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La loro transizione e la nostra

In occasione del Global Climate Strike del 24 settembre, pubblichiamo questo articolo sul tema della transizione ecologica, in cui vengono trattate tutte le principali soluzioni al problema del riscaldamento globale attualmente in campo, dall’idrogeno alle auto elettriche, dallo stoccaggio di Co2 ai pannelli solari. Nel testo viene dimostrato come nel contesto di un’economia basata sul libero mercato, sulla proprietà privata dei grandi mezzi di produzione e sulla massimizzazione del profitto, le tecnologie potenzialmente “pulite” vengono completamente snaturate, trasformandosi nel loro opposto e contribuendo alle emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera. Proprio da queste contraddizioni deriva la necessità di porre la prospettiva della trasformazione in senso socialista della società al centro dei movimenti per la tutela dell’ambiente.
La redazione

di Franco Bavila

La questione ambientale è sempre più al centro del dibattito politico ed economico. I governi e le multinazionali di tutto il mondo fanno a gara per chi fissa gli obiettivi più ambiziosi di riduzione delle emissioni di anidride carbonica (Co2) allo scopo di contrastare il riscaldamento globale. Il punto è capire come pensano di poter raggiungere questi obiettivi.
Sul tema esiste oramai una letteratura sterminata, ma tutti gli articoli, anche quelli più interessanti, hanno in comune il difetto di presentare la transizione ecologica come una questione meramente tecnologica, cioè di passaggio dalle tecnologie basate sulle fonti di energia fossili e inquinanti (carbone, petrolio e gas) alle tecnologie incentrate sulle fonti di energia rinnovabile a zero emissioni (fotovoltaico, eolico, idroelettrico, geotermico…). In nessun caso si vanno mai a mettere in dubbio le modalità di funzionamento del sistema di produzione capitalista, che vengono date per scontate, come la base di partenza di ogni ragionamento.

Il presupposto, più o meno esplicito, è il seguente: se i capitalisti trovano il modo di fare con le rinnovabili più profitti di quelli che facevano con il petrolio, abbandoneranno progressivamente le fonti inquinanti. In base a questa impostazione, non solo il capitalismo e l’ambientalismo sono compatibili tra loro, ma “lo stimolo del profitto” diventa addirittura il motore della transizione ecologica. Il ruolo degli Stati è solo quello di investire denaro pubblico nelle fonti rinnovabili, per renderle più competitive e più appetibili per i capitalisti. In questo quadro, l’industria petrolifera verrà sconfitta sui mercati: perderà investimenti rispetto alle tecnologie più avanzate e pulite e diventerà obsoleta, finendo per scomparire come sono scomparsi i televisori a tubo catodico dopo l’avvento di quelli a schermo piatto.
Sulla carta il ragionamento fila. Dopotutto uno degli uomini più ricchi del mondo oggi è Elon Musk, che produce auto elettriche. Nella realtà le cose sono un po’ più complicate. Non è una questione di tecnologie green e delle loro potenzialità in astratto, ma di come queste tecnologie vengono utilizzate concretamente nel nostro sistema economico. Per comprendere meglio i termini del discorso, passeremo in rassegna una ad una tutte le principali soluzioni attualmente avanzate per affrontare i cambiamenti climatici.

I biocarburanti

Partiamo dai cosiddetti biocarburanti. In sé l’idea non è male: utilizzare gli scarti delle coltivazioni agricole, delle lavorazioni del legno, ecc. (le biomasse) per creare dei combustili alternativi a quelli derivanti dalle fonti fossili. Grazie alla loro origine naturale, i biocombustibili dovrebbero essere meno inquinanti e più facilmente riassorbibili nel ciclo della natura. Sebbene la loro efficienza non sia molto alta, potrebbero comunque contribuire ad abbassare le emissioni, evitare sprechi e gestire in maniera intelligente alcuni tipi di rifiuti.
Tuttavia non viviamo in un contesto in cui le risorse economiche sono nelle mani della collettività, che attraverso i suoi organismi democraticamente eletti pianifica un impiego efficiente di tutti gli strumenti a disposizione verso un determinato obiettivo. Siamo nel capitalismo, i mezzi di produzione sono nelle mani dei privati e i biocarburanti sono una merce come un’altra: più ne vendi e più fai profitti; più allarghi la produzione, più puoi essere competitivo sui mercati.
E quindi quello che accade è che non ci si limita ad utilizzare gli scarti dell’agricoltura, ma grandi estensioni di terre agricole vengono destinate per coltivazioni ad hoc, riservate esclusivamente alla produzione di biocombustibili. Ad esempio, secondo una ricerca dell’università di Princeton, negli USA ben un terzo della produzione di soia e mais (per un totale di più di 50 milioni di acri di terre agricole) è impiegato per realizzare biodiesel ed etanolo.
Quello che è ancora più grave è che le coltivazioni per i biocarburanti sono tra le principali responsabili della deforestazione a livello mondiale. Foreste naturali, in grado di assorbire naturalmente l’anidride carbonica nell’atmosfera, vengono abbattute per lasciar posto a piantagioni da olio di palma e olio di soia, che servono per fare il biodiesel. In Brasile prosegue il disboscamento della Foresta Amazzonica per aumentare le terre coltivate a canna da zucchero, che non è utilizzata solo nell’industria alimentare, ma viene anche fatta fermentare per produrre l’etanolo.
In termini di gas serra, i danni provocati dalla deforestazione superano di gran lunga tutti i possibili benefici dei biocombustili, che dunque rischiano di avere un saldo di emissioni addirittura peggiore rispetto a quello dei combustibili fossili.

