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La Repubblica sovietica ungherese del 1919 – La Rivoluzione dimenticata

Aggiungiamo alla nostra raccolta di articoli, pubblicati in occasione del centesimo anniversario della nascita dell’Internazionale comunista, questo testo di Alan Woods, scritto nel 1979 e tradotto per la prima volta in italiano. L’articolo è dedicato ad un episodio poco noto nella storia del movimento operaio: la rivoluzione ungherese del 1919, che portò alla formazione di una repubblica sovietica in Ungheria. L’esperienza del governo operaio a Budapest durò solo pochi mesi, ma proprio osservando in controluce gli errori dei dirigenti comunisti ungheresi, che portarono alla sconfitta, è possibile apprezzare fino in fondo la validità delle politiche dei bolscevichi in Russia, dove invece il potere sovietico riuscì a difendersi con successo contro l’aggressione dei suoi nemici interni ed esterni.

La redazione

 

di Alan Woods

 

Il 21 marzo 1919 venne proclamata la Repubblica sovietica ungherese. Il 1° agosto, 133 giorni dopo, questo eroico capitolo della storia della classe operaia ungherese si concluse con l’entrata dell’armata bianca rumena a Budapest. Se il proletariato ungherese avesse avuto successo, si sarebbe posto fine all’isolamento della Repubblica socialista sovietica in Russia.

La breve esperienza della Repubblica sovietica in Baviera, che durò dal 7 aprile al 1° maggio 1919, indicava che la marea della rivoluzione si stava espandendo da oriente a occidente con un impeto che all’epoca sembrava irresistibile. Se lo Stato operaio ungherese si fosse consolidato soltanto per qualche altro mese, le fiamme della rivoluzione avrebbero avvolto anche Vienna e Berlino, dove la classe operaia era già in una fase di fermento rivoluzionario. Il trionfo della rivoluzione tedesca avrebbe cambiato l’intero corso della storia umana. Tuttavia non si verificò e così la rivoluzione ungherese del 1919 è entrata negli annali della storia solo come un altro eroico episodio, al pari della Comune di Parigi del 1871.

Nonostante ciò, studiare le cause che portarono al fallimento la Repubblica sovietica ungherese può aiutarci, mezzo secolo dopo, ad arricchire la nostra conoscenza dei processi che determinano la trasformazione socialista della società, per preparaci meglio alla lotta per il socialismo oggi.

Nel 1919 la società ungherese aveva tutti i tratti distintivi di una struttura arcaica, che era rimasta tutto sommato immutata nel corso dei secoli. A partire dalla sanguinosa reazione seguita alla sconfitta della rivolta contadina del 1514, era stata sancita nel Codice Tripartito di Weboczi una legge che divideva il popolo ungherese in rigide caste di grande e piccola nobiltà, con il clero da una parte e la “plebe” dall’altra.

Per 150 anni l’Ungheria aveva sofferto sotto il dominio dei turchi ottomani. Poi nel 1687 la corona di Santo Stefano era diventata ereditaria, per linea maschile, degli Asburgo austriaci.

Per generazioni gli ungheresi avevano lottato per affermare il loro diritto ad esistere come nazione. Il tentativo più serio di liberarsi del giogo austriaco era avvenuto in concomitanza con l’ondata rivoluzionaria che aveva attraversato l’Europa nel 1848. La debole borghesia ungherese e la nobiltà codarda si erano però rivelate incapaci di liberare l’Ungheria dall’oppressore straniero. Dopo la sconfitta del 1848, l’oppressione nazionale dell’Ungheria aveva raggiunto il suo apice: ben 10.000 ungheresi erano stati giustiziati.

I giornali ungheresi erano stati soppressi e la gestione delle scuole era stata assunta dagli austriaci. Le proprietà confiscate ai ribelli ungheresi erano state assegnate agli aristocratici della corte viennese. Il territorio era stato inondato da migliaia di agenti e spie della polizia. La nazione ungherese era sottoposta all’umiliazione della censura asburgica e della germanizzazione.

C’era poi stata l’ascesa della Prussia e l’umiliante sconfitta dell’Austria per mano di Bismarck nel 1866. Accusato il colpo, l’imperatore Francesco Giuseppe si era orientato verso un’intesa con l’aristocrazia ungherese. Si era così arrivati al famoso “Ausgleich”, ovvero il compromesso del 1867.

In base a questo accordo, da quel momento in poi l’impero asburgico si sarebbe composto di due “popoli dominanti”, gli austriaci ed i magiari (ungheresi), due “popoli di seconda classe”, i croati ed i polacchi, e sei popoli senza diritti: i cechi, gli slovacchi, i rumeni, i ruteni, gli sloveni ed i serbi. In cambio del sostegno agli Asburgo, era stato concesso alla classe dominante magiara di sfruttare e opprimere le altre nazionalità che vivevano nella loro metà dell’impero.

La società ungherese era caratterizzata dalla sua estrema arretratezza, dai rapporti semi-feudali e dalla concentrazione del potere nelle mani di una piccola minoranza di nobili facoltosi. Circa il 5% della popolazione possedeva l’85% della terra. In teoria vi era stata l’abolizione della servitù della gleba, ma in pratica i 20 milioni di acri dei latifondi erano coltivati da braccianti, le cui condizioni sociali non erano molto diverse da quelle di servi.

Queste grandi proprietà non potevano essere né vendute né divise. Il carattere feudale della legge ungherese era tale che, ad esempio, la famiglia Esterhazy doveva sempre possedere almeno 100.000 acri di terra, che spettavano sempre in eredità solo al figlio maggiore. È sintomatico della lentezza dello sviluppo sociale in Ungheria che la maggior parte di queste “proprietà vincolate” erano state istituite dal 1869 in poi, cioè in un periodo in cui nella maggior parte dei paesi europei le ultime tracce di feudalesimo stavano scomparendo.

Tre quarti della popolazione nelle campagne – tra i 2,5 e i 4 milioni di persone – erano composti da contadini poveri e braccianti, che vivevano in condizioni di estrema povertà. Un contadino era solito alzarsi alle due o alle tre del mattino nel periodo del raccolto e lavorare fino alle nove o alle dieci di sera, vivendo di croste di pane e carne rancida, dormendo in una buca scavata nel terreno con la zappa. Le ferie non esistevano.

La tipica famiglia contadina viveva in capanne con una sola stanza, spesso condivisa da due o più famiglie, talvolta con 20-25 persone in una stessa stanza. Sei bambini su dieci morivano prima di compiere un anno. La tubercolosi, causata dalla denutrizione, era così comune da essere nota come “il male ungherese”.

L’unica occasione nella sua vita in cui un contadino ungherese poteva indossare un paio di stivali, era nell’esercito, dove era sottoposto alla violenza fisica e alla discriminazione razziale da parte di un sergente istruttore austriaco. Le percosse e le frustate erano la regola anche nelle grandi tenute agricole. Secondo una legge “liberale”, i servi tra i dodici e i diciotto anni potevano essere percossi dal loro padrone, ma senza “provocare ferite che non potessero essere guarite entro otto giorni”.

Una minoranza di contadini possedeva piccoli appezzamenti di terra di circa un acro, ma questi “piccoli proprietari” non potevano mantenere le famiglie con il prodotto della loro terra e dovevano quindi lavorare anche per i grandi proprietari. L’ultimo gradino della scala sociale era occupato dagli “csiras”, i bovari: “Il lavoro degli csiras… è il più duro. Solitamente, dopo quattro anni, il duro lavoro e l’ambiente malsano nelle stalle distruggono i polmoni dello csiras. Se uno csiras è fortunato, lascia il lavoro prima di iniziare a sputare sangue. Molti, però, sono costretti a rimanere fino a diventare invalidi, per poi trasferirsi nei villaggi a vivere di elemosina.”

La fame di terra, assieme alla questione nazionale, era sempre stata la forza motrice della rivoluzione in Ungheria, con una lunga storia di sanguinose rivolte contadine represse con la più barbara crudeltà. Durante la rivoluzione del 1848 c’era stato un tentativo di redistribuire i pascoli comuni tra i contadini e di espropriare i grandi possedimenti. La vittoria degli Asburgo, però, aveva significato anche la vittoria dei grandi latifondisti, che successivamente avevano costituito un baluardo della reazione in Ungheria, diventando gli agenti dell’imperialismo austriaco sul suolo ungherese.

Il problema delle minoranze nazionali

La situazione esplosiva nelle campagne ungheresi verso la fine del diciannovesimo secolo è descritta in maniera esaustiva in un rapporto ufficiale della potente associazione dei proprietari terrieri, la OMGE, scritto nel 1894:

La popolazione della grande pianura è composta dai funzionari pubblici, dai contadini ricchi e dal proletariato contadino, i quali vivono separati gli uni dagli altri, odiandosi reciprocamente.”

“I funzionari pubblici considerano i distretti agricoli ungheresi alla stregua di colonie e il loro lavoro come un servizio coloniale.”

“I contadini ricchi sono in qualche modo prigionieri di un conservatorismo consolidato e inamovibile, mentre i braccianti ricordano ancora le grandi rivoluzioni del passato e guardano al futuro senza speranza. Ciò nonostante le loro ambizioni rivoluzionarie sono ancora vive. 

I burocrati governativi che scrissero questo rapporto non si sbagliavano. L’ondata di scioperi dei braccianti, che scosse il paese nei primi anni di questo secolo portando spesso a vere e proprie battaglie con la polizia, culminò nello sciopero di 10.000 braccianti nel 1905 e nello sciopero generale di 100.000 “liberi contadini” nel 1906, che fu spezzato solo richiamando gli scioperanti in servizio militare.

L’unica via di fuga da questa miseria soffocante era l’emigrazione. Tra il 1891 ed il 1914 quasi due milioni di ungheresi – di cui l’80% erano contadini poveri – lasciarono il paese, ammassati come bestiame nelle navi dirette verso gli USA.

Il problema sociale in Ungheria era esacerbato e complicato dall’esistenza delle minoranze nazionali. Nel 1910, su 21 milioni di persone residenti in Ungheria, 10 milioni erano ungheresi, 2,5 milioni erano croati e sloveni, 3 milioni rumeni e 2 milioni tedeschi, mentre il resto della popolazione era composto da slovacchi, serbi, ucraini e altre minoranze più piccole.

