di calunnie contro i bolscevichi, di conseguenza, era al culmine. L’offerta non si fece attendere.

I documenti “sensazionali” diffusi dal Novoe Vrema si basavano sulle dichiarazioni di due personaggi, questi sì, oscuri e intriganti: i due “eroi” di giornata erano Ermolenko, agente del controspionaggio russo passato al servizio dei tedeschi e probabile doppiogiochista, ed il commerciante Burstein, definito dal capo della sezione di controspionaggio dello stato maggiore, il principe Turkestanov, “un tipo di affarista losco che non rifugge da nessuna azione”.14 Le dichiarazioni di Ermolenko erano di una cialtroneria stupefacente: i due ufficiali tedeschi che lo avevano reclutato quando era prigioniero di guerra gli avevano a suo dire confidato, prima di spedirlo in Russia a sobillare gli ucraini, che anche un certo Lenin lavorava, come lui, per il Kaiser! Burstein, per parte sua, puntò il dito contro le operazioni commerciali tra Stoccolma e Pietrogrado di due “vecchi” militanti bolscevichi, il polacco Ganetskij e Kozlovskij. I due lavoravano per una ditta commerciale che faceva entrare in Russia, senza licenza, merci delle quali vi era penuria. Quel tipo di operazione non aveva nulla a che fare con la politica e il Partito bolscevico, meno che mai, era immischiato in quei traffici; a Ganetskij, peraltro, non appena si diffusero le voci sulla sua attività economica, il Cc del Partito bolscevico revocò il titolo di membro del bureau del partito a Stoccolma. Questa era l’intera base della faccenda…

A mettere in giro questa calunnia era stato, con la complicità del Ministero della giustizia e dello stato maggiore, un classico provocatore: Grigorij Aleksinskij, deputato alla seconda Duma e bolscevico di sinistra tra il 1907 e lo scoppio della guerra, quando passò anima e corpo al socialpatriottismo e al gruppo di Plekhanov. Sin da quel momento, Aleksinskij si era specializzato nella denuncia di tutto e tutti come agenti del Kaiser. L’associazione parigina dei giornalisti esteri – Aleksinskij risiedette in esilio a Parigi fino al 1917 – lo definì un disonesto calunniatore e lo espulse. Schiumante di rabbia patriottica, nella seconda metà del luglio 1917 Aleksinskij iniziò a coinvolgere anche i menscevichi, a partire da Dan, nelle sue deliranti ricostruzioni su presunti complotti diretti dalla Germania sul “sacro” suolo russo.

Come agì, in questo frangente, Lenin? Impregnato di realismo rivoluzionario, ritenne che la reazione avrebbe potuto spingersi sino all’eliminazione fisica sua e del gruppo dirigente bolscevico. Per tale ragione, Lenin richiese di parlare solo con la Commissione d’inchiesta creata dal Comitato esecutivo dei soviet, fissando per il 7 luglio un appuntamento che fosse al riparo da agguati di controrivoluzionari. Accompagnato da Zinovev, Lenin rimase per l’intero pomeriggio nel luogo convenuto per la riunione. Nessun membro della Commissione si presentò. Da tale avvenimento Lenin fu persuaso che, ormai, le forze conciliatrici mensceviche e Sr maggioritarie nel Soviet avevano capitolato al clima reazionario di luglio e sarebbero rimaste inerti di fronte allo scatenarsi della controrivoluzione più acuta. Capace, più di chiunque altro, di non farsi influenzare dalla cosiddetta opinione pubblica, anche riformista, Lenin decise allora di sottrarsi all’indagine e si nascose, sotto mandato di cattura, prima nei dintorni di Pietrogrado e poi in Finlandia. Il Partito bolscevico, nel suo insieme, nonostante l’ondata di repressione e fango che gli fu gettata addosso, seppe anch’esso resistere alle pressioni e rimanere coeso nella sua linea di opposizione intransigente al governo provvisorio.