 

La cattura e lo stoccaggio di Co2

Passiamo ora ad affrontare il tema della cattura e dello stoccaggio della Co2, il CCS (Carbon Capture and Storage). Si tratta di una serie di tecniche attraverso le quali rimuovere l’anidride carbonica o direttamente dall’atmosfera o presso gli stabilimenti industriali dove è presente in forma concentrata, per poi immagazzinarla nel sottosuolo.
Questa tecnologia risponde ad una necessità reale, perché anche nella migliore delle ipotesi la transizione ecologica richiederà un certo lasso di tempo e non sarà possibile eliminare dall’oggi al domani tutte le fonti di energia fossile. Sarebbe inoltre molto utile non solo diminuire le emissioni di anidride carbonica, ma anche rimuovere dall’atmosfera quella che è già stata prodotta.
La soluzione di ficcare la Co2 sottoterra non è esattamente geniale, anche perché può comportare diversi effetti collaterali: inquinamento delle falde acquifere, sismicità indotta, fuoriuscite di Co2, ecc. Esistono però le possibilità tecnico-scientifiche anche per riutilizzare la Co2 catturata, trasformandola in una materia prima con la quale realizzare carburanti sintetici non inquinanti, polimeri chimici e calcestruzzo a bassa impronta di carbonio, ecc.
Tutto questo è potenzialmente molto interessante e può aprire prospettive di ampia portata, ma presenta anche parecchie difficoltà. Innanzitutto ad oggi il CCS non è ancora una realtà effettiva. Esistono solo una serie di “impianti pilota” sparsi per il mondo, che operano su scala assai ridotta e sono afflitti da difficoltà tecnologiche, costi troppo elevati e risultati non ancora soddisfacenti. Il problema principale è però legato ai consumi energetici: tutte le diverse tecniche di cattura e riutilizzo dell’anidride carbonica richiedono infatti una grande quantità di energia e, se questa energia viene fornita da fonti non rinnovabili, la Co2 emessa nel processo rischia di essere superiore a quella che viene catturata. è dunque evidente che la priorità deve essere quella di potenziare il fotovoltaico, l’eolico, ecc., perché senza questo presupposto non è nemmeno il caso di parlare di CCS.
Ciò nonostante, stiamo attualmente assistendo allo stanziamento di enormi investimenti pubblici e privati nel CCS e la ragione è presto detta. Il CCS rappresenta l’alibi perfetto per consentire alle multinazionali del settore energetico di continuare ad estrarre e vendere gas e petrolio anche nell’era della “rivoluzione green” – perché tanto le emissioni di Co2 verranno catturate… prima o poi.
C’è un esempio concreto che vale più di mille parole per comprendere le reali dinamiche del CCS. Nel 2017 in Texas era entrato in funzione lo stabilimento di Petra Nova, uno dei più grandi impianti al mondo di CCS al servizio di una centrale a carbone. Costato circa un miliardo di dollari, era alimentato a gas, catturava solo una piccola parte delle emissioni della centrale a carbone e l’anidride carbonica catturata veniva successivamente iniettata in un giacimento di petrolio per favorire l’estrazione di greggio. Quest’obbrobrio è poi dovuto chiudere nel 2020, perché i guadagni realizzati con il petrolio non coprivano più la spesa della cattura di Co2.
La grottesca vicenda di Petra Nova è estremamente esemplificativa di quello che accade quando la gestione dell’emergenza climatica viene lasciata nelle mani dei grandi gruppi capitalisti.

