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Italia 1970-80: l’illusione terroristica

Ripubblichiamo un articolo scritto in occasione del ventennale dell’uccisione di Aldo Moro e che ha il merito di sviluppare i punti fondamentali della nostra analisi sulla stagione della cosiddetta “lotta armata” negli anni settanta.

 

di Claudio Bellotti 

 

La memoria di noi non è morta. Non è neanche conservata. È esorcizzata, allontanata, deformata. Non si finisce mai con il processo Moro, tutti sanno tutto e tutti continuano a elucubrare, a non vedere quel che è semplice. Tragico e semplice.” (Mario Moretti).

Il 9 maggio ricorre il ventennale dell’uccisione di Aldo Moro per opera delle Brigate rosse. Questo anniversario ha fornito una volta di più lo spunto per riempire pagine di giornali e ore di trasmissioni televisive con rievocazioni grottesche della storia del terrorismo in Italia. Il tema ricorrente è sempre lo stesso: le Br erano manovrate dai servizi segreti, erano dei folli al servizio di non si sa chi. Ogni allusione, ogni sospetto, dalla P2 al Kgb trova posto in questo coro scomposto. Un commentatore ha scritto sul Corriere della Sera che prima di discutere un’ipotesi di amnistia per i terroristi degli anni ’70 questi devono dire “chi stanno coprendo”.

La generazione di chi scrive non ha vissuto gli anni del terrorismo. Eravamo bambini quando Moro venne ucciso, e quando abbiamo cominciato a fare politica il terrorismo non era ormai che un’ombra. Eppure nessuno ci ha fornito una chiave per comprendere quegli avvenimenti. Certo non ce l’hanno fornita i giornalisti di cui accennavamo al principio. Ma, d’accordo in questo con Moretti, dobbiamo dire che anche nella sinistra, anche nel Prc, la memoria di quegli avvenimenti è in larga parte “deformata e esorcizzata”.

In primo luogo vogliamo porci una domanda: è credibile che le Br, Prima linea, i Nap e le altre decine di organizzazioni minori non fossero altro che strumenti di non meglio precisati servizi segreti? Si può considerare questo come un punto di partenza per capire il ruolo della cosiddetta lotta armata all’interno degli anni ’70? Noi crediamo di no. Le statistiche ci parlano di circa 7mila persone imputate per reati legati alla lotta armata; altre migliaia, pur senza aderirvi direttamente, ne furono simpatizzanti. Nessun servizio segreto può creare a proprio piacimento un movimento di migliaia di persone disposte a rischiare il carcere, o addirittura la vita.

È vero che per la propria natura delle organizzazioni terroristiche, in determinati momenti queste possono essere strumentalizzate. Ma questa osservazione non ci porta molto lontano. In tutto il mondo, da sempre, i vari servizi segreti hanno infliltrato non solo le organizzazioni terroristiche, ma anche i gruppi rivoluzionari non clandestini, e anche i partiti di massa, compresi quelli riformisti. Il partito bolscevico ebbe il caso famoso di Malinovskij, agente della polizia zarista, che riuscì a entrare nel Comitato centrale e nel gruppo parlamentare, prima di essere scoperto. Sempre in Russia, all’inizio del secolo, il partito socialrivoluzionario, che allora praticava il terrorismo su ampia scala, mise al vertice della propria “organizzazione di combattimento” un agente della polizia segreta infiltrato, Evno Azev. Nessuno può sostenere, in base a questi fatti storici, che la rivoluzione russa si può comprendere analizzando la volontà dei servizi segreti zaristi.

Lasciamo quindi da parte lo spionaggio, e tentiamo di capire cosa fu realmente il terrorismo negli anni ’70.

Le origini delle Br

A parte le formazioni minori, vi furono in Italia tre gruppi terroristi importanti: le Brigate rosse, Prima linea (Pl) e i Nuclei armati proletari (Nap). Di questi furono le Br il più importante, e soprattutto quello che pretendeva di aderire più strettamente alle tradizioni del movimento operaio e del marxismo.