La campagna diventa internazionale

Nel corso della Prima guerra mondiale, l’accusa di essere agenti dello straniero non fu utilizzata soltanto sul suolo russo. La stampa liberale dei paesi dell’Intesa schiumava di rabbia contro quei rivoluzionari russi emigrati in Europa e non esitava a definirli “germanofili”, come attestano le memorie di Angelica Balabanoff15 ma anche di Trotskij. Come ricorda Alfred Rosmer nella sua imponente monografia sul movimento operaio di fronte alla Prima guerra mondiale,16 furono calunniati come “germanofili” gli stessi sindacalisti rivoluzionari francesi, che in quel paese erano stati l’unica tendenza politica contraria alla guerra sin dal 1914 e perciò perseguitata nella “democratica” Francia. Da simili accuse dovettero difendersi anche i socialisti italiani, particolarmente dopo la disfatta di Caporetto.

Con la presa del potere da parte dei bolscevichi, la canea reazionaria tornò, comprensibilmente, a concentrarsi verso la Russia sovietica. Nel 1918 Eduard Bernstein, noto revisionista e dirigente del Partito socialdemocratico tedesco (Spd), riprese la leggenda sull’“oro di Lenin” e, sul giornale di Maksim Gorkij, scrisse: “Il ruolo dei bolscevichi era identico a quello di agenti tedeschi per i quali la Germania ha speso milioni per diffondere tra i popoli dei paesi alleati e neutrali le idee del pacifismo, dell’antimilitarismo, dell’anticapitalismo e della rivoluzione.17 Bernstein calunniava rabbiosamente e, senza senso del grottesco, arrivava ad affermare che gli agenti del Kaiser e di Ludendorff18 avevano sparso in giro per l’Europa le idee della rivoluzione socialista! In quell’anno, in piena guerra civile, la questione diventò anche affare internazionale e di Stato: il governo statunitense, infatti, allora alleato dell’Intesa, pubblicò una serie di documenti detti “rapporto Creel-Sisson” che avrebbero inchiodato Lenin. Già nella sua Storia della rivoluzione russa, Trotskij ricorda che ben presto si scoprì che gli originali di tutti i documenti contenuti in quel rapporto, che si presumeva provenissero da paesi diversi, erano stati battuti sulla medesima macchina da scrivere! Nel gennaio-febbraio del 1959 fu addirittura la rivista Problems of Communism, pubblicata dallo stesso Dipartimento di Stato Usa, a riconoscere che il rapporto Creel-Sisson era un falso. La voce di Bernstein nel 1921 tornò all’attacco utilizzando le colonne del quotidiano socialdemocratico Vorwärts per asserire velenosamente che il vagone col quale Lenin era tornato in Russia era un “vagone-salotto” e per quantificare la somma versata dallo stato tedesco in 50 milioni di marchi-oro. L’intento di infangare, con Lenin, il nascente movimento comunista internazionale è del tutto evidente, nell’assenza totale di prove. L’argomentazione di Bernstein era farneticante: egli spiegava che “attraverso un amico ha ottenuto informazioni da una persona ben informata” la quale ne ha ricevute altre “da parte di fonti degne di fiducia” tra le quali “un ufficiale” che a sua volta ha citato “un importante membro del parlamento di uno dei paesi alleati col quale aveva contatti ufficiali.19 Come commenta lo storico Jean-Jacques Marie, “tutto quel bel mondo è totalmente anonimo; Bernstein non cita un solo nome”.20

Nei decenni seguenti, quella calunnia non si è mai spenta e si è variamente articolata con le farneticazioni sul treno col quale Lenin, assieme a una trentina di rivoluzionari russi, attraversò la Germania per rientrare in una Pietrogrado in piena rivoluzione. L’interesse politico di classe servito da queste due leggende – l’oro e il treno – è ancora lì.

