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La rivoluzione coloniale e la rottura tra Cina e Urss

Pubblichiamo il testo presentato al congresso del 1965 della Quarta Internazionale da Ted Grant per la sezione britannica, che ne sancì la rottura politica, e l’espulsione. Nel documento Ted Grant applica ia teoria di Trotskij della rivoluzione permanente alle condizioni peculiari che si erano venute a creare nei paesi coloniali nel secondo dopoguerra, con la formazione di regimi di bonapartismo, alcuni di bonapartismo proletario. Fenomeni di fronte ai quali, incapaci di dare una lettura marxista, i dirigenti della Quarta Internazionale erano capitolati a posizioni guerrigliere e fochiste.

 

 

di Ted Grant

Agosto 1964

La seconda guerra mondiale terminò con una ondata rivoluzionaria alla quale il capitalismo poté sopravvivere grazie all’aiuto dello stalinismo e della socialdemocrazia. In Unione Sovietica lo stalinismo si rafforzò per tutto un periodo storico.

Nella storia della società ci sono state molte forme di dominio di una classe su un’altra. Ciò è particolarmente vero nella società capitalistica, con forme numerose e varie: repubblica, monarchia, fascismo, democrazia, bonapartismo, Stato federale o centralizzato, per dare qualche esempio.

In un periodo nel quale la rivoluzione si è realizzata in paesi arretrati o sottosviluppati (con l’eccezione della Cecoslovacchia), sono state inevitabili distorsioni, anche mostruose, della natura dello Stato creato dalla rivoluzione, che sopravviveranno finché le zone industriali più importanti del mondo restano sotto il controllo del capitale.

Causa decisiva di questi sviluppi è la controrivoluzione bonapartista in Unione Sovietica; il potere soffocante dello Stato e il dominio incontrollato delle fasce privilegiate sono serviti come modello di socialismo in questi paesi. Il bonapartismo borghese riflette una società in condizione di crisi, in cui lo Stato si innalza al di sopra della società e delle classi, acquisisce un ruolo relativamente indipendente e solo in ultima analisi rappresenta le classi possidenti, nella misura in cui difende la proprietà privata sulla quale è basato.

Il proletariato non è una “vacca sacra”, immune da processi analoghi. Il bonapartismo proletario rappresenta una forma molto particolare di Stato operaio. Le contraddizioni di una società in larga parte arretrata, nella quale il proletariato costituisce una piccola minoranza, possono comportare, come fece presente Lenin, che la dittatura del proletariato si manifesti attraverso il dominio di un solo uomo.

La forma proletaria di bonapartismo costituisce per sua natura una caricatura del potere operaio. In una società in cui la proprietà privata è stata abolita e manca la democrazia, il potere statale acquista un’enorme estensione. Lo Stato si eleva al di sopra della società e diventa strumento delle diverse componenti della burocrazia: i militari, la polizia, il Partito, il “sindacato” e i dirigenti dell’industria. Sono questi i ceti privilegiati della società e insieme costituiscono l’unico strato che comanda. Nella transizione dalla società capitalistica al socialismo, l’unica forma economica può essere la proprietà statale dei mezzi di produzione con l’organizzazione della produzione in base a un piano. Solo il controllo democratico da parte dei lavoratori e dei contadini può garantire che tale transizione si compia. Per questo motivo la rivoluzione politica è un passo indispensabile in questi paesi perché si possa instaurare una democrazia operaia, la quale è assolutamente necessaria per l’“estinzione” dello Stato. Tuttavia, tali “regimi di transizione” possono essere definiti solo Stati operai, pur deformati, e non altro perché la loro economia si basa sulla nazionalizzazione dei mezzi di produzione e sul funzionamento dell’economia in base ad un piano.

Marx non considerò mai il problema della rivoluzione nei paesi arretrati perché prevedeva che la rivoluzione sarebbe avvenuta prima nei paesi progrediti. Questi regimi bonapartisti, regimi di crisi, riflettono i problemi economici e sociali irrisolti, sia sul piano strettamente nazionale sia a livello internazionale: crisi che possono risolversi solo con una rivoluzione mondiale, soprattutto nei paesi avanzati.

Lo sviluppo della rivoluzione cinese, che dopo quella russa sarebbe stata “il più grande avvenimento della storia umana” (come dichiarava ancora prima della sua realizzazione il documento del Revolutionary Communist Party), ebbe luogo con un potente Stato operaio deformato alle spalle, cioè l’Urss, a cui si sommava il riflusso dell’ondata rivoluzionaria in occidente. Senza l’esistenza dello Stato operaio mostruosamente deformato in oriente e senza la paralisi dell’imperialismo causata dalla radicalizzazione dei lavoratori in occidente, la rivoluzione cinese non avrebbe potuto prendere la forma che invece prese.

Trotskij nel periodo precedente alla Seconda guerra mondiale aveva sollevato il problema di cosa sarebbe successo nel caso in cui l’Armata rossa cinese fosse emersa vittoriosa contro Chiang Kai-shek. Aveva ipotizzato la prospettiva che i capi dell’Armata rossa avrebbero tradito la loro base contadina e nelle città, con la passività del proletariato, si sarebbero fusi con la borghesia, aprendo la strada ad uno sviluppo capitalistico classico.

Questo non si realizzò perché sulla strada dello sviluppo capitalistico non c’era sbocco per la Cina. Basandosi sul modello russo, la direzione stalinista delle armate contadine manovrò tra le classi, appoggiandosi in certi momenti sulla borghesia “nazionale” o sui contadini e in altri sulla classe operaia e costruì un forte Stato stalinista sul modello di Mosca. Non ci fu mai un periodo di potere operaio come nella Russia del 1917, in cui i lavoratori, attraverso i loro soviet, controllassero lo Stato e la società.
Così come il bonapartismo borghese, pur manovrando fra le classi, difende in ultima analisi le basi della società capitalista, allo stesso modo il bonapartismo proletario si appoggia in ultima analisi sulla base creata dalla rivoluzione: l’economia nazionalizzata.

La rivoluzione cinese risolse tutti quei problemi che la società borghese non era stata capace di risolvere. I tre decenni di governo di Chiang Kai-shek, rappresentante bonapartista del capitale finanziario, avevano dimostrato l’assoluta incapacità della borghesia di unificare la Cina, di portare a termine la rivoluzione agraria e di abbattere l’imperialismo; questo governo fu solo capace di dare inizio a un nuovo periodo di decadenza della società cinese. Fu questo a spingere i capi dell’esercito contadino (Mao e compagni) ad abbattere la borghesia e, grazie al modello russo che avevano alle spalle, a costruire uno Stato di stampo stalinista.

La direzione non aveva prospettive internazionaliste o marxiste. Erano assenti il ruolo cosciente e la direzione del proletariato, senza i quali il socialismo è impossibile. Nella conquista delle città, la direzione stalinista utilizzò la passività del proletariato; dove emerse spontaneamente l’azione proletaria, gli stalinisti risposero giustiziandone i partecipanti principali. Tuttavia, per la prima volta nella storia cinese, le province fino ad allora divise e frazionate furono saldate insieme in un solo Stato nazionale unificato su linee moderne; questo, insieme alla rivoluzione agraria e alla nazionalizzazione dei mezzi di produzione, diede un enorme impulso allo sviluppo delle forze produttive. La Cina fece progressi che da decenni non aveva fatto nessuna economia coloniale.

La burocrazia cinese, come tutte le burocrazie di carattere simile, si interessa principalmente di sviluppare il proprio potere, i propri privilegi, il proprio reddito e prestigio; difende le basi dell’economia su cui si poggia, perché questa è la base del suo potere e del suo reddito.

Come era stato previsto ancora prima che la burocrazia cinese arrivasse al potere, la possibilità di un conflitto fra questa e la burocrazia russa era implicito nella situazione. Il tentativo della burocrazia russa di giungere a un accordo con l’imperialismo americano, senza considerare i bisogni e gli interessi della burocrazia cinese, fece precipitare lo scontro fra le due tendenze.

La razionalizzazione teorica della spaccatura con considerazioni “ideologiche” è stata un tentativo di trovare appoggio nei partiti comunisti a livello mondiale. Finora i cinesi hanno usato slogan radicali come mezzo per suscitare appoggio nel movimento stalinista mondiale contro i russi, particolarmente tra i popoli coloniali. Il loro aperto richiamo a Stalin, ripugnante per i lavoratori dell’Unione Sovietica e dell’occidente, fra l’altro è volto a tracciare una linea di sangue e di confusione fra i lavoratori comunisti che cercano una soluzione marxista e il “trotskismo”, cioè il vero marxismo leninismo.

Con i loro slogan radicali i cinesi riescono ad attirare dei quadri dei partiti stalinisti che cercano una soluzione rivoluzionaria. In questo senso ogni sfumatura e ogni incrinatura devono essere utilizzate dalla tendenza marxista allo scopo di trovare una strada verso i lavoratori stalinisti onesti.

Il vero volto dello stalinismo cinese si mostra nell’opportunismo dei dirigenti verso il mondo coloniale, dove hanno appoggiato in molti paesi i regimi marci dello strato feudale borghese; hanno appoggiato gli imam dello Yemen, hanno fatto prestiti all’Afghanistan, allo Sri Lanka, al Pakistan, hanno sostenuto Sukarno in Indonesia, ecc. Pur non essendo in grado di competere dal punto di vista delle risorse, hanno usato gli scarsi mezzi dell’economia cinese in competizione con la burocrazia russa e l’imperialismo. La loro ideologia, le loro concezioni non possono superare i loro ristretti interessi nazionali.

Il loro “internazionalismo” consiste nel cercare di costruire uno strumento di appoggio simile a quello di cui dispone la burocrazia stalinista russa. La loro ideologia, i loro metodi e i loro atteggiamenti sono una contraffazione del marxismo tanto quanto quelli utilizzati in diversi periodi del suo sviluppo dalla burocrazia russa.

Idealizzano lo stalinismo nella sua forma più brutale e repressiva per i motivi di cui si è parlato, cioè per impedire qualsiasi tendenza fra i lavoratori combattivi ad avvicinarsi al trotskismo; ma questa posizione riflette anche la natura dell’economia cinese. Come la burocrazia russa in passato, anche quella cinese può mantenersi al potere per decenni data l’arretratezza della sua economia, con la sua base industriale ristretta in confronto alle centinaia di milioni di contadini. Solo la rivoluzione socialista in occidente o la rivoluzione politica in Unione Sovietica potrebbero cambiare questa prospettiva.

Il modo cinico con cui la burocrazia sovietica ha appoggiato l’India nel suo conflitto con la Cina, ritirando i suoi tecnici, addirittura distruggendo progetti e disegni nel tentativo di indebolire la Cina, indica il suo vero carattere. I burocrati sovietici sono stati disposti a dare prestiti generosi alla borghesia e agli strati parassitari dei paesi coloniali per sorreggere questi regimi in concorrenza con l’imperialismo; ma quando si tratta di un conflitto con la burocrazia di un altro Stato operaio dimostrano i propri scopi egoisti e nazionalistici.

In modo simile la Cina (ad esempio nell’accordo col Pakistan e nella visita di Chou En-lai in Africa) imita la burocrazia russa nel suo tentativo di trovare amici. Nello Zanzibar erano arrivati ad un accordo con il sultano prima che questi fosse rovesciato, non hanno fatto nessuna critica ai governi del Tanganika, dell’Uganda e del Kenia per essersi serviti dei soldati inglesi quando le proprie truppe si erano ammutinate.

Gli stalinisti cinesi, non a caso, hanno consigliato agli algerini di “andarci piano” con la propria rivoluzione, in vista del loro accordo diplomatico venturo con l’imperialismo francese.

Le prospettive fondamentali della burocrazia cinese sono determinate dal suo obiettivo nazionale di ottenere un posto alle Nazioni Unite e di rafforzare lo Stato cinese con ogni mezzo possibile, di siglare accordi commerciali con l’imperialismo, ecc. Hanno tentato di mobilitare il blocco afroasiatico per questi scopi e non certo per i fini delle prospettive internazionali del socialismo e della rivoluzione sociale.