Per l’Ungheria, dunque, il problema nazionale non si limitava allo questione della dipendenza semi-coloniale dall’Austria, ma comprendeva anche il problema dell’oppressione nazionale degli elementi non magiari che vivevano all’interno dei confini dell’Ungheria. La discriminazione sistematica delle minoranze si esprimeva chiaramente nell’ambito dell’istruzione.

Nel 1900 il 39% della popolazione totale era analfabeta, ma il dato era del 49,9% per gli slovacchi, del 58,5% i serbi, del 79.6% per i rumeni e dell’85,1% per gli ucraini. I salari in Ungheria erano più bassi del 33% rispetto all’Austria e del 50% rispetto alla Germania. Tuttavia nel 1913 gli stipendi dei lavoratori non magiari erano del 30% più bassi rispetto a quelli degli ungheresi.

La debole ed ottusa borghesia ungherese si era dimostrata incapace, nel corso di tutta la sua storia, di affrontare anche solo uno di questi problemi fondamentali. La ragione non è difficile da comprendere: nonostante fosse indubbiamente la metà più arretrata dell’impero, l’Ungheria era già decisamente entrata nel processo di sviluppo capitalistico dall’inizio del secolo. Accanto ai grandi possedimenti feudali, era sorta la moderna industria capitalista, sostenuta dagli investimenti dei capitalisti stranieri.

Le banche dominavano l’economia ungherese e attraverso di esse veniva esercitato il controllo del capitale finanziario austriaco, tedesco, francese, britannico e americano. Lo sviluppo del capitalismo legò in maniera ancora più stretta l’Ungheria al dominio dell’imperialismo austro-tedesco. D’altra parte anche l’aristocrazia feudale era profondamente invischiata nel mondo degli affari e delle banche.

Nel 1905 ben 88 conti e 64 baroni facevano parte di consigli d’amministrazione nel settore industriale, bancario e dei trasporti. Uno di questi, il conte Istvan Tisza, era il presidente della più grande banca commerciale del paese.

Per tutti questi motivi, ogni tentativo di distruggere l’antica e umiliante dipendenza dall’Austria e di sradicare i rapporti feudali all’interno dei villaggi presupponeva necessariamente una lotta aperta contro il capitalismo, che poteva essere condotta solo dalla classe operaia in alleanza con le masse di contadini poveri e braccianti.

Alla vigilia della rivoluzione l’Ungheria costituiva la metà più arretrata dell’Impero austro-ungarico, ma proprio per questo motivo era la parte in cui le tensioni sociali avevano raggiunto più velocemente il punto di ebollizione e la classe dominante era meno in grado di resistere all’ondata del cambiamento sociale. Il proletariato era una minoranza della società, composta prevalentemente da contadini poveri, ma a causa della natura oppressiva delle relazioni sociali nei villaggi, la classe contadina rappresentava potenzialmente un importante alleato rivoluzionario per la classe operaia.

Lo scoppio della prima guerra mondiale

Il trattamento brutale e degradante delle minoranze nazionali nel corso della storia ungherese, si rivelò il tallone d’Achille della classe dominante magiara. Quello di cui c’era bisogno era una forza sociale in grado di mobilitare queste forze e condurle all’assalto finale contro l’oligarchia al potere.

Grazie al suo ruolo chiave nella produzione, alla sua coesione, organizzazione e coscienza di classe, solo la classe operaia, nonostante la sua inferiorità numerica, era in grado di svolgere questo ruolo.

I proletari ungheresi costituivano una classe più recente e meno potente rispetto ai loro fratelli austriaci e tedeschi. Nel 1910 solo il 17% della popolazione lavorava nell’industria e, di questi, il 49% lavorava in fabbriche con meno di 20 dipendenti. Tuttavia a Budapest e nella zona circostante era sorta un’industria su larga scala, alimentata da abbondanti immissioni di capitale straniero. Più del 50% dell’industria era concentrata lì. Lo sviluppo diseguale dell’industria è dimostrato dal fatto che il 37,8% della forza lavoro totale si concentrava in grandi industrie con più di 500 operai. Questi giganteschi baluardi della classe lavoratrice avrebbero giocato un ruolo decisivo negli eventi del 1918-1919. 82 giganteschi trust – di cui 26 ungheresi e 56 austro-ungarici – controllavano l’intera industria ungherese.

Alla vigilia della prima guerra mondiale, l’Ungheria era in un chiaro stato di dipendenza semi-coloniale rispetto ad Austria e Germania. Era una colonia agricola che esportava prodotti alimentari in Austria in cambio di prodotti industriali. Gli interessi della borghesia ungherese erano inestricabilmente legati a quelli dello Stato austro-ungarico, burocratico e poliziesco, e dell’oligarchia latifondista feudale, di cui il partito liberale era l’espressione politica.

Dietro la retorica nazionalista di facciata con cui l’aristocrazia ungherese si sforzava di mantenere una base di consenso tra le masse, si nascondeva una realtà di totale impotenza e dipendenza servile dall’imperialismo austro-ungarico, che venne brutalmente portata alla luce nell’agosto 1914.

L’intera società venne gettata nel crogiolo della guerra imperialista. La guerra contro la Serbia, sostenuta in maniera entusiasta dall’oligarchia e dal clero, ricevette anche la benedizione del partito del 1848, il partito della borghesia “liberale”, che da molto tempo aveva abbandonato i suoi sogni giovanili di indipendenza nazionale per aggregarsi ai ladri imperialisti di Vienna e Berlino.

All’inizio della guerra la classe lavoratrice venne paralizzata dalla prima ondata di entusiasmo patriottico, come in molti altri paesi. I leader socialdemocratici, nonostante la fraseologia “di sinistra” presa in prestito dai cosiddetti “austro-marxisti”, saltarono prontamente sul carro del patriottismo. Giustificarono la guerra come una guerra “per difendere la democrazia contro la barbarie russa” e perfino come una guerra “per una giornata lavorativa più corta e salari più alti”, predicando la collaborazione di classe e la “pace sociale”.

Man mano che la guerra proseguiva, però, gli operai e i contadini si trovarono di fronte alla dolorosa realtà. La “guerra per una giornata lavorativa più corta” voleva dire che gli operai dovevano sgobbare per 60 ore la settimana. Ragazzini di 10 o 12 anni lavoravano nelle fabbriche per 12 o più ore al giorno. Mentre i profitti salivano, i salari diminuivano continuamente. Nel 1916 la moneta aveva solo il 51% del suo valore prima della guerra e successivamente crollò ulteriormente. Il dissesto causato dalla guerra provocò un terribile collasso dell’industria.

Le condizioni al fronte erano persino peggiori. Centinaia di migliaia di soldati ungheresi morirono miserabilmente sui Carpazi nel freddo e nevoso inverno del 1914-1915. Su un esercito di 9 milioni di soldati, entro la fine della guerra più di 5 milioni erano morti, feriti, prigionieri o dispersi in azione. Di questi, 2 milioni erano ungheresi.

Il malcontento nella componente ungherese dell’esercito austro-ungarico era tale che in alcuni casi le truppe ungheresi dovevano essere condotte in battaglia strette tra soldati tedeschi e austriaci, con mitragliatrici puntate alle loro spalle. Verso la fine della guerra le diserzioni raggiunsero proporzioni di massa.

Gli effetti della Rivoluzione d’Ottobre

Durante il 1915 ed il 1916 ci fu un aumento continuo del numero di scioperi. La stanchezza delle masse per la guerra era inoltre aggravata, nel caso dell’Ungheria, da un bruciante senso di oppressione nazionale. Il crescente fermento nelle fabbriche, nelle caserme e nei quartieri operai provocò dissensi all’interno della classe dominante.

Già nel 1915 il conte Karolyi fondò il suo partito indipendentista, pacifista ed anti-tedesco e provò a stabilire contatti con gli Alleati, un’indicazione di come i più lungimiranti rappresentanti della borghesia, considerando probabile una sconfitta tedesca, si stavano preparando ad affidarsi alla clemenza dell’imperialismo anglo-francese e mantenersi al potere sulla punta delle baionette anglo-francesi, anziché di quelle tedesche.

La Rivoluzione di Febbraio in Russia diede enorme slancio al movimento rivoluzionario in Ungheria. Il 1° maggio del 1917 partì una massiccia ondata di scioperi e manifestazioni che portarono, il 23 maggio, alla caduta del governo reazionario del conte Tisza. Venne formato un nuovo governo con a capo il conte Esterhazy, il quale tentò di manovrare tra le classi per evitare che la situazione sfuggisse completamente di mano. La coalizione di governo venne allargata per includere diversi gruppi borghesi, mentre i dirigenti del partito socialista diedero al governo un sostegno esterno.

I lavoratori interpretarono giustamente questa mossa come un segno di debolezza e ne trassero vantaggio. Il nuovo governo fu costretto ad affrontare una nuova ondata di scioperi, che esplosero spontanei in barba all’opposizione dei dirigenti sindacali “moderati”. Uno di questi, Samu Jasza, ammise successivamente che:

“Già nel 1917 ci furono molti scioperi sebbene i sindacati insistessero sul fatto che non dovesse esserci alcuna interruzione del lavoro.”

Desolati, i leader sindacali furono costretti a “dirigere inseguendo” o a perdere tutta la loro influenza tra i lavoratori.

La vittoria della Rivoluzione d’Ottobre in Russia ebbe un effetto elettrizzante sull’Ungheria. La magistrale agitazione contro la guerra condotta da Trotskij durante i negoziati di pace a Brest-Litovsk incontrarono una pronta risposta tra le masse di operai, contadini e soldati stanchi della guerra. La rivendicazione di una “pace senza annessioni ed indennità” trovò un’eco nelle fabbriche, nei villaggi e nelle trincee. Sotto la pressione irresistibile delle masse, il partito borghese contrario alla guerra guidato da Karolyi, il “Kerenskij ungherese”, trovò nuovo coraggio per portare avanti le sue rivendicazioni.