L’idrogeno

L’idrogeno viene presentato come la panacea a tutti i problemi ambientali, come l’energia pulita del futuro. E qui è subito necessario fare una precisazione. L’idrogeno viene già attualmente prodotto in quantità importanti dall’industria del petrolio e del gas: ad esempio è ampiamente impiegato nei fertilizzanti per l’agricoltura. L’idrogeno attualmente in circolazione è però tutt’altro che “eco-sostenibile”, dal momento che viene ricavato dal metano (il cosiddetto “idrogeno grigio”) e per produrlo viene emessa una grande quantità di Co2.
Esiste però un modo per produrre idrogeno ad impatto zero: si tratta dell’idrogeno verde, ricavato dall’acqua attraverso un processo di elettrolisi alimentato da energia proveniente da fonti rinnovabili. La quantità di idrogeno verde che oggi viene prodotta è assolutamente irrisoria, ma in prospettiva potrebbe sicuramente contribuire alla transizione ecologica, per quanto non in maniera indiscriminata. Per esempio non ha senso usarlo nel “trasporto leggero”, dove le auto elettriche sono più efficienti, né per il riscaldamento delle abitazioni, dove le pompe di calore geotermiche funzionano meglio.
L’idrogeno verde potrebbe invece rivelarsi prezioso in alcune attività mirate, dove non esistono alternative migliori: potrebbe innanzitutto essere utilizzato per sostituire l’idrogeno grigio impiegato per produrre i fertilizzanti; per sostituire le fonti fossili nell’industria siderurgica e petrolchimica; e forse anche nel trasporto marittimo e aereo.
Qualsiasi ragionamento in tal senso è però subordinato ad un massiccio potenziamento delle fonti di energia rinnovabili (solare, eolico, ecc.), in modo da poter ottenere un surplus di energia pulita per alimentare l’elettrolisi dell’acqua.
Questo sarebbe un modo razionale per affrontare seriamente la questione dell’idrogeno. E invece la direzione verso cui si sta andando è completamente diversa. Le grandi multinazionali dell’energia stanno spingendo verso il cosiddetto “idrogeno blu”, che viene sempre prodotto a partire da idrocarburi, ma le cui emissione di Co2 dovrebbero essere catturate e stoccate.
Come però abbiamo visto, i sistemi di CCS sono ancora solo in una fase di progetto e sperimentazione, ancora tutta da verificare. Di conseguenza, mentre ci vengono decantate le future proprietà miracolose dell’idrogeno verde e dello stoccaggio di Co2, quello che nel frattempo ci rimane per le mani è in buona sostanza il vecchio idrogeno grigio fatto dal metano.
Anche in questo caso l’aspetto decisivo è quello della proprietà dei mezzi di produzione. Chi ha le risorse e le infrastrutture necessarie a produrre e trasportare l’idrogeno? Le grandi compagnie del petrolio e del gas, che quindi gestiscono tutta la partita dell’idrogeno in base ai propri interessi. E così una leva potenziale, per quanto limitata, nel processo di decarbonizzazione, si trasforma nel suo opposto, in un paravento ecologico dietro al quale continuare a far prosperare l’industria fossile.
Il gioco è fin troppo facile. Qualsiasi investimento in gasdotti può essere comodamente giustificato: oggi ci trasportiamo il gas naturale, ma domani ci trasporteremo l’idrogeno verde… Con un colpo di bacchetta magica, tutta la rete di infrastrutture del gas fossile si trasforma nella spina dorsale della “economia all’idrogeno”. Basta promettere di arrivare ad immettere nelle tubature un 20% di idrogeno (da qui al 2050…), per continuare a vendere comodamente il restante 80% di gas naturale…

Il mercato europeo della Co2
Un capitolo a parte merita un rimedio non di natura tecnologica, bensì economica: il mercato europeo delle emissioni (Emission Trading Scheme, ETS), considerato dalla UE una delle chiavi fondamentali per raggiungere la neutralità carbonica. In verità esistono diversi mercati della Co2 a livello mondiale, ma quello europeo esiste da più tempo ed è considerato quello meglio avviato.
L’ETS funziona sostanzialmente in questo modo: viene stabilito un tetto massimo di emissioni consentite agli stabilimenti produttivi, che ogni anno si riduce progressivamente; vengono poi distribuite autorizzazioni ad emettere Co2 entro i limiti di quel tetto, in parte gratuitamente (per esempio al settore manifatturiero e a quello del trasporto aereo) e in parte vendendole all’asta; queste autorizzazioni possono poi essere liberamente vendute e comprate.
L’intero meccanismo presuppone che le emissioni dichiarate sulla carta corrispondano a quelle reali, un presupposto tutt’altro che garantito in partenza. Ma anche a prescindere da questo, commercializzare il diritto ad inquinare non sembra a prima vista un’idea vincente per limitare i gas serra. Eppure per i fautori del libero mercato l’ETS era un modo per rendere più costose le emissioni e incentivare gli investimenti in tecnologie green: le aziende inquinanti avrebbero dovuto svenarsi per comprare le autorizzazioni, mentre le imprese virtuose che ammodernavano i propri impianti, avrebbero potuto fare business vendendo le loro quote di Co2 inutilizzate.
L’andamento reale del mercato della Co2 ha però del tutto contraddetto queste aspettative. Lanciato nel 2005, l’ETS non è mai decollato, soprattutto a causa dei prezzi troppo bassi dell’anidride carbonica, per lunghi anni stabilmente sotto i 10 euro la tonnellata. La causa dei prezzi bassi era dovuta all’eccesso di offerta: semplicemente sul mercato erano presenti troppe autorizzazioni, soprattutto di quelle gratuite. I produttori di acciaio, ad esempio, ne ricevevano così tante da poterle rivendere. In certi anni sul mercato erano presenti più quote delle emissioni effettive!
Solo negli ultimi tempi abbiamo assistito ad un’impennata dei prezzi della Co2, che sono schizzati a oltre 60 euro la tonnellata. Questo non è tanto dovuto al fatto che l’ETS ha finalmente iniziato ad ingranare o che sono stati introdotti una serie di meccanismi per ridurre le quote sul mercato, ma al fatto che nel 2018 è stata introdotta una normativa europea che equipara i permessi di emissione ai titoli mobiliari, il che li rende scambiabili non solo tra le aziende sottoposte a ETS, ma anche tra banche, fondi di investimenti, hedge funds, ecc. E sono soprattutto questi ultimi che oggi stanno acquistando le autorizzazioni, considerate un investimento sicuro il cui valore è destinato a crescere, visti i massicci investimenti di denaro pubblico della UE in “politiche green”.
Stiamo quindi assistendo in tutto e per tutto ad una speculazione finanziaria sulla Co2, che niente ha a che vedere con l’obiettivo di abbattere le emissioni inquinanti. Senza contare che, come l’esperienza ci insegna, le bolle finanziarie possono scoppiare con conseguenze disastrose.
E’ degno di nota che l’ETS sia nato con lo scopo di “arruolare” i meccanismi del mercato nella lotta al riscaldamento globale e che invece sia accaduto l’esatto contrario: sono i mercati che hanno “arruolato” le tematiche ambientali nei loro giochi d’azzardo finanziari.