Nelle Br delle origini confluirono sostanzialmente tre filoni. In primo luogo studenti radicalizzati dalla contestazione del ’68, spesso con formazione cattolica: Curcio, Mara Cagol, Giorgio Semeria, ecc. In secondo luogo vi fu un afflusso di militanti fuoriusciti dal Pci come Gallinari e Franceschini, che negli anni ’60 era stato dirigente della commissione fabbriche della Fgci di Reggio Emilia. A questi si aggiunsero lavoratori entrati nella lotta sindacale con l’autunno caldo del ’69, particolarmente fra coloro che avevano aderito alle strutture di base esterne al sindacato confederale, come i Cub (comitati unitari di base) o il movimento dei tecnici della Sit Siemens, da cui proveniva Mario Moretti.

Gli anni della formazione delle Br sono il 1970-72, anni nei quali si mettono le basi teoriche e politiche del terrorismo, durante i quali i brigatisti continuano a mantenere una attività politica semilegale. Questa prima fase termina nel 1972 con la scoperta della base di via Boiardo a Milano, e il passaggio alla clandestinità completa.

Con poche eccezioni, quindi, i fondatori delle Br sono giovani da poco arrivati alla militanza politica, che cercano la strada per formare un movimento rivoluzionario che superi a sinistra la politica riformista dei dirigenti del Pci. Come tutta la generazione del ’68, i fondatori delle Br trovarono sbarrata la strada verso una comprensione profonda della storia del movimento operaio internazionale e italiano. L’ostacolo principale alla loro formazione era costituito dalla tradizione stalinista che dominava completamente il Pci e in generale la sinistra, compresi i gruppi extraparlamentari più importanti (Lotta continua, Avanguardia operaia, ecc.) che si basavano tutti sulla tradizione del maoismo vedendo in questo un’alternativa all’Urss e alla politica sempre più moderata dei dirigenti del Pci.

I nostri punti di riferimento sono il marxismo-leninismo, la rivoluzione culturale cinese e l’esperienza in atto dei movimento guerriglieri metropolitani; in una parola la tradizione scientifica del movimento operaio e rivoluzionario internazionale” (Risoluzione del settembre 1971)1

Balza all’occhio come i brigatisti non prendessero in considerazione il punto più alto della “tradizione scientifica del movimento operaio“, e cioè la rivoluzione russa. Le lezioni dell’ottobre del ’17, dei primi anni dell’Internazionale comunista, della storia del partito bolscevico, come pure i punti decisivi della storia del movimento operaio italiano (biennio rosso, fondazione del Pci) restarono un libro chiuso per tutta la sinistra “rivoluzionaria” degli anni ’70, compresi i gruppi terroristi.

Guerriglia urbana

Quello che si ebbe invece fu un tentativo di trasferire la lotta di guerriglia, che pareva avesse aperto una nuova strada per la presa del potere dopo la rivoluzione cubana del 1959, all’interno del movimento operaio. “La strategia insurrezionalista di derivazione terzinternazionalista esce dalla storia e fa il suo ingresso la guerriglia, la guerra di classe di lunga durata” (Risoluzione del 1978) 2

Storicamente la guerriglia si è sempre radicata in un ambiente contadino. Infatti solo nelle campagne è possibile portare avanti la strategia di liberare alcune zone e farne delle basi dalle quali un esercito guerrigliero possa alimentarsi sia per il reclutamento che da un punto di vista economico per un lungo periodo e fare fronte a tutte le fasi necessarie di avanzate e ritirate, ecc. L’idea che si potesse trapiantare la guerriglia nella classe operaia, e quindi nelle città, si rivelò una illusione disastrosa non solo per le Br, ma anche per tutti i movimenti rivoluzionari che in Europa e in America latina (Argentina, Messico, Cile, Brasile, ecc.) seguirono la stessa strada col risultato di mandare al massacro i loro militanti più coraggiosi in uno scontro perso in partenza con l’apparato repressivo dello stato.

In nessun paese capitalista avanzato è pensabile la creazione di “isole” rivoluzionarie simili a quelle che la guerriglia può, a certe condizioni, creare nelle campagne. Non è un caso che in duecento anni di storia del movimento operaio organizzato la guerriglia non abbia mai trovato posto in tutte le forme di lotta che la classe operaia ha adottato. L’accumularsi di forze da parte del movimento operaio si esprime non nella “liberazione” impossibile di un territorio, ma nella crescita delle sue organizzazioni sindacali e politiche, nelle conquiste salariali e democratiche strappate alla borghesia in due secoli di lotte e nell’accumularsi dell’esperienza politica e teorica.

