falcemartello n. 1 – introduzione
10 Ottobre 2015Il problema nazionale nel Paese Basco
11 Ottobre 2015di Friedrich Engels*
L’invito di preparare una nuova edizione dell’Indirizzo del Consiglio generale dell’Internazionale sulla Guerra civile in Francia, e di accompagnarlo con una introduzione, mi è giunto inaspettato. Non posso quindi che accennar qui brevemente ai punti più importanti.
Faccio precedere il lavoro suddetto, più lungo, dai due Indirizzi, più brevi, del Consiglio generale sulla guerra franco-tedesca. In primo luogo perché al secondo, che a sua volta non può essere capito perfettamente senza il primo, si accenna nella Guerra civile. In secondo luogo, poi, perché questi due indirizzi, redatti del pari da Marx, sono, non meno della Guerra civile, notevoli esempi di quella meravigliosa facoltà dell’autore, di cui dette prova la prima volta nel 18 brumaio di Luigi Bonaparte, di afferrare chiaramente il carattere, la portata e le conseguenze necessarie di grandi avvenimenti storici nel tempo in cui questi avvenimenti stanno ancora sviluppandosi sotto i nostri occhi si sono compiuti di recente. E infine perché noi, in Germania, dobbiamo soffrire ancor oggi per le conseguenze di quegli avvenimenti che Marx aveva preannunziato.
Non è forse accaduto ciò che si dichiara nella prima circolare, cioè che se la guerra difensiva della Germania contro Luigi Bonaparte avesse degenerato in una guerra di conquista contro il popolo francese, sarebbero riapparse con rinnovata violenza tutte le sciagure piombate sulla Germania dopo le cosiddette guerre di liberazione? Non abbiamo forse avuto altri vent’anni di governo di Bismarck, e le leggi eccezionali e la campagna contro i socialisti al posto delle persecuzioni dei demagoghi, con le stesse misure arbitrarie della polizia e letteralmente con la stessa raccapricciante interpretazione della legge?
E non si è verificata alla lettera la predizione che l’annessione dell’Alsazia-Lorena avrebbe “gettato la Francia in braccio alla Russia”1, e che dopo questa annessione la Germania o sarebbe diventata apertamente lo strumento della Russia, o avrebbe dovuto, dopo una breve tregua, armarsi per una nuova guerra e precisamente per “una guerra contro le razze alleate degli slavi e dei latini”? L’annessione delle province francesi non ha forse gettato la Francia in braccio alla Russia? Bismarck non ha forse cercato inutilmente per ben vent’anni di cattivarsi il favore dello zar, e cercato di cattivarselo con servizi ancora più bassi di quelli che la piccola Prussia, non ancora diventata la “prima potenza europea”, era solita rendere ai piedi della Santa Russia? E non pende forse quotidianamente sul nostro capo la spada di Damocle di una guerra, nel primo giorno della quale tutte le alleanze ufficiali fra i principi andranno disperse come polvere; di una guerra di cui nulla è certo eccetto l’assoluta incertezza del suo esito; di una guerra di razze, che sottoporrà la Europa intiera alla devastazione da parte di quindici o venti milioni di uomini armati, e che se già non imperversa è solo perché persino il più forte dei grandi Stati militari è preoccupato per la totale impossibilità di calcolare il risultato finale?
Tanto maggiore è quindi il nostro dovere di rendere nuovamente accessibili agli operai tedeschi questi brillanti documenti, ora in parte dimenticati, dell’acuta preveggenza della politica operaia internazionale nel 1870.
Ciò che è vero per questi due Indirizzi, lo è altresì per quello sulla Guerra civile in Francia. Il 28 maggio gli ultimi combattenti della Comune soccombevano a forze preponderanti sulla collina di Belleville, e non più di due giorni dopo, il 30, Marx leggeva al Consiglio generale lo scritto nel quale l’importanza storica della Comune di Parigi è espressa in tratti concisi, potenti e soprattutto così veri, come non si è più riusciti a fare in tutta la enorme letteratura su questo argomento.