Le compensazioni
Oltre ai mercati della Co2, esiste un altro sistema per ottenere “crediti di carbonio”, che permette di acquisire “diritti ad inquinare” in cambio di progetti con un – presunto – impatto positivo sull’ambiente: riforestazione, agricoltura rigenerativa, pulizia degli oceani, ecc.
Il tema delle compensazioni ecologiche è certamente serio. Non tutte le attività umane possono essere impatto a zero, almeno per il momento, e proprio per questo motivo è fondamentale accompagnare al prioritario sviluppo delle fonti di energia rinnovabili, anche delle attività volte a compensare alcuni squilibri inevitabili. Senza contare che, anche in un contesto di emissioni zero, sarebbe necessario riassorbire almeno una parte di gas serra precedentemente immessi nell’atmosfera.
Dunque in un ambito di pianificazione cosciente delle attività economiche verso un’autentica transizione ecologica, le compensazioni potrebbero svolgere una parte significativa. Purtroppo però non siamo in una situazione di economia pianificata, ma di economia di mercato, in cui sono gli interessi delle grandi compagnie a dettare le priorità. E così le compensazioni si riducono a poco più di un trucco, grazie al quale le multinazionali del fossile da una parte possono annunciare grandiosi obiettivi di abbattimento delle emissioni e dall’altra continuare ad aprire nuovi giacimenti di gas e petrolio.
Ad esempio Eni investirà 200 milioni in riforestazione entro il 2025, ma allo stesso tempo ha stanziato 25 miliardi per l’estrazione di gas e petrolio. Total progetta di creare una foresta di 40.000 ettari in Congo, ma intanto prevede di aumentare la sua produzione di combustibili fossili del 15% da qui al 2030.
A questo si aggiunga che molte associazioni ambientaliste stanno contestando gli effettivi benefici dei progetti di compensazione di queste aziende. In alcuni casi è addirittura emerso che sono stati abbattuti alberi più antichi e rari, per piantare al loro posto specie non autoctone a crescita rapida, con conseguenze negative sull’equilibrio dell’ecosistema: anche quando piantano alberi, i capitalisti riescono a far danni all’ambiente.

L’energia nucleare

Tra le risposte al problema del riscaldamento globale troviamo anche l’energia atomica, da alcuni proposta come un’alternativa all’energia ricavata da fonti fossili. Sotto questo aspetto è importante prima di tutto distinguere tra la fissione nucleare e la fusione nucleare. Tutte le centrali atomiche esistenti sono a fissione e, se è vero che non producono emissioni di Co2, è altrettanto vero che comportano rischi elevati e il problema delle scorie radioattive. Si pensi all’incidente della centrale di Fukushima del 2011, del quale si stanno ancora pagando le conseguenze a dieci anni di distanza.
Diverso è il discorso per la fusione nucleare, una tecnologia ancora in via di sviluppo, potenzialmente in grado di liberare enormi quantità di energia pulita, senza impiegare materiali radioattivi e senza produrre scorie. Proprio per queste sue caratteristiche la fusione nucleare potrebbe essere la madre di tutte soluzioni al problema delle emissioni di gas serra. La scelta più razionale dovrebbe quindi essere quella di abbandonare le vecchie centrali a fissione, per concentrare tutte le risorse nella ricerca sulla fusione. Quello che sta accadendo è invece esattamente l’opposto.
Sebbene alcuni paesi, come Francia e Germania, stiano progressivamente chiudendo una serie di reattori, nel resto del mondo – in particolare in Cina e in India, ma non solo – sono attualmente in costruzione più di una cinquantina di nuovi impianti nucleari. Allo stesso tempo la ricerca sulla fusione procede a passo di lumaca, a causa della mancanza di fondi sufficienti.
La tecnologia necessaria per ottenere la reazione di fusione è senza dubbio complessa. Si tratta di riprodurre artificialmente le condizioni che si trovano all’interno del sole, dove la fusione avviene naturalmente. Per avviare il processo sono necessarie temperature elevatissime per portare i gas allo stato di plasma, il quale deve poi essere contenuto attraverso campi magnetici a fortissima intensità. Attualmente esistono solo impianti a scopo di ricerca e studio, che riescono ad innescare una reazione di fusione nucleare solo per tempi molto ridotti. Ad oggi il record è stato raggiunto in Cina, dove la temperatura del plasma è stata mantenuta per 101 secondi a 120 milioni di gradi. Per il momento non è ancora possibile produrre energia tramite una reazione di fusione controllata, ma soprattutto produrre più energia di quanta ne serva per innescare la fusione stessa. Anche le stime più ottimiste parlano di trent’anni prima che questa tecnologia possa superare la fase di sperimentazione e diventare una realtà.
Per quanto la ricerca in questo campo presenti notevoli difficoltà tecniche e costi altissimi, raggiungere il traguardo della fusione rappresenterebbe un passo importante per l’umanità. Qua si pone il problema di come funziona la ricerca scientifica nel nostro sistema: chi decide quale ricerche finanziare prioritariamente? Ad esempio negli scorsi anni sono stati investiti un sacco di soldi per sviluppare la ricerca sul fracking, una tecnica di estrazione degli idrocarburi con un impatto ancora più pesante sull’ambiente. La differenza è che il fracking garantiva un immediato ritorno in termini di profitti per l’industria petrolifera, mentre i margini di monetizzazione della fusione nucleare appaiono ancora lontani e incerti.