Parvus, Lenin in Svizzera e il treno: un’altra stratificazione di falsità

Nel secondo dopoguerra, le opere di riferimento della letteratura complottista leninofoba diventano la biografia di Parvus scritta da Zeman con la collaborazione di Scharlau21 ed una serie di documenti del Ministero degli esteri tedesco raccolti dal solo Zeman.22

Chi è stato, dunque, Parvus? Nel 1915 Parvus era un rivoluzionario russo da poco vendutosi ai servizi segreti della Germania imperiale, a suo parere solo strumento utile al rovesciamento dello zarismo. Secondo i due autori, Parvus sarebbe stato uno degli agenti di collegamento tra il Kaiser e i bolscevichi. Peccato che, come dimostra Souvarine, Lenin venga nominato ben 46 volte nei 136 documenti citati da Zeman ma in nessun caso si affermi che egli abbia preso soldi dai tedeschi o se ne faccia allusione. Molti lo cercavano e gli ronzavano attorno ma lui si teneva alla larga da ogni intrigo. A conferma di ciò Lenin, dopo un breve incontro a Berna con Parvus nel maggio 1915, fiutò il cambiamento del personaggio – a quel tempo nessuno lo poteva sapere con certezza –, troncò ogni rapporto con lui e consigliò vivamente gli altri compagni di partito di fare lo stesso. Quando, poco tempo dopo, uscì il giornale Die Glocke (La campana), fondato da Parvus, Lenin lo definì “cloaca dello sciovinismo tedesco”.23 Altri presero soldi “tedeschi”, oltre al già citato Parvus: un socialista-rivoluzionario di nome Tsivin e un ex socialdemocratico estone diventato nazionalista, un tal Kesküla. Shlyapnikov, durante la guerra tesoriere del Partito bolscevico clandestino, ricorda nelle sue memorie di aver mandato al diavolo Kesküla che gli voleva offrire soldi e armi.24 Più tardi, anche la Germania si sbarazzò di quel ciarlatano che si era intascato 60-70mila marchi per svelare il programma dei bolscevichi – disponibile su due edizioni del loro giornale a 10 centesimi l’una25 – e, per rendersi importante, aveva inventato l’iperbolico scoop sensazionalista che nel programma del partito di Lenin figurasse il progetto di “invadere l’India con l’esercito russo26 (sic!). Anche Parvus, megalomane, la sparava troppo grossa: promise di essere in grado di unificare tutte le correnti del socialismo russo ed anche di essere a conoscenza del giorno in cui sarebbe scoppiata l’insurrezione a Pietrogrado, ovvero il 22 gennaio 1916. Quel giorno, però, non accadde proprio nulla. Anche lo spionaggio tedesco smise di farsi imbrogliare e dal febbraio 1916 non versò più un solo pfenning sul conto di Parvus. In totale, dai documenti ritrovati negli archivi dei ministeri tedeschi, risulta che questi abbia ricevuto un milione di marchi dagli agenti del Kaiser; la pretesa di Parvus di averli trasmessi a Pietrogrado, senza mai dire quando e a chi, è in tutta probabilità un tentativo di coprire il fatto che quei marchi se li mise in tasca e basta. Peraltro, la Pravda era il giornale dal formato più piccolo tra tutti quelli che uscivano in Russia dopo la rivoluzione e non si è mai capito in che modo i bolscevichi avrebbero utilizzato questo fantasmagorico flusso di marchi. Trotskij, al contrario, ritiene che i mezzi materiali del bolscevismo nel 1917 colpissero per la loro irrilevanza. A fine agosto l’organo centrale del partito era stampato in 30mila copie e nel settembre, quando il partito diventava maggioranza nei soviet di Pietrogrado e Mosca, i fondi del Cc bolscevico ammontavano ad appena 30mila rubli. La spiegazione dell’apparente enigma costituito dalla discrepanza tra fondi e diffusione tumultuosa e rapida delle idee e dell’organizzazione è, tuttavia, semplice: “Le parole d’ordine che corrispondono alle esigenze profonde di una classe e di un’epoca trovano migliaia di canali. L’ambiente rivoluzionario, divenuto incandescente, è un ottimo conduttore di idee. I giornali bolscevichi erano letti ad alta voce, riletti sino ad essere ridotti a brandelli, gli articoli principali venivano imparati a memoria, riferiti, ricopiati e, dove possibile, ristampati. […] Nello stesso tempo, la stampa borghese, inviata al fronte gratuitamente a milioni di esemplari, non era letta da nessuno. I pesanti pacchi non erano neppure aperti.”27 L’oro del Kaiser versato a Lenin è, dunque, un falso grossolano, veicolato a più riprese ed in più versioni, prodotto al solo fine di calunniare Lenin e la rivoluzione d’ottobre. Un elemento, dunque, della lotta di classe condotta dalla borghesia nel campo delle idee.