La spaccatura fra la Russia e la Cina, come quella fra la Jugoslavia e la Russia, e oggi lo sviluppo di nuovi stalinismi nazionali nei paesi dell’est, la Polonia, la Romania, la Cecoslovacchia, l’Ungheria ecc., sono sintomi del decadimento stalinista e allo stesso tempo della debolezza attuale delle forze rivoluzionarie del marxismo su scala mondiale. Se ci fossero state potenti forze marxiste rivoluzionarie, che avessero preparato coscientemente la rivoluzione nei paesi industriali avanzati, tale fenomeno sarebbe stato impossibile. Nel periodo della rivoluzione politica ungherese del 1956, davanti alla quale le burocrazie si stringevano in mutua protezione e appoggio, la burocrazia cinese non avrebbe osato lanciare la campagna contro il “revisionismo” russo (come invece fa oggi), dato che tutte le burocrazie erano minacciate dal crollo e dal rovesciamento.

La spaccatura fra le burocrazie staliniste su linee nazionali semina ulteriore confusione fra le masse a livello mondiale. Anche fra i lavoratori avanzati, pur creando certe opportunità per le idee del marxismo, complica ulteriormente il compito dei rivoluzionari. A lungo termine tuttavia mina completamente le basi del monolito stalinista e della sua presa sulle masse. In base a grandi avvenimenti si prepara la strada per l’entrata di decine e centinaia di migliaia di lavoratori sulla via rivoluzionaria. Nei prossimi grandi sconvolgimenti, sia a est che a ovest, nelle rivoluzioni sociali e in quelle politiche, lo stalinismo si sgretolerà.

Uno dei compiti fondamentali di questo periodo tuttavia è la formazione dei lavoratori più avanzati affinché non vengano contagiati da nessuna delle varianti dello stalinismo. Fra le diverse forme dello stalinismo da una parte, inteso sia come Stato sia come ideologia, e la democrazia operaia e il marxismo dall’altra, esiste un abisso grande come quello che esiste fra il bonapartismo, il fascismo e la democrazia borghese.

Pur difendendo gli aspetti progressisti dell’economia della Russia, della Cina, di Cuba e dell’Europa orientale, è necessario al tempo stesso precisare la distinzione fondamentale fra l’ideologia marcia, nazionalistica e burocratica dello stalinismo e dei suoi Stati e il controllo cosciente dell’economia con il movimento della classe operaia verso il socialismo, come spiegato nei metodi e nelle concezioni del socialismo internazionale.

La rivoluzione coloniale in Asia, Africa e America Latina

In seguito al fallimento dell’ondata rivoluzionaria postbellica in occidente, il capitalismo riuscì a stabilizzarsi per tutta un’epoca. Gli effetti divennero cause; con maggiore o minore forza iniziò un nuovo periodo di crescita capitalistica in tutti i paesi metropolitani. La potenza crescente dell’Unione Sovietica con il suo ritmo di crescita industriale molto più veloce, insieme alla crescita degli Stati operai e alla stabilizzazione di una Cina potente, portò a un nuovo equilibrio delle forze su scala mondiale fra le forze capitalistiche e gli Stati operai dell’est.

Questo è lo sfondo su cui nel mondo coloniale, in un paese dopo l’altro, c’è stato uno sconvolgimento continuo di sollevazioni nazionali e di rivoluzioni contro il dominio imperialista e l’oppressione nazionale. In un periodo di crescita rapida delle forze produttive nei paesi metropolitani, il distacco tra questi ultimi e le regioni cosiddette “sottosviluppate” del mondo si è raddoppiato rispetto all’anteguerra. Inoltre la modesta crescita dell’industria in questi paesi ha inasprito le contraddizioni sociali.

In tutti questi paesi, i problemi della rivoluzione nazionale, della rivoluzione agraria, della liquidazione dei residui feudali e prefeudali, non si potevano risolvere sulle vecchie basi. Questo è stato un periodo di risveglio nazionale dei popoli oppressi dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina.

Di fronte a queste sollevazioni delle masse coloniali, gli imperialisti sono stati costretti a ritirarsi. Un secolo fa, Marx spiegava che solo la mancanza di una coscienza nazionale fra le masse contadine permetteva agli imperialisti di conquistare e dominare l’oriente e l’Africa. Una volta che si fossero risvegliate, sarebbe stato praticamente impossibile tenere incatenata una nazione intera. Trotskij, l’anno precedente la Seconda guerra mondiale, aveva osservato che il costo di sedare le rivolte coloniali era diventato di gran lunga superiore a quanto si guadagnava dallo sfruttamento delle colonie, e questo in un periodo in cui le rivolte coloniali erano ancora nelle prime fasi.

Già nel 1945 la Gran Bretagna, in base alla rivolta del popolo indiano, era giunta alla conclusione che occorreva raggiungere qualche compromesso con la borghesia e i latifondisti indiani. Questo si doveva in parte alla radicalizzazione dei soldati alleati e della classe operaia inglese, che rendeva impossibile condurre una guerra su grande scala di riconquista dell’India, e in parte alla paura della ribellione indiana.

Gli imperialismi francese e olandese dovettero imparare le stesse lezioni dopo avere sperperato uomini e denaro in Indonesia, in Indocina, in Algeria, ecc. I Borboni del Portogallo le stanno imparando adesso.

Così il ritardo della rivoluzione in Europa e negli altri paesi metropolitani ha spinto la rivoluzione agli “estremi” del mondo capitalista, verso gli anelli più deboli della catena del capitalismo. Ma lo sviluppo dello stalinismo in Russia e la sua estensione alla Cina e all’Europa dell’est e la frustrazione della rivoluzione nelle zone industrialmente decisive del mondo, ha comportato che lo sviluppo della rivoluzione permanente nei paesi sottosviluppati abbia seguito un modello distorto. La degenerazione della rivoluzione russa e la forma bonapartista di quella cinese, nonostante i grandi progressi compiuti, implicano a loro volta che la rivoluzione dei paesi coloniali parta con prospettive limitate a livello nazionale e con deformazioni fondamentali fin dall’inizio.

La rivoluzione russa, che iniziò come rivoluzione democratico borghese, finì come rivoluzione proletaria di tipo classico, con il ruolo dominante del proletariato come forza principale e decisiva della rivoluzione. Culminò nell’insurrezione dell’ottobre da parte del proletariato, che si basava su prospettive internazionaliste e marxiste. La rivolta contadina cinese, invece, che culminò nella guerra contadina del 1944-49, in un certo senso derivava dalla rivoluzione sconfitta del 1925-27, ma era completamente diversa da essa per quanto riguardava il ruolo della classe operaia. Fu una guerra contadina, condotta prima come guerriglia, che poi finì con la conquista delle città da parte degli eserciti contadini.

La rivoluzione socialista, a differenza di tutte le rivoluzioni precedenti, richiede la partecipazione e il controllo cosciente della classe operaia. Senza questi, non può esserci una rivoluzione che porti alla dittatura del proletariato come intesa da Marx e Lenin, né una transizione in senso socialista.

Una rivoluzione in cui la forza principale sono i contadini non può elevarsi al livello dei compiti posti dalla storia. I contadini non possono giocare un ruolo indipendente: appoggiano o la borghesia o il proletariato. Dove il proletariato non gioca un ruolo dirigente nella rivoluzione e con l’impasse della società borghese, l’esercito contadino può essere usato, soprattutto seguendo modelli già esistenti, per l’esproprio della società borghese e la costruzione di uno Stato modellato sulla Russia stalinista, mediante manovre bonapartiste tra le classi.

Le borghesie delle zone coloniali sono entrate troppo tardi sulla scena mondiale per poter giocare quel ruolo progressista che aveva giocato la borghesia occidentale nello sviluppo della società capitalista. Sono troppo deboli e dispongono di risorse troppo ristrette per sperare di concorrere con le economie industriali dell’occidente capitalista. La disparità fra le economie deboli e sottosviluppate del mondo coloniale e quelle delle zone metropolitane, lungi dal ridursi sta aumentando con velocità sempre maggiore. Questo si è accentuato negli ultimi due decenni di ascesa dell’economia capitalista nelle zone metropolitane. Mentre l’economia capitalista dell’occidente permetteva un aumento in termini assoluti del livello di vita delle masse, c’è stato un declino assoluto del tenore di vita delle masse orientali. Per via della strana dialettica della rivoluzione, la rivolta coloniale ha addirittura aiutato le economie dei paesi avanzati creando un mercato per i beni d’investimento.

Gli imperialisti, ad eccezione dei portoghesi, sono stati costretti ad abbandonare il vecchio metodo di dominio militare diretto, in Asia, in Africa e nell’America Latina. La norma è diventata il dominio economico su Stati formalmente indipendenti.

Il periodo successivo alla Seconda guerra mondiale ha visto sconvolgimenti senza precedenti nelle zone coloniali. Il risveglio nazionale di tutti i popoli oppressi è avvenuto in tali proporzioni da destinare al fallimento tutti i tentativi di domare la rivoluzione con mezzi militari, come si vede nell’esempio degli inglesi in un’isola così piccola come Cipro, dei francesi in Algeria e come si vedrà domani con il crollo del tentativo portoghese di pacificare l’Angola.

Tutte queste rivoluzioni e risvegli nazionali hanno avuto luogo in un contesto di ritardo della rivoluzione in occidente. Tuttavia, la più grande forza per cambiare la società, che si deve sempre guardare con una prospettiva internazionalista, si trova tuttora nei paesi decisivi dell’Europa occidentale, nel Giappone e negli Stati Uniti, nel mondo capitalista, e in Russia e nell’Europa orientale, nel mondo degli Stati operai deformati. Dal punto di vista del passaggio da una società all’altra, pur essendo di importanza fondamentale per i rivoluzionari impegnati direttamente nella lotta, qualche decennio è di importanza secondaria nello sviluppo della società. La crescita stessa del mondo capitalista e dell’economia nei paesi sottosviluppati sta gettando le basi del cambiamento su scala mondiale. Nello sforzo di concorrere con le economie in crescita dei paesi stalinisti, il capitalismo è stato costretto a consumare una parte consistente delle sue riserve sociali. La dominazione diretta e il tributo coloniale, che dipendevano dalla supremazia militare, sono scomparsi o sono in via di sparizione. Il dominio economico e la preponderanza schiacciante delle economie sviluppate su quelle fragili degli Stati coloniali o ex coloniali è ancora più grande e si sviluppa più velocemente che in passato. Allo stesso tempo, nei paesi avanzati la crescita dell’industria, dei monopoli, la meccanizzazione dell’agricoltura hanno portato alla diminuzione della classe contadina e della piccola borghesia e ad un ulteriore aumento del peso decisivo del proletariato nella società.

Dal punto di vista marxista non si potrebbe immaginare una situazione più favorevole. La forza potenziale raggiunta dal proletariato, sia nei paesi capitalisti che negli Stati operai deformati, non è mai stata così grande come nell’epoca attuale. Da questo punto di vista si apre per il futuro una prospettiva enormemente ottimistica. Lo sviluppo frenetico delle forze produttive raggiungerà inevitabilmente il suo limite e porterà ad un nuovo periodo di paralisi e declino nei paesi capitalistici come quello tra le due guerre. In Unione Sovietica e in oriente, lo sviluppo ulteriore delle forze produttive si scontrerà sempre di più con il controllo asfissiante della burocrazia, la quale diventerà sempre più incompatibile con lo sviluppo della società. Si aprirà un nuovo periodo di rivoluzione sociale in occidente e di rivoluzione politica in oriente.