Il fermento nelle fabbriche portò ad uno sciopero generale contro la guerra a Budapest, il 18 gennaio 1918, che rapidamente innescò una serie di assemblee di massa cui parteciparono anche numerosi soldati. Lo sciopero di gennaio si diffuse a macchia d’olio in Austria, Ungheria e Germania. Fu proprio il fiato della rivoluzione sul collo che costrinse il rappresentante austriaco a Brest-Litovsk, Czernin, ad adottare una posizione conciliatoria di fronte al governo bolscevico, anche se questa posizione venne poi scavalcata dallo Stato Maggiore Generale tedesco, nella persona del generale Hoffman.

Per lo stesso motivo il governo ungherese si affrettò ad estendere il diritto di voto. Come sempre, la classe dominante è disposta a concedere riforme sostanziali solo quando teme di perdere completamente il suo potere e i suoi privilegi.

La borghesia era terrorizzata, così come i dirigenti della destra del movimento operaio, che avevano sostenuto la guerra e si erano opposti a qualsiasi mobilitazione dei lavoratori. I capi socialdemocratici, spaventati dalla rapida estensione dello sciopero generale, si affrettarono a sospenderlo il 21 gennaio, solo quattro giorni dopo il suo inizio. Questo tradimento servì soltanto ad aumentare le divisioni tra le fila del partito socialista e ad accrescere notevolmente la forza dell’opposizione di sinistra.

La profondità dell’ascesa rivoluzionaria era testimoniata dal risveglio dei settori più arretrati e tradizionalmente passivi delle classi oppresse, particolarmente le lavoratrici, che ebbero un ruolo eroico in questi eventi, come rivela una circolare segreta del ministero della guerra, datata 3 maggio 1918:

Le operaie non solo tentano spesso di fermare le fabbriche interrompendo la produzione, ma tengono anche discorsi infuocati, prendono parte alle manifestazioni, marciando in prima fila con i loro bambini in braccio e comportandosi in maniera irrispettosa nei confronti dei rappresentanti della legge.

Il 20 giugno 1918, dopo che venne aperto il fuoco su alcuni lavoratori, scoppiò un nuovo sciopero. Vennero istituiti soviet, o consigli operai, per condurre la lotta a favore delle rivendicazioni dei lavoratori: pace, suffragio universale e tutto il potere ai soviet. Lo sciopero si estese da Budapest agli altri centri industriali. Eppure ancora una volta venne interrotto dalla direzione dopo dieci giorni.

Le masse erano pronte a combattere per il potere, ma erano ostacolate ad ogni passo dai loro stessi dirigenti. Tuttavia le condizioni di vita insopportabili, il malcontento accumulato e le precedenti frustrazioni portarono inesorabilmente ad una nuova esplosione nell’autunno del 1918.

Con il crollo del fronte bulgaro, l’ondata di diserzioni si trasformò in una vera e propria marea che sommerse il paese. Ci furono alcuni casi di ribellioni ed ammutinamenti nell’esercito e nella marina. Bande armate di disertori si univano agli scioperanti ed ai contadini ribelli in una serie di scontri con la polizia e partecipavano agli espropri delle terre. Quando divenne chiaro che gli Imperi Centrali avrebbero perso la guerra, questi ammutinamenti assunsero un carattere generale.

L’apparato statale si disintegrò e collassò sotto il suo stesso peso. Il governo a Budapest era sospeso a mezz’aria ed il potere era nelle strade.

Nel bel mezzo di scioperi, ammutinamenti e manifestazioni di piazza, la classe dominante era dilaniata dalle divisioni. Ci furono scene tempestose in parlamento. Il 17 ottobre un demoralizzato conte Tisza annunciò: “abbiamo perso la guerra.” L’oligarchia borghese e latifondista, sentendo il potere sfuggirle dalle mani, cercò disperatamente una seconda linea di difesa e la trovò nel suo vecchio nemico, Karolyi.

Il 28 ottobre ci fu una manifestazione di massa a Budapest a favore dell’indipendenza ungherese. Il 29 ottobre venne proclamata la repubblica in Ungheria. Il 30 ottobre ci fu un’insurrezione di operai, soldati, marinai e studenti a Budapest.

Il governo crollò come un castello di carte senza sparare un solo colpo in propria difesa. Le strade furono invase dagli insorti, che gridavano slogan come “Lunga vita all’Ungheria indipendente e democratica!”, “Abbasso i conti!”, “Basta guerra!”, “Solo il consiglio dei soldati può dare ordini!”… Entro la sera del 31 ottobre gli insorti avevano occupato tutte le posizioni strategiche e liberato tutti i prigionieri politici.

La rivoluzione aveva trionfato in maniera rapida ed indolore. La classe dominante, colta di sorpresa e priva di qualsiasi reale base di consenso, non oppose resistenza. Fu un’insurrezione di massa spontanea, come quella della rivoluzione di febbraio in Russia, senza una leadership e senza un programma chiaro. I dirigenti del movimento operaio non fecero nulla, anzi ostacolarono quella rivoluzione che non avevano voluto e temevano come la peste.

La massa di operai, soldati e contadini, pur essendo priva di un partito e di un programma rivoluzionari, si stava muovendo a tentoni verso un programma di questo tipo. Forse non sapevano esattamente quello che volevano, ma sapevano molto chiaramente quello che non volevano. Non volevano il dominio di un’oligarchia privilegiata e corrotta; non volevano la monarchia o un suo sostituto; non volevano rapporti feudali nelle campagne e l’oppressione nazionale.

Ma nella lotta su queste questioni scottanti, le masse arrivarono rapidamente a comprendere l’impossibilità di soluzioni parziali ai loro problemi e l’inevitabilità di un ripulisti generale, di una ricostituzione totale della società su nuove basi, al fine di eliminare tutto il sudiciume accumulato in secoli di oppressione feudale e umiliazione nazionale.

I lavoratori chiedevano la repubblica. I politicanti liberal-borghesi del partito del 1848 e i dirigenti della destra del movimento operaio resistettero di fronte a questa rivendicazione più che poterono. Questi “rivoluzionari” riluttanti vennero presi per la collottola e spinti al governo dal movimento di massa.

La rivoluzione senza spargimenti di sangue

Una volta al potere, questi dirigenti si dedicarono ad un’accanita azione di retroguardia in difesa del sistema del dominio di classe e del privilegio. Il loro terrore delle masse era cento volte più grande della loro avversione contro la reazione feudale e si aggrappavano con tutte le forze a qualsiasi punto d’appoggio fosse loro rimasto nella lotta per mantenere lo statu quo.

“Gli amici si riconoscono nel momento del bisogno” è un detto che vale nella politica come nella vita. Riconoscendo che il loro futuro di classe privilegiata si trovava nelle mani degli odiati liberali borghesi e dei loro alleati socialdemocratici, i banchieri, gli oligarchi feudali, i vescovi ed i generali si riunirono attorno al “Kerensky ungherese”, nascondendosi dietro le sottane della “democrazia”. Dall’altra parte, gli operai ed i soldati, come nella Russia dopo il Febbraio 1917, riposero le proprie speranze nelle loro organizzazioni sorte dalla lotta, i soviet.

Come in Russia, anche in Ungheria esistevano elementi di dualismo di potere. A differenza della Russia, però, non esisteva un partito bolscevico in grado di guidare la situazione prerivoluzionaria verso una rivoluzione socialista vittoriosa. L’ala sinistra del partito socialista, con la sua confusione e la mancanza di un chiaro programma, fu incapace di giocare un ruolo indipendente, mentre i dirigenti della destra stavano aiutando Karolyi a restaurare le vecchie relazioni di classe sotto la maschera di una rivoluzione “democratico-borghese”.

Al giorno d’oggi i “teorici” dei partiti comunisti caratterizzano quella ungherese come una rivoluzione “democratico-borghese”. In realtà la borghesia non giocò alcun ruolo nella rivoluzione, non aveva alcuna intenzione di prendere il potere e distruggere il vecchio Stato semi-feudale e addirittura si oppose all’istituzione di una repubblica borghese.

L’iniziativa ad ogni livello rimase saldamente nelle mani degli operai e dei soldati, che costrinsero i liberali a prendere il potere loro malgrado ed iniziarono a portare avanti dal basso i compiti della rivoluzione democratico-borghese. In altre parole, non si trattava di una rivoluzione democratico-borghese, ma dell’aborto di una rivoluzione socialista a causa dell’assenza di una vera direzione rivoluzionaria e del tradimento dei leader socialdemocratici.

Il governo borghese di Karolyi, che non portò avanti – e non poteva portare avanti – nessuno dei compiti della rivoluzione democratico-borghese in Ungheria, si dimostrò mille volte più debole, inefficiente ed impotente di quanto fosse mai stato il Governo Provvisorio in Russia dopo il Febbraio 1917.

Da una parte il proletariato era l’unica forza organizzata all’interno della società: il potere era nelle mani degli operai e dei soldati, armati ed organizzati nei soviet. Dall’altra i leader “moderati” del partito socialista e dei sindacati bloccavano la loro avanzata con la falsa politica di “posporre la lotta di classe” per la “difesa della democrazia”, ecc.

Come i menscevichi in Russia nel 1917, e successivamente gli stalinisti in tutto il mondo i dirigenti socialdemocratici ungheresi fecero appello agli operai e ai contadini per mettere da parte la lotta per il socialismo nell’interesse del consolidamento della democrazia (borghese).

Non vedevano che le tremende contraddizioni all’interno della società stavano inevitabilmente dando luogo ad un processo di polarizzazione delle classi che conduceva a due sole possibili alternative: o la classe lavoratrice, alla testa di tutti i settori oppressi e sfruttati della società, avrebbe rovesciato la borghesia, soppresso la finzione del “consiglio nazionale” di Karolyi e distrutto senza pietà le forze della reazione che si nascondevano dietro di esso, o queste stesse forze avrebbero tratto vantaggio dalla situazione per recuperare la loro forza, raggrupparsi e lanciare una nuova controffensiva che avrebbe gettato via il guanto di velluto della “democrazia” e svelato il pugno di ferro della reazione fascista.