Questo processo ormai secolare di costruzione del movimento operaio è stato più volte distorto da parte dei riformisti (inclusi i dirigenti del Pci nel dopoguerra), che tentavano di dipingere uno scenario di una graduale, lenta e ininterrotta espansione della democrazia e dei diritti sociali che avrebbe portato infine a superare il capitalismo.

La risposta delle Br a questo fu di considerare a priori la clandestinità e l’uso delle armi come l’unica garanzia di avere una politica effettivamente rivoluzionaria. “A sinistra del Pci” , era lo slogan,”si sta solo con le armi“.

“Propaganda armata”

Nei primi anni le Br si limitarono in pratica ad azioni piuttosto modeste: incendi delle automobili di qualche caporeparto, o di qualche fascista di quartiere, sabotaggi, qualche rapina di autofinanziamento, ecc. La realtà è che dietro alle grandi dichiarazioni sulla “costruzione del contropotere proletario armato” vi era ben poco. Le azioni più clamorose furono alcuni sequestri dimostrativi di dirigenti di fabbrica (vedi la cronologia in queste pagine), conclusi in modo incruento dopo poche ore. Anche l’azione più clamorosa, il sequestro del giudice Sossi, venne condotta chiaramente con l’intento (poi raggiunto) di non arrivare allo spargimento di sangue. Con queste azioni le Br riuscirono a reclutare militanti in molte fabbriche importanti di Milano, Torino, del Veneto, ecc. Eppure, nonostante le indubbie simpatie di cui godevano fra gli operai in questa fase, queste azioni non ebbero in definitiva alcun peso nel decidere l’esito delle lotte sindacali di quel periodo.

Le azioni del terrorismo di questo primo periodo si possono in sostanza ricondurre a due matrici, intrecciate fra loro. In primo luogo, la cosiddetta propaganda armata. Sequestrare un dirigente industriale, o un fascista (come nel caso Labate), interrogarlo, denunciarlo per le sue malefatte e lasciarlo andare. In secondo luogo il “sindacalismo armato”, cioè il tentativo di dare forza aggiuntiva alle lotte sindacali attraverso le azioni armate, alle origini puramente dimostrative, in seguito anche con ferimenti e uccisioni. In entrambi i casi è evidente l’illusione di sostituirsi alle masse, di mettere la propria volontà e la propria impazienza al di sopra della lotta di classe.

Il “pericolo golpista”

Come tutti i gruppi dell’estrema sinistra, le Br considerarono più volte la possibilità che in Italia si arrivasse a un colpo di stato militare e a una dittatura. Si trattava più che di un’analisi politica, di un tentativo di ricollegarsi alla tradizione partigiana, presentando un’analogia superficiale fra il presunto pericolo di un ritorno del fascismo (nel 1972 Lotta continua fece un’intera campagna propagandistica sul tema del “fanfascismo”, quando pareva che il democristiano di destra Fanfani potesse essere eletto alla presidenza della repubblica) e le Br come propugnatori di una “nuova resistenza”. In realtà la tentazione reazionaria venne ben presto accantonata da parte dei circoli dominanti della borghesia, che perseguì invece la strada di coinvolgere gradualmente i dirigenti del Pci e del sindacato nelle responsabilità di governo, contando sulla loro collaborazione per far accettare alla classe operaia la politica dei sacrifici, così come dieci anni prima aveva utilizzato il Psi nei primo governi di centrosinistra, dopo aver sperimentato l’impossibilità di passare a un governo apertamente reazionario. Quando divenne evidente che questo processo era ormai in atto, le Br lo analizzarono nel seguente modo: “Fascismo e socialdemocrazia si sono, nella storia, reciprocamente esclusi. Nello Stato imperialista, invece, la sostanza di queste forme politiche coesiste, dando luogo ad un ‘regime’ originale che perciò non è fascista né socialdemocratico, ma rappresenta un superamento dialettico di entrambe.” (Risoluzione del febbraio 1978)3