È su questo sfondo, e con questa prospettiva sempre presente, che si devono esaminare le rivoluzioni coloniali in Asia, in Africa e in America Latina. Se la Russia fosse stata uno Stato operaio sano o avesse avuto solo le deformazioni di poco conto che esistevano ai tempi di Lenin e Trotskij, senza dubbio la rivoluzione nei paesi arretrati avrebbe con ogni probabilità seguito un corso diverso. Come aveva dichiarato con ottimismo Lenin, di fronte alla prima ondata di risveglio rivoluzionario nei paesi arretrati, sarebbe stato possibile che persino le zone tribali dell’Africa passassero “direttamente al comunismo” senza alcun periodo transitorio. Questo si sarebbe potuto realizzare, naturalmente, sulla base di una integrazione delle economie di questi paesi con quella di un’Unione Sovietica enormemente sviluppata, in base ad una federazione genuina e fraterna, fondata sull’interesse di tutti. In ogni caso il problema si sarebbe posto in una maniera completamente diversa; uno Stato operaio sano in Russia avrebbe portato alla vittoria della rivoluzione in Europa e nei paesi progrediti del mondo, il che avrebbe influito sulla questione dei paesi sottosviluppati. Fu questa la previsione di Marx, che aveva considerato che con la vittoria della rivoluzione in Gran Bretagna, in Francia e in Germania il resto del mondo, dato il dominio industriale schiacciante di questi paesi in quell’epoca, sarebbe stato costretto, che lo volesse o meno, a seguire lo stesso sviluppo.

La spiegazione del modo in cui la rivoluzione si sta sviluppando nei paesi coloniali si trova nell’estremo ritardo della rivoluzione in occidente, da una parte, e nella deformazione della rivoluzione russa e cinese, dall’altra. Allo stesso tempo è impossibile continuare sulla vecchia strada e con i vecchi rapporti sociali. Se, dal punto di vista storico, la borghesia ha esaurito il suo ruolo sociale nei paesi capitalisti avanzati, allora nella fase attuale della società mondiale è ancora meno capace di affrontare i compiti posti dalla storia nelle zone coloniali.

La corrotta borghesia dell’oriente e quella emergente dell’Africa sono assolutamente incapaci di affrontare quei compiti che le borghesie occidentali erano riuscite a risolvere anni fa nei propri paesi. Ma la rivoluzione democratico borghese e nazionale non può aspettare. Lo sviluppo della coscienza nazionale in tutte queste zone richiede urgentemente una soluzione ai compiti posti dalla pressione dei paesi più sviluppati dell’occidente.

La decadenza dell’imperialismo e l’ascesa di due potenti Stati stalinisti, la Russia in Europa e la Cina in Asia, hanno creato un equilibrio particolare delle forze mondiali. Nella società coloniale la borghesia e, fino ad un certo punto, la piccola borghesia e gli strati superiori, hanno potuto svolgere un ruolo che sarebbe stato impossibile senza il rapporto mondiale di forze emerso come conseguenza della Seconda guerra mondiale. Anche il ruolo rilevante che il blocco afroasiatico gioca nell’Onu (sebbene su questioni secondarie; su quelle fondamentali non potrebbero incidere nella stessa misura) è un’indicazione di questo cambiamento. Anche la concorrenza fra l’occidente e l’Urss, e oggi la Cina, per garantirsi l’aiuto e l’appoggio delle classi governanti dell’Asia e dell’America Latina è un sintomo di questo equilibrio precario delle forze.

La degenerazione della rivoluzione russa e il rafforzamento dello stalinismo per tutta un’epoca storica sono stati il motivo principale per cui la rivoluzione cinese è partita fin dall’inizio su linee bonapartiste. Questo a sua volta ha stabilito un modello bonapartista bell’e pronto per la rivoluzione negli altri paesi coloniali, che nel pensiero dei circoli dirigenti degli strati intellettuali viene associato al “socialismo”. La rivoluzione cinese fu compiuta in larga parte attraverso una guerra contadina, con l’esercito contadino come strumento del bonapartismo proletario, ma nelle fasi successive, dopo la conquista del potere, almeno si parlava dell’egemonia del proletariato. Fu così anche a Cuba, dove l’esercito contadino e la guerriglia avevano giocato il ruolo dominante nella rivoluzione fino all’insurrezione proletaria dell’Avana. Dopo la trasformazione della rivoluzione democratico borghese, sotto la direzione di Castro, in uno Stato sul modello della Jugoslavia, della Cina e della Russia, anche qui fu riconosciuto un ruolo dominante al proletariato, ma ancora una volta solo a parole.

Tutta la storia ha dimostrato che i contadini, proprio per la loro natura di classe, non possono mai giocare un ruolo dominante nella società; possono solo appoggiare o il proletariato o la borghesia. Nelle condizioni moderne, possono appoggiare i dirigenti o ex dirigenti bonapartisti del proletariato. Questo però porta inevitabilmente a una rivoluzione distorta, a una forma di regime militar-poliziesco.

Chi si basa sulla teoria scientifica di Marx e di Engels, con i contributi e gli approfondimenti di Lenin e Trotskij, deve evidenziare il ruolo necessario del proletariato – e la necessità per questo di una coscienza socialista – come forza di cambiamento del capitalismo in una nuova società. Senza tale coscienza non ci può essere né rivoluzione socialista, né transizione della società verso il socialismo. Se i marxisti, come Lenin e Trotskij, hanno sottolineato il ruolo della coscienza socialista e della partecipazione cosciente del proletariato nella rivoluzione, non è per motivi idealistici o sentimentali; senza tale partecipazione nel corso della rivoluzione e nel controllo e nella gestione della società di transizione, è assolutamente impossibile uno sviluppo verso il socialismo.

Non c’è evoluzione automatica delle forze produttive in direzione socialista senza il controllo dello Stato da parte dei lavoratori; anche in un paese altamente industrializzato come gli Usa o la Gran Bretagna, la stessa esistenza dello Stato sarebbe un relitto del passato capitalista. Senza il controllo cosciente da parte del proletariato, la cui dittatura dovrebbe “sciogliere” rapidamente nella società tutti gli elementi della coercizione statale, lo Stato, come si vede in Russia e in Cina, acquisisce inevitabilmente una propria spinta e un proprio movimento.

Se in Cina la borghesia ha rivelato la sua totale incapacità di risolvere anche uno solo dei compiti della rivoluzione democratico borghese, gli avvenimenti dimostreranno che la borghesia indiana e tanto più gli altri elementi borghesi dell’Asia e dell’Africa non saranno minimamente capaci di risolvere i problemi che la storia ha posto ai loro paesi.

È l’incapacità da parte della borghesia, dei latifondisti, della piccola borghesia di risolvere questi compiti che pone in una maniera distorta il problema della rivoluzione permanente. Se fossero esistiti dei forti partiti e tendenze marxisti nelle zone coloniali del mondo, il problema del potere si sarebbe posto in un modo assai diverso, con una prospettiva internazionalista. Nel mondo coloniale, ancora più che nei paesi sviluppati e industrializzati dell’occidente, il socialismo in un paese solo o persino in un gruppo di paesi è una chimera. Ciononostante si pongono con urgenza in questi paesi i problemi dello sviluppo. Dati i rapporti di forza nel mondo, con il ritardo della rivoluzione in occidente e data la mancanza di partiti marxisti in questi paesi e dato il rapporto fra le classi al loro interno, sono inevitabili nuovi e strani fenomeni.

Per esempio, con la potente rivoluzione cinese ai confini, gli sviluppi della Birmania hanno seguito un corso particolare; dalla fine della seconda guerra mondiale la società birmana è rimasta disorganizzata. Le minoranze nazionali hanno condotto una lotta continua per l’autodeterminazione o l’autonomia nazionale nei propri stati (Kachin, Shan ecc.) e allo stesso tempo le diverse frazioni staliniste hanno portato avanti una guerriglia durissima. C’è stato un succedersi di governi, ognuno dei quali è stato incapace di risolvere i problemi della società birmana. La borghesia è così debole che non è stata in grado di mettere la sua impronta sulla società; come quella cinese, non ha saputo unire la società, darle una coesione sociale, dare la terra ai contadini o spezzare il potere economico dell’imperialismo. È un sintomo notevole dei nuovi sviluppi nei paesi arretrati il fatto che tutte le fazioni della Birmania si dichiarano “socialiste”. L’imperialismo aveva assoggettato l’economia attraverso la proprietà delle poche industrie che esistevano e delle forze economiche principali come le piantagioni di tek, il petrolio e i trasporti.

Con l’esempio della Cina ai confini, diveniva sempre più chiaro per gli strati superiori della come sulla strada borghese non ci fossero sbocchi per la Birmania. Come in Cina nei decenni precedenti alla rivoluzione, la borghesia era incapace di porre fine alla guerriglia e di garantire lo sviluppo di una società stabile e industrializzata e di uno Stato moderno.

I vari governi hanno fatto solo fievoli tentativi di sviluppare l’economia. La debolezza dell’imperialismo e il rapporto di forze a livello sia nazionale che internazionale hanno portato ad una situazione in cui è stata la casta degli ufficiali a porsi il problema di trovare una qualche stabilità sociale. In tutti questi paesi è impossibile uno sviluppo durevole della rivoluzione borghese, di uno Stato democratico borghese moderno. Di conseguenza in Birmania era inevitabile una qualche forma di bonapartismo, di Stato militar-poliziesco. La casta degli ufficiali vedeva in se stessa l’unico gruppo in grado di “salvare la società” dalla disintegrazione e dal crollo, visto che la borghesia era troppo debole per offrire una soluzione. Di conseguenza alcuni ufficiali che erano stati parte di una delle frazioni “socialiste” decisero di imboccare la strada del modello “socialista” cinese, chiamandolo però il “modello socialista birmano”. Si sono mossi rapidamente lungo una linea ormai familiare: uno Stato totalitario monopartitico e la nazionalizzazione degli interessi di proprietà straniera, compresi il petrolio, il tek e i trasporti. Hanno cominciato a espropriare la borghesia indigena e hanno minacciato di nazionalizzare il piccolo commercio. Si sono basati sui contadini e sulla classe operaia ma il loro modello non è il socialismo scientifico ma il “socialismo birmano buddista”.

Così vediamo lo stesso processo a diversi stadi in tutti i paesi coloniali. Attualmente il processo si sta accentuando nei paesi arabi, che da un decennio sono in fermento.

In Egitto è stata la casta degli ufficiati a mettersi alla testa della rivoluzione contro il regime incompetente e corrotto di Faruk, agente dell’imperialismo. Per un certo periodo Nasser ha adottato la politica del “socialismo arabo”. È impressionante la monotonia con cui compaiono queste tendenze in tutti i paesi. La grande diga di Assuan è stata proprietà dello Stato fin dall’inizio. Sotto l’impatto della crisi economica su scala mondiale si può prevedere che la casta dirigente, con l’appoggio dei lavoratori e dei contadini, esproprierà il resto dell’economia. La borghesia è così debole e impotente che non può resistere. Gli ufficiali hanno effettuato la rivoluzione perché non esisteva prospettiva di sviluppo per la nazione sotto il vecchio sistema e non c’erano forze capaci di resistere a questo cambiamento. L’imperialismo è troppo debole e ha imparato le lezioni degli interventi fallimentari contro le rivoluzioni nazionali del dopoguerra. Con i modelli russo, cinese e di diversi paesi come l’Algeria, non c’è dubbio che la casta dirigente piccolo borghese (insieme alla base di massa che ha il regime bonapartista di Nasser tra i lavoratori e i contadini) appoggerà la completa nazionalizzazione delle forze produttive, passo dopo passo. Solo così lo Stato egiziano può entrare negli sviluppi mondiali. È facile per questa casta giocare un ruolo simile perché significa il rafforzamento dei suoi privilegi e del suo ruolo sociale. Il sistema borghese in queste zone è così debole e precocemente decaduto che non può offrire alcuna prospettiva di sviluppo.

Gli avvenimenti dell’Iraq confermano nel modo più notevole questa tesi. Il Partito comunista, per il suo opportunismo codardo e a causa della politica di Kruscev di non disturbare gli imperialisti in quella zona, non approfittò della situazione rivoluzionaria provocata dalla caduta del vecchio regime. Il movimento di massa finì nella delusione e nella demoralizzazione. Ciononostante il regime di Kassem, mentre faceva guerra ai curdi, preparava misure di nazionalizzazione. Il recente golpe controrivoluzionario dell’esercito è stato concepito per impedire queste misure. Ma ora per mantenersi al potere e vista la situazione disperata, la stessa casta che conduce una guerra reazionaria contro i curdi e che ha compiuto il golpe sanguinoso contro il regime temporeggiatore, annuncia anch’essa misure di nazionalizzazione, che toccano tutte le industrie importanti e le banche, anche se gran parte di queste erano di proprietà straniera. Come in Algeria, l’industria petrolifera è stata esclusa per ora da queste misure per paura di rappresaglie da parte delle multinazionali, ma la tendenza esiste e sarà rafforzata in futuro.