Non era possibile una “via di mezzo”. O i lavoratori avrebbero trionfato e instaurato una democrazia operaia, oppure la classe dominante si sarebbe vendicata in maniera terribile contro la classe operaia e i contadini poveri. Non esisteva un’altra via, eppure i fautori della “via di mezzo” erano saldamente in sella. Karolyi godeva di una certa popolarità, specialmente tra le masse piccolo-borghesi, grazie alla sua opposizione alla guerra.

La socialdemocrazia all’inizio crebbe a passi da gigante. Le masse, appena risvegliate alla vita politica, si riversarono nelle organizzazioni operaie, ignari del ruolo giocato dalla direzione. Non solo operai, ma anche molti intellettuali, professionisti, e addirittura poliziotti e funzionari pubblici entrarono nel partito socialista, alcuni con motivazioni sincere, altri con uno sguardo al futuro, per avere una sorta di “polizza d’assicurazione”. Improvvisamente i socialdemocratici e i repubblicani, perseguitati fino a poco prima come pericolosi estremisti, erano diventati i pilastri della rispettabilità e i salvatori della società.

Ora che le causa della monarchia era irrimediabilmente compromessa, tutti gli elementi reazionari della società si riunirono attorno alla bandiera della repubblica borghese, sorretta strenuamente da Karolyi e dai socialdemocratici.

Comunque le masse non furono lente a comprendere l’enorme divario che esisteva tra il tipo di repubblica che avevano voluto e quella che avevano ottenuto. Incoraggiati dal successo, gli operai scesero in piazza per portare avanti le loro rivendicazioni di classe, nonostante gli spasmodici appelli alla calma dei loro dirigenti. Il 16 novembre una gigantesca manifestazione con centinaia di migliaia di partecipanti si radunò davanti al parlamento per rivendicare l’instaurazione di una repubblica socialista.

Le masse non avevano rovesciato l’impero asburgico, vecchio di 400 anni, solo per restituire il potere ai vecchi padroni con nuovi nomi. I soldati affluivano a Budapest dal fronte e strappavano le mostrine dalle spalle degli ufficiali. Le strade della capitale si riempirono di truppe ammutinate – ben 300 mila – in attesa di essere smobilitate. Gli ufficiali e i borghesi venivano assaliti per le strade.

Il governo di Karolyi era un governo solo di nome, privo di una forza armata affidabile sulla quale basarsi. Le armi erano nelle mani dei lavoratori. L’economia era virtualmente collassata. Gli Alleati avevano imposto un blocco all’Ungheria. La situazione alimentare era critica.

In un tentativo di pacificare le masse il governo Karloyi elaborò un programma di riforma agraria, volto a distribuire tra i contadini le proprietà che superavano i 500 acri, dietro il pagamento di un indennizzo da parte del governo.

Karolyi, lui stesso un proprietario terriero, consegnò le sue terre ai contadini. Il suo esempio però non fu seguito dal resto della sua classe. Come tutti gli altri provvedimenti di questo governo, la riforma agraria rimase solo sulla carta. Come per la questione della terra, così anche sul problema delle nazionalità oppresse, la democrazia borghese ungherese si presentò a mani vuote. Come lamentò successivamente lo stesso Karolyi:

“La situazione era radicalmente cambiata e quella che prima ci sarebbe sembrata una proposta estremamente generosa, ora era diventata completamente anacronistica. Le minoranze di ieri si consideravano giustamente le vincitrici di domani e si rifiutavano di prendere in considerazione qualsiasi soluzione entro il quadro della corona di Santo Stefano, il cui solo nome costituiva un affronto per loro.”

“Troppo poco e troppo tardi” sarebbe un degno epitaffio per la sfortunata democrazia borghese in Ungheria, arrivata al potere quando la storia aveva già posto all’ordine del giorno la rivoluzione proletaria come l’unica soluzione ai problemi che la borghesia era incapace di affrontare. Al crescente malcontento all’interno del paese, si aggiunse ora una nuova minaccia esterna.

La caduta di Karolyi

Durante la prima guerra mondiale, le borghesie nazionali dell’Europa centrale e orientale – compresa quella ungherese – si erano arruolate sotto il vessillo dell’imperialismo tedesco, ma con la sconfitta della Germania e la disintegrazione dell’Austria-Ungheria, le diverse classi dominanti dei piccoli nuovi Stati presero a gareggiare una con l’altra per entrare nelle grazie dell’imperialismo anglo-franco-americano, mentre allo stesso tempo erano in lotta tra loro per capire chi avrebbe strappato più territori ai propri vicini.

La “dottrina Wilson” dell’imperialismo americano, che a parole difendeva la democrazia e il diritto di autodeterminazione per le piccole nazioni, servì come comodo pretesto per una serie di piccole guerre di conquista, che a loro volta produssero la balcanizzazione dell’Europa centrale e orientale, legando ancor più strettamente i nuovi Stati al carro dei vincitori imperialisti anglo-francesi e americani grazie al ruolo delle banche, delle compagnie ferroviarie e dei giganteschi trust.

Lo slogan degli Stati Uniti Socialisti d’Europa, lanciato dall’Internazionale Comunista appena nata, rappresentava l’unica speranza per i popoli europei, divisi e dissanguati dalle guerre, dalla carestia e dal collasso economico. Solo il successo della rivoluzione socialista avrebbe potuto offrire una via d’uscita dal vicolo cieco in cui si trovavano gli Stati piccoli ed arretrati dell’Europa.

La classe dominante ungherese cercò di proteggersi dalla tempesta nascondendosi dietro le forme della democrazia parlamentare. Ma le convulsioni sociali messe in moto dalla guerra non ammettevano vie di mezzo. Il governo Karolyi rivelò la sua bancarotta molto più velocemente del Governo Provvisorio in Russia, e in maniera ancora più eclatante.

Come scrisse Lenin:

“La borghesia ungherese ammise di fronte al mondo di essersi ritirata volontariamente e che l’unico potere al mondo in grado di guidare una nazione in un momento di crisi era il potere dei soviet.”

La causa immediata della caduta del governo fu l’ultimatum del 20 marzo 1919, presentato dagli Alleati al regime di Karolyi, in base al quale l’Ungheria doveva accettare una nuova linea di confine. Al momento dell’armistizio, pochi mesi prima, l’Ungheria aveva già accettato un’umiliante perdita di territorio. Adesso i banditi alleati, riuniti a Parigi, chiedevano la cessione di territori occupati da altri due milioni di ungheresi.

L’inerme governo di Karolyi cercò di temporeggiare, avanzando la proposta di un referendum, che però venne accolta con un netto rifiuto. Gli Alleati pretendevano una risposta il giorno stesso. Indebolito dalla pressione interna ed esterna e riconoscendo la propria impotenza, Karolyi rifiutò di assumersi la responsabilità per le sorti della nazione e rassegnò le dimissioni.

Così facendo, l’intera borghesia ungherese ammetteva di essere totalmente incapace di guidare il paese in un momento decisivo. Il giorno seguente, il 21 marzo, venne proclamata la repubblica sovietica. Il proletariato era arrivato al potere senza sparare un colpo.

La caduta improvvisa di Karolyi comportò una svolta brusca e repentina nella situazione del Partito comunista ungherese, che dopo soli quattro mesi di esistenza si trovò improvvisamente ad affrontare il problema del potere. I dirigenti del partito erano giovani e del tutto privi di esperienza. Le loro vedute, come in molti dei partiti comunisti recentemente formatisi, erano influenzate da un mix di estremismo giovanile e anarco-sindacalismo.

La loro impazienza li portava a sottovalutare le dinamiche del processo rivoluzionario e la complessa interrelazione tra la classe, il partito e la direzione. Il che era comprensibile per certi versi. Il partito bolscevico russo si era sviluppato nel corso di decenni e aveva alle spalle la rivoluzione del 1905 e un’esperienza di lavoro politico condotto nelle circostanze più disparate.

Tuttavia i nuovi partiti dell’Internazionale Comunista nella maggior parte dei casi erano formati da giovani reclute prive di esperienza, che erano state attirate dal bolscevismo nel corso del tempestoso periodo seguito alla Rivoluzione d’Ottobre. Non avevano avuto il tempo di prepararsi ed acquisire l’esperienza necessaria e l’autorità agli occhi delle masse quando furono spinti nel vortice del movimento rivoluzionario del 1918-1920. Da nessuna parte la transizione fu così brusca come in Ungheria.

I giovani dirigenti del partito comunista, per la maggior parte ex prigionieri di guerra recentemente tornati dalla Russia, mostrarono coraggio, iniziativa ed energia. Fin dall’inizio, però, la loro confusione sulle questioni teoriche li portò a commettere una serie di errori, su alcune questioni fondamentali, che ebbero conseguenze disastrose.

Sulla fondamentale questione agraria sostennero l’esproprio delle grandi proprietà terriere, ma si opposero alla distribuzione della terra ai contadini con la motivazione che questo avrebbe favorito lo sviluppo di piccoli proprietari e intralciato la crescita delle idee socialiste nei villaggi. Sulla questione nazionale, invece di prendere una chiara posizione a favore dell’autodeterminazione, avanzarono lo slogan senza senso di un “autosviluppo proletario”.

Ciononostante, nel clima prevalentemente rivoluzionario, i comunisti guadagnarono terreno velocemente, nonostante i loro errori, penetrando nelle caserme, nelle fabbriche e nei sindacati, fino a quel momento dominati dai dirigenti sindacali della destra.

Considerato l’umore delle masse, il partito comunista registrò una crescita esponenziale nel giro di poche settimane. Non solo nella Budapest proletaria ma anche a Szeged, la seconda città più grande del paese, dove conquistò una grossa parte della partito socialista e molte guarnigioni locali esponevano apertamente le tessere del partito. Ancora più importante, l’organizzazione giovanile socialista passò in blocco nel partito comunista nel dicembre del 1918.

Allarmati dalla rapida crescita del partito comunista, che metteva a rischio la loro presa sempre più debole sulle organizzazioni operaie, i leader socialdemocratici iniziarono una campagna d’odio contro i bolscevichi “russi”, gli “scissionisti” e la “controrivoluzione di sinistra”. Come i menscevichi russi, i dirigenti della socialdemocrazia ungherese non consideravano l’Ungheria “matura” per la rivoluzione socialista. Si basavano sull’idea di un lento processo di evoluzione, attraverso il quale pacificamente, gradualmente e senza bruschi sconvolgimenti, l’Ungheria sarebbe passata attraverso un lungo periodo di democrazia borghese e poi, forse dopo 50 o 100 anni, la società ungherese sarebbe stata “pronta” per il socialismo.