In queste poche righe si esprime tutto il disorientamento del terrorismo dell’epoca. Il fascismo ha rappresentato la distruzione totale di qualsiasi organizzazione dei lavoratori, anche la più embrionale, la completa atomizzazione della classe lavoratrice attraverso lo scioglimento violento dei sindacati, dei partiti operai, delle associazioni popolari, ecc. Altri regimi, come quello instaurato dal generale Pinchet in Cile nel 1973 perseguirono la stessa politica, anche se a differenza del fascismo e del nazismo, che disponevano di movimenti armati di decine di migliaia di uomini, non avevano una base di massa e dovettero basarsi esclusivamente sull’impiego dell’esercito per svolgere i compiti repressivi. Il fascismo, quindi, non può che giungere al potere distruggendo i partiti socialdemocratici, comunisti e i sindacati. Le Br arrivarono a questa posizione solo alla metà degli anni ‘70, mentre in precedenza parlavano del Pci come di una “forza democratica che persegue i nostri stessi obiettivi con metodi opposti“. L’idea che fra una dittatura di stampo fascista e un governo con la partecipazione del Pci si potesse crare una “sintesi dialettica” (?!) dimostra fino a che punto il terrorismo si stesse allontanando da quel movimento operaio dal quale pure, in parte, proveniva.

Le elezioni del 1976

Oggi nessuno ricorderebbe le Br della prima fase, se non fosse che le loro azioni vengono viste alla luce del sequestro Moro e delle azioni della seconda metà degli anni ’70. Alla metà degli anni ’70 le Br sono di fatto quasi scomparse, con la maggior parte dei dirigenti arrestati e solo una quindicina di militanti, fra i quali Moretti, ancora a piede libero.

Le Br, e con esse anche Pl e altri gruppi terroristici, poterono riprendere forza e ampliarsi enormemente sulla base degli avvenimenti della metà degli anni ’70.

Fin dal 1973 il segretario del Pci Berlinguer aveva lanciato il “Compromesso storico”, cioè la strategia di un’alleanza fra Pci e Dc come unica garanzia per evitare il rischio di un colpo di stato della destra e dei militari. Questa strategia, che nel 1977-79 si sarebbe tradotta in pratica prima con governi della Dc che vedevano l’astensione del Pci, e poi con l’entrata del Pci in maggioranza, aveva illuso i gruppi extraparlamentari che avrebbero potuto facilmente togliere consenso di massa ai dirigenti comunisti, così, quando per le elezioni del 1976 i principali gruppi extraparlamentari si presentarono uniti nella lista Democrazia proletaria, vi erano enormi illusioni. “C’era chi si aspettava tre milioni di voti. Adriano Sofri era certo che a Torino Lotta continua, da sola, sarebbe riuscita a raggiungere il quoziente. Io pensavo 80-90mila voti. Tutta la lista ne ha avuto a Torino meno di 30mila, l’equivalente di un corteo, l’1,9%. In tutta Italia la sinistra rivoluzionaria ottiene 550mila voti, un disastro. (…) Il giorno dopo il 20 giugno [la data delle elezioni – NdR] Lotta continua è finita. In autunno si sarebbe svolto il congresso di Rimini [che portò allo scioglimento dell’organizzazione – NdR]”4

La strategia suicida del “compromesso storico” trovò la sua prima applicazione in campo sindacale, con la svolta dell’Eur (1977) e l’accettazione da parte dei dirigenti sindacali della “politica dei sacrifici”. La svolta produsse un effetto disastroso fra i lavoratori. Per la prima volta dal ’68 si vedeva il movimento operaio che anziché avanzare retrocedeva, e retrocedeva non perché sconfitto sul campo, ma perché i suoi dirigenti più autorevoli accettavano le posizioni della borghesia e del governo. Furono anni di confusione, di riflusso, di demoralizzazione in cui il padronato poté riprendere l’iniziativa che aveva perso con l’autunno caldo.

In questo quadro una parte minoritaria, ma pure sempre consistente, di quello che era stato il “movimento” degli anni precedenti perse rapidamente fiducia nelle possibilità della classe operaia di cambiare la società. Migliaia di giovani, prevalentemente appartenenti a fasce sociali piccolo borghesi e semiproletarie (disoccupati, lavoratori precari, studenti di lungo corso, ecc.) alimentarono nel 1977 le file di un movimento confuso che vedeva anche il Pci e il sindacato fra i propri avversari principali. Il movimento del ’77 non ebbe nulla a che vedere col ’68, e tantomeno con l’autunno caldo. Non esprimeva l’entrata in scena di una nuova generazione di giovani lavoratori, ma piuttosto la disperazione e l’impotenza di fronte alla politica del Pci. I giovani del ’77, ricorderà lo stesso Mario Moretti non avevano e non volevano avere né una direzione, né una meta.5 Era il movimento fine a sé stesso, più vicino a una rivolta esistenziale che a un movimento rivoluzionario. Esso rifletteva anche lo sbandamento di molti militanti dei gruppi rivoluzionari, che si trovarono privi di prospettiva, incapaci di comprendere quanto avveniva davanti ai loro occhi.