Le auto elettriche
Prima ancora di iniziare a parlare delle auto elettriche, è doverosa una premessa: per realizzare una vera transizione ecologica, è necessario rafforzare considerevolmente il trasporto pubblico, rispetto ai mezzi di trasporto individuali come le auto. I mezzi pubblici non devono più essere una punizione inflitta soprattutto ai lavoratori, che per andare sul posto di lavoro devono subire ritardi, sovraffollamento e squallore. Bisogna quindi investire ingenti risorse per costruire una rete di trasporto pubblico efficiente, gratuita, di qualità, dotata di mezzi elettrici e tecnologicamente avanzata, che renda più pratico, conveniente, comodo e – perché no? – più piacevole prendere i mezzi pubblici rispetto ad un’auto.
Ciò detto, non sarà comunque possibile eliminare in un colpo solo tutte le autovetture. In una fase transitoria molte persone avranno ancora bisogno di un veicolo individuale per i propri spostamenti, per le proprie esigenze. Sotto questo aspetto, l’auto elettrica offre sicuramente la miglior soluzione, in termini di sostenibilità, efficienza e prestazioni. Tuttavia non possono essere nascoste alcune complicazioni.
In primo luogo, anche se un’autovettura elettrica è a zero emissioni, le sue batterie devono essere ricaricate e tutto dipende dalla fonte di energia con cui vengono ricaricate. In un paese la cui rete elettrica dipende ancora in larga parte dalle fonti fossili, i benefici ecologici dei veicoli elettrici sono notevolmente ridimensionati. Da questo deriva che l’aspetto decisivo è ancora una volta quello di avere una disponibilità molto maggiore di energia rinnovabile.
In secondo luogo, per quanto il prodotto venduto sia diverso (auto elettrica e non auto a benzina/diesel), i processi e i modelli produttivi capitalisti rimangono gli stessi e così si ripropongono una serie di vecchie pratiche dannose per l’ambiente.
Per esempio la costruzione di una batteria per una vettura elettrica richiede l’impiego di diversi minerali come il litio, il cobalto e il rame. L’80% delle riserve mondiali di litio si trovano in Cile, Argentina e Bolivia. Qui il litio viene ricavato da depositi sotterranei di acqua salmastra e per ogni tonnellata estratta vengono consumati 2 milioni di litri d’acqua. L’estrazione del litio produce quindi fenomeni di desertificazione, prosciugamento di falde acquifere e siccità; danneggia inoltre zone umide in grado di catturare “naturalmente” la Co2.
Il 60% della produzione mondiale di cobalto, invece, viene dal Congo, dove nelle miniere i lavoratori, molto spesso dei bambini ridotti in schiavitù, sono esposti a polveri nocive. Anche l’industria estrattiva del rame comporta non pochi problemi di impatto ambientale.
Inoltre estrarre, trasportare e raffinare questi materiali richiede quantità significative di energia. Se questa proviene da fonti fossili, le emissioni di gas serra potrebbero essere così elevate da ridurre i margini di beneficio derivanti dai veicoli elettrici. Un problema non da poco, visto che il 60% delle batterie per auto elettriche è prodotto in Cina, dove il 56% dell’energia elettrica è ancora fornita dal carbone.
In base ad un rapporto Polestar (la società del gruppo Volvo che vende i veicoli elettrici), per produrre una batteria elettrica vengono emesse svariate tonnellate di Co2, una quantità molto più alta rispetto a quella necessaria per produrre la batteria di un’auto a motore termico. Un’auto elettrica deve quindi percorrere parecchie decine di migliaia di chilometri per “smaltire” la maggior impronta di carbonio delle sue batterie e iniziare ad avere un effetto benefico sull’ambiente rispetto ad un veicolo a benzina di ultima generazione. Questo vale anche in paesi, come quelli europei, in cui il mix energetico per ricaricare le batterie vede una maggior partecipazione delle fonti rinnovabili. Se invece parliamo di paesi in cui l’energia è prodotta soprattutto da fonti fossili, allora un’auto elettrica potrebbe non raggiungere mai un saldo positivo in termini di emissioni nell’intero suo ciclo di vita.
In questo modo il problema ambientale dell’alimentazione delle auto esce dalla porta, ma rientra dalla finestra, ripresentandosi nelle fasi di estrazione e lavorazione delle materie prime. Per impedirlo sarebbe necessaria una visione d’insieme, per impostare su criteri di sostenibilità ambientale tutti i diversi stadi della filiera di produzione dell’auto elettrica, dal reperimento delle materie prime fino al riciclo delle batterie a fine vita. Ma questo non può essere ottenuto in base allo “stimolo del profitto”: gestire le risorse naturali disponibili in maniera più rispettosa dell’ambiente farebbe infatti aumentare i costi di produzione e ridurre i margini di profitto sulla vendita di auto elettriche.

