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Il significato del Maggio ’68

di Francesco Giliani

 

[Trascrizione  della relazione di Francesco Giliani al seminario “La rivoluzione francese del Maggio ‘68”, svoltosi il 12 maggio all’Università Statale di Milano.]

Di che cosa discutiamo oggi? Forse di uno degli argomenti più importanti con cui possiamo confrontarci: a che cosa assomiglia una rivoluzione socialista in un paese a capitalismo avanzato. In altre parole, esattamente quell’avvenimento e quel processo politico che i partiti politici dell’ordine borghese, i giornalisti della grande stampa egli intellettuali di regime negano che possano esistere. Eppure a 50 anni di distanza dalla grande rivolta del maggio/giugno ’68 in Francia, nonostante il veleno e le calunnie (specialmente in Francia) che i grandi mezzi della stampa ed i presidenti della Repubblica che si sono succeduti hanno versato sul Maggio ’68, anche i sondaggi più recenti hanno scioccato l’opinione pubblica perché una larghissima parte (più di 2/3) della popolazione francese considera in modo positivo gli eventi del Maggio ’68. Soltanto nel precedente decennale, al 40° anniversario del Maggio ’68 francese, il clima era, invece, dominato a livello ufficiale da una campagna isterica dell’allora presidente della Repubblica, il gollista Sarkozy, che aveva questo slogan: “dimenticare il ’68”.

Di quell’avvenimento che cosa si è detto e che cosa si continua a dire da parte della classe dominante in tutte le sue articolazioni? Che è stata una rivoluzione dei costumi, una rivolta puramente studentesca… addirittura, e questo è il caso ad esempio dell’attuale presidente della Repubblica francese Macron, si sostiene che sono stati eventi che nel lungo termine hanno fatto esplodere le tendenze all’individualismo e al consumismo, visti come dati positivi dall’establishment. È curioso e anche disgustoso che le tendenze politiche neo-staliniste (ad esempio in Italia Rizzo del Partito Comunista) adottino sostanzialmente questa stessa interpretazione macroniana del Maggio ’68, cioè una grande rivolta in realtà borghese e individualista che ha visto al centro la rivendicazione, appunto, dell’individuo desiderante come pilastro della società. Quasi un’anticipazione inconscia degli anni ’80 con Reagan, la Thatcher e tutto il conservatorismo dell’epoca.

La destra tradizionale, per parte sua, cosa dice sul ’68, come un disco rotto, da quasi mezzo secolo? Dice che è stato l’innesco di tutto il lassismo, il permissivismo, di tutti i mali della società moderna, di tutta la corruzione morale che questi attribuiscono alla società in generale. Ed in questo senso, come diceva Sarkozy, bisogna dimenticare il ’68. Nonostante tutte queste congiure politiche, mediatiche, nonostante tutta la confusione che è stata generata e tutti i lacrimogeni che sono stati lanciati in campo, la memoria popolare è diversa, resiste in opposizione a tutte queste letture interessate del Maggio ’68 francese.

Dico subito una cosa su cui tornerò più avanti. Quello che normalmente si esclude da qualunque “narrazione”, oppure si mette in posizione secondaria, è che nel Maggio ’68 c’è stato il più grande sciopero generale ad oltranza dell’Occidente dalla Seconda Guerra Mondiale ad oggi. Ma non è stato uno sciopero come ne possiamo avere visti negli ultimi anni. È stato uno sciopero che in un dato momento, per almeno 10 giorni, ha paralizzato interamente tutte le fabbriche, i porti, le università, i mezzi di trasporto della quarta potenza capitalista industriale del mondo, la Francia.

A fine maggio del ’68, come ricorda la storica Ludivine Bantigny, un giornalista di tendenza politica democristiana, per circa 48 ore, tra il 28 ed il 29 maggio, “l’ordine pubblico in Francia si è chiamato George Seguy”. Chi era questo George Seguy? Il segretario generale del principale sindacato operaio francese, la CGT (l’equivalente della CGIL italiana), che era all’epoca strettamente legata al Partito Comunista Francese.

