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La “via italiana al socialismo” tra inganno e realtà

Il 21 gennaio ricorre il centesimo anniversario della scissione di Livorno e della fondazione del Partito comunista d’Italia. Sul nostro sito teorico  marxismo.net stiamo pubblicando una serie di articoli che fa luce sui primi anni di esistenza del partito e sabato 23 gennaio abbiamo organizzato un seminario nazionale dal titolo “Gramsci, Bordiga e la nascita del Pcd’I“.

In questo articolo affronteremo invece il periodo del secondo dopoguerra, quando il PCd’I, divenuto Partito comunista italiano, fu dominato dalla figura di Palmiro Togliatti che lo condusse nell’alveo della democrazia parlamentare sulla base della strategia denominata “via italiana al socialismo”.

La linea politica di Togliatti si inseriva nel solco della linea dei “fronti popolari” antifascisti sviluppata nel VII congresso dell’Internazionale comunista, che aveva portato, tra l’altro, alla sconfitta disastrosa della rivoluzione in Spagna e all’ascesa al potere di Franco.

Essa operava una differenziazione tra una borghesia “democratica” e “antifascista” e un settore reazionario di quella stessa borghesia. “La democrazia progressiva è un regime fondato sulle larghe masse popolari e su una coalizione di forze democratiche”, disse Togliatti nel 1944.

La via italiana al socialismo avverava una profezia di Trotskij, formulata alla fine degli anni ’20, secondo la quale la teoria del “socialismo in un paese solo” avrebbe condotto alla degenerazione nazionalista delle sezioni dell’Internazionale comunista.

Ambedue le concezioni sono antitetiche alla linea politica portata avanti non solo da Lenin, ma anche da Gramsci e dalla direzione del Pcd’I nei primi anni di vita. Per i bolscevichi la rivoluzione russa doveva essere l’inizio della rivoluzione mondiale, conditio sine qua non per la sopravvivenza dello Stato operaio sovietico.

Il cambiamento di linea venne fatto passare fra la base (non senza perplessità e critiche iniziali) tramite il mito della “doppiezza togliattiana”: ossia la convinzione che una politica di accordi moderati non fosse altro che un inganno per gli avversari, un diversivo in attesa di quell’“ora X” dell’agognata presa del potere.

Il Partito comunista italiano dal 1943 in poi ebbe una crescita impetuosa (gli iscritti passano da 6mila agli oltre 2 milioni del 1946), diventando così il partito egemone della classe lavoratrice. Le ragioni principali furono l’ascesa della lotta di classe legata alla Resistenza, che assunse connotati rivoluzionari: furono i lavoratori e i braccianti, armi in pugno a sconfiggere il nazifascismo, con la convinzione che ne sarebbe seguito anche il rovesciamento del capitalismo. Il riferimento al Pci era visto come naturale anche per il suo legame con l’Urss, vittoriosa nella guerra. I dirigenti comunisti, pensavano le masse nelle città e nelle campagne, avrebbero fatto la rivoluzione, seguendo l’esempio sovietico.

Tuttavia Stalin non aveva alcuna intenzione di favorire la rivoluzione, né in Italia né in Europa occidentale. Nel febbraio 1945, a Yalta in Crimea, Urss, Stati uniti e Gran Bretagna divisero il mondo in sfere d’influenza e l’Italia sarebbe dovuta rimanere nel campo capitalista. La politica delle due fasi e delle “vie nazionali al socialismo” era funzionale alla tutela del potere della burocrazia in Urss: rivoluzioni operaie vittoriose in altri paesi avrebbero potuto servire da esempio al proletariato russo. I partiti comunisti in Occidente, epurati da ogni elemento critico negli anni ’20 e ’30, furono servi obbedienti delle direttive di Stalin.

Il Pci al governo

Il socialismo tuttavia si allontanava più che mai: non solo perché i vertici del Pci non contemplavano assolutamente quest’ipotesi ma anche perché con la linea politica di Togliatti si minavano le basi stesse per una rivoluzione socialista vittoriosa.

La parola d’ordine della “democrazia progressiva” era il centro della linea del “partito nuovo”. Una democrazia nella quale le masse subalterne dovevano essere protagoniste, spostando gli equilibri a favore degli interessi dei lavoratori. Questa parola d’ordine rimase l’asse della politica del partito per i decenni successivi.

Il Partito comunista ribadisce questa posizione affermando che esistono in Italia le condizioni perché, nell’ambito del regime costituzionale, la classe operaia si organizzi in classe dirigente, unendo intorno al suo programma di trasformazione socialista della società e dello Stato la grande maggioranza del popolo” (Dichiarazione programmatica dell’VIII congresso, 1956. Da La via italiana al socialismo, Ed. Aurora, pag. 121).