In Asia, l’implacabile guerra contadina di liberazione del Vietnam, che prosegue ininterrottamente da vent’anni, si avvicina ora alla vittoria. La posizione americana nel Vietnam del Sud e domani nella Corea del Sud sta diventando insostenibile. Il tentativo di sorreggere il vecchio Stato semifeudale latifondista e capitalista è destinato a fallire, particolarmente con l’esempio cinese così vicino. I rappresentanti più lungimiranti della borghesia capiscono bene il processo. De Gaulle, dopo la sua esperienza in Algeria, ha capito chiaramente il problema e vuole servirsene nell’interesse nazionale della Francia. Hanno capito che la guerra di oppressione americana è fallimentare come il tentativo francese di tenersi l’Algeria; vedono che il latifondismo e il capitalismo sono destinati a scomparire. Come affrontare il problema? Con una guerra contadina sotto una direzione stalinista e con prospettive limitate all’ambito nazionale, non c’è pericolo di contagio rivoluzionario in occidente. Allora perché non cercare di assicurare la vittoria di un regime nazional-stalinista in Vietnam e nel resto dell’Indocina, indipendente dalla Cina, come la Jugoslava è indipendente dalla Russia? Una volta accettata la prospettiva spiacevole ma inevitabile della scomparsa del capitalismo, l’importante è che il Vietnam cerchi l’assistenza della Francia e persino degli Usa per mantenersi come forza indipendente dalla Cina. La strategia americana verso la Jugoslavia, la Polonia e la Romania viene ripetuta dai borghesi francesi nel sudest asiatico. La loro politica è quella del male minore: è quella di sfruttare nel modo migliore le contraddizioni dei regimi nazionali stalinisti. Dopo tutto, questi non costituiscono una minaccia sociale diretta per le aree metropolitane, non più di quanto lo sia l’Algeria sotto il dominio nazionalista per la Francia.

In Africa il ghanese Nkrumah parla di “socialismo africano”. Sotto l’impatto degli avvenimenti non è escluso che il Ghana espropri tutta l’industria; questo accadrebbe se ci fosse una crisi economica su scala mondiale.

Nella rivoluzione algerina si svolge un processo simile. L’Algeria, avendo iniziato la lotta come guerra nazionale rivoluzionaria contro l’oppressione coloniale, si trova in un vicolo cieco. Sulle basi del capitalismo non ci può essere soluzione ai suoi problemi; di conseguenza Ben Bella e l’Fln si trovano spinti a poco a poco verso una “soluzione socialista”.

L’Algeria manca ancora di un proletariato industriale. La guerra è stata condotta dall’esercito guerrigliero contadino, rafforzato considerevolmente dai proletari e semiproletari delle campagne. Se i dirigenti del proletariato francese si fossero comportati come rivoluzionari, avrebbero potuto incidere sulla lotta algerina, ma il tradimento del Psf e del Pcf ha spinto il popolo algerino a condurre una lotta su basi puramente nazionaliste attraverso il Fln (1). Questo ha creato a sua volta la situazione nella quale i lavoratori e i tecnici, i piccoli coloni e i commercianti, sono stati spinti fra le braccia dei fascisti dell’Oas; anche quegli elementi che appoggiavano il Psf e il Pcf sono passati all’Oas, aggravando ulteriormente il conflitto. La vittoria della rivoluzione ha portato alla fuga degli artigiani, dei tecnici e dei lavoratori specializzati francesi, creando difficoltà eccezionali per il nuovo Stato algerino. Fin dall’inizio il regime algerino è stato bonapartista. Se nelle prime fasi è esistito un certo controllo operaio nelle aziende e in parte nei latifondi espropriati all’imperialismo, questo non sarà rilevante in futuro. Senza un proletariato industriale e un partito rivoluzionario cosciente e con la metà della popolazione disoccupata, il regime assumerà un carattere sempre più bonapartista.

Sarà la storia a dire se tale bonapartismo sarà di forma proletaria o borghese. Se lo sviluppo degli avvenimenti spingerà i dirigenti algerini nella direzione della proprietà statale, allora, data la loro prospettiva nazionalista, l’assenza di un proletariato cosciente e con gli attuali assetti mondiali, prenderà la forma dello Stato operaio deformato, sul modello della dittatura stalinista.

Sintomo di questo processo è l’ideologia avanzata da Ben Bella, del socialismo “musulmano” algerino. Socialismo “musulmano”, “buddista”, “africano” e altre simili aberrazioni sono espressioni del fatto che il processo si è sviluppato nei paesi arretrati del mondo. La differenza fra queste rivoluzioni e quelle proletarie previste da Marx e Lenin si riassume nella differenza fra il “socialismo buddista/musulmano” e quello scientifico e cosciente.

Naturalmente ogni rivoluzionario degno di questo nome accoglierà con entusiasmo lo sviluppo della rivoluzione coloniale, anche limitata a obiettivi borghesi; ogni colpo all’imperialismo, ogni allentamento delle catene dell’oppressione nazionale, segna un passo avanti della lotta per il socialismo. Così negli ultimi quindici anni lo sviluppo della rivoluzione coloniale, in qualsiasi forma, è stato un passo in avanti per il proletariato mondiale e per tutta l’umanità. Segnala l’entrata sulla scena della storia di popoli che sono stati costretti dall’imperialismo a un’esistenza animale non degna dell’aggettivo umana.

Se pertanto la classe operaia rivoluzionaria vede come una grande avanzata la vittoria della rivoluzione coloniale e dell’indipendenza nazionale, sia pure in forma borghese, la sconfitta del latifondismo e del capitalismo e la distruzione degli elementi di una società borghese e latifondista segna un passo avanti ancora maggiore nel progresso di questi paesi e dell’umanità.

Nel processo della rivoluzione permanente, l’incapacità della borghesia di risolvere i problemi della rivoluzione democratico borghese nelle condizioni moderne spinge verso la vittoria rivoluzionaria.

Anche la vittoria di un partito marxista, che conoscesse e capisse il processo di deformazione e degenerazione della Russia, della Cina e degli altri paesi, non basterebbe a impedire la deformazione su linee staliniste, dato l’attuale rapporto delle forze mondiali.

La vittoria rivoluzionaria nei paesi arretrati come l’Algeria, nelle attuali condizioni, pur costituendo un enorme passo avanti per la rivoluzione e il proletariato di tutto il mondo che quest’ultimo appoggerà così come farà la sua avanguardia, non può essere che di forma stalinista totalitaria.

Metterà fine alla stagnazione e ai limiti imposti sulle forze produttive dall’imperialismo, dal capitalismo e dal latifondismo e porterà questi paesi sulla strada della moderna società industrializzata, ma non potrà risolvere i problemi che le vengono posti; inevitabilmente sorgeranno nuove contraddizioni a un livello superiore. La deformazione bonapartista è la pena che i popoli coloniali devono scontare per il ritardo della rivoluzione in occidente.

È una chiara indicazione della debolezza di certi “teorici marxisti” e della loro mancanza di un approccio meticoloso ai problemi della rivoluzione socialista, il fatto che in nessun momento considerino i problemi dei diversi paesi dal punto di vista della rivoluzione e del socialismo mondiali. Anche nella Quarta Internazionale, sotto la pressione di una storica decadenza nel campo della teoria e delle idee, la prospettiva marxista viene sostituita da panacee.

Di tutte le tendenze politiche della storia, solo quella del bolscevismo partì con una chiara prospettiva internazionalista. La rivoluzione russa fu realizzata chiaramente e coscientemente come inizio di una rivoluzione in Europa. Tale prospettiva, base indispensabile della rivoluzione socialista, era presente nella coscienza non solo dei quadri dirigenti, ma anche delle masse bolsceviche. L’internazionalismo non era un concetto limitato al sentimentalismo e alle celebrazioni. L’internazionalismo è la conseguenza dell’integrazione dell’economia su scala mondiale, che il capitalismo, come proprio compito storico, ha sviluppato in un’unica economia. Se la Russia, con tutte le sue immense risorse, un proletariato altamente cosciente e una direzione marxista incomparabile, non è riuscita a risolvere i suoi problemi nonostante le sue dimensioni e le sue risorse continentali, è assurdo per i marxisti credere che nella congiuntura attuale sia possibile, in uno qualsiasi dei paesi arretrati e nell’assenza di uno Stato operaio sano, qualcosa di diverso da uno Stato bonapartista con un carattere più o meno repressivo.

L’internazionalismo e una direzione cosciente sono parti organiche dei marxismo. Senza di esse, è impossibile fare i passi necessari verso la società socialista. Nessuno di questi Stati ha raggiunto neppure lo sviluppo industriale che aveva la Russia al tempo della rivoluzione, in rapporto alla popolazione. Lo sviluppo industriale di un paese arretrato, sotto la pressione dell’imperialismo e del bonapartismo sovietico e cinese e delle contraddizioni interne dovute a tale sviluppo, porta, in condizioni di scarsità, alla crescita di ceti privilegiati. In tutti questi paesi l’apparato statale ha acquisito un’indipendenza dalla sua base di massa (anche dove ha o aveva l’appoggio, entusiasta o passivo, della popolazione); questo fatto indica che su basi arretrate è impossibile iniziare il processo di dissoluzione dello Stato nella società. Ma lo smantellamento delle strutture statali provvisorie, che avverrebbe in una società in cui esistessero un vero controllo e una partecipazione da parte della popolazione, è a sua volta il prerequisito indispensabile di una transizione sana verso il socialismo. Lo sviluppo futuro di questi Stati dipende dunque dallo sviluppo della rivoluzione mondiale.

In quei paesi coloniali ed ex coloniali nei quali la borghesia ha potuto mantenersi temporaneamente in un equilibrio precario, come l’India e lo Sri Lanka, è stata messa in piedi la parvenza di una democrazia borghese; questa è sopravvissuta in una forma o l’altra in diversi Stati dell’Asia e dell’America Latina in base all’ascesa economica del dopoguerra, particolarmente in India, che aveva forse la borghesia più forte fra i paesi ex coloniali. In India la borghesia è riuscita a mantenersi al potere, ma non ha un vero futuro e con l’arrivo della prima crisi economica, se il capitalismo si manterrà in India, la democrazia borghese sarà condannata a scomparire. Per mantenersi, la borghesia imboccherà la strada del bonapartismo borghese. Questo processo si è visto chiaramente in Pakistan.

In tutti gli altri paesi dell’Asia e in quasi tutti quelli dell’Africa, gli strati superiori della società sono riusciti a mantenersi solo in base allo Stato bonapartista monopartitico (Ghana, Egitto ecc.). Su basi borghesi questi paesi saranno condannati alla decadenza e alla degenerazione. A livello economico, politico e sociale la borghesia non può che aggravare i problemi della società. In India la borghesia non ha risolto il problema del latifondismo, quello nazionale e neanche quello delle caste. Nonostante l’industrializzazione che si è avuta, il tenore di vita è calato. Eppure fra tutti questi Stati è stata la borghesia indiana ad avere le migliori occasioni per favorire lo sviluppo di un’economia e di uno Stato moderni.

L’imperialismo con una mano ha offerto assistenza all’India, ma con l’altra, attraverso le ragioni di scambio e il tributo ricavato con gli investimenti, ha minato la posizione della borghesia indiana. Anche se c’è stato un certo sviluppo industriale, le esportazioni dei paesi coloniali riguardano prodotti leggeri come il tessile, mentre le importazioni sono state di macchinari pesanti. Con l’enorme sviluppo del commercio attraverso la divisione del lavoro fra i paesi avanzati, gli imperialisti hanno potuto consentire un certo margine nell’importazione dei prodotti leggeri dai paesi coloniali.