Dunque stiamo discutendo di una lotta esplosiva che per un periodo di tempo, per alcune settimane, ha lasciato l’apparato statale della quarta potenza mondiale sospeso in aria, incapace di esercitare il potere, il governo. Bisogna darsi una spiegazione sul fatto che un mese dopo De Gaulle, il principale politico conservatore all’epoca in Francia, vince le elezioni; un mese dopo che George Seguy è stato considerato come colui che aveva in pugno l’ordine pubblico di un paese di 60 milioni di abitanti, con grandi città, tra cui una delle più grandi metropoli del mondo, Parigi.

Dunque, è chiaro che è assolutamente ideologico – nel senso che è un mascheramento dell’interesse di classe – presentare il Maggio ’68 come qualcosa di diverso da un movimento rivoluzionario. È un tentativo di far perdere alla classe lavoratrice e alla gioventù quel filo rosso con la propria storia che può riverberarsi nel presente come spunto, come ripresa di quella battaglia anticapitalista, che ha avuto appunto nel ’68 francese uno dei punti più alti di tutto il ‘900.

Anche su terreni che non immagineremmo si verifica una rottura dirompente nel Maggio francese. Gli studenti della Scuola Popolare di Belle Arti di Parigi si rinominano “Ècole Populaire” (scuola popolare). Sono studenti che si mettono al servizio della rivoluzione, della lotta, realizzando numerosi manifesti e poster politici. Tra l’altro, detto per inciso, rompono gli schemi dell’estetica politica, introducendo la stilizzazione delle forme, che verrà poi recuperata negli anni ’70 in Italia.

Qualcuno potrebbe pensare che un evento così dirompente sia stato annunciato da squilli di trombe: non è così! E questo è un dato che caratterizza molto spesso i movimenti rivoluzionari, che esplodono all’improvviso, che squarciano lo status quo e che normalmente non sono attesi né da chi li teme né da chi si è magari impegnato per decenni perché questi movimenti potessero venire alla luce. È stato così per la Rivoluzione Francese del 1789. È stato così per la Rivoluzione Russa del 1917 e questi esempi si potrebbero moltiplicare all’infinito.

Bene, vi darò due esempi per sostanziare questa affermazione. Nel marzo ’68, quindi due mesi prima dell’esplosione parigina e poi nazionale, esce un articolo che, poi capirete, ha avuto una grandissima fortuna in seguito. Su Le Monde (che è come dire la Repubblica in Italia) uno sfortunato giornalista commenta l’ultima inchiesta sociologica condotta a livello nazionale sui giovani francesi e la sintetizza con un titolo bello, giornalistico: “La Francia si annoia”. Se uno scorre l’articolo trova che i giovani francesi interrogati hanno spiegato che quello che cercano è una vita tranquilla, un lavoro, mettere su famiglia abbastanza presto (all’epoca in Francia, molto spesso, a 25 anni si aveva già il primo figlio). Questo quadro viene restituito da uno dei principali sondaggi che anticipano il Maggio ’68. C’è anche naturalmente la predica sul fatto che i giovani non hanno valori, non si interessano se non alle cose loro, sono individualisti, ecc.. Quindi, possiamo dire che la borghesia brancola nel buio rispetto a quello che si sta preparando. Anche a sinistra e persino nell’estrema sinistra ci sono tendenze maggioritarie che parlano in maniera rassegnata di una classe operaia che si è “americanizzata”, a cui interessa fare il più possibile straordinari per comprare la macchina, il televisore, la lavatrice, il frigo (alcuni beni di consumo di massa sono in effetti diffusi, in Francia, su larga scala in quel decennio).

Anche l’inizio del movimento del Maggio francese non è subito un inizio che potremmo definire puro, con bandiere rosse in testa, perché i prodromi di quel movimento sono a fine marzo nell’università di Nanterre, dove un gruppo un po’ “sinistrato”, di gente che poi si chiamerà Comitato 22 marzo, organizza una piccola lotta nel campus contro la segregazione tra maschi e femmine negli studentati.