Grazie allo sviluppo economico e politico della Francia dal 1789, per cinquant’anni la posizione di Parigi era stata tale che nessuna rivoluzione poteva scoppiarvi senza assumere un carattere proletario; il che vuol dire senza che il proletariato, avendo conquistato la vittoria a prezzo del suo sangue, non presentasse dopo la vittoria le sue proprie rivendicazioni. Queste rivendicazioni erano più o meno imprecise e perfino confuse, in relazione con il grado di sviluppo raggiunto in quel momento dagli operai di Parigi; in ultima istanza esse tendevano tutte all’abolizione del contrasto di classe tra i capitalisti e gli operai. È vero che nessuno sapeva come questo si dovesse realizzare; la rivendicazione stessa, per quanto fosse ancora indeterminata nella sua formulazione, conteneva un pericolo per l’ordinamento sociale vigente. Gli operai che l’avevano avanzata erano ancora armati; per i borghesi che si trovavano al governo dello Stato il disarmo degli operai era quindi una necessità primordiale. Ecco quindi sorgere dopo ogni rivoluzione vinta dagli operai una nuova lotta, la quale finisce con la disfatta degli operai.
Questo accadde per la prima volta nel 1848. I liberali borghesi dell’opposizione parlamentare tennero dei banchetti per esigere una riforma elettorale che doveva assicurare la supremazia al loro partito. Costretti sempre più, nella lotta col governo, a fare appello al popolo, essi dovettero a poco a poco permettere che le frazioni radicali e repubblicane della borghesia prendessero la direzione del movimento. Ma alle spalle di queste frazioni si trovavano gli operai rivoluzionari, i quali dal 1830 avevano acquistato una indipendenza politica più grande di quel che non sospettassero la borghesia e gli stessi repubblicani. Nel momento della crisi fra il governo e l’opposizione, gli operai dettero battaglia nelle strade; Luigi Filippo scomparve e con lui scomparve la riforma elettorale; in vece loro sorse la repubblica, e precisamente una repubblica che gli stessi operai vittoriosi chiamarono repubblica “sociale”. Ciò che si dovesse intendere con questa “repubblica sociale”, nessuno lo sapeva chiaramente, e gli operai nemmeno. Ma adesso essi avevano in mano delle armi, e rappresentavano una potenza nello Stato. Non appena però i repubblicani borghesi al potere sentirono in certo qual modo d’avere sotto i piedi terra ferma, il loro primo scopo fu di disarmare gli operai. Questo venne fatto spingendoli alla insurrezione del giugno 1848 con un atto fedifrago, con una provocazione aperta, e tentando di confinare i disoccupati in una provincia remota. Il governo aveva preso misure per avere una schiacciante superiorità di forze. Dopo cinque giorni di lotta eroica gli operai furono sconfitti. E ne seguì un vero massacro dei prigionieri inermi, quale non si era veduto dal tempo delle guerre civili che prelusero al tramonto della Repubblica romana. Fu la prima volta che la borghesia mostrò a quale dissennata crudeltà essa può venir spinta nella sua sete di vendetta, non appena il proletariato osa levarsi davanti ad essa come classe indipendente, con interessi propri e con proprie rivendicazioni. Eppure il 1848 non fu che giuoco di ragazzi, in confronto con la furia del 1871.
La punizione fu immediata. Se il proletariato non poteva ancora governare la Francia, la borghesia non poteva più governarla. Non in quel momento, almeno, in cui la maggior parte di essa era ancora di sentimenti monarchici, era divisa in tre partiti dinastici2, e in un quarto partito repubblicano. Le sue discordie interne permisero all’avventuriero Luigi Bonaparte di impadronirsi di tutte le leve di comando del potere – esercito, polizia, meccanismo amministrativo -, e di far saltare in aria, il 2 dicembre 18513, l’ultima cittadella della borghesia, l’Assemblea nazionale. Il Secondo Impero4 dette inizio al saccheggio della Francia da parte di una banda di avventurieri della politica e della finanza, ma nel tempo stesso anche a uno sviluppo In realtà però lo Stato non è che una macchina per l’oppressione di una classe da parte di un’altra, e ciò nella repubblica democratica non meno che nella monarchia industriale che non sarebbe mai stato possibile sotto il regime ristretto e timoroso di Luigi Filippo, e con l’esclusivo dominio solo di una piccola parte della grande borghesia. Luigi Bonaparte tolse ai capitalisti il potere politico col pretesto di proteggerli: di proteggere la borghesia contro gli operai, e d’altra parte, di proteggere gli operai contro i borghesi: ma in compenso il suo governo favorì la speculazione e l’attività industriale; in una parola, favorì l’incremento e l’arricchimento della borghesia nel suo assieme, in modo fino allora sconosciuto. In proporzione anche maggiore, è vero, si svilupparono la corruzione e il furto in massa, che avevano il loro centro nella corte imperiale e che ricavavano le loro alte percentuali dall’arricchimento della borghesia.
