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La rivolta del Luglio 1960

di Mauro Vanetti

 

Nel 1960 l’Italia vide un tentativo di brusca svolta autoritaria sotto il governo Dc di Fernando Tambroni, che godeva dell’appoggio dei neofascisti del Movimento Sociale Italiano. La mobilitazione operaia e giovanile che sconfisse quell’ipotesi, pagando il caro prezzo di 11 morti, rappresenta per noi un modello di come il movimento operaio può fermare il neofascismo e un governo reazionario.

Il 1960 fu un anno di svolta. La crescita economica degli anni Cinquanta era al suo culmine, nel ’60 si ebbe il record di sempre con un +8,3% del Pil. Gli addetti dell’industria avevano da poco superato quelli dell’agricoltura. Il “miracolo italiano”, tuttavia, costruito sulle macerie della guerra col sudore e il sangue dei lavoratori, aveva portato con sé innumerevoli contraddizioni sociali che iniziavano a sfociare in una crescente conflittualità sindacale. Fernando Tambroni era considerato un “democristiano di sinistra” ed era stato incaricato di formare un governo Dc in un clima di apertura verso il Partito Socialista, clima che molti esponenti della borghesia e della Chiesa avversavano aspramente. Questa apertura a sinistra tuttavia fallì, per mutarsi nel suo contrario: Tambroni venne eletto ad aprile con i voti dell’Msi. Vediamo qui come lo stesso personale politico democristiano era antifascista o filofascista a seconda delle necessità; il partito di maggioranza era diviso al suo interno sulla tattica da seguire per uscire dalle difficoltà: corresponsabilizzare la sinistra o fare una svolta autoritaria?

I fascisti andarono subito “all’incasso” chiedendo a Tambroni che consentisse lo svolgimento del congresso missino a Genova dal 2 al 4 luglio. La presidenza onoraria del congresso sarebbe stata assegnata a Carlo E. Basile che era stato prefetto di Genova durante la Rsi, rendendosi responsabile della deportazione nei lager di centinaia di operai scioperanti. Era una intollerabile provocazione. Per tutto giugno Genova fu in mobilitazione per ottenere l’annullamento del congresso neofascista, come chiese per prima la Cgil che invitò i lavoratori ad impedirne fisicamente lo svolgimento. Le organizzazioni di sinistra, giovanili, culturali e sindacali fecero una propaganda capillare, trovando ambiente fertile in una popolazione fortemente antifascista e che aveva nei lavoratori del porto la sua parte più combattiva. Vi erano inoltre state negli ultimi mesi diverse vertenze operaie che avevano esasperato il proletariato genovese contro il governo centrale e locale, buona ultima la lotta degli operai dell’Ansaldo San Giorgio.

Il 25 giugno un corteo commemorativo dei partigiani lanciato dalla Fgci e dalle altre giovanili di sinistra sfociò nei primi scontri con la Celere. Il 28 giugno un comizio di Pertini scaldò ulteriormente il clima. Per il 30 giugno la Cgil aveva convocato uno sciopero generale pomeridiano, da cui si dissociarono Cisl e Uil. Al corteo c’erano 100mila persone: studenti e altri giovani (“i ragazzi dalle maglie a strisce”), operai, ex partigiani dell’Anpi. In piazza De Ferrari scoppiarono scontri con la polizia, che attuò una repressione feroce a cui il popolo di Genova rispose con una vera insurrezione. I camalli risaliti dal porto, la gente dei caruggi del centro davano man forte ai giovani impegnati ad erigere barricate e a difendersi dalla violenza poliziesca.

La Cgil ligure proclamò un altro sciopero per il 2 luglio, mentre nel resto del Paese iniziavano mobilitazioni in solidarietà alla rivolta genovese; gli ex partigiani riprendevano i contatti tra di loro, a Genova e altrove si formavano comitati insurrezionali. I delegati missini che arrivavano a Genova trovavano una città ostile e sotto assedio. Iniziarono trattative per spostare il congresso a Nervi, opzione che i dirigenti del Pci sarebbero stati pronti ad accettare ma che la Cgil, più vicina alle pressioni dei lavoratori, rifiutò. Il negoziato saltò e il congresso venne finalmente annullato, nonostante le proteste dei capi fascisti; la Cgil sospese immediatamente lo sciopero del 2. Il risultato ottenuto a Genova grazie all’intervento massiccio della classe operaia tuttavia non interruppe la mobilitazione, che a questo punto si rivolse contro tutta l’operazione politica autoritaria di Tambroni. Il governo fu posto sotto pressione dall’Msi e dalla stampa borghese affinché ristabilisse l’ordine con un pugno di ferro lavando nel sangue l’onta di aver ceduto alla piazza genovese.