Naturalmente la Francia è ancora, come l’Italia, un paese che esce dagli anni ’50, anni di restaurazione, anche politica, del capitalismo dopo la Resistenza. In più in Francia, differentemente dall’Italia, gli anni ’50 sono gli ultimi anni rabbiosi della decolonizzazione, in cui la potenza economica imperialista della Francia sta decadendo in maniera irrimediabile: c’è la guerra d’Algeria e quindi i militari hanno acquisito un peso forte anche nella vita sociale. De Gaulle è un militare che ha fatto le sue prime esperienze nel 1920, come attendente di un generale francese che era in Russia per fare la guerra contro i bolscevichi, ed è un tradizionalista. Quindi c’è anche una cappa di oppressione religiosa, moralista, nella società francese. Dunque non è strano quello che c’è a Nanterre, facoltà alle porte di Parigi, una zona molto popolare dove in periferia ci sono ancora le bidonville degli ultimi arrivati dalle campagne, degli algerini, dei marocchini, dei tunisini che la Renault, negli anni del boom economico, è andata a prendere direttamente nei villaggi del Nord Africa per portarli nelle grandi periferie di Parigi, di Lione e di altre zone industriali della Francia.

La situazione economica non è il punto centrale, secondo me, della nostra discussione di oggi, ma una cosa bisogna dirla: questa Francia che si annoia, secondo quanto dicono alcuni, che vede all’inizio del 1968 la mobilitazione sulla questione della segregazione uomini-donne negli studentati, in cui ci sono alcune piccole manifestazioni operaie contro una delle tante leggi che riducono la sicurezza sociale, è una Francia che viene da 15-20 anni di grande crescita economica. Dunque anche qui dobbiamo fermarci un attimo perché un altro luogo comune veicolato dalla classe dominante è che le rivoluzioni ci sono quando c’è la fame. Niente di più falso! Ed il Maggio ’68 contraddice totalmente questo luogo comune.

Il Maggio scoppia all’apice di un lungo boom post-bellico generato dalla necessità della ricostruzione dopo la distruzione di mezzi di produzione, vite umane e tanto altro durante la seconda guerra mondiale imperialista. Il punto è che in questa crescita, in questo boom tumultuoso, la classe operaia, in termini relativi, si è impoverita; cioè ha beneficiato solo in minima parte di questo gigantesco boom. Da anni vede che le città crescono, che la società offre possibilità sempre più articolate di soddisfare bisogni e consumi, ma che la classe lavoratrice è sottoposta a ritmi di lavoro infernali. Uno dei poster del ’68 fancese si intitola “a baslescadencesinfernales” ed è contro le cadenze e i ritmi: molto efficacemente raffigura due pugni che spezzano una catena. Un simbolo simile a quello che abbiamo utilizzato negli anni più recenti in Italia, per identificare la nostra campagna di solidarietà con i lavoratori della Fiat di Pomigliano.

Quindi la ricchezza si è generata – in 20 anni si è raddoppiato il PIL francese – ma non si sono certo raddoppiati i bisogni sodisfatti della gran maggioranza della popolazione.

C’è un altro fatto di questa primavera studentesca che sembra ancora indecisa, immatura. A volte la storia ha delle accelerazioni in cui, nel giro di pochi giorni, vengono al pettine dei nodi che sono stati sottotraccia, sotto la superficie, per anni; tensioni accumulate per anni o decenni esplodono ed hanno sviluppi rapidissimi in pochi giorni.

Manifesto contro De Gaulle, che aveva definito in modo sprezzante gli studenti in lotta come “chienlit”, espressione francese più o meno traducibile con “piscialetto”

Il 3 maggio c’è alla Sorbona, centro di Parigi, università più antica d’Europa, una giornata di solidarietà internazionale con il Vietnam. È una giornata di mobilitazione a cui partecipano sostanzialmente solo gli attivisti dell’università: ci sono circa 200 persone nella Corte d’Onore della Sorbona. Mettono una bandiera rossa come sciarpa alla statua di Victor Hugo, però siamo dentro, se vogliamo, ad una sorta di routine.

All’interno della Sorbona non è mai stata chiamata la polizia. C’è una vecchia tradizione universitaria che la rende una sorta di zona franca, non oggetto di interventi della polizia, salvo nel 1940 quando la Francia è stata occupata dai nazisti con l’appoggio di tutto un settore di borghesia francese, capitanata dal maresciallo Petain. In quel momento, invece, viene dato, per la seconda volta nella storia, il permesso alla polizia di entrare in università e mettere “ordine”. Il 3 maggio 1968, davanti ad una mobilitazione che non aveva nulla di apparentemente straordinario o di diverso dal solito, il rettore dell’università chiama la polizia e dichiara illegale la manifestazione alla Corte della Sorbona, che era pacifica.