Ma il Secondo Impero fu l’appello allo sciovinismo francese, fu la pretesa di riavere i confini del Primo Impero perduti nel 1814, o almeno quelli della prima repubblica. Un impero francese nei confini della vecchia monarchia, e persino in quelli ancor più ristretti del 1815, era una cosa per un lungo periodo di tempo impossibile. Di qui la necessità di guerre periodiche e di una estensione dei confini. Nessuna estensione di confini abbagliava però potentemente la fantasia degli sciovinisti francesi come l’estensione sino alla sponda sinistra, tedesca, del Reno. Un miglio quadrato sul Reno valeva per loro assai più che dieci miglia sulle Alpi o in qualsiasi altro luogo. Data l’esistenza del Secondo Impero, la richiesta di restituzione della sponda sinistra del Reno, tutta in una volta o a pezzi, non era che una questione di tempo. E il tempo venne con la guerra austro-prussiana del 1866. Preso in trappola dall'”indennizzo territoriale” promosso da Bismarck, e dalla sua stessa politica troppo sottile ed esitante, a Bonaparte, non rimase altro che la guerra, la quale scoppiò nel 1870, e che lo sbalzò prima a Sedan, e di là a Wilhelmshöhe.
Conseguenza inevitabile fu la rivoluzione di Parigi del 4 settembre 1870. L’impero crollò come un castello di carte e la repubblica fu di bel nuova proclamata. Ma il nemico era alle porte. Gli eserciti dell’impero erano rinchiusi senza speranze in Metz, o prigionieri in Germania. In questo frangente, il popolo concesse ai deputati parigini del vecchio Corpo legislativo di costituirsi in “governo di difesa nazionale”. La cosa fu concessa tanto più facilmente in quanto a scopo di difesa tutti i parigini atti alle armi erano entrati nella Guardia nazionale ed erano armati, di guisa che gli operai formavano ora la grande maggioranza. Ma ben presto il contrasto tra il governo, composto quasi esclusivamente di borghesi, e il proletariato armato scoppiò in conflitto aperto. Il 31 ottobre battaglioni di operai diedero l’assalto all’Hotel de Ville e fecero prigionieri una parte dei membri del governo; il tradimento, la mancanza di parola del governo e il sopraggiungere di alcuni battaglioni di piccolo-borghesi ridettero loro la libertà, e per evitare lo scoppio di una guerra civile nell’interno di una città già assediata da una potenza straniera si lasciò in carica il governo di prima.
Finalmente, il 28 gennaio 1871, Parigi, affamata, capitolò; ma con onori senza precedenti nella storia delle guerre. I forti furono consegnati, le trincee disarmate, le armi dei reggimenti di linea e della guardia mobile consegnate, ed essi considerati come prigionieri di guerra. Ma la Guardia nazionale mantenne le sue armi e i suoi cannoni, e di fronte ai vincitori si considerò in stato di armistizio, mentre questi non osavano entrare in Parigi in trionfo. Soltanto un piccolo angolo di Parigi, consistente in parte, per giunta, in parchi pubblici, essi osarono occupare; e anche questo solo per alcuni giorni! e durante questo tempo essi, che avevano stretto d’assedio Parigi per 131 giorni, furono a loro volta assediati dagli operai parigini armati, i quali vigilavano accuratamente perché nessun “prussiano” varcasse i ristretti confini di quel pezzo di terreno ceduto ai conquistatori stranieri. Tale era il rispetto che gli operai parigini ispiravano all’esercito davanti al quale tutte le truppe dell’impero avevano deposto le armi; e i grandi proprietari fondiari prussiani, che erano venuti per prendersi la loro rivincita nel centro stesso della rivoluzione, dovettero starsene pieni di riguardo, e fare il saluto proprio alla rivoluzione armata!