Ma gli ultimi due decenni hanno offerto le migliori condizioni economiche in cui questi paesi potessero funzionare nel mercato mondiale, al quale sono legati come Prometeo alla roccia e al quale non possono sfuggire. Anche in questo periodo più favorevole per il capitalismo nel suo complesso, le economie dei paesi coloniali, in confronto a quelle dei paesi avanzati, hanno sofferto di un deterioramento ancora maggiore di quello subito nel periodo di dipendenza coloniale dell’anteguerra. Quando i grandi Stati imperialisti dovranno trovare il modo di salvarsi dalla crisi portata da un calo dell’economia, le “concessioni” che offrono attualmente ai paesi coloniali per paura di una rivoluzione all’interno di questi ultimi saranno bloccate nel tentativo di impedire le grandi esplosioni sociali che incombono nei paesi sviluppati. Perciò si svilupperanno nuove tensioni e tempeste sia nei paesi imperialisti che in quelli coloniali.

Nessuno, né Marx né Lenin né Trotskij, poteva presentare un progetto bell’e pronto per lo sviluppo della società; essi potevano solo delineare le prospettive fondamentali e generali. Il fallimento della rivoluzione in occidente e l’espansione e il consolidamento dello stalinismo in oriente hanno stabilito lo scenario mondiale in cui avviene il risveglio dei popoli coloniali.

In Asia, la rivoluzione cinese ha dato la sua impronta agli avvenimenti. Gli sforzi dell’imperialismo americano nel Vietnam, nella Corea del Sud e in altri paesi confinanti con la Cina hanno semplicemente sorretto le formazioni sociali marce del passato. Gli Usa hanno tentato di riempire il vuoto lasciato dall’imperialismo anglo-francese e giapponese. Gli Stati militar-polizieschi del Vietnam del Sud, della Corea del Sud ecc., si possono paragonare solo al regime marcio di Chang Kai-shek del periodo precedente alla Seconda guerra mondiale. La debole borghesia di questi paesi non può risolvere i problemi della rivoluzione democratico borghese e senza l’intervento delle forze e del denaro americano questi regimi crollerebbero da un giorno all’altro.

Anche con l’appoggio dell’imperialismo americano al regime sudvietnamita, l’accanita guerra contadina che va avanti ininterrottamente dalla fine della Seconda guerra mondiale sta minando il regime e rende sicura a lungo andare la vittoria dell’esercito contadino. Il Vietnam è un peso sull’imperialismo tanto quanto lo era Chang Kai-shek. Solo le risorse dell’imperialismo americano permettono che si buttino via tanti dollari in un pozzo senza fondo.

Nell’immediato dopoguerra fu solo grazie alla politica traditrice dello stalinismo, soprattutto della burocrazia russa, che fu possibile mantenere il precario equilibrio delle forze in Asia, particolarmente nel sudest. Ma data l’impossibilità di trovare una strada per lo sviluppo di una società moderna in questi paesi, i loro regimi sono destinati a finire nella pattumiera della storia. Di conseguenza non appena venga meno, per qualsiasi ragione, il sostegno dell’imperialismo americano o persino nonostante questo, il tracollo di questi regimi sarà inevitabile.

Gli sviluppi in Birmania, nel Laos e in Cambogia indicano la direzione del processo. Non c’è una via capitalista su cui procedere, per nessuno dei paesi dell’Asia. In una forma o nell’altra ci sarà un impulso in direzione della rivoluzione socialista. Dove c’è un proletariato sviluppato, in Sri Lanka e particolarmente in India, è possibile che la rivoluzione democratico borghese si trasformi in rivoluzione socialista, in conformità con l’idea classica della rivoluzione permanente. L’instaurazione di una democrazia operaia sarebbe il massimo obiettivo dopo la realizzazione della rivoluzione borghese. Ma in questi paesi, anche sotto la direzione di un partito trotskista come l’Lssp in Sri Lanka (2), la conquista del potere da parte del proletariato e l’instaurazione della democrazia operaia potrebbero costituire solo un episodio, seguito necessariamente dalla deformazione di tipo stalinista, se entro poco tempo non ci fosse una vittoria della rivoluzione nei paesi avanzati. Anche come episodio avrebbe senz’altro un’enorme importanza per il proletariato di tutto il mondo, ma neppure la più grande teoria rivoluzionaria può risolvere i problemi senza la base materiale necessaria. È solo l’incapacità del capitalismo di risolvere i problemi alla sua periferia che permette la conquista del potere in questi paesi. Naturalmente la vittoria del proletariato in un subcontinente come l’India avrebbe conseguenze enormi in Gran Bretagna e in altri paesi europei, se si sviluppasse come la rivoluzione cinese del 1925-27 nella quale il proletariato ebbe il ruolo decisivo. Se invece fossero i contadini ad avere questo ruolo attraverso la guerriglia, lo sviluppo della rivoluzione seguirebbe il modello cinese del 1944-49.

Tuttavia, lo sviluppo industriale in India e le sue tradizioni diverse rispetto alla Cina danno al proletariato una grande importanza nella vita sociale del paese. Se i marxisti indiani riuscissero a creare tempestivamente un partito rivoluzionario, questo potrebbe portare la classe operaia al potere con l’obiettivo di creare una democrazia operaia, abbattere il regime dei latifondisti nelle campagne e unificare il paese come passo verso la rivoluzione socialista internazionale.

La Cina stalinista, in tutta la sua concezione, nei metodi e nell’ideologia, è pervasa dal ristretto nazionalismo di una casta burocratica. Se nella transizione dal feudalesimo al capitalismo si è vista, nella storia mondiale, una varietà caleidoscopica di regimi è perché in tale transizione lo sviluppo stesso delle forze produttive garantiva una certa automaticità del progresso, una volta realizzate le rivoluzioni borghesi decisive della Gran Bretagna, della Francia e dell’America. Storicamente, a causa delle circostanze spiegate da Trotskij in molti suoi scritti e dalla nostra tendenza dopo Trotskij, se la rivoluzione si sviluppa prima nei paesi arretrati e più deboli questo fattore (la rottura della catena capitalista negli anelli più deboli) è decisivo per un certo periodo nel determinare le distorsioni con cui la rivoluzione procede.

La ristrettezza nazionale degli stalinisti cinesi, che nel loro contrasto con gli stalinisti russi mischiano le idee staliniste più reazionarie con rivendicazioni demagogiche contro l’imperialismo, è soprattutto un’indicazione della loro incapacità di capire i problemi della rivoluzione mondiale e i propri interessi e obiettivi. Anche la soluzione del problema nazionale nelle zone “sottosviluppate” del mondo è concepita solo come parte delle manovre diplomatiche dello Stato cinese. L’idea che ogni paese possa formarsi in una nazione autosufficiente che costruisca la propria forma di socialismo è reazionaria da cima a fondo. Ma l’idea del “socialismo in un paese solo” non è caduta dal cielo; rifletteva l’interesse ristretto della casta burocratica della Russia e oggi, in modo simile, in Jugoslavia, in Albania, in Romania e in Corea del Nord, queste idee riflettono gli stessi processi e le stesse contraddizioni. Più di quindici anni fa la nostra tendenza, che aveva previsto in anticipo la vittoria dello stalinismo cinese, prospettò anche la probabilità, persino l’inevitabilità, di rotture e allontanamenti fra questa ristretta cricca nazionalista e i suoi compagni di Mosca. In questo senso la rivoluzione cinese ha visto la presenza di due componenti contraddittorie fra loro: è stata enormemente progressista per il fatto che ha dato una soluzione ai problemi dello sviluppo della Cina e un impulso al risveglio dei due terzi dell’umanità condannati alla fame e alla miseria nel mondo sottosviluppato, ma allo stesso tempo ha rafforzato ulteriormente la dittatura stalinista in Russia e l’ideologia stalinista nel mondo. Nei centri metropolitani del capitalismo, i partiti stalinisti hanno potuto far proprie non solo le conquiste della rivoluzione russa, ma ora anche quelle della grande rivoluzione cinese. Ma la storia dello stalinismo cinese dimostra che non si è mai sollevato, e non potrà mai sollevarsi, data la natura della sua ideologia, dei suoi metodi e delle sue prospettive, al di sopra di un ristretto orizzonte nazionale.

I suoi metodi in Asia, anche nell’intervento nella guerra di Corea, sono stati dettati non da considerazioni internazionaliste, ma solo dagli interessi strategici, politici ed economici dello “Stato cinese”, cioè della burocrazia. Il suo accordo opportunista con il governo indiano di Nehru, in base al quale i rapporti sociali dello Stato feudale e teocratico del Tibet andavano conservati in cambio di un miglioramento dei rapporti con la borghesia indiana, è stato distrutto dalla tentata controrivoluzione in Tibet; la burocrazia è stata costretta ad appoggiarsi ai contadini e ai servi feudali e a distruggere la vecchia società tibetana.

Anche nella guerra con l’India sul confine e sulla strada strategica fra Sinkiang e Tibet, la condotta della guerra è stata dettata solo da considerazioni nazionalistiche e non dall’idea di favorire la lotta di classe all’interno dell’India. Le critiche a Mosca e all’opportunismo dei partiti comunisti francese, italiano ecc. sono solo un tentativo di trovare appoggio per le idee, i metodi e la politica dello Stato cinese. In nessun momento ha proposto l’idea, elementare per il marxismo, di una federazione socialista di tutta l’Asia. Non è mai stata proposta una federazione russo-cinese, cosa che invece si sarebbe fatta automaticamente nel caso di una rivoluzione fondata su principi leninisti in Cina e con un regime leninista nell’Unione Sovietica. Pertanto, prima che la rivoluzione cinese e le altre rivoluzioni dell’Asia possano prendere la strada della transizione al socialismo, il proletariato e i contadini dovranno fare una nuova rivoluzione, questa volta non sociale, ma politica per instaurare una democrazia operaia.

È compito storico, forse inconsapevole, di questi regimi preparare le forze materiali e sociali del proletariato e dell’industria per porre le basi del socialismo (in un certo senso lo stesso compito che il capitalismo ha svolto in occidente, ma non è stato capace di realizzare in questi paesi).

La vittoria della rivoluzione sociale nei paesi arretrati in forma spuria provoca contraddizioni sociali, malgrado la crescita delle forze produttive, e allo stesso tempo semina idee confuse nell’avanguardia operaia occidentale e nel proletariato mondiale, sul socialismo e sui suoi compiti.

La rivoluzione russa provocò un immenso risveglio rivoluzionario del proletariato dell’occidente e dell’oriente. Alzò il livello di coscienza del proletariato a un punto mai visto nella storia. Arricchì il bagaglio teorico del marxismo a un livello nuovo e superiore. L’idea dei soviet, del controllo operaio, della democrazia operaia e della società di transizione era compresa in occidente da ampie fasce di lavoratori coscienti. Questa coscienza si sviluppò in base al più grande movimento democratico e sociale delle masse in tutta la storia dell’umanità. Nel suo effetto di liberazione, nelle conclusioni teoriche, mise in ombra anche la Comune di Parigi e le lezioni che Marx genialmente ne aveva tratto.

La rivoluzione cinese del 1925-27 sarebbe potuta riuscire solo con una sequenza di avvenimenti simile a quella del 1917. Per questo Trotskij guardava con fiducia agli effetti che la rivoluzione cinese avrebbe avuto in Russia; la burocrazia sovietica sarebbe stata rovesciata, perché la nuova spinta rivoluzionaria avrebbe risvegliato e mobilitato il proletariato sovietico. Allo stesso tempo avrebbe trovato un’eco in occidente, collegando il movimento rivoluzionario di tutto il mondo. Trotskij guardava a questo sviluppo della “rivoluzione permanente” perché considerava la rivoluzione cinese nel contesto e con la prospettiva del socialismo mondiale.