Uno dei leader studenteschi era Daniel Cohn Bendit, un anarchico che però adesso siede al parlamento europeo nel gruppo dei liberali. Era un demagogo già all’epoca, ma per lo meno temporaneamente da questo lato della barricata. Cohn Bendit tiene un discorso agli studenti e, visto che la giornata di solidarietà con il Vietnam è stata dichiarata illegale, annuncia l’occupazione della Sorbona. Per la prima volta la Sorbona è occupata dagli studenti.

La Sorbona occupata.

L’estrema destra vuole marciare dalla facoltà di legge, che è un po’ sopra la Sorbona, contro gli occupanti e assistiamo subito alla reazione della polizia. Gli studenti si preparano a rispondere e questa è una novità assoluta.

Partono le prime barricate del Maggio francese.

L’intervento della polizia va ben oltre l’evacuazione della Sorbona. È un intervento in cui la polizia comincia a lanciare lacrimogeni per il quartiere Latino, a fare irruzione nei bar… Quello che vediamo è però una reazione rabbiosa: si tiene un corteo spontaneo e ci sono molte persone che si uniscono a quel corteo; a manifestare ci sono studenti, ma anche giovani lavoratori (che saranno molti tra gli arrestati di quella sera, il 3 maggio), che non fanno più gli agnellini sacrificali, ma si organizzano e rispondono, sicuri delle loro ragioni. Quell’intervento della polizia innesca una prima dinamica che nessuno aveva previsto e la reazione della polizia è contrastata dalla popolazione del quartiere, che talvolta lancia oggetti, sedie, mobili giù dalle case per contrastare la polizia. C’è una prima notte di scontri significativi nel quartiere Latino.

I gas usati dalla polizia sono gas che un medico di un ospedale di Parigi chiama “gas di guerra”, “gas da Vietnam”. Non si riesce a capire esattamente quale sia la composizione chimica, perché i danni sono molto alti. Un medico chiama il commissariato della polizia e, insultando il tipo che risponde evasivamente, gli urla: “voi mi dovete dire cosa state lanciando!”

Attorno a questa azione di repressione é come si si incominciasse a catalizzare una reazione più ampia della società. Ovviamente, nei giorni seguenti il quartiere Latino è l’epicentro dello scontro. C’è un tentativo di riconquistare la Sorbona, che è stata militarizzata, che dà luogo ad una notte delle barricate tra il 10 e l’11 maggio. È una prima notte delle barricate in cui la manifestazione, che raggruppa 30 o 40mila persone a Parigi, è convocata dal sindacato studentesco UNEF, dal sindacato degli insegnanti di Parigi, dai Comitati di azione che sono nati nelle varie facoltà (noi in Italia li chiameremmo Collettivi). C’è già una forza di massa. Ci sono, alla fine della prima notte delle barricate che peraltro non riconquista la Sorbona, 400 feriti e 500 arrestati. Il movimento ha preso una magnitudo che nessuno avrebbe immaginato.

Repressione della polizia contro gli studenti alla Sorbona il 3 maggio.

La popolazione è sotto choc, ma solidarizza con gli studenti quando il giorno dopo vede quello che è divenuta Parigi dopo questa notte di scontri e barricate. La CGT (il principale sindacato operaio) convoca per il lunedì successivo – 13 maggio – una giornata di azione nazionale. Sono anche 10 anni dall’arrivo al potere di De Gaulle e quindi la parola d’ordine è “10 ans sont suffi” (10 anni sono abbastanza).

A questo punto la borghesia e il governo cominciano a temere che qualcosa di grosso stia bollendo in pentola. Il primo ministro, un certo Pompidou, è l’espressione quell’ala della borghesia che cerca sempre di frenare i movimenti con delle concessioni. E la domenica, prima del corteo operaio e studentesco del lunedì, riapre la Sorbona. Nelle sue memorie scriverà: “mi hanno contestato per questo, ma io sapevo che il giorno dopo ci sarebbe stato il corteo operaio. E allora cosa sarebbe successo se quel corteo a forza avesse sfondato le linee di poliziotti e avesse preso la Sorbona?” Come era assolutamente possibile visto che, alla forza degli studenti, si veniva a sommare la forza sociale tremenda degli operai. E quindi dovette farlo prima il governo! Per prevenire una situazione di scavalcamento, per prevenire anche che il movimento acquisisse fiducia in se stesso, fiducia nella propria forza, e misurasse anche la debolezza che, in certe situazioni, hanno la classe dominante e l’apparato statale.