Durante la guerra, gli operai parigini si erano limitati a reclamare che la lotta venisse proseguita con energia. Ma adesso che era ritornata la pace dopo la capitolazione di Parigi, adesso Thiers, il nuovo capo del governo, dovette convincersi che il predominio delle classi abbienti – grandi proprietari fondiari e capitalisti -, era in continuo pericolo finché gli operai di Parigi avevano le armi nelle loro mani. Suo primo atto fu il tentativo di disarmarli. Il 18 marzo egli mandò delle truppe di linea con l’ordine di rubare alla Guardia nazionale l’artiglieria che le apparteneva, che era stata fabbricata durante l’assedio di Parigi e pagata con una sottoscrizione pubblica. Il colpo andò a vuoto; Parigi scese in campo per difendersi come un sol uomo, e la guerra tra Parigi e il governo francese residente a Versailles fu dichiarata. Il 26 marzo fu eletta e il 28 proclamata la Comune di Parigi. Il Comitato centrale della Guardia nazionale, che fino ad ora si era fatto carico del governo, dette le sue dimissioni alla Guardia nazionale stessa, dopo aver decretato la soppressione della scandalosa “polizia dei costumi” di Parigi. Il 30 marzo la Comune abolì la coscrizione e l’esercito permanente e proclamò che la Guardia nazionale, nella quale dovevano arruolarsi tutti i cittadini atti alle armi, sarebbe stata la sola forza armata. Essa dichiarò una moratoria di tutte le pigioni per le case di abitazione dall’ottobre 1870 fino all’aprile, stabilendo che gli affitti già pagati si dovessero computare in acconto delle pigioni future; e sospese ogni vendita di oggetti impegnati al Monte di pietà. Lo stesso giorno gli stranieri eletti a far parte della Comune furono confermati nella loro carica, perché “la bandiera della Comune è la bandiera della repubblica mondiale”.
Il primo aprile venne deciso che lo stipendio più elevato di un impiegato della Comune, compreso dunque quello dei suoi stessi membri, non dovesse superare 6.000 franchi. Il giorno seguente la Comune decretò la separazione della Chiesa dallo Stato e l’abrogazione di tutti i versamenti dello Stato a scopi religiosi, come pure la trasformazione di tutti i beni ecclesiastici in patrimonio nazionale; in seguito a ciò l’8 aprile fu deciso di dare il bando dalle scuole a tutti i simboli religiosi, immagini, dogmi, preghiere, insomma a “tutto ciò che appartiene al campo della coscienza individuale”, e la misura venne a poco a poco applicata. Il giorno 5, in risposta alle fucilazioni, che si rinnovavano ogni giorno, dei combattenti della Comune fatti prigionieri dalle truppe di Versailles, fu emanato un decreto circa l’arresto di ostaggi, ma non venne mai eseguito. Il 6 fu tirata fuori la ghigliottina con l’aiuto del 137° battaglione della Guardia nazionale, e bruciata in pubblico tra alte grida di giubilo popolare. Il 12 la Comune decise di abbattere la colonna della vittoria di Piazza Vendôme, fusa dopo la guerra del 1809 con i cannoni presi da Napoleone, ed eretta come simbolo dello sciovinismo e dell’odio tra i popoli. La cosa venne fatta il 16 maggio. Il 16 aprile la Comune ordinò una statistica delle fabbriche lasciate inoperose dagli industriali, e la elaborazione di progetti per l’esercizio di queste fabbriche a mezzo degli operai fino allora occupati in esse, da riunirsi ora in società cooperative, e per l’organizzazione di queste società in una grande unione. Il 20 essa abolì il lavoro notturno dei fornai, come pure la registrazione degli operai esercitata a partire dal Secondo Impero esclusivamente per mezzo di soggetti nominati dalla polizia, autentici sfruttatori degli operai. La registrazione venne affidata ai municipi dei venti mandamenti di Parigi.
Il 30 aprile ordinò l’abolizione delle case di pegno, che non erano se non uno sfruttamento privato degli operai, in contraddizione col diritto degli operai ai loro strumenti di lavoro e al credito. Il 5 maggio decretò la demolizione della cappella espiatoria costruita in ammenda della esecuzione capitale di Luigi XVI.