Nel 1949 la burocrazia russa nel migliore dei casi solo diede un tiepido appoggio alla rivoluzione cinese (non credeva nella possibilità di una vittoria rivoluzionaria, nemmeno nella forma caricaturale in cui si stava realizzando), tuttavia non poteva considerare la vittoria in forma spuria bonapartista come minaccia immediata alla propria posizione.

Come avevano previsto i marxisti, ironicamente l’estensione della rivoluzione alla Cina e agli altri paesi dove sono nati regimi bonapartisti proletari ha rafforzato la burocrazia sovietica per tutto un periodo storico.

Basta paragonare la rivoluzione in un paese arretrato come la Spagna, così arretrata negli anni ’30 che Trotskij paragonava i suoi rapporti economici e sociali a quelli di un paese asiatico piuttosto che a quelli di un moderno paese europeo, per vedere quanto sia diverso l’effetto a livello internazionale di una rivoluzione in cui il proletariato gioca il ruolo decisivo. Se in Spagna fosse riuscita la rivoluzione del 1931-37, questa avrebbe provocato la rivoluzione anche in Francia, in Germania e nel resto dell’Europa occidentale; inoltre l’entrata sulla scena della storia dell’eroico proletariato spagnolo avrebbe minato la posizione della burocrazia sovietica; perciò quest’ultima appoggiò disperatamente la controrivoluzione borghese nella Spagna cosiddetta repubblicana. La democrazia operaia in Spagna avrebbe portato alla vittoria della rivoluzione politica in Urss.

È proprio il ruolo internazionale e nazionale del proletariato che segna la differenza fra la rivoluzione come concepita da Lenin e Trotskij e quella bonapartista. Non si tratta di sentimentalismo o di formalismo, ma della concezione organica del socialismo con la partecipazione cosciente e il controllo della classe operaia.

Per vedere la differenza fra la rivoluzione nella sua forma bonapartista e la rivoluzione politica, basta paragonare quella cinese del 1949 e quella ungherese del 1956. In Ungheria si vide la partecipazione diretta e il dominio della classe operaia nella rivoluzione, che strutturò subito i propri organi di autoespressione, di democrazia e di controllo. Dopo vent’anni di terrore fascista e dieci anni di terrore stalinista, i lavoratori ungheresi dimostrarono l’enorme tenacia delle idee del socialismo e della democrazia operaia, come unico mezzo per garantire lo sviluppo della società futura. Formularono tutte le rivendicazioni della rivoluzione politica come aveva fatto Trotskij, proprio come se avessero letto le sue opere.

Mentre la rivoluzione in Europa orientale e in Cina era stata accolta come estensione del potere e dei privilegi dei burocrati, quella ungherese li fece tremare da Pechino, a Mosca, a Belgrado. Era in gioco la stessa esistenza di tutti questi regimi. Dai tempi della rivoluzione spagnola non c’era stato un tale terremoto sociale che desse ispirazione al proletariato degli altri Stati stalinisti. Fu per questo che la burocrazia sovietica, disperatamente esortata da quella cinese e degli altri paesi, intervenne in Ungheria e affogò la rivoluzione nel sangue prima che il proletariato riuscisse a forgiare nel fuoco della rivoluzione, come sempre in queste circostanze, il partito e la direzione marxista necessari. La fiamma della rivoluzione rese inaffidabili i soldati proletari dell’esercito d’occupazione russo. Questi furono ritirati e solo gli arretrati soldati siberiani, fino ad allora mai toccati dagli avvenimenti, poterono essere usati per schiacciare la rivoluzione nel sangue.

A conferma delle prospettive della teoria marxista, la rivoluzione cinese è apparsa un fatto remoto, che destava simpatia fra gli elementi avanzati del proletariato occidentale, ma non era vista dalle masse in generale come un avvenimento collegato ai loro interessi e alle loro aspirazioni, mentre la rivoluzione ungherese, come in precedenza quella spagnola, risvegliò subito l’entusiasmo della massa della classe operaia dell’Europa occidentale. Oltre alle sue ripercussioni nei partiti comunisti occidentali, ebbe un’eco nelle fabbriche, nelle officine e dovunque ci fossero lavoratori raggruppati nell’industria.

La differenza fra l’effetto internazionale della rivoluzione come avviene oggi nei paesi coloniali e quella cinese del 1925-27 è spiegata dal fatto che quest’ultima seguiva il modello della rivoluzione russa, per quanto riguardava le classi sociali che vi partecipavano. Lo stesso vale per la rivoluzione spagnola, che pure si realizzava anch’essa in un paese arretrato. Se le rivoluzioni in Cina e in Spagna non portarono la vittoria sulla borghesia, la colpa fu direttamente della direzione del proletariato. Quest’ultimo tentò, con tutti gli sforzi di cui era capace, di effettuare la trasformazione rivoluzionaria della società secondo il modello russo del 1917. Viceversa in Cina dopo la Seconda guerra mondiale e negli altri paesi arretrati in cui la rivoluzione è stata vittoriosa, il proletariato non ha svolto lo stesso ruolo che in Spagna, nella Cina del 1925-27 e nella rivoluzione ungherese.

Quei compagni che hanno scoperto di recente i contadini, i semiproletari e persino il proletariato dei villaggi come principale forza motrice di queste rivoluzioni coloniali non hanno capito il vero significato del ruolo che queste classi hanno svolto. Dove il proletariato è diretto da un partito rivoluzionario cosciente, la piccola borghesia delle città e delle campagne, seguendo questa direzione decisa, può appoggiare la vittoria della classe operaia e l’instaurazione della dittatura rivoluzionaria del proletariato, “secondo la norma”, come diceva Trotskij. Anche questo si può realizzare solo se la rivoluzione è collegata in ogni momento con la prospettiva e le idee di una rivoluzione socialista su scala mondiale. Nella sua Storia della rivoluzione russa, Trotskij cita un soldato contadino, influenzato dalla propaganda e dall’agitazione dei bolscevichi, che parla della rivoluzione mondiale come unica salvezza di quella russa. Così la rivoluzione russa, in un paese arretrato, portò i dieci giorni che sconvolsero il mondo. È invece di Bakunin e non di Marx o di Trotskij l’idea di appoggiarsi sulle masse contadine, sugli “elementi rivoluzionari che non hanno niente da perdere” e sul sottoproletariato come forze sociali rivoluzionarie decisive, superiori al “rispettabile proletariato industriale”, che ha un tenore di vita più alto. È vero che queste classi, sotto l’influenza della direzione rivoluzionaria del proletariato, possono giocare un ruolo importante, come in Russia, dove i contadini e fino a un certo punto la piccola borghesia urbana passarono dalla parte bolscevica; ma questo dipende sempre dal ruolo della direzione del proletariato.

Ma per la loro natura di classe, dove esse hanno giocato il ruolo dominante nella transizione, dove vengono “usate”, nel senso machiavellico, da una direzione stalinista ex marxista o bonapartista, questo mette un’impronta decisiva sulla rivoluzione.

Un ruolo del genere per queste classi è comunque possibile solo a causa dell’impasse del capitalismo mondiale e dell’imperialismo da una parte e, dall’altra parte, a causa degli attuali rapporti di forze a livello mondiale, del potere latente del proletariato dei paesi industrializzati e dell’esistenza dei grandi Stati operai deformati. L’armata contadina della Cina si può paragonare all’esercito rivoluzionario di Cromwell, nel senso che l’esercito e il partito si fusero insieme nella lotta. Pur usando le parole d’ordine del socialismo, l’esercito di Mao, per la sua natura di classe, non poteva avere quella coscienza socialista collettiva che il proletariato industriale sviluppa quasi istintivamente.

Pertanto queste classi possono giocare il ruolo chiave di truppe di riserva della rivoluzione, dell’ariete, ma la punta di lancia può essere solo la coscienza rivoluzionaria della classe operaia industriale. La religione e tutti gli altri pregiudizi e superstizioni accumulati durante i secoli e persino i millenni giocano ancora un ruolo importante, anche determinante, nell’ideologia di questi Stati, e trovano un riflesso nell’ideologia e nelle dichiarazioni pubbliche dei capi di questi movimenti, come in Algeria. Questo fatto è decisivo nel caratterizzare il tipo di Stato che emerge ed emergerà nelle rivoluzioni in questi paesi (finché non si verifichi la vittoria del proletariato in occidente). Questi tratti non sono accidentali e sarebbe un crimine da parte di una direzione marxista suggerire una simile idea abominevole. Solo lo stalinismo e la socialdemocrazia hanno adulterato la coscienza rivoluzionaria a tali scopi. Naturalmente, insieme a tutti i suoi difetti e deformazioni, il significato sociale del cambiamento per i marxisti è decisivo; ma pur non buttando via il bambino insieme all’acqua sporca, si deve ugualmente capire il risultato inevitabile del ruolo e del carattere di queste rivoluzioni, se si vuole mantenere la continuità delle idee marxiste e trovare la strada verso una politica corretta.

Queste classi non possono avere un ruolo indipendente, ma dove sono organizzate sotto la direzione delle fasce intellettuali della piccola borghesia in una forma o nell’altra (i militari della Birmania e dell’Egitto, gli ex marxisti della Cina, gli intellettuali del Ghana e di altri paesi) è possibile, nelle condizioni storiche delineate sopra, con una borghesia debole e marcia, o quasi inesistente, che si instauri uno Stato operaio bonapartista come regime di transizione.

Quando si considera la confusione riguardante questi problemi che prevale in tutto il movimento operaio e contamina anche i quadri marxisti, è indispensabile pensare alle idee chiarissime di Lenin e di Trotskij sul ruolo dello Stato.

Anche nelle condizioni storiche più favorevoli, in cui il proletariato avanzato gioca un ruolo dominante nella società essi avvertivano, riecheggiando le idee elementari di Marx, del pericolo rappresentato dalla stessa esistenza dello Stato. Questo, o per essere più precisi il “semi-Stato”, anche nei paesi avanzati costituisce una fonte di pericolo e di infezione ed è indispensabile la massima coscienza rivoluzionaria e vigilanza da parte del proletariato e della sua direzione per evitare la degenerazione e la deformazione.

L’ascesa dello stalinismo in Russia non fu un caso, ma si dovette all’isolamento della rivoluzione rispetto ai paesi avanzati dell’occidente. Anche la vittoria proletaria in un paese avanzato che non si diffondesse agli altri paesi, cosa impensabile dato l’attuale rapporto di forze internazionale, a lungo andare correrebbe il rischio della degenerazione e del crollo.

Ma proprio questo rapporto di forze e lo sviluppo dell’epoca sono tali che una sola vittoria rivoluzionaria nell’Europa occidentale, in Giappone o negli Usa sarebbe sufficiente per trasformare lo scenario mondiale. Si allargherebbe come un incendio in una foresta, molto più velocemente e con effetti più profondi di quelli della rivoluzione russa.

Andiamo oltre e poniamo la possibilità che in un paese come l’Italia o la Francia, dove il proletariato rafforzato dallo sviluppo industriale ha un ruolo di importanza schiacciante, gli stalinisti, sotto l’influenza dell’ondata rivoluzionaria, si trovino spinti al potere, il che in teoria non è da escludersi. È vero che attualmente entrambi i partiti sono difensori di seconda linea dello Stato borghese, ma, sotto l’impatto del movimento, potrebbero far vedere il loro volto di sinistra.

Se fossero spinti a prendere il potere, questo potrebbe accadere solo in base alla mobilitazione di tutte le risorse, dell’energia rivoluzionaria e della capacità organizzativa e di lotta del proletariato. Tale proletariato non permetterebbe lo sviluppo della burocrazia, come è successo nei paesi arretrati dove il proletariato non ha avuto un ruolo determinante. Senza la massima mobilitazione del proletariato, come in Francia nel 1936, in Germania nel 1918 o in Spagna nel 1936-37, la vittoria sulla borghesia non si potrebbe ottenere. Ma una vittoria rivoluzionaria trasformerebbe la situazione a livello nazionale e internazionale. Il partito stalinista si disarticolerebbe. Lo sviluppo molto più probabile tuttavia è che i grandi eventi rivoluzionari provochino una crisi immediata nella base dei partiti stalinisti di tutti i paesi industrializzati, che si diffonderebbe nel blocco orientale.