Se il Kaiser e Ludendorff hanno pensato di approfittare, sul terreno militare, del rientro in Russia di Lenin e di alcune centinaia di socialisti esuli in Svizzera, la loro miopia è in realtà l’elemento chiave della situazione assieme all’intelligenza strategica di Lenin. Infatti, è molto chiara anche la storia del viaggio dalla Svizzera alla Russia di quel treno che non era blindato e di quel vagone che non era piombato, al netto di ogni leggenda complottista.28 Questi emigrati politici si videro rifiutare qualsiasi possibilità di rientro in Russia tramite Francia e Inghilterra dalle potenze dell’Intesa, ostili al ritorno nella Russia in piena rivoluzione di alcune centinaia di rivoluzionari, peraltro non soltanto bolscevichi. In questo frangente il 19 marzo 1917, in una riunione generale degli esuli tenutasi a Zurigo, Martov,29 menscevico di sinistra, propose di chiedere al governo provvisorio russo uno scambio tra prigionieri di guerra tedeschi e austriaci, da una parte, ed emigrati russi rivoluzionari dall’altra. Anche il Soviet di Pietrogrado avrebbe dovuto acconsentire a questo accordo. La proposta, sostenuta pure da Lenin, cadde nel vuoto: c’entrarono anche la freddezza del governo provvisorio stesso verso questi rivoluzionari di lungo corso, come riconosce anche A. Balabanoff nelle sue memorie.30 Lenin affermò categoricamente la non casualità di tale esito dopo che la Gran Bretagna rifiutò, il 30 marzo, il passaggio al mansueto capo socialista-rivoluzionario V. M. Černov, il quale aveva persino tutti i documenti in regola e non era contrario alla prosecuzione della guerra a fianco dell’Intesa. Consapevole delle possibili strumentalizzazioni, Lenin scelse allora di contattare, tramite il segretario del Partito socialista svizzero Fritz Platten, le autorità diplomatiche tedesche in Svizzera. Ansiose, probabilmente, di facilitare una tregua sul fronte orientale, le autorità tedesche in Svizzera, in particolare il console Romberg, chiusero l’accordo con un primo gruppo di emigrati rivoluzionari russi composto da diciannove bolscevichi, sei membri del Bund (partito operaio ebraico) e tre socialisti-rivoluzionari, oltre a quattro bambini. I rivoluzionari ottennero la garanzia di viaggiare in un vagone extra-territoriale: a tutela della loro onorabilità politica, essi imposero che il convoglio fosse aperto a membri di ogni tendenza politica presente tra gli esuli e che gli agenti del Kaiser non potessero effettuare né perquisizioni dei bagagli, né controlli dei documenti. Un secondo viaggio, comprendente circa altri duecento emigrati rivoluzionari tra i quali Martov, Axelrod,31 la Balabanoff, Lunacharskij32 e Sokolnikov,33 partì, alle stesse condizioni, due mesi dopo il primo convoglio. La Balabanoff giudicò che quell’accordo non includesse alcun compromesso di principio. Curiosamente, nessuno ha mai rivolto ai menscevichi Martov e Axelrod l’accusa riservata a Lenin di complicità col Kaiser. In realtà, anche in questa occasione, Lenin dimostrò un grado di realismo rivoluzionario sconosciuto ai suoi avversari menscevichi o socialrivoluzionari. Lenin, infatti, non subordinò il rientro nella Russia rivoluzionaria a un atteggiamento che potesse essere giudicato come non condannabile dall’opinione pubblica democratica e benpensante dei paesi dell’Intesa. Solo e soltanto per questa ragione, politica, Lenin fu sul primo convoglio che rientrò in Russia.