La manifestazione del 13 maggio.

Il 13 maggio è un grande successo. Va oltre le previsioni dei vertici sindacali, interessa le zone meno sindacalizzate del paese, quelle del Massiccio Centrale, della Mayenne, dei Pirenei e dei Vosges. C’è veramente un’adesione così alta che dimostra come si sia aperta una breccia grazie agli studenti che hanno iniziato il movimento e anche grazie alla convocazione del primo sciopero nazionale, che i vertici sindacali hanno convocato perché costretti dalla pressione montante.

Ma il punto viene ora. È dopo questa giornata, che permette anche ai lavoratori di misurare la loro forza, che c’è lo scavalcamento e che si può dire inizi una situazione a tutti gli effetti rivoluzionaria e poi insurrezionale. Perché alcune fabbriche, senza aver ricevuto alcuna consegna dai dirigenti sindacali, dal giorno dopo non tornano a lavorare. La Sud Aviation, a Nantes, una fabbrica di 2600 operai che fa i Concorde e lavora sulle commesse per l’esercito, viene occupata e il padrone viene sequestrato nei suoi uffici; uscirà solo due settimane dopo. Il giorno dopo, in una delle fabbriche più importanti della Renault, a Cleon, con 10mila operai, la sezione sindacale della CGT chiede un incontro ai direttori per iniziare una trattativa. L’incontro viene rifiutato. La fabbrica entra in occupazione e tutti i manager e la direzione sono consegnati negli uffici.

Manifesto contro i ritmi di lavoro troppo alti in fabbrica.

In queste roccaforti non era tutto spontaneo, esistevano delle avanguardie operaie. Non ho tempo per entrarci, ma ci sono dei delegati di formazione comunista rivoluzionaria che lì hanno un ruolo soggettivo decisivo. Soprattutto alla Sud Aviation a Nantes, dove il delegato centrale, Yves Rocton, aveva avuto una militanza trotskista e si era fatto dei battaglioni punitivi tra il ’58-’60 quando, richiamato come soldato in Algeria, si era rifiutato di eseguire gli ordini. Quindi la funzione soggettiva dei quadri operai è centrale e non c’è solo la spontaneità della massa. Tutt’altro.

Queste due fabbriche producono l’effetto palla di neve e nel giro di pochi giorni – lunedì 20 maggio – il paese è fermo, paralizzato. Non c’è stato un dirigente sindacale che abbia dato la consegna di farlo: è proprio un sollevamento del popolo lavoratore. Che però si sente appoggiato dalle sue direzioni nazionali, perché la chiamata alla battaglia del 13 maggio è stata interpretata come l’inizio di una riscossa. Grazie alla presenza degli studenti, i lavoratori si sentono appoggiati dal resto della società e prendono forza.

Assemblea alla Renault

I sindacati hanno ancora una grande presa. I sequestri dei padroni e dei manager si fermeranno perché la direzione della CGT, quel tale Seguy di cui vi ho parlato all’inizio, sabato 18 dichiara di non essere d’accordo. La CGT ha un milione e 800mila iscritti, una grande tradizione e questo, in qualche maniera, frena l’aspetto più estremo, più aspro della mobilitazione. Però non frena le occupazioni. La CGT non prende posizione contro le occupazioni. “Silenzio-assenso”, avranno pensato milioni di lavoratori. E vanno avanti. Il paese è paralizzato.