Così a partire dal 18 marzo balza fuori preciso e netto quel carattere di classe del movimento parigino, che fino allora era stato respinto nella penombra dalla lotta contro l’invasione straniera. Come nella Comune vi erano quasi solo operai o rappresentanti riconosciuti degli operai, così anche le loro deliberazioni avevano una marcata impronta proletaria. O decretavano riforme che la borghesia repubblicana aveva trascurato soltanto per viltà, ma che rappresentavano una base necessaria per la libertà d’azione della classe operaia, come l’applicazione del principio che di fronte allo Stato la religione non è che un semplice affare privato; oppure emettevano deliberazioni nell’interesse diretto della classe operaia, e talvolta anche in profondo dissidio con l’antico ordinamento sociale. Tutto questo però, in una città assediata, poteva conseguire tutt’al più un inizio di realizzazione. E dal principio di maggio la lotta contro la sempre crescente massa di armati adunata dal governo di Versailles assorbì tutte le forze.
Il 7 aprile i versagliesi si erano impadroniti del passaggio della Senna presso Neuilly, sul fronte occidentale di Parigi; vennero però sanguinosamente respinti il giorno 11, in un attacco sul fronte meridionale condotto dal generale Eudes. Parigi fu bombardata senza interruzione, e proprio da coloro stessi che avevano stigmatizzato il bombardamento della stessa città per opera dei prussiani come una profanazione di cosa sacra. Questi stessi uomini andavano ora elemosinando dal governo prussiano la pronta restituzione dei soldati francesi fatti prigionieri a Sedan e a Metz, i quali avrebbero dovuto riconquistar loro Parigi.
Il graduale concentramento di tutte queste truppe dette ai versagliesi, dal principio di maggio in poi, un sopravvento deciso. E questo si manifestò fin da quando il 23 aprile Thiers ruppe le trattative a proposito dello scambio, offerto dalla Comune, dell’arcivescovo di Parigi e di tutta una schiera di altri ecclesiastici tenuti in ostaggio a Parigi, per il solo Blanqui, che era stato eletto due volte a far parte della Comune, ma era prigioniero a Clairvaux. Più ancora questo sopravvento si manifestò nel mutato linguaggio di Thiers; fino adesso riservato e ambiguo, egli divenne a un tratto insolente, minaccioso, brutale. Sul fronte meridionale i versagliesi presero il 3 maggio il ridotto di Moulin Saquet; il 9 maggio il forte d’Issy ridotto in completa rovina dalle bombe; il 14 quello di Vanves. Sul fronte occidentale avanzavano a poco a poco fino al vallo principale, espugnando i numerosi villaggi e gli edifici che si estendevano fino alle mura di cinta; il 21 riuscì loro grazie a un tradimento e in seguito alla negligenza della Guardia nazionale comandata a quel posto, a penetrare nella città. I prussiani, che occupavano i forti settentrionali e orientali, permisero ai versagliesi di avanzare attraverso il terreno vietato dall’armistizio a nord della città, e con ciò di attaccare su un largo fronte che i parigini avevano ragione di credere protetto dall’armistizio e che perciò non avevano occupato che debolmente. In conseguenza di ciò la resistenza nella metà occidentale di Parigi, cioè nella vera città aristocratica, non poté che esser debole; diventò più tenace e più dura quanto più le truppe avanzanti si avvicinarono alla metà orientale, alla vera città operaia. Soltanto dopo una lotta di otto giorni gli ultimi difensori della Comune caddero sulle alture di Belleville e di Ménilmontant; e l’eccidio degli uomini inermi, delle donne, dei fanciulli, che infuriò con rabbia crescente per tutta la settimana, raggiunse qui il suo punto più alto. Il fucile a ripetizione non uccideva più abbastanza rapidamente; i vinti vennero trucidati collettivamente a centinaia dalle mitragliatrici. Il “Muro dei federati” nel cimitero del Père Lachaise, dove fu consumato l’ultimo eccidio in massa, rimane ancor oggi come un muto ma eloquente documento della furibonda follia di cui è capace la classe dominante, non appena il proletariato osa farsi innanzi per far valere i suoi diritti. Vennero quindi gli arresti in massa quando si riconobbe impossibile il macello di tutti si ebbe la fucilazione di vittime scelte arbitrariamente tra le file dei prigionieri, e il trasporto di tutti i rimanenti in grandi campi dove essi aspettavano di essere tradotti davanti ai tribunali di guerra. Le truppe prussiane, che stringevano d’assedio la parte nord-est di Parigi, avevano l’ordine di non lasciar passare nessun fuggiasco; ciò nondimeno gli ufficiali chiudevano un occhio quando i soldati obbedivano più alle leggi dell’umanità che agli ordini del comando; in particolare spetta al Corpo d’armata sassone il merito di essersi comportato molto umanamente e di aver lasciato libero il passo a molti, la cui qualità di combattenti della Comune era evidente.