Sul carattere internazionale della rivoluzione socialista

A chiudere il cerchio, nel 1931 Ludendorff ritenne di dover svelare al mondo che la rivoluzione bolscevica era stata aiutata dal capitale finanziario internazionale, particolarmente ebreo, desideroso di schiacciare la Russia zarista e la Germania imperiale. I soldi dalla Germania alla Russia erano circolati ma la leggenda si rovesciava. A promuovere il traffico non sarebbe stato l’imperatore ma “l’ebreo Solmssen”.34

La storia ha conosciuto molti “Solmssen”. Nel corso della rivoluzione francese, il giornale di orientamento moderato Les Révolutions de Paris ipotizzò che un certo “ebreo Efraim”, agente del re di Prussia, avesse avuto un ruolo nel far scoppiare l’insurrezione repubblicana del 1792. La storia delle rivoluzioni ci mostra che una classe dominante, minacciata, tende a ricercare la causa delle sue difficoltà non in se stessa ma in qualche forza straniera e oscura. Dietro a questo complottismo, tuttavia, Trotskij riconosce un “fondamento storico indiretto, come dietro tutte le tipiche aberrazioni di massa. Consapevolemente o no, nei periodi critici della sua esistenza ogni popolo prende a prestito con particolare larghezza e audacia dal tesoro di altri popoli. Non è raro, inoltre, che in un movimento progressista la funzione dirigente spetti a persone che sono vissute all’estero o a emigrati rientrati in patria. Le idee e le istituzioni nuove appaiono quindi ai ceti conservatori innanzitutto come prodotti esotici e stranieri. Le campagne si levano contro le città, il buco di provincia contro la capitale, il piccolo-borghese contro l’operaio, difendendosi come forze nazionali contro le influenze straniere.35

Resta dunque essenziale, a un secolo dall’Ottobre, tenere a mente che non sono i Parvus, i Kesküla, gli Aleksinskij o i fantomatici personaggi in stile “ebreo Solmssen” a muovere la storia. Il progresso storico è e sarà il frutto della lotta di classe, dei Lenin e dei partiti rivoluzionari come lo fu quello bolscevico.

Bibliografia

A. Balabanoff, My Life as a Rebel, Harper & Brothers, Londra/New York, 1938 [trad. it.., A. Balabanoff, La mia vita di rivoluzionaria, Feltrinelli, Milano, 1979].