Gli avvenimenti degli ultimi vent’anni sono stati influenzati dalla sifilide stalinista. Attualmente le spaccature dello stalinismo mondiale, lo sviluppo di deviazioni nazionalistiche da parte degli Stati operai deformati, il ruolo nazionale “indipendente” dei partiti comunisti nei paesi capitalisti, la consegna del ruolo dirigente a gruppi piccolo borghesi di intellettuali nazionalisti nelle trasformazioni sociali di Cuba, del Ghana, dell’Algeria e di altri paesi confermano ciò che aveva previsto Trotskij: la fine dell’Internazionale comunista come forza rivoluzionaria. La crisi interna dello stalinismo mondiale è di un carattere tale che la lealtà cieca che davano i lavoratori, anche quelli avanzati, è finita. Ma anche questo segue uno sviluppo dialettico; lo stalinista di vecchio stampo era molto più rivoluzionario degli elementi attualmente presenti nella base dei partiti stalinisti, almeno nei paesi industriali avanzati.

Due decenni di rapporti sociali “pacifici”, in confronto agli sconvolgimenti dell’anteguerra e del primo dopoguerra, hanno smussato la coscienza delle fasce avanzate del movimento stalinista. Due decenni di teorie velenose e scioviniste disseminate sistematicamente dai partiti stalinisti hanno abbassato il livello teorico del movimento stalinista; questo, coincidendo con un periodo di crescita dell’economia capitalista e interagendo con esso, ha portato a un ulteriore degrado del livello teorico del movimento. Tuttavia nelle file di questi partiti le scosse e gli sconvolgimenti del mondo stalinista, il XX congresso, l’Ungheria, le nuove spaccature fra gli Stati stalinisti e soprattutto fra l’Urss e la Cina, aprono la strada ad una futura e decisiva trasformazione dei rapporti interni. Mai più di fronte agli avvenimenti rivoluzionari, la base accetterà ciecamente il ruolo controrivoluzionario che gli stalinisti hanno svolto in passato nei paesi capitalisti avanzati.

Questi sviluppi saranno comunque più complessi di quanto si potesse prevedere; nelle prime fasi della sua critica al programma dell’Internazionale comunista, Trotskij aveva previsto che la teoria del “socialismo in un paese solo” avrebbe portato inevitabilmente alla degenerazione su linee nazionaliste dei partiti dell’Internazionale comunista. Con uno sviluppo storico peculiare, questa previsione è stata confermata anche nei paesi in cui gli stalinisti sono al potere, oltre che in quelli capitalisti.

Ma anche se questa prospettiva si è verificata in un modo non previsto, ha dimostrato la forza dell’analisi del marxismo quando quest’ultimo deve trattare i principi fondamentali. Questi sorgono dai rapporti di classe esistenti nella società. Qualsiasi tendenza del movimento operaio che non torni a rianalizzare gli eventi da questo punto di vista fondamentale ad ogni grande svolta storica rischia, forse inevitabilmente, di finire sotto l’influenza di classi o di tendenze ostili al movimento operaio come il riformismo o lo stalinismo.

Il carattere deformato della rivoluzione cinese, il quale riflette inevitabilmente le esigenze e gli interessi della élite burocratica che ha escluso anche i contadini, per non parlare degli operai, dalla gestione dello Stato, ha determinato la prospettiva della cricca governante. Questa ha più da condividere con i mandarini della vecchia tradizione cinese che non con uno Stato operaio sano, nel senso che governa quasi come un’aristocrazia. Le critiche lanciate dai burocrati cinesi contro gli altri stalinisti sono dominate da considerazioni nazionalistiche, come pure naturalmente le posizioni della burocrazia marcia dell’Urss. Lo stesso vale per tutta la loro politica, nella diplomazia mondiale e nell’intervento nel movimento operaio. L’aspetto più rilevante del loro scontro con la burocrazia russa è l’orientamento e la prospettiva nazionalista. Parlano di “secoli di costruzione socialista in Cina” andando più in là della posizione di Stalin.
Le loro critiche all’opportunismo di Togliatti, di Thorez e dei comunisti inglesi e americani sono sempre state legate all’idea che non erano “affari loro” e non volevano “intromettersi” nelle questioni interne di questi partiti; solo la critica fatta dai dirigenti in occidente ha provocato le “controcritiche” dei cinesi. È ovvio che non si sono svegliati improvvisamente dopo quindici anni di sonno per riscoprire le opere di Marx e di Lenin.

La loro critica all’accordo economico Comecon proposto fra gli Stati dell’est europeo e l’Urss esprimeva un nazionalismo ristretto del tipo peggiore. È vero che i sovietici avevano proposto l’accordo per rafforzare il loro dominio e controllo sugli altri Stati, ma la soluzione si doveva trovare nella proposta di una federazione di Stati balcanici, collegata poi con l’Urss. Questa a sua volta si doveva collegare in una grande federazione con la Cina. Ma tutto ciò è impossibile dato il dominio della burocrazia in tutti questi paesi.

La politica di questi paesi è determinata in tutti i casi dagli interessi ristretti della cricca governante, che di conseguenza si basa sempre sui pregiudizi nazionali più reazionari e sullo sciovinismo. Solo un partito che si appoggi sui veri interessi del proletariato può basarsi sul vero internazionalismo attraverso la compenetrazione delle diverse economie, a beneficio comune di tutti. La necessità urgente di unire tutta l’economia mondiale, contro gli sprechi e le assurdità del particolarismo, è riconosciuta persino dalla borghesia, come dimostrano il Mercato comune europeo e altri tentati accordi. La borghesia non può risolvere questo problema, ma può adottare solo misure parziali che infine crolleranno, portando il contrario dell’internazionalismo: il nazionalismo accanito e il protezionismo.

Trotskij sottolineò più volte che i due mali dell’epoca moderna erano la proprietà privata dei mezzi di produzione e i limiti imposti dallo Stato nazionale. Erano questi i principali ostacoli allo sviluppo delle forze produttive e il motivo per cui il sistema capitalista su scala mondiale era maturo, anche marcio, per la rivoluzione socialista.
Nei paesi arretrati, per un periodo storico temporaneo, la realizzazione dello Stato nazionale attraverso l’espulsione dell’imperialismo rimane un fattore potente e relativamente progressista. Ma a livello mondiale questi Stati si scontrano subito con il dominio schiacciante delle economie avanzate che li frena.

Nei paesi in cui il proletariato giungesse al potere, avanzati o arretrati che siano, sarà tuttavia decisiva la prospettiva internazionalista. Solo questa potrebbe mettere a nudo le burocrazie nazionaliste e arroganti di questi paesi. Queste hanno giocato un ruolo progressista nella difesa delle basi dei loro regimi, cioè la proprietà nazionalizzata, ma allo stesso tempo hanno un ruolo enormemente reazionario nella difesa dei loro privilegi, la quale si esprime in un nazionalismo ristretto.

Qui non ha importanza trattare delle prospettive dello sviluppo moderno e le diverse varianti discusse da Trotskij nei suoi ultimi articoli, casi fraintesi e distorti da Shachtman, Deutscher e Cliff. Ciò che è rilevante è l’enfasi che Trotskij pone sul fatto che il compito storico non è solo la distruzione del capitalismo, ma è anche quello di mettere fine alle vecchie economie nazionali che limitano e ostacolano lo sviluppo delle forze produttive. Infatti Trotskij attribuisce un’importanza decisiva alla questione del ruolo reazionario dello Stato nazionale e dimostra che l’abolizione della proprietà privata, pur avendo un’enorme importanza storica, sarebbe tuttavia solo un episodio se lo Stato nazionale restasse in piedi.

Se lavoratori russi avessero mantenuto il controllo sul loro Stato, le rivoluzioni della Cina e dell’Europa orientale non avrebbero assunto un carattere reazionario nazionalista. I problemi posti dallo sviluppo della Siberia sarebbero stati risolti dall’immigrazione di decine di milioni di contadini cinesi per essere addestrati dai tecnici russi per sfruttare insieme le risorse di questa zona favolosamente ricca, a beneficio di entrambi i popoli e per saldare la federazione fra di loro.

Né i burocrati russi né quelli cinesi sono capaci di affrontare il problema in questa maniera. I cinesi, dal loro punto di vista, pongono la questione del socialismo “nazionale”, in cui ogni paese sviluppa le proprie risorse, mentre i russi si presentano come “internazionalisti” per usare il potere della loro posizione industriale per dominare le economie più deboli degli Stati stalinisti minori dell’Europa orientale. La ristrettezza nazionale dello stalinismo cinese spicca da ogni pagina dei loro documenti. Riguardo a questo punto c’è poco da scegliere fra le due potenze staliniste. È un paradosso ironico della storia che, nelle economie avanzate dell’Europa occidentale, le direzioni staliniste degenerate indossino gli stracci puzzolenti di un nazionalismo superato. Criticano da un punto di vista nazionalista i tentativi perdenti della borghesia di superare i limiti dello Stato nazionale.

Per l’ala marxista del movimento operaio, qualsiasi critica alle frazioni staliniste in guerra fra di loro deve partire dal punta di vista internazionalista. Non si deve fare nessuna concessione alla degenerazione nazionalista che caratterizza tutte le tendenze dello stalinismo. Trotskij spiegava come una delle ragioni della debolezza numerica della Quarta Internazionale fosse la forza delle idee e delle tradizioni nazionaliste.

Oggi nei paesi avanzati gli stalinisti sono diventati in parte una seconda agenzia riformista della borghesia, piuttosto che lo strumento fedele della politica estera della burocrazia russa come erano in passato.

Lo scontro fra l’Urss e la Cina conferisce una certa indipendenza alla burocrazia dei partiti comunisti. Decenni di propaganda velenosa e nazionalista hanno disorientato gli strati superiori dei partiti comunisti dei paesi avanzati e hanno toccato anche la base. Ma la grande maggioranza di quegli elementi che si trovano in opposizione confusa e considerano Pechino come una guida rivoluzionaria saranno attirati alla bandiera del marxismo solo se questi aspetti dell’internazionalismo e della teoria saranno spiegati e sottolineati.

Tutti i quadri dei partiti stalinisti da decenni sono stati diseducati su questi problemi. È compito nostro affrontare proprio tali questioni quando andiamo a parlare con questi quadri. All’inizio della lotta dell’Opposizione di sinistra Trotskij dava una particolare enfasi a questo problema, che aveva un’importanza centrale nella sua Critica alla bozza di programma dell’Internazionale comunista. Da allora sono passati dei decenni (e che decenni) in cui gli avvenimenti hanno confermato la correttezza di questo approccio. Era sempre centrale nel pensiero di Trotskij, e si illudono quei compagni che sognano un approccio “più facile”. Non è nemmeno immaginabile che un approccio opportunista su linee “attuali” e “moderne” possa riuscire mentre quello rivoluzionario è riservato alla conversazione da salotto.

Per quale motivo i quadri dell’ala filosovietica o di quella filocinese dovrebbero venire verso la Quarta Internazionale, a meno che questa non abbia qualcosa da offrire? Che cosa abbiamo noi da offrire in questa fase, se non le idee dei grandi teorici, arricchite e rafforzate dall’esperienza degli ultimi decenni? Le critiche episodiche avranno l’effetto di spingere da una parte o dall’altra quei quadri che adesso cominciano a mettere in discussione la loro posizione. Per quanto riguarda le masse, non riusciamo ancora a farci sentire.

In un certo senso la crisi dello stalinismo ha seminato ulteriore confusione nella base dei partiti comunisti. La mancanza di formazione sulle basi del marxismo, la degenerazione nazionalista dello stalinismo, l’apparente lustro delle vittorie rivoluzionarie in Cina e negli altri paesi, e domani la vittoria della guerriglia contadina nel Vietnam, hanno confuso i compagni di base. Ma i contrasti fra tutte le fazioni nazionaliste dello stalinismo, particolarmente fra la Russia e la Cina, hanno creato le premesse di un’enorme crisi nei partiti stalinisti, particolarmente nei paesi sviluppati. In un certo senso, l’effetto immediato del conflitto cino-sovietico, per quanto riguarda la massa della base comunista, è di rendere più difficile il compito dei marxisti. Molti quadri, amareggiati per l’opportunismo dei partiti comunisti, hanno accolto quella che considerano la svolta “rivoluzionaria” dei cinesi. Anziché alla potente Russia, guardano alla potenza di Pechino come centro rivoluzionario. Non saranno interessati da una critica episodica.