In questo ambiente le Br e Prima linea poterono, fra il 1977 e il 1979, reclutare centinaia, e forse migliaia di aderenti, ma proprio in questo reclutamento di massa al terrorismo si esprimeva non un’ondata rivoluzionaria, ma un clima di disperazione crescente. “Dopo la primavera del 1978 (…) fu una corsa verso di noi e la nostra forza numerica crebbe. Ma non è un sintomo tutto positivo. Molti ci cercano per persuasione, molti per disperazione, li riconosco appena li vedo. Dopo il ’77 è fallita anche l’autonomia e non pochi cercano una via d’uscita, ma senza convinzione“.6

Il sequestro Moro

Il rapimento di Aldo Moro, presidente della Dc e principale propugnatore dell’alleanza con il Pci, segnò il punto di massima forza militare delle Br, ma mise anche a nudo tutta la loro incapacità di offrire un’alternativa rivoluzionaria ai lavoratori, tanto che proprio dal sequestro Moro si può datare l’inizio del declino delle Br.

La vicenda è nota, e non è lo scopo di questo articolo raccontarla una volta di più: il rapimento il 16 marzo, con l’uccisione dei cinque uomini della scorta, i 55 giorni di trattative, nei quali si compatta il cosiddetto “fronte della fermezza” che comprende i dirigenti del Pci e la parte decisiva della Dc (Andreotti, allora primo ministro, e Cossiga, allora ministro degli interni) che rifiuta ogni trattativa con le Br, l’epilogo del 9 maggio con l’uccisione di Moro.

Il primo, clamoroso errore dei brigatisti è quello di pensare che sequestrando Moro metteranno in crisi il compromesso storico e contribuiranno a far risvegliare l’opposizione della base del Pci all’alleanza con la Dc. In realtà, come sempre avviene, il terrorismo che si propone di “illuminare” le masse o di “dare l’esempio” ottiene l’effetto opposto: i lavoratori più arretrati cadono fra le braccia della propaganda borghese, mentre anche i settori d’avanguardia si trovano relegati nella posizione di spettatori passivi delle gesta delle Br. Anche qui, come su molti altri terreni, le Br ignorano le lezioni di 150 anni di storia del movimento operaio, e il risveglio è molto brusco: “C’è stata un’ingenuità nelle nostre supposizioni, ci siamo ingannati al limite dell’autolesionismo. (…) Quando il Pci si compatta sulla fermezza, questo ci colpisce come una mazzata. Almeno è l’effetto che fa a me.7

In realtà proprio l’uccisione di Moro diede un appoggio enorme a Berlinguer. Per anni, qualsiasi voce si levasse nel Pci contro i cedimenti del gruppo dirigente venne accusata di essere complice del terrorismo, e grazie a questo venne più facilmente isolata. Fu lo spauracchio del terrorismo a far sì che passasse quasi senza opposizione l’appoggio dato dal Pci alla famigerata “Legge Reale” nel 1979, e più in generale la subordinazione del Pci alla politica della classe dominante.

Moro durante il sequestro fece diverse rivelazioni, in particolare sull’uso dei servizi segreti in funzione anticomunista (ad esempio parlò della struttura Gladio). La seconda grande illusione delle Br fu di poter assumere la parte di “vendicatori” dei lavoratori e in particolare della base del Pci, costringendo Moro a “svelare” i misfatti democristiani che in realtà tutti conoscevano, anche se di rado erano stati provati in tribunale. Così, nonostante il successo militare (temporaneo) per le Br, il sequestro Moro portò ad effetti politici diametralmente opposti a quanto si aspettavano. Anziché aprire contraddizioni fra la Dc e il gruppo dirigente del Pci, contribuirono a chiuderle; anziché “risvegliare” le masse ne stimolarono la passività; anziché avvicinarsi alla base del Pci mettendola in contraddizione con la politica di Berlinguer, se ne allontanarono sempre di più.