Le fonti rinnovabili
Il solare, l’idroelettrico, l’eolico e le pompe di calore geotermiche sono senz’ombra di dubbio la via maestra della transizione ecologica. Non solo sono fonti pulite, che non producono emissioni, ma sono una realtà consolidata, una tecnologia sperimentata, che funziona: nel 2020 nell’Unione Europea l’energia prodotta da fonti rinnovabili ha per la prima volta superato quella prodotta da fonti fossili. Peraltro, come abbiamo visto, le rinnovabili rappresentano il presupposto sul quale sviluppare tutte le altre tecnologie, dal riutilizzo della Co2, all’idrogeno verde, fino alla macchina elettrica.
è in corso un vero e proprio boom delle rinnovabili: gli investimenti fioccano, il mercato si espande, i profitti lievitano. Sembra che almeno in questo ambito le ricette di mercato funzionino, ma non è così. Analogamente a quanto accade con le auto elettriche, le insidie riguardano le materie prime e la filiera produttiva.
Anche la produzione delle rinnovabili richiede diversi minerali, come il polisilicio, con cui sono fatte le celle fotovoltaiche, e le “terre rare”, utilizzate ad esempio per realizzare le turbine delle pale eoliche (oltre ad avere numerose applicazioni nelle tecnologie digitali). Il processo di estrazione del polisilicio richiede l’utilizzo di fornaci ad altissime temperature e il 40% dei costi operativi è costituito dall’energia. Il 95% dei pannelli solari sul mercato sono realizzati con polisilicio proveniente dalla regione dello Xinjiang, in Cina, dove l’energia necessaria viene prodotta con economiche – ed estremamente inquinanti – centrali a carbone.
Anche l’estrazione di terre rare non è uno scherzo. Bisogna impiegare molto calore, numerosi cicli di lavorazione e tante sostanze acide. Gli effetti collaterali possono essere parecchi: acqua radioattiva, gas di scarico tossici e altri rifiuti davvero pericolosi. La Cina ha conquistato una posizione egemonica anche sul mercato delle terre rare – controlla il 60% della produzione e i quattro quinti della raffinazione – perché, facendo ricorso all’energia fossile a buon mercato e infischiandosene dei danni all’ambiente, è stata in grado di offrire prezzi imbattibili. Per abbattere ulteriormente le spese, negli ultimi anni la Cina ha anche sub-appaltato una parte della produzione di terre rare ad altri paesi asiatici ed africani, dove le possibilità di inquinare in libertà sono ancora più alte.
Questa situazione determina una gran quantità di contraddizioni che vanno a minare qualsiasi possibilità di portare a compimento la transizione ecologica. Il caso più clamoroso è proprio quello della Cina, che è il primo produttore al mondo di pannelli solari, ma allo stesso tempo continua ad accrescere il suo consumo di carbone e petrolio. Nel contesto di un’economia pianificata, la produzione di pannelli solari in Cina dovrebbe prioritariamente essere indirizzata a riformare il sistema energetico interno; i capitalisti cinesi, invece, producono pannelli solari per venderli soprattutto sui mercati esteri e il carbone torna buono per tenere bassi i costi di produzione.
D’altro canto l’Unione Europea può vantarsi fin che vuole di essere la più avanzata in termini di fonti rinnovabili, ma serve a poco se poi le forniture essenziali per le sue tecnologie green vengono importate a basso costo grazie al carbone che viene bruciato in Cina.

Di fatto non si fa altro che spostare le emissioni da un continente all’altro: se si brucia meno carbone europeo, ma si brucia più carbone cinese, il risultato finale in termini di emissioni globali non cambia.
A questo si aggiunga che l’aumento della domanda di minerali legati alle tecnologie delle fonti rinnovabili, in combinazione con altri fattori, sta contribuendo a un aumento esponenziale dei prezzi delle materie prime. Questo a sua volta potrebbe provocare – e in realtà sta già provocando – carenze nelle forniture e interruzioni nella produzione, con il rischio di far inceppare “sul più bello” lo sviluppo dell’economia green.
Questo pericolo è accresciuto dalle politiche protezioniste, che sono sempre più la norma nel contesto delle attuali guerre commerciali tra le diverse potenze. Se ogni paese pensa in primo luogo a far scorte per sé a scapito dei concorrenti, la carenza di materie prime può ulteriormente aggravarsi. Alcune misure protezioniste vengono poi presentate come misure ambientali. Ad esempio Biden ha vietato le importazioni di polisilicio cinese e sta tentando di costruire una filiera delle terre rare indipendente dalla Cina, coinvolgendo anche paesi come l’India e l’Australia. L’obiettivo di questa strategia non è tanto quello di estrarre i medesimi minerali con metodi meno inquinanti rispetto a quelli adottati in Cina, quanto quello di non dipendere da una potenza rivale per risorse considerate strategiche.
Politiche protezioniste di questo tipo non fanno altro che accrescere il conflitto e la competizione tra i diversi paesi, laddove sarebbe invece necessario coordinare gli sforzi, le politiche e le risorse di tutti i paesi per affrontare un problema globale come i cambiamenti climatici. Nessuna soluzione può essere trovata all’interno dei confini di una singola nazione, o di una singola coalizione di paesi. La frammentazione politica in tanti piccoli Stati, ognuno con la propria politica e con i propri interessi economici, rende impossibile mettere in campo quello sforzo congiunto a livello internazionale, senza il quale la transizione ecologica è destinata a restare un’utopia.