M. Lucini, Chi finanziò la rivoluzione d’Ottobre, Editrice italiana, Roma, 1967.

J. J. Marie, Lénine. La révolution permanente, Payot, Parigi, 2011.

A. Rosmer, Il movimento operaio alle porte della prima guerra mondiale, Jaca Book, Milano, 1979.

A. Shlyapnikov, On the Eve of 1917, Allison & Busby, Londra, 1982.

B. Souvarine, Controverse avec Soljenitsyne, Allia, Parigi, 1990.

L. Trotskij, Storia della rivoluzione russa, SugarCo, Milano, 1987.

Z. A. B. Zeman e W. Scharlau, The Merchant of Revolution, Oxford University Press, Oxford, 1965.

Note

1. L. Trotskij, Storia della rivoluzione russa, SugarCo, Milano, 1987, pp. 393-394.
2. S. Romano e L. Canfora, Processo a Lenin (Putin assolto), inserto La lettura del Corriere della Sera, 29 gennaio 2017.
3. Nel corso della rivoluzione francese, ad esempio, dopo la repressione diretta dai moderati – i “Foglianti” – della manifestazione repubblicana al Campo di Marte nel luglio 1791, l’ala più radicale della rivoluzione fu accusata di intesa con lo straniero; i giacobini, quando erano la sinistra dell’Assemblea legislativa, venivano attaccati dalla stampa più moderata con l’accusa di pagare gran parte dei manifestanti che riempivano le loro piazze con fondi d’origine oscura; a loro volta, i giacobini al potere accusarono di complotto con lo straniero, nel caso l’Inghilterra, una fazione alla loro sinistra, gli Enragés (“Arrabbiati”), che venne repressa e messa al bando.
4. Ad esempio, il 10 gennaio 2011, pochi giorni prima di essere rovesciato, il dittatore tunisino Ben Alì cercò disperatamente, e senza esito, di infangare la montante rivolta nella periferia della capitale presentandola come l’azione di delinquenti al soldo dello straniero; in Egitto, d’altra parte, il regime militare di al-Sisi e i vertici del sindacato di Stato alludono abitualmente ai sindacati operai indipendenti come a spie pagate dagli stranieri, come il caso Regeni ha ulteriormente illustrato.
5. Parvus, Aleksandr Lvovič, pseudonimo di Izrael Lazarevič Gelfand (1867-1924), cresce a Odessa dove si unisce al Bund, organizzazione socialdemocratica ebraica. Partecipa alla rivoluzione del 1905. Condannato ai lavori forzati, evade e fugge in Germania, dove frequenta gli ambienti socialdemocratici tedeschi. Si getta nel mondo degli affari. Poco dopo lo scoppio della guerra, diventa un agente dello spionaggio del Kaiser.
6. Die Gekaufte Revolution, Der Spiegel, 10 dicembre 2007.
7. https://www.marxismo.net/index.php/teoria-e-prassi/storia-delle-rivoluzioni/283-chi-ha-paura-della-rivoluzione-d-ottobre-processo-a-canfora-e-a-romano-lenin-assolto.
8. Boris Lifshitz, detto Souvarine, (1895-1984), nato a Kiev e cresciuto a Parigi dove diventa operaio-orafo. Dotato di un enorme talento giornalistico, anima il Comitato della Terza Internazionale, la sinistra del Partito socialista e, infine, quella del nascente Partito comunista, nel quale diventa membro dell’esecutivo. Nel 1924 difende le tesi di Trotskij e ciò determina la sua caduta “in disgrazia” nel Pcf. Continua a pubblicare il suo Bulletin Communiste ma non si organizza con Trotskij. Già alla fine degli anni ’20 rompe col marxismo e col bolscevismo da posizioni socialdemocratiche.
9. B. Souvarine, Soljenitsyne et Lénine, Est/Ouest, 1-15 aprile 1976, ora in B. Souvarine, Controverse avec Soljenitsyne,
Allia, Parigi, 1990, p. 14.
10. Cit. in L. Trotskij, op. cit., p. 403.
11. Cit. in ibidem.
12. P. Miljukov, Storia della seconda rivoluzione russa, cit. in L. Trotskij, op. cit., pp. 403-404.