Sfortunatamente per l’ideologia gradualista, il corso degli eventi si stava muovendo rapidamente in direzione completamente opposta. Vedendo il fallimento della democrazia borghese nell’affrontare tutti i problemi più pressanti, le masse passarono all’azione diretta. Ci fu un’ondata di occupazioni nelle fabbriche.

Il controllo operaio fu stabilito in molte località. C’erano continue manifestazioni di lavoratori, soldati e disoccupati. Alla fine di gennaio del 1919 ci furono scontri sanguinosi tra le truppe governative e gli scioperanti. Il malcontento si diffuse nell’esercito. La questione nazionale tornò ad intensificarsi dopo i moti rivoluzionari nell’Ucraina occidentale. Le promesse di Karolyi sull’autonomia gettarono benzina sul fuoco, invece di smorzarlo.

Seguendo l’esempio di Noske e Sheidemann in Germania, dove in gennaio Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht erano stati uccisi su istigazione dei dirigenti socialdemocratici, la leadership del partito socialista scatenò una campagna anti-comunista che culminò in una provocazione simile a quella delle Giornate di Luglio in Russia, con l’arresto della direzione comunista. Bela Kun ed i suoi compagni furono sottoposti a brutali pestaggi in prigione.

Comunque il governo aveva fatto male i suoi calcoli. In una situazione rivoluzionaria, l’umore delle masse può cambiare rapidamente. Gli arresti servirono a puntare i riflettori sul ruolo controrivoluzionario dei leader della socialdemocrazia al governo. Le masse inesperte che avevano guardato ai dirigenti socialdemocratici nella speranza di trovare una soluzione ai loro problemi, ora si rivoltarono rapidamente contro di loro.

Il partito comunista passò da essere una piccola minoranza a conquistare il sostegno della maggioranza nelle zone chiave del movimento operaio. I lavoratori trassero una semplice conclusione: se questo governo è contro il bolscevismo, noi dobbiamo essere a favore. I leader del partito socialista si trovarono ora ad essere contestati nelle assemblee pubbliche.

Perfino un socialdemocratico di destra come Erno Garam successivamente ammise che

“l’arresto dei leader bolscevichi non solo non indebolì la loro capacità combattiva, ma la rafforzò.”

Della stessa idea era anche Wilhem Bohm, che scrisse: “Privato dei suoi capi, il movimento bolscevico conquistò nuova forza.”

Il movimento stava ora scorrendo con forza in direzione del partito comunista. Gli arresti agirono come catalizzatore per tutto il malcontento accumulato e per la frustrazione delle masse. Per tutto il mese di marzo ci fu una tendenza indiscutibile verso l’insurrezione armata. Il 10 marzo il soviet locale prese il controllo di Szeged e l’esempio fu rapidamente seguito in altre città. I contadini occuparono le terre del conte Esterhazy, senza aspettare i decreti del governo.

Colti impreparati da questo susseguirsi di eventi, i dirigenti riformisti del movimento operaio cercarono di deviare il movimento verso canali innocui, avanzando lo slogan di un’assemblea costituente. Ma i dirigenti socialdemocratici erano oramai stati piantati in asso dall’impetuoso movimento delle masse. I battaglioni pesanti del movimento operaio nelle grandi fabbriche di Budapest si schierarono con il partito comunista.

I lavoratori trassero da tutta la situazione conclusioni rivoluzionarie. Avevano rovesciato 400 anni di dominio asburgico solo con la loro forza e la loro organizzazione. I soviet dei lavoratori non possedevano solo armi leggere, ma anche mitragliatrici ed artiglieria. Dall’altra parte il governo non aveva a disposizione una forza armata su cui fare affidamento per combattere le proprie battaglie.

Le masse erano passate attraverso la dura scuola della guerra, della rivoluzione e della contro-rivoluzione in forma democratica e ora erano pronte alla resa dei conti. Gli argomenti moderati dei leader del partito socialista non avevano più nessuna presa.

I lavoratori li interpretarono correttamente come tentativi di distrarre la loro attenzione dall’obiettivo centrale del potere. L’impazienza crescente degli operai rispetto al ruolo giocato dalla direzione socialdemocratica si espresse nel rifiuto dei tipografi di Budapest di stampare il giornale del partito socialista Nepszava. I tipografi scioperarono il 20 marzo, lo stesso giorno in cui gli Alleati inviarono il loro ultimatum a Karolyi. Il 21 lo sciopero dei tipografi si trasformò in uno sciopero generale, che rivendicava il rilascio dei dirigenti del partito comunista e il trasferimento del potere alla classe operaia.

Questa manifestazione spontanea provocò una scissione nella direzione del partito socialista. Una parte della dirigenza, apertamente identificata con la borghesia, si preparava a svolgere lo stesso ruolo controrivoluzionario di Noske e Scheidemann in Germania. Altri, invece, erano più cauti. Il governo di Karolyi era al collasso dopo l’ultimatum degli Alleati.

Demoralizzati, i liberali borghesi consegnarono il potere ai dirigenti riformisti, che accettarono il dono con il cuore pesante e le mani tremanti. La borghesia pose tutto l’onere di risolvere la crisi sulle spalle dei socialdemocratici “moderati”. Ma questi ultimi, per quanto fossero sempre pronti ad assolvere al proprio “dovere patriottico”, si trovavano comunque in una posizione particolarmente debole.

La loro influenza tra le masse si stava velocemente riducendo a zero. Come avrebbero potuto mantenersi al potere? Quello che seguì fu un avvenimento senza precedenti nella storia: i capi del partito socialista, ancora al governo, si recarono in prigione per negoziare con i capi del partito comunista, arrestati con la loro connivenza poco tempo prima. Questo fatto di per sé dimostra i grandi cambiamenti nella correlazione delle forze di classe che si verificano in una situazione rivoluzionaria.

Gli avvertimenti di Lenin

All’inizio i dirigenti socialdemocratici chiesero al partito comunista di appoggiare dall’esterno il loro governo. Quando questa proposta venne rifiutata, i riformisti proposero addirittura di fondere i due partiti! Quest’offerta equivaleva a formare un governo di coalizione camuffato da partito socialista “unificato”. Le astute vecchie volpi che guidavano il partito socialista erano pronte a firmare qualsiasi cosa, ad accettare qualsiasi cosa, non importa quanto radicale suonasse, pur di raggiungere un accordo.

Gli esponenti di lunga data del gradualismo si convertirono all’improvviso alla dittatura del proletariato, al potere sovietico, alla rivoluzione – a qualsiasi cosa – pur di ottenere la partecipazione dei comunisti al loro governo. A dire il vero i socialdemocratici non facevano altro che riconoscere la realtà della situazione, poiché mentre i leader del partito comunista stavano negoziando sull’unità con loro, i lavoratori di Budapest stavano portando avanti una rivoluzione incruenta, alla quale il governo non era in grado di opporre resistenza. Il partito comunista e il partito socialista si unificarono quando il potere era già di fatto già nelle mani della classe operaia armata.

Portando avanti questa unificazione, i dirigenti comunisti commisero un grande errore, che la classe operaia avrebbe più tardi pagato a caro prezzo. Mentre Bela Kun, il leader dei comunisti ungheresi, blandiva i lavoratori con discorsi entusiasti sull’unità come “prerequisito per il potere operaio”, molti nella base comunista erano confusi da questa mossa e si opponevano ad essa. Tentando di trovare una soluzione “facile” al problema della costruzione del partito e una “scorciatoia” verso il potere, Bela Kun cadde in una trappola. Mancando di fiducia in loro stessi, nel loro programma, nella loro politica e nella classe operaia, i dirigenti del partito comunista realizzarono una fusione con i socialdemocratici nel peggior modo che si possa immaginare.

Fu una fusione burocratica ai vertici, piuttosto che una genuina unificazione sulla base di un lavoro paziente per staccare i lavoratori dai loro vecchi dirigenti. Eppure al momento dell’unificazione l’influenza dei comunisti tra i settori decisivi del proletariato era di gran lunga superiore a quella dei riformisti, che si erano pesantemente compromessi a causa della loro collaborazione al governo con la borghesia e delle loro azioni repressive contro i lavoratori.

I socialisti tirarono fuori l’idea di una fusione solo quando le loro fortune erano ai minimi storici e la rivoluzione un fatto compiuto. La loro idea era di preservare il loro prestigio e i loro privilegi salendo sul carro dei vincitori. Soltanto gli elementi più apertamente controrivoluzionari, guidati da Erno Garami, rifiutarono di partecipare all’unificazione. Tra quelli che vi aderirono c’erano sia elementi onesti di sinistra che incalliti burocrati di destra.

Nonostante la mancanza di informazioni e la grande distanza che lo separava dagli eventi in Ungheria, Lenin si rese subito conto del pericolo insito in questa mossa:

La prima comunicazione che abbiamo ricevuto a riguardo [sull’unificazione – AW] ci dà motivo di temere che forse i cosiddetti socialisti, traditori socialisti, abbiano fatto ricorso a qualche inganno, abbiano raggirato i comunisti, tanto più che questi erano in prigione.

In un telegramma inviato via radio a Bela Kun, Lenin espresse i suoi dubbi sull’opportunità dell’unificazione in questi termini:

Vi prego, informateci su quali effettive garanzie avete che il nuovo governo ungherese sarà realmente comunista, e non semplicemente socialista, cioè un governo di social-traditori. I comunisti hanno la maggioranza nel governo? Quando ci sarà il congresso dei soviet? In cosa consiste davvero il riconoscimento della dittatura del proletariato da parte dei socialisti?

Al di là di ogni dubbio, la semplice applicazione delle nostre tattiche russe, in ogni minimo dettaglio, alle condizioni particolari della rivoluzione ungherese, potrebbe essere un errore. Devo mettervi in guardia contro questi errori, ma vorrei sapere in che cosa vedete garanzie concrete?