Tuttavia, dal punto di vista storico, la crisi apre la strada a una completa trasformazione dello scenario mondiale. La burocrazia del movimento operaio in Europa occidentale ha perso da tempo l’entusiasmo acritico dei suoi seguaci. Ciò comincia a essere vero anche nei partiti comunisti: ci possono essere un solo Vaticano e un solo Papa.

In base ai grandi avvenimenti che si prospettano nei prossimi dieci-venti anni, si verificherà la previsione di Trotskij, anche se con ritardo: non resterà nemmeno una pietra sull’altra delle vecchie internazionali della classe operaia. Il mutamento nella coscienza delle masse si manifesterà nei partiti comunisti di massa, particolarmente in Francia e in Italia. Mai più la base di questi partiti accetterà senza grandi movimenti di protesta tradimenti come quelli del 1936 in Francia e in Spagna e del 1944-47 in Francia e in Italia. I partiti comunisti si spaccheranno da cima a fondo. È necessario soprattutto che la Quarta Internazionale faccia una critica implacabile al nazionalismo delle burocrazie, sia di quella russa sia di quella cinese. Per i marxisti nei paesi coloniali il problema sarà particolarmente difficile: non è facile per le masse contadine vedere oltre l’orizzonte nazionale e la loro visione politica è estremamente limitata, i contadini possono essere condotti in questa direzione solo dal proletariato e collegando in modo concreto i loro interessi a una prospettiva internazionale.

L’insegnamento di Marx, di Lenin e di Trotskij per sua natura è indirizzato a dare una guida al proletariato nelle diverse fasi storiche. Naturalmente anche il proletariato non è immune al veleno nazionalistico. Perciò, quando ci si rivolge ai quadri, è necessario sottolineare la questione di un approccio internazionalista non solo nei paesi avanzati, ma anche in quelli arretrati. Se questo non viene compreso i quadri andranno persi. Su questo punto non si può fare nessuna concessione alle altre tendenze del movimento.

Naturalmente, dal punto di vista della politica mondiale, la magnifica rivolta dei popoli coloniali sta preparando un rapporto di forze completamente nuovo. Ma una volta che i grandi battaglioni dei proletariato entreranno sulla scena della storia in Europa occidentale, in Giappone e negli Usa, sarà trasformato tutto l’equilibrio delle forze nel mondo.

Trotskij una volta avvertì del pericolo della scomparsa della Quarta Internazionale se questa non avesse trovato la strada verso le masse. A questo avvertimento se ne può aggiungere un altro: se le idee fondamentali del trotskismo, pur arricchite e sviluppate, non penetreranno a fondo nella coscienza dei quadri, l’Internazionale potrà degenerare in modo impressionante e seguire i riformisti di sinistra o gli stalinisti cinesi o russi. Non bisogna piegarsi empiricamente davanti agli avvenimenti; le questioni fondamentali si devono porre ripetutamente, soprattutto negli scritti teorici e nei periodici dell’Internazionale.

Il problema si deve porre chiaramente: o le rivoluzioni coloniali hanno seguito questa determinata forma a causa del ritardo della rivoluzione nei paesi avanzati… oppure non esiste un ruolo per la Quarta Internazionale, se non come consigliere autonominato e benevolo dei Castro, dei Mao e dei Ben Bella.
Qui si deve chiarire che, dal punto di vista marxista, gli argomenti di Plekhanov e dei teorici del menscevismo (secondo i quali la Russia nel 1917 non sarebbe stata matura per il socialismo) erano e sono perfettamente corretti… se si considera la Russia isolata dalle prospettive internazionaliste e mondiali dei bolscevichi.

Tutte le altre tendenze, cricche e raggruppamenti del movimento operaio sono destinati alla sterilità e al crollo per la mancanza di una prospettiva internazionalista come base del loro lavoro. Le rivoluzioni coloniali segnano un gigantesco passo in avanti per tutti i paesi ex coloniali. Ma la soluzione finale del problema si può trovare solo nell’arena internazionale e nella vittoria della classe operaia dei paesi avanzati. Le condizioni in cui la rivoluzione si è realizzata e si sta sviluppando in questi paesi li destinano a nuove rivoluzioni politiche per creare la democrazia operaia. Il compito del marxismo consiste nell’armare almeno l’avanguardia con una comprensione di questi sviluppi e dei problemi che pongono.
Innanzitutto gli elementi avanzati dei partiti comunisti si possono guadagnare su basi salde solo se capiscono questo approccio fondamentale. Un atteggiamento per cui si dà ragione ai cinesi su un punto, ai russi su un altro, non convincerà quasi nessuno, può solo confondere gli stessi quadri trotskisti con pedanterie e scolasticismi.

Il vero motivo del conflitto fra la Russia e la Cina si deve spiegare chiaramente: per i marxisti questo sta semplicemente negli interessi di potere di entrambe le burocrazie, cioè il potere, i privilegi, il reddito e il prestigio della fascia dirigente di entrambi i paesi. Questo non è un fattore casuale, ma è il tema centrale della questione. È impossibile spiegare questo fenomeno, così come quello della burocrazia nel movimento operaio, in altri modi e mantenersi fedeli ai principi del marxismo. Stiamo trattando non solo con i fantasmi e le razionalizzazioni ideologiche, ma con interessi reali e tangibili delle burocrazie.
Oggi, come sempre, il marxismo rimane la scienza delle prospettive. Senza una chiara prospettiva il nostro movimento internazionale sarà condannato alla degenerazione e al crollo.

Questi avvenimenti nel mondo coloniale si sono svolti in un contesto di ascesa economica prolungata nei paesi avanzati. Queste sono le condizioni migliori che il capitalismo mondiale può offrire ai popoli coloniali. Cosa succederà nel declino economico che inevitabilmente verrà?

Lo Stato monopartitico uscito da queste rivoluzioni e liberazioni coloniali in molte zone è naturalmente di carattere bonapartista. La debole borghesia, dove esiste, viene spazzata via; in molte parti dell’Africa e dell’Asia la borghesia non esiste neppure. Sono gli intellettuali, i capi tribali e i ceti piccolo borghesi ad essere spinti al potere. È questa la situazione del Congo, del Ghana e dell’Africa orientale ex britannica.

In condizioni di recessione ci sarà una frana vera e propria in Asia, in Africa e in America Latina che porterà nella direzione della rivoluzione socialista, sia pure in questa forma particolare; in tutto il continente africano, solo in Sudafrica c’è un grande proletariato industriale che può assumere il ruolo decisivo avuto in Russia.

L’aspetto più impressionante di tutti questi regimi è la loro incapacità di risolvere il problema dei confini nazionali antiquati. Nasser non è riuscito ad unificare gli Stati arabi. Kenyatta si è vantato della sua manovra per ingannare gli imperialisti e ottenere l’indipendenza facendo finta di accettare l’idea di una federazione dell’Africa orientale! Il tentativo da parte di Nkrumah di costituire una federazione di tutta l’Africa è stato finora sterile. Sono tutti incapaci di risolvere questo problema.

Il carattere particolare dei regimi che nascono dalla rivoluzione coloniale è dovuto al ritardo della presa del potere da parte del proletariato dei paesi avanzati. Questo sottolinea ulteriormente il fatto che il capitalismo è maturo e anche marcio per la trasformazione socialista. Dove una classe entra tardivamente in scena ed è incapace di giocare il ruolo che la storia esige, tale ruolo viene svolto da altre classi e forze sociali. Ad esempio in Giappone, nella transizione dal feudalesimo al capitalismo, l’aristocrazia si trasformò in classe dirigente industriale. Questo fatto ha lasciato la sua impronta fino ad oggi sui rapporti sociali giapponesi. In Germania il fallimento e l’incapacità della borghesia portò, come spiegavano Marx ed Engels, gli Junkers (3) a portare avanti i compiti della rivoluzione democratico borghese. Anche questo ha lasciato la sua impronta sui rapporti sociali tedeschi, è stato un fatto decisivo per tutta un’epoca storica e ne rimangono tracce anche oggi.

Al giorno d’oggi è assurdo credere che si possa sviluppare uno Stato borghese su linee “normali” nello Sri Lanka, in Kenia o in Iraq, ecc. La borghesia di questi paesi è entrata troppo tardi sulla scena storica per avere uno sviluppo come quella francese, inglese o americana. Non può sperare di concorrere con la potente infrastruttura industriale dei paesi avanzati; le borghesie di questi paesi non possono rimanere fornitori di materie prime e di generi alimentari in cambio di prodotti industriali perché il risultato sarebbe il crollo e il decadimento. Sulla strada capitalista ci può essere solo uno sviluppo industriale molto fievole e devono trovare un’altra strada o cedere il posto all’anarchia o a forze nuove.

Hanno un modello bell’e pronto nella cricca bonapartista di Mosca. Non a caso Kruscev osservò con soddisfazione, durante la sua visita in Egitto, lo sviluppo di questo processo nei regimi nazionalisti dell’Africa. Le sue critiche ad Aref, il dittatore iracheno, sono state seguite da nazionalizzazioni in quel paese e poi da generosi aiuti sovietici. Kruscev osservò che i popoli nazionalisti seguivano la strada del “socialismo” senza che ci fosse un partito “comunista” per dirigere il processo. Tale era, secondo lui, l’esempio della Russia!

In questi paesi il vecchio sistema non ha forze da opporre al cambiamento. Così il magnifico processo storico si svolge nei punti deboli alla periferia del sistema capitalista. In un certo senso tutta l’umanità guadagna da questi cambiamenti, ma sarebbe un tradimento orribile vedere in questi regimi l’autentico volto del socialismo. Nelle condizioni arretrate, non possono essere che una brutta caricatura, soprattutto dove manca un movimento indipendente del proletariato. Né la borghesia, né la burocrazia stalinista li guardano con l’orrore che avrebbero davanti a una rivoluzione proletaria sana.

Queste battaglie, per quanto siano importanti, sono solo i primi scontri della rivoluzione proletaria mondiale. Aumentano le sue riserve ma sviluppano le proprie contraddizioni.

Una volta che si inizierà la battaglia decisiva nei grandi centri del capitalismo, la situazione mondiale sarà trasformata. La vittoria in Giappone o in Gran Bretagna o altrove avrebbe questo effetto, da tali vittorie non si esclude la rivoluzione politica nell’Europa orientale o in Russia. Anche questa sarebbe decisiva per l’umanità. Un regime di democrazia operaia, con piene libertà e solo un semi-Stato invece di un controllo totalitario, fungerebbe da faro per il resto del mondo.

I regimi capitalisti cadrebbero come birilli. Il socialismo in Europa in Giappone e negli Usa porterebbe l’Asia, l’Africa e l’America Latina direttamente al comunismo in una federazione mondiale.

È questa la prospettiva che deve essere al centro del lavoro dei quadri di tutti i paesi del mondo. Fuori da questa prospettiva, non c’è via di uscita per le parti arretrate del mondo, né per l’umanità intera.

 

Note

1.  Per un’ampia analisi della lotta di liberazione algerina si veda La guerra di liberazione algerina 1954-1962.

2. Lanka Sama Samaja Party, principale partito della sinistra in Sri Lanka, fu fondato dai trotskisti e costituì per molti anni l’unica sezione della Quarta Internazionale con una base di massa. Negli anni ’60 la sua direzione ruppe col marxismo entrando nel governo di coalizione guidato dal partito borghese Slfp.

3. Gli Junkers erano la classe dei nobili proprietari terrieri della Prussia. Dopo la sconfitta della rivoluzione del 1848 guidarono le guerre di unificazione tedesca.

 

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