13. Il proclama fu letto pubblicamente l’11 marzo 1917 durante una seduta del Soviet di Pietrogrado.
14. Cit. in L. Trotskij, op. cit., p. 395.
15. Balabanoff, Angelica (1877-1963), nata in Ucraina, studia in Belgio e poi milita in Italia nella sinistra del Psi ad inizio novecento. Durante la Prima guerra mondiale, aderisce alle “tesi di Zimmerwald”, contrarie all’appoggio dei socialisti al conflitto militare. Si unisce ai bolscevichi nel settembre 1917, partecipa al congresso di fondazione dell’Internazionale comunista nel 1919. Esce dall’Urss nel 1922 e nel 1924 è espulsa dal partito. Nell’esilio antifascista, ritorna a militare nel Psi. Dopo la Seconda guerra mondiale, si sposterà ulteriormente verso destra, fino al Psdi (Partito socialdemocratico italiano) di Saragat.
16. A. Rosmer, Il movimento operaio alle porte della Prima guerra mondiale, Jaca Book, Milano, 1979.
17. Novaia Zižn, 24 gennaio 1918, cit. in J-J. Marie, Lénine. La révolution permanente, Payot, Parigi, 2011, p. 180.
18. Ludendorff, Erich Friedrich Wilhelm (1865-1937), generale tedesco, uomo-chiave dello stato maggiore germanico durante la Prima guerra mondiale e sostenitore della guerra ad oltranza. Acceso nazionalista ed antisemita, in seguito sostenne Hitler.
19. E. Bernstein, Vorwärts, 14 gennaio 1921.
20. J. J. Marie, op. cit., p. 180.
21. Z. A. B. Zeman e W. Scharlau, The Merchant of Revolution, Oxford University Press, Oxford, 1965.
22. Z. A. B. Zeman, Germany and the Revolution in Russia 1915-1918. Documents from the Archives of the German Foreign Ministry, Oxford University Press, Oxford-New York-Toronto, 1958.
23. Lenin, Opere, Editori Riuniti, Roma, vol. 27.
24. A. Shlyapnikov, On the Eve of 1917, Allison & Busby, Londra, 1982, pp. 216-225.
25. Cfr. Sotsial-Demokrat, n. 33 (13 novembre 1914) e n. 47 (1 ottobre 1915).
26. Cit. in B. Souvarine, op. cit., p. 15.
27. L. Trotskij, op. cit., p. 524.
28. A. Balabanoff, My Life as a Rebel, Harper & Brothers, Londra/New York, 1938, pp. 142-147.
29. Martov, pseudonimo di Yulii O. Cederbaum (1873-1923), socialdemocratico, cofondatore con Lenin dell’Iskra (Scintilla), e poi dirigente, contro di lui, della frazione menscevica. Nel 1917 rappresenta la sinistra del menscevismo ed è contrario all’Ottobre.
30. ibidem.
31. Axelrod, Pavel Borisovič (1850-1928), fondatore con Plechanov e pochi altri, nel 1883, del primo gruppo marxista in Russia, “Emancipazione del lavoro”. Nel 1900 partecipa alla fondazione dell’Iskra (Scintilla) e nel 1903 si schiera coi menscevichi. Si oppone alla rivoluzione d’ottobre e lascia la Russia per andare a vivere in Germania.
32. Lunacharskij, Anatolij Vasil’evič (1875-1933), scrittore e teorico che cercò di conciliare religione e socialismo. Si unisce ai bolscevichi nel 1917, diviene Commissario del popolo all’istruzione. Muore nel viaggio verso la Spagna dove avrebbe dovuto svolgere il ruolo di ambasciatore.
33. Sokolnikov, Grigorij Jakovlevič Brilliant detto, (1886-1938), figlio di un medico, bolscevico nel 1905. Arrestato, evade e va a studiare in Francia. È coi “conciliatori” e poi si integra nel gruppo parigino Nache Slovo (Nostra Parola) diretto da Trotskij. È membro del Cc del Partito bolscevico tra il 1919 e il 1927. Gioca un ruolo nell’Internazionale comunista come capo del bureau per l’Asia centrale. Nel 1937 è assassinato in seguito al secondo processo di Mosca.
34. Ludendorffs Volkwarte, 15 febbraio 1931, cit. in L. Trotskij, op. cit., pp. 407-408.
35. L. Trotskij, op. cit., p. 408.

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