Il riciclo dei rifiuti
A quanto detto finora, bisognerebbe aggiungere tutti i problemi legati allo smaltimento dei rifiuti. Ad esempio, ad oggi, le batterie elettriche per auto esauste vengono riciclate in misura molto ridotta. Difficoltà analoghe ci sono con i pannelli solari a fine vita. La questione però va ben oltre le “tecnologie pulite” e riguarda il sistema del riciclo dei rifiuti nel suo complesso.
Particolarmente scottante è il problema dei rifiuti in plastica. Il petrolio è infatti utilizzato non solo come fonte di energia, ma anche come materia prima per realizzare prodotti in plastica. Se da una parte è vitale trovare valide alternative alla plastica per realizzare una serie di prodotti, dall’altra un sistema ben funzionante di riciclaggio può contribuire a ridurre la produzione complessiva di plastica.
Invece, secondo gli ultimi dati Ocse disponibili, a livello mondiale solo il 15% dei rifiuti in plastica viene effettivamente riciclato. I comportamenti individuali non c’entrano: anche molti dei rifiuti che vengono correttamente inseriti nella raccolta differenziata non vengono riciclati. Ancora una volta l’ostacolo è rappresentato dalle ferree regole del libero mercato. L’aspetto cruciale non è se un determinato rifiuto può tecnicamente essere riciclato o meno, ma se una compagnia di smaltimento rifiuti può riciclare quel determinato rifiuto traendone un profitto.
Ad esempio, con il prezzo del petrolio sotto una certa soglia (come è stato negli ultimi anni), per le compagnie petrolchimiche la plastica “vergine” prodotta dal petrolio è più conveniente e facile da ottenere rispetto ai materiali riciclati.
Molte aziende di smaltimento rifiuti, per mantenere i loro margini di guadagno, caricano i loro rifiuti in plastica su navi e li trasportano a migliaia di chilometri di distanza, in paesi dove possono essere smaltiti a buon mercato grazie al basso prezzo della manodopera e alle scarse tutele ambientali. In passato la destinazione preferita era rappresentata dalla Cina, che però nel 2018 ha deciso di restringere drasticamente le sue importazioni di rifiuti riciclabili. Prima del 2018, il 70% dei rifiuti in plastica riciclabili degli USA finiva in Cina. Dopo che Pechino ha chiuso i battenti, le aziende di riciclaggio si sono trasferite in altri paesi come Malesia, Bangladesh, Vietnam…
I rifiuti “esportati” in questi paesi solo in minima parte vengono effettivamente riciclati e per il resto finiscono o bruciati o sepolti sottoterra (con conseguenze drammatiche sull’ambiente e sulla popolazione locale). Una gestione folle e criminale di questo tipo non potrà essere superata finché il sistema dei rifiuti sarà controllato da privati.