Se ora, dopo vent’anni, rivolgiamo lo sguardo all’attività e all’importanza storica della Comune di Parigi del 1871, troveremo che alla esposizione datane nella Guerra civile in Francia si deve fare qualche aggiunta.
I membri della Comune si dividevano in una maggioranza, in blanquisti, i quali avevano predominato anche anteriormente nel Comitato centrale della Guardia nazionale, e in una minoranza, composta di membri della Associazione internazionale degli operai, seguaci in prevalenza della scuola socialista di Proudhon. I blanquisti erano allora nella maggioranza socialisti soltanto per istinto rivoluzionario proletario; pochi solamente erano arrivati a una maggior chiarezza di principi grazie a Vaillant, che conosceva il socialismo scientifico tedesco realtà però lo Stato non è che una macchina per l’oppressione di una classe da parte di un’altra, e ciò nella repubblica democratica non meno che nella monarchia. Così si comprende come nel campo economico furono trascurate parecchie cose che secondo la nostra concezione odierna, la Comune avrebbe dovuto fare. Più che mai difficile a comprendersi rimane ad ogni modo il sacro rispetto col quale ci si arrestò con devota soggezione davanti alle porte della Banca di Francia. Questo fu anche un grande errore politico. La Banca in mano della Comune valeva più che diecimila ostaggi. Significava la pressione di tutta la borghesia francese sul governo di Versailles per spingere alla pace con la Comune. Ma ciò che è ancor più mirabile sono le molte cose giuste compiute malgrado tutto dalla Comune, composta di blanquisti e di proudhoniani. Naturalmente, dei decreti economici della Comune, per i loro aspetti gloriosi e per i loro aspetti ingloriosi, responsabili sono in prima linea i proudhoniani; come per gli atti e per le omissioni politiche sono responsabili i blanquisti. E in entrambi i casi l’ironia della storia volle – come avviene di solito quando dei dottrinari arrivano al potere -, che gli uni e gli altri facessero precisamente il contrario di quello che prescriveva la loro dottrina scolastica.
Proudhon, il socialista del piccolo contadino e dell’artigiano, odiava l’associazione d’un odio positivo. Diceva che essa conteneva in sé più male che bene, che era di sua natura improduttiva e persino dannosa, perché era una catena messa alla libertà dell’operaio; che essa era un puro dogma, infruttuoso e oneroso, in contrasto tanto con la libertà del lavoratore quanto col risparmio del lavoro, e che i suoi svantaggi crescevano più rapidamente che i vantaggi; che in contrapposto ad essa la concorrenza, la divisione del lavoro e la proprietà privata erano forze economiche positive. Solo per i casi eccezionali – come li chiama Proudhon, della grande industria e delle grandi organizzazioni di locomozione, per esempio le ferrovie, l’associazione dei lavoratori sarebbe stata conveniente (V. “Idée génerale de la Révolutione”, 3° étude5).
Nel 1871 la grande industria aveva già cessato di essere un caso eccezionale anche a Parigi, sede centrale dell’artigianato artistico, e in tal guisa che il decreto di gran lunga più importante della Comune ordinava un’organizzazione della grande industria e perfino della manifattura, la quale non doveva fondarsi soltanto sull’associazione degli operai in ogni fabbrica, ma doveva anche riunire in una grande unione tutte queste società; in breve, un’organizzazione la quale, come ben giustamente dice Marx nella Guerra civile, doveva alla fine portare al comunismo, cioè all’opposto diretto della teoria proudhoniana. Perciò la Comune fu la tomba della scuola proudhoniana del socialismo. Questa scuola è ora scomparsa dai circoli degli operai francesi; in essi predomina incontrastata, fra i possibilisti, non meno che fra i “marxisti”, la teoria di Marx. Solo fra la borghesia “radicale” ci sono ancora dei proudhoniani.