L’epilogo

Dopo Moro le Br continuarono per diversi anni la loro strategia, ma era ormai chiaro che l’illusione guerrigliera era morta: proseguirono per inerzia, per coerenza, o semplicemente per l’impossibilità a quel punto di rompere la spirale dello scontro militare, in un clima sempre più cupo, segnato da azioni sempre più feroci sia da parte dei gruppi terroristici che da parte delle forze dello Stato, fino all’epilogo dei primi anni ’80, con i gruppi terroristici distrutti dalle scissioni, dalle delazioni, dai “pentimenti”.

Gli sconfitti, si sa, hanno sempre torto. Ma dalla parabola del terrorismo italiano i comunisti non possono trarre lo stesso bilancio che oggi la borghesia ci ripropone. Il terrorismo non fu una “follia”: fu un vicolo cieco in cui entrarono centinaia di militanti che cercavano sinceramente la strada per costruire un partito rivoluzionario che potesse dare uno sbocco alle lotte degli anni ’60 e ’70; cercarono questa strada senza averne né la preparazione teorica, né l’esperienza politica, rimanendo infine vittime dei loro errori. Decine morirono, migliaia hanno riempito le carceri italiane per 15 anni. A noi spetta il compito di far riemergere quell’esperienza dalla montagna di distorsioni e propaganda sotto cui è stata seppellita, perché solo da una comprensione profonda dei movimenti di quel decennio si può giungere ad un reale superamento del terrorismo e del disastro politico che questo significò per il movimento operaio.

Maggio 1998

 

Note

1. Giorgio Galli, Storia del Partito Armato, Rizzoli 1986, pag. 33

2. Roberto Massari, Marxismo e critica del terrorismo, Newton Compton, 1979, pag. 290

3. R. Massari, op. cit., pag. 292

4. Corrado Stajano, L’Italia nichilista, citato in G. Galli, op. cit., pag. 125

5. Mario Moretti, Brigate Rosse, una storia italiana, pag. 108

6. Mario Moretti, op. cit., pag. 191

7. Mario Moretti, op. cit., pag. 145-6

 

Una breve cronologia

Questa non è una cronologia completa del terrorismo, ma solo una serie di date significative della storia delle Br.

1970-72 – Formazione delle prime brigate a Milano. Azioni minori (incendi di automobili di capireparto, ecc.)

1972 – Scoperta la base di via Boiardo a Milano. Passaggio alla clandestinità completa. Curcio e Cagol si trasferiscono a Torino. Sequestro per poche ore del dirigente Sit-Siemens Macchiarini.

1973 – Rapimento per alcune ore del dirigente Alfa Romeo Mincuzzi. Rapimento per 8 giorni del capo del personale Fiat auto, Amerio. Sequestro del sindacalista fascisa Labate, rilasciato ammanettato davanti a un cancello della Fiat Mirafiori.

1974 – Rapimento del giudice Sossi. Liberato dopo la promessa, non mantenuta, della scarcerazione di otto militanti del gruppo terroristico genovese “XXII ottobre”. Arresto di Franceschini, Gallinari (che evaderà nel 1977), Curcio, Ognibene.

1975 – Assalto al carcere di Cuneo ed evasione di Curcio. Il sequestro dell’industriale Gancia si conclude con uno scontro a fuoco coi carabinieri in cui muore Margherita Cagol.

1976 – Arresto di Curcio e Semeria. Uccisione del giudice Coco.

1977 – Sequestro a scopo di autofinanziamento di Pietro Costa. Uccisione del presidente dell’Ordine degli Avvocati di Torino, Croce.

1978 – Sequestro e uccisione di Aldo Moro.

1979 – Arresto di Gallinari. Uccisione a Genova dell’operaio del Pci Guido Rossa, che aveva denunciato un militante Br nella sua fabbrica.

1980 – Su denuncia del pentito Peci i carabinieri fanni irruzione in una base di Genova uccidendo nel sonno 4 brigatisti.

1981 – Sequestro del giudice D’Urso, rilasciato in cambio della chiusura del carcere speciale dell’Asinara. Inizio della frantumazione delle Br in diversi tronconi. Arresto di Moretti.

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