Il 5 luglio a Licata (Ag) uno sciopero in difesa dell’occupazione fu represso nel sangue: la polizia sparando sulla folla uccise il 25enne Vincenzo Napoli. Il 6 luglio a Roma una manifestazione antifascista non autorizzata venne caricata a cavallo e furono feriti anche parlamentari comunisti come Walter Audisio (il fucilatore di Mussolini). Per il 7 luglio venne convocato uno sciopero a Reggio Emilia. 20mila persone si trovarono in piazza dove erano vietati assembramenti, l’unica sala assegnata alla manifestazione aveva solo 600 posti. Operai cantavano canzoni partigiane sotto il monumento ai Caduti quando partì una violenta carica di celerini e carabinieri che si trasformò rapidamente in un massacro con armi da fuoco appena i manifestanti organizzarono le prime barricate. Vennero così uccisi gli operai Lauro Farioli, Ovidio Franchi, Emilio Reverberi, Marino Serri, Afro Tondelli, tutti iscritti al Pci (2 ragazzi di 19 e 22 anni e 3 ex partigiani).

7 Luglio 1960. In Piazza della libertà, a Reggio Emilia, iniziano gli spari.

7 Luglio 1960. In Piazza della libertà, a Reggio Emilia, iniziano gli spari.

La situazione stava sfuggendo di mano: la mobilitazione operaia e partigiana aveva un consenso sempre più ampio e cominciava ad assumere caratteristiche rivoluzionarie. Il governo fece un appello alla sospensione di tutte le manifestazioni e le direzioni del Pci e della Cgil, preoccupate delle energie che la classe operaia stava scatenando, si mostrarono possibiliste. Il sanguinoso braccio di ferro però continuava: l’8 luglio fu la volta di Palermo dove furono uccisi il sindacalista Francesco Vella e i giovani Giuseppe Malleo e Andrea Gangitano che Vella stava soccorrendo (anche Rosa La Barbera fu uccisa nella sua abitazione da una pallottola vagante); lo stesso giorno a Catania venne tempestato di manganellate e poi finito a colpi ravvicinati di pistola Salvatore Novembre, 19 anni. La repubblica italiana “nata dalla Resistenza” e “fondata sul lavoro” non si faceva molti problemi ad usare il suo braccio armato per massacrare partigiani ed operai pur di difendere l’ordine costituito. Non furono la Costituzione o la democrazia a fermare il sangue, fu la forza della classe operaia organizzata. Sabato 9 luglio le manifestazioni di protesta per gli undici morti furono imponenti, specie nelle città delle stragi (100mila a Reggio): i lavoratori non erano stati spaventati né piegati. Di fronte alla forza del movimento, che ormai si poneva apertamente l’obiettivo della caduta di Tambroni, la classe dominante iniziò a dividersi. 61 intellettuali cattolici firmarono un documento contro le aperture a destra della Dc.

Tambroni era sempre più isolato, il 19 luglio dovette dimettersi. Tre giorni dopo ricevette l’incarico il democristiano Amintore Fanfani, che formò un governo appoggiato da Pri e Psdi. Il pendolo tuttavia stava ormai muovendosi verso un coinvolgimento sempre maggiore delle sinistre nel governo; l’opzione autoritaria era impraticabile, ma la borghesia aveva comunque bisogno di difendere i propri interessi in un contesto di crescente lotta di classe come quello degli anni Sessanta, meglio dunque farlo affiancando alla fedele Democrazia Cristiana i partiti di sinistra, partendo dai più malleabili: avrebbe significato concedere qualche modesta riforma, ottenendo in cambio una maggiore stabilità. Nel 1962 un nuovo governo Fanfani ottenne l’astensione del Psi, che nel 1963 entrò nel governo Moro inaugurando la formula del centrosinistra (senza Pci) che durò fino a metà anni Settanta, quando emerse la nefasta idea di un “compromesso storico” Dc-Pci.

Il 1960 per noi non è la storia di come la sinistra costrinse la borghesia a varare il centrosinistra. Quell’esito, che ha salvato una classe dominante che si trovava in grandissime difficoltà, rappresenta in realtà un tradimento delle aspirazioni di chi è insorto a Genova o è morto in Emilia e in Sicilia con la speranza di trasformare la società. Basti vedere cosa è successo ai carnefici e alle vittime. I primi sono stati tutti assolti nei successivi processi, viceversa, i protagonisti del 30 giugno genovese furono perseguitati per anni, alcuni di loro costretti a cambiare città o addirittura Paese, e spesso finirono in carcere. I fascisti, come è noto, restarono ben attivi nel Paese, proseguendo la loro carriera come organizzatori di stragi e golpe al servizio della Cia e della P2. Al tempo stesso, il movimento del ’60 preparò il terreno per il biennio rivoluzionario 1968-’69, quando ancora una volta gli studenti e poi gli operai italiani tentarono di cambiare la storia di questo paese lottando contro il capitalismo e i suoi governi, qualsiasi ne sia il colore. Succederà ancora!

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