Né migliore fu la sorte dei blanquisti. Educati alla scuola della cospirazione, tenuti assieme dalla rigida disciplina ad essa corrispondente, essi partivano dal principio che un numero relativamente piccolo di uomini risoluti e bene organizzati fosse la condizione, in un dato momento favorevole, non solo per impadronirsi del potere, ma anche per mantenerlo spiegando una grande energia, priva d’ogni riguardo, fino a che fosse loro riuscito lanciare la massa del popolo nella rivoluzione e raggrupparla intorno alla piccola schiera dei dirigenti. Per questo occorreva prima di tutto l’accentramento più energico, dittatoriale, di ogni potere nelle mani del nuovo governo rivoluzionario. E che fece la Comune, la quale era in maggioranza composta appunto di questi blanquisti? In tutti i suoi proclami ai francesi della provincia essa li chiamava a costituire una federazione libera di tutti i comuni francesi con Parigi; una organizzazione nazionale, che per la prima volta doveva essere creata dalla nazione stessa. Invece proprio questo potere repressivo del precedente governo centralizzato, dell’esercito, della polizia politica, della burocrazia, che Napoleone aveva creato nel 1798 e che da allora in poi ogni nuovo governo aveva accettato come un comodo strumento e sfruttato contro i suoi avversari, proprio questo potere doveva dappertutto cadere, come già era caduto a Parigi.
La Comune dovette riconoscere sin dal principio che la classe operaia, una volta giunta al potere, non può continuare a governare la vecchia macchina dello Stato, che la classe operaia, per non perdere di nuovo il potere appena conquistato, da una parte deve eliminare tutta la vecchia macchina repressiva già sfruttata contro di essa, e dall’altra deve assicurarsi contro i propri deputati e impiegati, dichiarandoli senza nessuna eccezione e in ogni momento revocabili. In che cosa consisteva sino allora la proprietà caratteristica dello Stato? La società, per la tutela dei propri interessi comuni, si era provveduta di organi propri, originariamente per mezzo di una semplice divisione di lavoro. Ma questi organi, alla cui testa è il potere dello Stato, si erano col tempo trasformati, al servizio dei propri interessi speciali, da servitori della società in padroni della medesima. Il che per esempio è evidente non solo nella monarchia ereditaria, ma anche nella repubblica democratica. In nessun paese i “politici” formano una sezione della nazione così separata e così potente come nell’America del nord. Ognuno dei due grandi partiti che si scambiano a vicenda il potere viene alla sua volta governato da gente per cui la politica è una professione, che specula tanto sui seggi nelle assemblee legislative dell’Unione quanto su quelli dei singoli Stati, o che per lo meno vive dell’agitazione per il suo partito e dopo la sua vittoria viene compensata con dei posti. È noto come gli americani tentano da trent’anni di scuotere questo giogo diventato insopportabile e come, a dispetto di ciò, affondano sempre più profondamente nella palude di questa corruzione. Proprio in America possiamo vedere nel miglior modo come si compia questa separazione e contrapposizione del potere dello Stato alla società, di cui in origine esso era destinato a non essere altro che uno strumento. Qui non esiste dinastia, non nobiltà, non esercito permanente all’infuori di un manipolo d’uomini per la vigilanza degli indiani, non burocrazia con impiego stabile e con diritto a pensione. E con tutto questo, abbiamo qui due grandi bande di speculatori politici che alternativamente entrano in possesso del potere, e lo sfruttano coi mezzi più corrotti e ai più corrotti scopi; e la nazione è impotente contro queste due grandi bande di politici, che apparentemente sono al suo servizio, ma in realtà la dominano e la saccheggiano.