Tutta la storia della società divisa in classi dimostra come non sia possibile che coesistano due classi dirigenti allo stesso momento. Una prevarrà sempre sull’altra e nessuna classe può governare senza prendere il potere.

La partecipazione, tra il 1944 e il 1947, ai governi di unità nazionale con la Democrazia cristiana e gli altri partiti borghesi fu la conseguenza di tale linea politica.

I comunisti svolsero un ruolo decisivo nella ricostruzione dell’apparato dello Stato borghese, dopo la caduta di Mussolini e la liberazione dal nazifascismo. L’amnistia generalizzata ai fascisti, firmata dal segretario del Pci, allora Guardasigilli, ne rappresentò l’episodio più emblematico, che venne accompagnato dal disarmo delle brigate partigiane e dalla riconsegna delle fabbriche ai “legittimi” proprietari. La proprietà privata dei mezzi di produzione veniva sancita anche nella Costituzione della Repubblica, approvata nel 1947, che ribadiva il primato dell’economia di mercato e della democrazia parlamentare borghese. All’inizio del 1946 il Pci approvò la fine del blocco dei licenziamenti, mentre l’inflazione saliva alle stelle. La riforma agraria, pur divenuta legge, in gran parte non venne mai attuata. Infine Togliatti accettò il Concordato tra Stato e Chiesa tra lo stupore dei socialisti e delle altre forze laiche.

I vertici del Pci salvarono quindi il capitalismo italiano e per ricompensa ottennero… l’estromissione dal governo nel maggio 1947. Governo da cui furono esclusi fino agli anni ’90.

Le analogie tra la linea togliattiana e quella del compromesso storico elaborata da Berlinguer negli anni ’70 sono fin troppo evidenti.

L’attentato a Togliatti

Il 14 luglio del 1948, dopo l’attentato che ferì gravemente Palmiro Togliatti, si aprì un’ultima possibilità di riscossa per il movimento operaio. Tutta l’Italia si fermò. Nelle parole di Pietro Secchia, allora responsabile dell’organizzazione del Pci. “Nella storia del movimento operaio italiano non c’è mai stato uno sciopero generale insurrezionale così spontaneo, così compatto, così esteso come quello del 14-16 luglio 1948.” Ma il partito in tutte le sue “sensibilità”, inclusa quella più a sinistra di Secchia, non vuole l’insurrezione. “Longo e io ebbimo chiarissimo in mente ciò che andava fatto: controllare il movimento, non uscire in modo irreparabile dalla legalità” (G. Bocca, Palmiro Togliatti, l’Unità 1992, pag. 467). Togliatti dal letto di ospedale invita le masse a tornare a casa e a “non cedere alle provocazioni”.

14 luglio 1948 – Sciopero generale contro l’attentato a Togliatti

La prospettiva gradualista non prevedeva una rottura rivoluzionaria, come invece fu l’Ottobre per i bolscevichi. Lo Stato e la legalità erano per i vertici del Pci concetti al di sopra delle classi, utilizzabili a piacimento dalle classi subalterne, e non strumenti del dominio di una classe sull’altra.

Questo non può essere ancora uno stato socialista, ma non deve più essere lo stato borghese, dominato dalla grande proprietà e dai monopoli capitalistici. (…)” (La via italiana al socialismo, pag. 120).

Nel gruppo dirigente togliattiano vi era l’illusione di poter regolare il capitalismo, contenendo lo strapotere dei monopoli, una revisione totale del pensiero di Marx ed Engels, già espresso nel Manifesto! Per non parlare della raffigurazione di una democrazia “ideale”, la democrazia parlamentare, che la borghesia utilizza per i propri fini e che è disposta a sopprimere se necessario, come nel caso dell’avvento del fascismo.

Negli anni successivi all’insurrezione mancata si sarebbe scatenata una repressione durissima, portata avanti da quello stesso Stato e all’insegna della legalità. A pagare furono i militanti comunisti, con morti, feriti e migliaia di arresti, decine di migliaia di licenziamenti politici.

Per il Partito comunista e per il sindacato gli anni ’50 furono anni molto duri: il Pci perse mezzo milione di iscritti tra il 1954 e il 1964, mentre tra il 1952 al 1960 la Fiom passò da 549mila a 191mila iscritti. L’inversione di tendenza giunse solo con la nuova ondata della lotta di classe alla fine degli anni ’60.