Bela Kun rispose alle richieste di Lenin con argomenti rassicuranti, ma Lenin non ne fu convinto. Al primo congresso dell’Internazionale comunista, tenutosi poco dopo la rivoluzione ungherese, avvertì il comunista ungherese Laszlo Rudas:

“Giudico pericolosa questa unificazione. Sarebbe stato meglio formare un blocco in cui entrambi i partiti avessero preservato la propria indipendenza. In questo modo i comunisti sarebbero apparsi agli occhi delle masse come un partito indipendente. Sarebbero stati in grado di accrescere la loro forza giorno per giorno e in caso di necessità, se i socialdemocratici non avessero adempiuto ai loro doveri rivoluzionari, si sarebbero potuto prendere provvedimenti fino al punto di una scissione.”

I consigli di Lenin ai comunisti ungheresi non avevano nulla a che vedere con la sterile intransigenza settaria. Di fatto lo stesso Lenin difendeva l’idea di un’unificazione, a patto che fosse portata avanti in maniera appropriata, sulla base di un programma rivoluzionario ben definito ed escludendo tutti i vecchi dirigenti della destra. L’errore non era nel ricercare l’unificazione con i socialdemocratici, ma nel mescolare le bandiere e i programmi in maniera poco seria.

In realtà i comunisti ungheresi sciolsero il loro partito nel partito socialista, i cui dirigenti fecero la parte del leone nell’assegnazione delle posizioni principali nel partito, nei sindacati e nel governo. Come risultato delle azioni di Bela Kun e degli altri, gli elementi più avanzati e rivoluzionari della classe vennero sommersi nella massa politicamente più arretrata e informe.

L’errore si rivelò fatale e dimostra esattamente cosa sarebbe successo in Russia se i bolscevichi si fossero fusi con i menscevichi dopo la rivoluzione di Febbraio, come era stato proposto da Stalin e Kamenev, o se nel novembre del 1917 avessero ceduto alla pressioni per formare un “governo di tutti i partiti sovietici”, pressioni alle quali Lenin e Trotskij avevano resistito con successo.

Gli errori dei comunisti ungheresi

È una legge della rivoluzione che nel momento decisivo, quando si pone la questione del potere, la direzione del partito rivoluzionario tende inevitabilmente a essere sottoposta alla pressione delle altre classi, la pressione dell’“opinione pubblica” borghese e persino delle fasce più arretrate della classe lavoratrice stessa. I leader bolscevichi di Pietrogrado nel febbraio 1917 avevano molta più esperienza di quelli ungheresi nel marzo 1919, eppure Kamenev e Stalin, sotto una pressione enorme, adottarono la linea di minor resistenza, promuovendo l’appoggio al Governo Provvisorio e l’unità con i menscevichi.

La paura di rimanere “isolati”, di apparire agli occhi delle masse come “scissionisti” e “settari”, agisce come un forte peso che grava sulle spalle della direzione rivoluzionaria. Solo una visione di insieme del processo rivoluzionario avrebbe consentito di adottare una valida linea politica per resistere a queste pressioni. I giovani e inesperti dirigenti dei comunisti ungheresi mancavano della comprensione politica e della fermezza necessarie, vacillarono e persero la testa.

Se avessero preservato un’identità indipendente, seguito il suggerimento di Lenin di offrire un’alleanza operaia al partito socialista e lavorare pazientemente per convincere gli operai socialdemocratici della correttezza delle loro idee e del loro programma, avrebbero rapidamente conquistato la grande maggioranza dei lavoratori, così come degli elementi più onesti nella direzione, isolando ed escludendo i carrieristi corrotti. Fu la volontà di trovare una “scorciatoia” che di fatto impedì al partito comunista di raggiungere questi obbiettivi.

Il nuovo governo operaio in Ungheria godeva di importanti vantaggi. La rivoluzione, contrariamente a tutte le argomentazioni avanzate dai riformisti sulla violenza, fu del tutto incruenta. La borghesia era troppo scossa e demoralizzata per offrire resistenza. Le masse popolari si identificavano senza dubbio nel nuovo governo, non solo gli operai e i contadini poveri, ma, diversamente da quello che accadde in Russia, anche l’intellighenzia che, anche per via delle vecchie tradizioni nazional-rivoluzionarie, sostenne la rivoluzione.

D’altra parte la repubblica operaia ungherese nacque in un momento critico per l’imperialismo a livello mondiale. Le stesse fondamenta del sistema sembravano essere sul punto di collassare sotto i colpi della rivoluzione. Il 1919 fu un anno fatidico nella storia dell’umanità. Dopo gli sconvolgimenti rivoluzionari di Berlino a gennaio, l’Austria entrò in una fase di fermento rivoluzionario. Un’effimera repubblica sovietica fu proclamata anche in Baviera.

In Francia il periodo di smobilitazione venne accompagnato da estrema tensione. In Gran Bretagna, il movimento dei delegati sindacali e la Triplice Alleanza (un accordo di cooperazione tra i tre principali sindacati britannici, NdT) erano al loro massimo. C’era la lotta per le 40 ore settimanali e il movimento “Giù le mani dalla Russia”, ammutinamenti nell’esercito e la rivolta nel Clyde.

Con il passare dell’anno, ci furono movimenti in Olanda, Norvegia, Svezia, Jugoslavia, Romania, Cecoslovacchia, Polonia, Italia e persino negli USA. Con una politica e un orientamento corretti, la rivoluzione ungherese avrebbe potuto portare le fiamme della rivolta nel cuore dell’Europa, come gli strateghi dell’imperialismo sapevano fin troppo bene.

Purtroppo, i leader dei comunisti ungheresi commisero una serie di errori che segnarono il destino della rivoluzione. Come già detto, il partito aveva posizioni completamente sbagliate sulla questione agraria, che ora furono messe in pratica. Dei nove milioni di abitanti della repubblica sovietica ungherese, 4,4 milioni lavoravano la terra. C’erano 5.000 grandi latifondisti (l’1% del totale), che possedevano più terra del restante 99%. C’erano un milione di “proletari rurali”; circa 700.000 famiglie di piccoli contadini; più di 100.000 fattorie di “contadini medi” (l’11,7% del totale) e circa 70.000 famiglie di kulaki (8% del totale). Una corretta politica agraria avrebbe potuto – e dovuto – conquistare la grande maggioranza dei contadini alla causa della rivoluzione.

In Russia il decreto sulla terra fu uno dei primi decreti emanati dai bolscevichi subito dopo aver preso il potere. In Ungheria ci vollero due settimane al nuovo governo per pubblicare il decreto sulla terra, un lungo lasso di tempo in una situazione rivoluzionaria, che diede agli elementi contro-rivoluzionari nei villaggi un’occasione d’oro per diffondere voci allarmiste e propaganda anti-socialista. Ancora peggio, l’impazienza estremista dei comunisti ungheresi fece abortire la riforma agraria.

Bela Kun e i suoi compagni guardavano alla questione contadina in senso strettamente “economico”. Non avevano compreso la natura dialettica della relazione tra proletariato e contadini e guardavano con sospetto alla politica dei bolscevichi russi di distribuire la terra ai contadini, che sul breve termine aveva rinforzato lo sviluppo di piccoli proprietari nei villaggi, ma era riuscita a spingere la massa dei contadini poveri attorno alla bandiera della rivoluzione socialista.

“Tibor [Szamuely] ed io” scrisse Bela Kun dopo la sconfitta della rivoluzione, “credevamo che la nostra politica agraria fosse più intelligente di quella dei bolscevichi russi, perché non avevamo suddiviso le grandi proprietà tra i contadini, ma vi avevamo organizzato la produzione socialista, basandoci sui braccianti e senza trasformarli in nemici del proletariato, grazie al fatto che non li avevamo trasformati in possidenti, in proprietari terrieri.”

L’impazienza e l’impressionismo dei dirigenti del partito comunista li portò ad esagerare e idealizzare gli elementi di “coscienza socialista” tra i contadini ungheresi, un po’ come i populisti russi avevano fatto nel secolo precedente. Tibor Szamuely espresse queste illusioni ad una riunione in Russia nel Maggio 1919, con un discorso riportato sull’Izvestia del 5 Maggio:

“L’idea di organizzare comuni sta incontrando la più grande simpatia. Tra i contadini ungheresi non ci sono gruppi disposti a combattere contro quest’idea.” (nostra enfasi – AW)

‘“Socialismo subito”

In realtà i contadini, per le loro condizioni di vita ed il loro ruolo nella produzione, sono la classe sociale meno in grado di sviluppare una coscienza collettiva. Alcuni comunisti ungheresi sembrarono accorgersene meglio di Bela Kun. In un articolo pubblicato sul primo numero di Internazionale Comunista Laszlo Rudas fece notare che i contadini piccoli e medi erano “nel migliore dei casi indifferenti al destino della dittatura del proletariato.”

Questa osservazione, in realtà, è solo parzialmente vera. Perché i contadini russi piccoli e medi non furono indifferenti al destino dello Stato operaio russo? Perché i bolscevichi russi avevano distribuito la terra ai contadini e questi sapevano che, difendendo lo Stato operaio, stavano difendendo anche i loro appezzamenti di terra dai grandi proprietari che sostenevano le armate bianche. In tutto questo la “coscienza socialista” non c’entrava.

Eppure i bolscevichi, guidati da Lenin e da Trotskij, utilizzarono abilmente la questione agraria per conquistare milioni di contadini alla causa della rivoluzione socialista. Ben lungi da inimicarsi i contadini, la politica agraria bolscevica li trasformò in entusiasti difensori della rivoluzione. Senza quest’alleanza, i bolscevichi non sarebbero sopravvissuti più a lungo della repubblica sovietica ungherese.

La posizione dei dirigenti socialdemocratici sulla questione non era migliore, bensì peggiore di quella di Bela Kun. Su Nepszava, l’organo del partito unificato controllato dai socialdemocratici, fu scritto: “Possiamo essere orgogliosi della soluzione al problema della terra… Siamo stati capaci di risolvere la situazione grazie a una circostanza fortunata. [!] Nel nostro paese la produzione socialista nell’agricoltura non è un’utopia. Una buona parte delle terre coltivate è stata assegnata alla produzione collettiva.” (6 Giugno 1919).