Contro questa trasformazione, in tutti gli Stati finora inevitabile, dello Stato e degli organi dello Stato da servitori della società in padroni della società, la Comune applicò due mezzi infallibili. In primo luogo, assegnò per via di elezione, con diritto generale di voto da parte degli interessati, e col diritto costante di revoca da parte di questi stessi interessati, tutti gli impieghi, amministrativi, giudiziari, educativi. In secondo luogo, per tutti i servizi, alti e bassi, pagava solo lo stipendio che ricevevano gli altri operai. Il più alto assegno che essa pagava era di 6.000 franchi. In questo modo era posto un freno sicuro alla caccia agli impieghi e al carrierismo, anche senza i mandati imperativi per i delegati ai Corpi rappresentativi, che furono aggiunti per soprappiù.
Questa distruzione del potere dello Stato esistente e la sostituzione ad esso di un nuovo potere, veramente democratico, è esaurientemente descritta nel terzo capitolo della Guerra civile. Era però necessario ritornar qui brevemente sopra alcuni tratti di essa, perché precisamente in Germania la superstizione dello Stato si è trasportata dalla filosofia nella coscienza generale della borghesia e perfino di molti operai. Secondo la concezione filosofica, lo Stato è la “realizzazione dell’Idea”, ovvero il regno di Dio in terra tradotto in linguaggio filosofico, il campo nel quale la verità e la giustizia eterna si realizza o si deve realizzare. Di qui una superstiziosa idolatria dello Stato e di tutto ciò che ha relazione con lo Stato, idolatria che si fa strada tanto più facilmente in quanto si è assuefatti fin da bambini a immaginare che gli affari e gli interessi comuni a tutta la società non possano venir curati altrimenti che come sono stati curati fino ad ora, cioè per mezzo dello Stato e dei suoi bene istallati funzionari. E si crede d’aver già fatto un passo estremamente audace, quando ci si è liberati alla fede nella monarchia ereditaria e si giura nella repubblica democratica. In realtà però lo Stato non è che una macchina per l’oppressione di una classe da parte di un’altra, e ciò nella repubblica democratica non meno che nella monarchia; e nel migliore dei casi un male che viene lasciato in eredità al proletariato riuscito vittorioso nella lotta per il predominio di classe e i cui lati peggiori non potrà fare a meno, subito, di eliminare nella misura del possibile, come fece la Comune, finché una nuova generazione, cresciuta in condizioni sociali nuove, libere, non sia in grado di scrollarsi dalle spalle tutto il vecchiume dello Stato.
Il filisteo socialdemocratico recentemente si è sentito preso da un salutare terrore sentendo l’espressione: dittatura del proletariato. Ebbene, signori, volete sapere come è questa dittatura? Guardate la Comune di Parigi. Questa era la dittatura del proletariato.
Friedrich Engels nel ventesimo anniversario della Comune di Parigi, 18 marzo 1891.
Note
* Scritta in tedesco. Pubblicata per la prima volta, con il consenso di Engels, nella rivista Die Nue Zeit (n. 28, a. IX, vol. II, 1890-1891) e successivamente in volume.
1 Citazione dal secondo Indirizzo del Consiglio generale circa la guerra franco-prussiana. Marx prevedeva che dopo la perdita dell’Alsazia-Lorena la Francia avrebbe cercato un alleato contro la Germania in primo luogo nella Russia zarista. Il I settembre 1870 egli scrisse a Sorge: “La guerra attuale – e gli asini prussiani non lo capiscono -, conduce alla guerra tra la Germania e la Russia con la stessa necessità con cui la guerra del 1866 condusse alla guerra tra la Prussia e la Francia… Inoltre questa guerra N. 2 sarà la levatrice dell’inevitabile rivoluzione sociale in Russia”.
2 In Francia i monarchici si dividevano in tre partiti: legittimisti partigiani della monarchia “legittima” dei Borboni; orleanisti partigiani della dinastia degli Orléans, e bonapartisti di Luigi Bonaparte.
3 Il 2 dicembre 1851 Luigi Bonaparte, presidente della repubblica francese, effettuò un colpo di Stato, sciolse con la forza l’Assemblea nazionale e dopo un anno si proclamò imperatore.
4 Si chiama secondo impero quello di Luigi Bonaparte, Napoleone III (1852-1870), per distinguerlo dal primo impero di Napoleone I (1804-1814).
5 Engels si richiama qui al libro di Proudhon: Idea generale della rivoluzione nel secolo XIX, Saggio 3°, Parigi 1851.