Contraddizioni senza fine
Se guardiamo alle politiche ambientali dei vari paesi, sembra di trovarsi di fronte a veri e propri casi di schizofrenia. Citeremo qui solo qualche esempio. La Norvegia da una parte ha credenziali green impeccabili (ha introdotto la carbon tax ormai da trent’anni, concede incentivi statali per l’acquisto di auto elettriche, ecc.), dall’altra l’anno scorso ha avviato il gigantesco giacimento di petrolio Johan Sverdrup nel Mar del Nord, dal quale si punta ad estrarre 3 miliardi di barili di petrolio da qui al 2070. All’interno della “verde” Unione Europea, ci sono paesi come la Polonia, dove il carbone fornisce ancora il 70% dell’energia elettrica – e nel resto dell’Europa orientale la situazione non è molto migliore. Ma anche nella stessa Germania, dove la maggior parte dell’energia proviene da fonti rinnovabili, nel 2020 il governo ha autorizzato l’entrata in servizio di Datteln 4, una nuova super-centrale a carbone nel Nord Reno-Westfalia.
Questi paradossi si verificano perché esistono diversi settori di capitalisti che operano in rami diversi, ognuno con i propri interessi: c’è chi fa i soldi con le rinnovabili, chi con gli idrocarburi e chi con tutte e due. Ogni Stato si adopera per tutelare e sostenere questi diversi settori, non per perseguire l’obiettivo di un’effettiva di decarbonizzazione.
Da questo punto di vista possiamo comprendere meglio anche la politica portata avanti da Biden. è stato dato ampio risalto ad alcuni provvedimenti adottati dal nuovo presidente contro le lobby del petrolio (la moratoria di un anno sulle nuove estrazioni su terreni pubblici, un progetto di riduzione dei sussidi statali alle fonti fossili…). In realtà il suo obiettivo è soprattutto quello di orientare le compagnie energetiche americane verso le “nuove tecnologie”: lo stoccaggio di Co2 e l’idrogeno. Peccato che entrambe, come abbiamo visto, servano più a mantenere alti i ricavi dell’industria energetica, che a tenerne basse le emissioni.
Il segretario all’Energia Jennifer Granholm ha esortato l’industria petrolifera a “diversificare” per non diventare obsoleta e ha applaudito la Exxonmobil per aver varato un progetto da 100 miliardi di dollari per la cattura del carbonio. Le aziende del settore energetico più lungimiranti hanno raccolto l’esortazione del governo e stanno “diversificando” il loro portafoglio di investimenti. Ci limiteremo a citare un solo esempio. Enbridge, una delle più grandi compagnie americane di infrastrutture energetiche, ha stabilito un piano di 30 miliardi di investimenti nei prossimi anni: 16 miliardi nel trasporto e nello stoccaggio del gas; 7 miliardi in rinnovabili; altri 7 miliardi in oleodotti per il petrolio. Questa è in sintesi la “rivoluzione green” di Biden. Un piano di questo tipo magari servirà a poco per contrastare il cambiamento climatico, visto che il grosso del budget viene ancora destinato alle fonti fossili, ma certamente garantirà ottimi profitti agli azionisti di Enbridge negli anni a venire.

Per tutti questi motivi, nonostante tutta la retorica green, è un po’ presto per fare il funerale all’industria del petrolio. Ha indubbiamente passato un brutto momento con il tracollo dei prezzi nel 2020, a causa della pandemia e del lockdown, ma nei mesi successivi abbiamo assistito ad un rimbalzo. I prezzi sono tornati a salire, spinti anche dall’aumento della domanda nei paesi asiatici, e hanno raggiunto i livelli pre-covid. Sia i paesi dell’Opec che la Russia hanno recentemente aumentato la produzione giornaliera di barili. Addirittura la “verdissima” amministrazione Biden ha fatto pressione sui paesi dell’Opec perché aumentassero ancora di più la produzione di petrolio, allo scopo di tenere bassi i prezzi dei carburanti e contenere l’inflazione.
Non ci interessa qui fare una prospettiva sull’andamento del settore petrolifero, che subirà inevitabilmente delle oscillazioni, come è sempre stato. Quel che conta è che non si può affatto parlare di un’irreversibile parabola discendente del petrolio, determinata da una “scelta di campo” ecologica del mondo degli affari. Il che pone una seria ipoteca sulle possibilità future di contenere le emissioni di gas serra nell’atmosfera.

Una prospettiva socialista
Tirando le somme, per risolvere il problema dei cambiamenti climatici non è sufficiente introdurre nuove tecnologie verdi, ma è necessario mettere completamente in discussione tutti i meccanismi di funzionamento del sistema capitalista. In poche parole non basta una “rivoluzione green”, ma ci vuole una rivoluzione socialista.
Bisogna in primo luogo espropriare tutte le principali leve dell’economia – settore estrattivo, infrastrutture energetiche, industria, trasporti – per togliere dalle mani dei grandi gruppi capitalisti, che le hanno controllate fino ad oggi e sono responsabili del disastro ambientale in cui ci troviamo. è essenziale avviare una pianificazione delle attività economiche principali, in modo da gestire in maniera coordinata e armonica le risorse disponibili e utilizzare in modo appropriato le nuove tecnologie ecologiche, affinché possano esprimere appieno il loro potenziale di salvaguardia dell’ambiente.
In questa trasformazione radicale, il ruolo decisivo può essere svolto solo dalla classe lavoratrice, che fa funzionare concretamente tutti i rami della produzione. L’economia pianificata deve quindi basarsi sul controllo dei lavoratori, che sono gli unici a possedere le competenze tecniche e a trovarsi nella posizione idonea per riorganizzare da capo a piedi i processi industriali, sulla base di nuovi criteri di compatibilità con le esigenze ambientali.
è altresì necessario superare gli angusti confini nazionali e unire progressivamente tutti i paesi in un’unica federazione socialista mondiale, che finalmente possa unificare la politica, l’economia e la ricerca scientifica dei singoli Stati verso l’obiettivo comune di fermare il riscaldamento globale.
Si tratta di un cammino straordinariamente complesso, ma altrettanto necessario. Non ci sono scorciatoie. Solo nel contesto di una società socialista, basata sulla pianificazione democratica sotto il controllo della classe lavoratrice, sarà possibile per l’umanità lasciarsi alle spalle l’incubo delle catastrofi ambientali e costruire un sistema economico in grado di sviluppare un rapporto equilibrato e armonioso con la natura e con l’ambiente in cui tutti viviamo.

 

settembre 2021

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