In pratica questi burocrati conservatori erano per loro natura terrorizzati da ogni tipo di iniziativa delle masse. Per questi elementi l’idea, avanzata da Marx ed Engels e messa in pratica dai bolscevichi, di una “riedizione della guerra contadina” come forza ausiliaria della rivoluzione proletaria, era un anatema. Nascondendosi dietro i dirigenti del partito comunista, garantirono il loro sostegno alla collettivizzazione non per entusiasmo rivoluzionario, ma nel tentativo di evitare “disordini” nei villaggi.

Portarono avanti la riforma agraria con i metodi più burocratici, privandola di ogni contenuto rivoluzionario o di ogni possibile attrattiva. Nel profondo del cuore i socialdemocratici si opponevano all’esproprio delle terre: anni dopo lo stesso conte Karolyi rivelò che ad opporsi alla riforma agraria non furono solo i latifondisti e la Chiesa, ma anche i leader socialdemocratici. Il risultato fu un aborto. “Commissari per la produzione” furono posti a capo delle fattorie collettive. In molti casi non si trattava di altri che del precedente proprietario. Questi continuava a vivere nella sua vecchia casa ed i contadini continuavano a rivolgersi a lui chiamandolo “padrone”.

Come poteva una situazione del genere toccare le corde nei cuori dei contadini poveri e dei braccianti? Per quello che potevano vedere, non era cambiato niente di fondamentale rispetto a prima. Questo spiega l’indifferenza “nel migliore dei casi” dei contadini piccoli e medi verso la rivoluzione.

I poveri nei villaggi non erano convinti da questa nuova situazione, che somigliava molto a quella precedente, sebbene i nomi fossero cambiati. I piccoli proprietari erano sospettosi delle intenzioni del governo e facilmente influenzati dalla propaganda dei contadini ricchi e dei latifondisti, in base alla quale il governo voleva nazionalizzare anche le loro terre. Laddove la politica di Lenin era riuscita a creare una spaccatura tra i piccoli contadini ed i kulaki, la politica “più intelligente” di Bela Kun riuscì solo unire i piccoli contadini e i kulaki in un blocco ostile alla rivoluzione.

Il fallimento della politica agraria ebbe serie ripercussioni anche in altri campi. Il governo, consapevole dell’ostilità o dell’indifferenza della maggioranza dei contadini, non aveva abbastanza fiducia in sé stesso per effettuare requisizioni di grano, come avevano fatto i bolscevichi in Russia. Questo comportò gravi difficoltà nel rifornimento di cibo e vestiario alle città e all’Armata Rossa nei mesi cruciali che seguirono. Questo errore fu fatale.

Nei mesi successivi il governo, invece di concentrare tutti i suoi sforzi nell’ampliare la sua base di sostegno e condurre una lotta spietata contro i controrivoluzionari, sprecò le sue energie in questioni secondarie di ogni tipo. Sotto la pressione continua di Lenin, venne introdotta la giornata lavorativa di otto ore, assieme ad un certo numero di riforme concrete, utili a migliorare le condizioni di vita della popolazione. Tuttavia molto tempo fu sprecato in parate, discorsi e celebrazioni. Quando le forze della reazione si stavano già radunando ai confini e all’interno dell’Ungheria, i ministri si dedicavano ad una miriade di progetti culturali. Lenin si vide costretto a lamentarsi con Laszlo Rudas della leggerezza dei dirigenti del Partito comunista ungherese:

Che razza di dittatura [del proletariato] è questa? Socializzare i teatri e le società musicali? Pensate davvero che questo sia il vostro compito più importante, oggi?

La Repubblica sovietica ungherese, che aveva conquistato il potere con tanta facilità, si trovò ora in una posizione di debolezza di fronte all’offensiva della reazione. Il governo stesso era composto da tredici membri, di cui solo quattro erano comunisti. Imitavano tutte le forme esteriori della rivoluzione russa (una cosa che Lenin gli aveva consigliato di non fare), compresa la creazione di un ispettorato contadino e persino la nomina di Lenin a “presidente onorario” del soviet di Budapest! In compenso l’Armata Rossa, creata con decreto del 30 marzo, era in realtà il vecchio esercito con un nuovo nome, sotto il controllo del socialdemocratico Pogany, e composta da ufficiali del vecchio regime. La maggior parte dei commissari politici assegnati all’esercito erano socialdemocratici, compreso il commissario capo Moor.

La milizia rossa comprendeva interi reparti presi in blocco dalla vecchia polizia e gendarmeria. In questo modo, invece di distruggere completamente il vecchio apparato statale, importanti elementi di esso vennero mantenuti con una nuova etichetta. Solo gradualmente i vecchi elementi reazionari vennero estromessi dall’esercito e dalla milizia e nel frattempo venne sprecato tempo prezioso nella lotta contro la reazione.

Nei suoi 133 giorni di esistenza, la repubblica sovietica emanò non meno di 531 decreti. Se le rivoluzioni si vincessero e perdessero in base alle scartoffie, gli operai ungheresi non avrebbero mai perso. Sfortunatamente per Bela Kun, i reazionari combattevano con proiettili veri, non di carta.

Anche sul fronte economico, l’impazienza dei dirigenti del partito comunista comportò enormi problemi. Dopo la rivoluzione d’Ottobre i bolscevichi avevano nazionalizzato solo le banche e le grandi industrie. Questo fu sufficiente a concentrare tutti le leve fondamentali dell’economia nelle mani dello Stato operaio, mentre il compito più complicato di integrare le piccole e medie imprese nel settore nazionalizzato poteva procedere in maniera più lenta ed ordinata.

Invece il desiderio di Bela Kun di “fare meglio” dei bolscevichi indusse lo Stato operaio ungherese a nazionalizzare senza indennizzo, cinque giorni dopo la presa del potere, tutte le aziende con più di 50 dipendenti. Questo voleva dire provare a fare troppo e troppo presto, in un paese arretrato dove l’industria su larga scala rappresentava ancora un settore relativamente piccolo.

Nel giro di un mese, non meno di 27.000 imprese vennero nazionalizzate, molte delle quali con meno di 20 dipendenti. Va detto che l’iniziativa per queste nazionalizzazioni di solito veniva dai lavoratori stessi. Il governo era sommerso di domande dei lavoratori che chiedevano di essere espropriati. Persino i parruccai volevano essere nazionalizzati.

Ma l’idea del partito comunista ungherese di introdurre il “socialismo subito”, senza tenere nella dovuta considerazione il problema della transizione dal capitalismo al socialismo, provocò serie difficoltà. Senza una preparazione adeguata ed il sufficiente sviluppo tecnologico, la nazionalizzazione di migliaia di piccole aziende si rivelò una mossa suicida e provocò un considerabile dissesto nell’economia. Misure come il decreto di requisizione di tutti i taxi a Budapest e in altre città, senza tenere conto del numero di dipendenti impiegati, suscitarono l’ostilità di importanti settori della classe media, dei piccoli produttori e degli artigiani.

Gli errori commessi dai comunisti ungheresi indebolirono seriamente la rivoluzione di fronte alla crescente minaccia delle forze della reazione. Le potenze imperialiste, riunite alla Conferenza di pace di Parigi, comprendevano fin troppo bene il pericolo posto dalla “questione ungherese”. Venne considerata la possibilità di un intervento armato, ma l’implicita debolezza dell’imperialismo in quel periodo è dimostrata dalla sua incapacità di intervenire direttamente contro la rivoluzione ungherese.

Gli imperialisti britannici, francesi e statunitensi furono invece costretti ad affidarsi ai servigi delle borghesie ceca e rumena per fare il lavoro sporco al posto loro. Il 16 aprile i rumeni lanciarono il loro attacco, che fece subito apparire quanto la repubblica sovietica ungherese fosse debole e impreparata. L’ “Armata Rossa”, formata da truppe ed ufficiali del vecchio regime, si sgretolò di fronte all’offensiva e numerosi reparti passarono al nemico.

L’intervento imperialista

L’esercito rumeno penetrò in profondità nel territorio ungherese senza incontrare una seria resistenza. A peggiorare la situazione, i serbi, istigati dagli Alleati, invasero il sud dell’Ungheria, mentre la “democratica” borghesia ceca decise di intervenire attaccando la parte occidentale del paese con truppe comandate da ufficiali italiani e francesi.

Il Times del 7 maggio 1919, dando voce agli obiettivi degli imperialisti, chiese la resa dell’Ungheria, il disarmo dell’Armata Rossa, le dimissioni del governo e l’occupazione del paese da parte delle truppe alleate. Al primo segno di pericolo, i socialdemocratici al governo volevano gettare la spugna. Wilhem Bohm, uno dei principali dirigenti del partito socialista ed ex-comandante dell’Armata Rossa, preparò un piano per la capitolazione.

Le attività demoralizzanti di questi dirigenti delle destra del movimento operaio servirono a paralizzare il governo in un momento cruciale. Fosse dipeso esclusivamente da loro, Budapest sarebbe stata indubbiamente occupata dai Bianchi senza opporre resistenza.

Nonostante ciò, gli eroici proletari di Budapest presero ancora una volta in pugno la situazione, forzando il governo a cambiare rotta. In una serie di assemblee di massa, gli operai ignorarono le richieste di Bohm e soci e votarono per combattere. Furono organizzati reclutamenti nelle grandi fabbriche e colonne volanti furono inviate dai quartieri operai al fronte. In pochi giorni, grazie alla magnifica iniziativa dei lavoratori, migliaia di volontari si unirono all’Armata Rossa: operai, ferrovieri, impiegati, postini, fattorini, che trasformarono l’intera situazione nel giro di ventiquattrore.

L’Armata Rossa venne riorganizzata su nuove basi ed il 2 maggio gli operai di Budapest riuscirono a respingere gli invasori su tutta la linea. In una brillante campagna di sette giorni, condotta contro forze soverchianti, l’Armata Rossa proletaria passò dalla difensiva all’offensiva, riconquistando al nemico città e villaggi.

L’armata ceca venne gettata nel panico dall’offensiva. Vaste aree della Slovacchia vennero liberate ed il 16 Giugno venne proclamata una Repubblica sovietica slovacca.