Il XX Congresso del Pcus e i fatti di Ungheria

Nel 1956 il XX congresso del Pcus, con il “rapporto segreto” sui crimini di Stalin, e la rivoluzione ungherese misero alla prova il gruppo dirigente del Pci. In Ungheria si sviluppò una vera e propria rivoluzione politica. Per rivoluzione politica si intende l’abbattimento dell’élite burocratica al potere e la sua sostituzione con un regime di democrazia operaia in un paese dove il capitalismo non esiste più ed è stato sostituito dalla pianificazione dell’economia e la nazionalizzazione dei mezzi di produzione, le basi di un’economia socialista.

In maniera spontanea i lavoratori ungheresi costituirono dei consigli operai, l’equivalente dei soviet del 1917, che si imposero come potenziale alternativa alla burocrazia. La rivoluzione fu schiacciata dall’intervento delle truppe dell’Urss. Il Partito comunista italiano condannò senza mezzi termini le azioni degli insorti, definiti sull’Unità “controrivoluzionari”. In un editoriale del 25 ottobre l’allora direttore dell’Unità, Pietro Ingrao, scrisse: “Quando crepitano le armi dei controrivoluzionari, si sta da una parte o dall’altra della barricata. Un terzo campo non c’è”. Togliatti paragonò le Brigate internazionali contro Franco in Spagna all’intervento sovietico a Budapest.

Le posizioni critiche che si sollevarono all’interno del gruppo dirigente del Pci e fra vari intellettuali, comunque minoritarie, vennero ridotte al silenzio.

Budapest, 1956 – Le masse abbattono le statue di Stalin

Quando Togliatti, dopo il ripristino dell’ordine da parte di Mosca, svilupperà una riflessione con passaggi critici sugli errori dei dirigenti ungheresi e sovietici, non lo farà per invocare un ritorno al leninismo ma per rivendicare la superiorità della linea politica del partito italiano, vale a dire della transizione democratica al socialismo.

Riguardo al dibattito sull’Urss, Togliatti si unirà alla critica al culto della personalità di Stalin, sviluppata dal Pcus di Chruščëv, ma rifiuterà la critica al sistema nel suo complesso. “Noi non accettiamo l’uso del termine di ‘stalinismo’ e dei suoi derivati, perché porta alla conclusione, che è falsa, di un sistema in sé sbagliato” (Il Pci e la svolta del 1956, ed. Rinascita, 1986, pag. 79).

Per un lungo periodo la difesa del sistema burocratico dei paesi dell’Est e la ricerca di una maggiore indipendenza da Mosca sulle questioni italiane andarono a braccetto, ma i problemi si accumulavano. L’invasione sovietica della Cecoslovacchia nel 1968, a differenza dell’Ungheria, venne condannata dal Pci, creando una frattura con Mosca. Di lì a poco con il cosiddetto “eurocomunismo”, il Pci guidò un fronte assieme ai partiti comunisti francese e spagnolo, che prese sempre più le distanze dall’Urss. Ma la critica alla politica estera sovietica (e successivamente anche interna) non portò verso un ritorno all’autentico internazionalismo di Lenin, bensì a una rapida assimilazione al riformismo classico delle socialdemocrazie.

Nel 1976 Enrico Berlinguer dichiarò di “sentirsi più sicuro sotto l’ombrello della Nato”, a formalizzare il nuovo stato di cose.

La linea della collaborazione con forze politiche borghesi, che poi fu portata avanti nella pratica da Berlinguer un decennio dopo, era già delineata da Luigi Longo, succeduto alla carica di segretario alla morte di Togliatti, già all’XI congresso, nel 1966: “Noi vogliamo arrivare al socialismo in Italia con l’unione di tutte le forze operaie e democratiche, laiche e cattoliche, con una pluralità di contributi che partiti, organizzazioni, forze politiche e sociali, possano portare alla conquista, alla costruzione e alla gestione dello Stato socialista.” (La via italiana al socialismo, pag. 135).

La “democrazia progressiva” ora non prevedeva più un primo stadio, quello della rivoluzione democratica per sviluppare il paese e poi un secondo, il socialismo, ma diventava essa stessa la fase di costruzione del socialismo.

La socialdemocratizzazione del Pci si stava compiendo a passi da gigante. Aveva basi materiali: l’aumento della presenza nelle istituzioni, l’amministrazione di centinaia di comuni piccoli e grandi, la crescita del movimento cooperativo avevano creato un distacco di un settore rilevante dei dirigenti comunisti dalla classe operaia. Questo distacco crebbe ancora negli anni ’70 ed ’80.

La tanto decantata “doppiezza” di Togliatti verso la borghesia fu esercitata dunque soprattutto verso i lavoratori. Rappresentò un tremendo inganno e preparò il definitivo abbandono non solo di una prospettiva, ma anche di ogni retorica comunista, tramite la svolta della Bolognina e lo scioglimento finale del Pci, di cui costituiva la premessa teorica.

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