Ciò nonostante gli sforzi eroici degli operai ungheresi vennero costantemente ostacolati dai leader socialdemocratici al governo, che ora iniziarono una campagna sistematica di critica ai “metodi brutali” ed alla “crudeltà gratuita”. Guardando ai fatti nessuno avrebbe potuto accusare gli operai ungheresi di eccessiva crudeltà. Casomai era il contrario.

La rivoluzione era stata di gran lunga troppo indulgente con i suoi nemici e ora ne stava pagando un prezzo terribile. Chiedere di rinunciare ai “metodi brutali” nel bel mezzo di una guerra civile terribile e sanguinosa era come chiedere di arrendersi al nemico. Nemmeno il più democratico dei governi parlamentari borghesi tollera propaganda disfattista in tempo di guerra. Invece gli operai ungheresi furono costretti a combattere su due fronti: sia contro il nemico di classe dichiarato al fronte, sia contro gli agenti del nemico camuffati e ipocriti, che utilizzavano le loro posizioni chiave nel governo per sabotare lo sforzo bellico.

I dirigenti del partito comunista compresero troppo tardi che l’unificazione era stata un errore. Bela Kun si lamentò dei socialdemocratici e accennò alla necessità di una scissione proprio nel momento in cui c’era bisogno del massimo di unità e risolutezza per combattere la guerra. Il governo era lacerato dalle divisioni. I socialdemocratici costituivano la maggioranza in tutti gli organismi dirigenti del partito “unificato”, con pochissime eccezioni. Controllavano anche il “consiglio governativo rivoluzionario”.

Questi carrieristi consumati, che avevano sostenuto la “dittatura del proletariato” solo per salvare le proprie posizioni, ora decisero di non puntare sul cavallo sbagliato e lavorarono alacremente a “ricucire i rapporti” con l’altra parte. Stavano cercando di mettere quanta più distanza possibile tra loro ed i bolscevichi, sui quali erano decisi a gettare tutte le colpe per quanto era accaduto, e di rinnovare le loro credenziali di rispettabili politici “democratici” borghesi, che non avevano voluto fare niente di male e avevano partecipato alla rivoluzione solo per “evitare gli eccessi” e impedire che le cose andassero completamente fuori controllo.

Se non si arrivò ad una scissione, fu perché i dirigenti del partito comunista, nonostante le pressioni dell’Internazionale comunista per uscire allo scoperto contro i leader del partito socialista, vacillarono e si tirarono indietro.

Le attività del partito socialista al governo garantirono via libera all’imperialismo. Su iniziativa del “campione dei popoli”, il presidente Wilson, la Conferenza di pace di Parigi, ora alquanto allarmata dai successi dell’Armata Rossa, inviò un ulteriore ultimatum a Budapest l’8 giugno, in cui si chiedeva la fine dell’avanzata dell’Armata Rossa e si invitava il governo ungherese a Parigi per “discutere delle frontiere ungheresi”. La nota fu seguita da un secondo ultimatum, che minacciava l’utilizzo della forza se questi termini non fossero stati accettati.

Bohm e soci approfittarono di questo nuovo ultimatum per lanciare una nuova campagna per la “pace ad ogni costo”. Sotto pressione, Bela Kun temporeggiò ancora e chiese una tregua. Il 18 giugno Lenin inviò un telegramma in cui spiegava che, per quanto i negoziati con gli Alleati fossero di per sé una tattica corretta per guadagnare un momento di respiro, non si sarebbe dovuta riporre alcuna fiducia negli Alleati e nelle loro offerte di pace. In realtà non c’era la benché minima garanzia che gli Alleati avrebbero mantenuto le loro promesse, una volta che l’ultimatum fosse stato accettato.

Con le armate nemiche ancora sul territorio ungherese, alla rivoluzione veniva richiesto di disarmarsi in base ad un pezzo di carta. Eppure il 26 giugno cominciarono i negoziati e l’Armata Rossa iniziò a ritirarsi.

Ci sono dei momenti psicologici decisivi nella storia di una rivoluzione, come in uno sciopero. La resa di posizioni ottenute a caro prezzo senza sparare un colpo ebbe un effetto disastroso sull’Armata Rossa. La sfortunata Repubblica sovietica slovacca venne consegnata nelle mani dei suoi nemici. Il morale degli operai e dei contadini scese sotto i tacchi. Lenin aveva messo in guardia contro il pericolo di illusioni nella “buona fede” degli Alleati, e ora gli ungheresi erano caduto in pieno nella trappola. Come lo stesso Bela Kun successivamente dovette ammettere:

Non abbiamo risposto alle manovre di Clemenceau con contro-manovre. Non abbiamo provato a guadagnare tempo tirando per le lunghe i negoziati. Non abbiamo neanche cercato di costringerli ad accettare questi negoziati, ma semplicemente abbiamo fatto tutto quello che ci avevano chiesto, senza la minima garanzia e senza considerare la possibilità di una disintegrazione dell’esercito in caso di ritirata.

Il regno del terrore

Il destino della rivoluzione ungherese era oramai segnato. Il 24 giugno ci fu un tentativo di insurrezione controrivoluzionaria a Budapest, guidata dagli autoproclamati “socialdemocratici nazionali”, che venne soppresso nel giro di ventiquattrore. Il 20 luglio Clemenceau inviò una nuova nota, nella quale si dichiarava che il governo ungherese non era “competente a negoziare” e si chiedeva la formazione di un governo composto da “leader responsabili del movimento operaio”, con l’esclusione del partito comunista. Com’era prevedibile, i dirigenti socialdemocratici accettarono prontamente questa richiesta.

In precedenza si erano fatti scudo dietro il partito comunista, ma adesso il pendolo stava oscillando dalla parte opposta e Bela Kun e soci avevano perso la loro utilità. Ancora una volta i dirigenti comunisti dimostrarono un’ingenuità e una confusione estreme. Invece di condurre una battaglia per esporre le macchinazioni dei socialdemocratici (che peraltro erano in contatto diretto con le missioni militari francese, britannica, italiana e statunitense a Budapest), alla fine accettarono di dimettersi per evitare “inutili spargimenti di sangue”.

Il colpo di Stato venne così portato a termine senza sparare un colpo. I leader “responsabili” del movimento operaio concentrarono tutto il potere nelle loro mani, con la prospettiva di restituirlo ai proprietari terrieri ed ai capitalisti.

Con questo avvenimento, lo scivolamento verso la controrivoluzione assunse un carattere irreversibile. Il nuovo governo socialdemocratico si affrettò ad abrogare tutte le misure adottate nel corso della rivoluzione. Le aziende nazionalizzate vennero restituite ai loro precedenti proprietari. Le conquiste degli operai e dei contadini furono spazzate via. Molti membri del partito comunista furono arrestati, mentre gli elementi controrivoluzionari vennero rilasciati dalle prigioni. Nella loro cecità riformista, i dirigenti della destra socialdemocratica immaginavano che queste azioni avrebbero consentito loro di ingraziarsi i Bianchi e siglare la pace con la reazione trionfante. Vana illusione! Il 6 agosto, anche il nuovo governo fu rovesciato da un pugno di militari e avventurieri. Disorientato e senza una guida, l’eroico proletariato di Budapest era incapace di opporre resistenza.

Con l’entrata dell’esercito rumeno a Budapest, ebbe inizio un regno del terrore contro la classe operaia ungherese. I proprietari terrieri ed i capitalisti si vendicarono per la paura che avevano provato, senza tentennamenti o scrupoli di coscienza rispetto agli “spietati atti di crudeltà”. I soldati feriti dell’Armata Rossa vennero trascinati fuori dagli ospedali ed uccisi. I Bianchi utilizzarono i più barbari metodi di tortura medievali: 5.000 persone persero la vita in questo periodo. I Ponzio Pilato del “gradualismo”, quei dirigenti riformisti che avevano protestato rumorosamente per i cosiddetti “eccessi” degli operai e dei contadini, ora guardavano dall’altra parte, giustificando l’assassinio e la repressione nella maniera più codarda, pur di mantenere i propri impieghi e i propri privilegi.

La sconfitta della rivoluzione ungherese del 1919 fu un colpo pesante per la classe operaia internazionale. La rivoluzione russa rimase isolata in un paese arretrato, determinando la successiva degenerazione del primo Stato operaio del mondo. Eppure la sconfitta non era inevitabile. Nonostante le difficoltà di difendere un piccolo paese senza difese naturali, una politica corretta avrebbe potuto portare ad un esito del tutto differente. La mancata adozione di una corretta politica agraria, in particolare, fece sì che la rivoluzione non esercitasse una particolare attrattiva nei confronti dei contadini-soldati degli eserciti invasori rumeni, cechi e serbi. E invece esistevano possibilità in tal senso. La 4ª, la 9ª e la 161ª armata rumena si rifiutarono di combattere. Durante la guerra ci furono grandi scioperi di lavoratori rumeni a Ploesti, Bucarest, ecc. Il giornale austriaco Deutsche Volksblatt descrisse il malcontento e la disaffezione tra le truppe di invasione durante i combattimenti:

Nelle armate ceche e rumene c’è una notevole mancanza di disciplina e le idee bolsceviche si stanno diffondendo al loro interno, il che è confermato dal fatto che in Bessarabia il movimento degli operai e dei contadini si è rivolto contro il regime rumeno.

Circa 8.000 soldati cechi si rifiutarono di combattere e disertarono in massa attraverso i Carpazi fino in Galizia, dove vennero internati dai polacchi. Ci furono anche casi di fraternizzazione sul fronte iugoslavo. Tutti questo dimostra che cosa sarebbe stato possibile se i comunisti ungheresi avessero adottato politiche corrette nel corso della rivoluzione.

Oggi, sessant’anni dopo, nonostante tutti gli errori, la breve esperienza della Repubblica sovietica ungherese rimane una fonte di ispirazione per tutti i socialisti e i lavoratori coscienti. Solo analizzando gli errori del passato sarà possibile formare l’attuale generazione e prepararla per i compiti che nel prossimo periodo verranno nuovamente posti di fronte al movimento operaio, in Gran Bretagna e a livello internazionale.

12 novembre, 1979

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