Le discussioni che si affrontano sul Maggio francese tendono a riconoscere lo sciopero generale, ma non a vedere quanto questo sciopero generale produca delle onde importanti anche in altri settori sociali intermedi, perché esprime una grande speranza di cambiamento totale, possibile in quel momento, non in un distante futuro. Il partito comunista francese, come quello italiano, sotto la sua direzione stalinista ha addestrato per decenni i lavoratori a pensare che le cose si devono sempre fare per tappe, gradualmente e di solito mai nel tempo della propria vita, rimandando sempre  l’assalto finale. Italo Calvino, per criticare questo atteggiamento, scrisse una novella che si intitola “La bonaccia”, dove di fatto Togliatti (il segretario del PCI dell’epoca) viene rappresentato come il comandante di un galeone olandese, che dovrebbe dare l’assalto ad un galeone della Spagna cattolicissima, però rimanda sempre a causa delle condizioni metereologiche.

Questo è come hanno provato ad educare i lavoratori, ma la situazione del Maggio rompe questa consuetudine, quest’insegnamento alla rassegnazione e alla passività, perché si apre una possibilità concreta. Ed allora succede che i giovani architetti – per parlare di settori non operai – decidono di sciogliere l’Ordine degli Architetti, considerato come un elemento di casta, corporativo. Succede che persino – lo dico perché siamo in Italia – la Federazione francese di calcio viene occupata da alcuni calciatori delle serie minori, che mettono fuori una bandiera rossa con uno striscione “il calcio ai calciatori” – lo so, fa ridere…

Comizio alla Renault

La Sorbona viene rioccupata e dopo il 13 maggio tutte le università sono occupate. È occupata anche, con tanto di bandiera rossa nel portone di ingresso, l’Opera di Parigi, che non è esattamente l’ultimo luogo della cultura, anche in termini di risonanza mediatica mondiale. All’Odeon c’è una occupazione in cui c’è un dibattito permanente, con un giro di interventi che prosegue ad oltranza.  Quando qualche anno fa a Place de la Republique a Parigi ci sono state LesNuitsDebout, le notti in piedi, è stata ripresa un po’ questa idea – perché a volte i fili della storia si riannodano. C’è anche un grande caos all’Odeon, perché il microfono è completamente aperto e si interviene 24 ore su 24. Immagino che in una situazione del genere possano succedere tante cose e possano prendere la parola gli elementi più strani, però questo elemento iniziale di confusione è anche l’elemento per cui il vecchio ordine si sta disgregando.

E poi entriamo addirittura nel tempio della cultura massima francese, il Festival di Cannes che si svolge proprio nel mese di maggio. Anche i registi risentono del clima di fermento. Truffaut annunciache “non c’è un solo film in cui si parli dei problemi operai e degli studenti, neanche nei miei, in quelli di Godard e Milos Forman, per cui noi siamo in ritardo, dobbiamo unirci alla manifestazioni studentesche. Chiudiamo il Festival di Cannes”. Di fatto il festival si ferma. C’è un po’ di conflitto perché non sono tutti d’accordo, però alla fine Godard e Truffaut lo fanno chiudere, riescono ad imporsi. Quindi questa è la situazione al 20 di maggio.

Entrano in sciopero anche i giornalisti della radio e della televisione, che in alcune occasioni impongono che gli scioperanti possano parlare in televisione e si rifiutano di passare le veline del regime. Ad esempio, a Toulouse per tutto il mese di giugno i giornalisti sono tutti in sciopero tranne uno. Lo Stato ha così paura di un assalto insurrezionale, che le principali antenne che ci sono nel Massiccio Centrale (zona montagnosa nel centro della Francia) vengono difese da uno spiegamento militare eccezionale. Quando il prefetto generale di quella regione chiede forze di polizia per andare a sgomberare i picchetti, non ce ne sono perché sono state mandate tutte a difendere queste antenne, centrali per la comunicazione.

La classe dominante è nel panico. Ora noi, in linea generale, non dobbiamo, secondo me, fidarci di tutti quei discorsi che partono come premessa dall’onnipotenza dello Stato, dei servizi segreti e di tutte queste cose. Perché questo è vero nelle situazioni normali – o meglio non l’onnipotenza, bensì la potenza – ma davanti a movimenti di questa natura nessun regime, nessun governo, nessuno Stato si può mantenere senza delle basi di consenso che siano ristrette ai soli corpi della repressione.

I vertici della polizia e dell’esercito sono nel panico a maggio. Primo perché non si aspettavano degli studenti, dei giovani così tenaci  e determinati a resistergli. Secondo perché davanti all’ingresso deciso e determinato in massa della classe operaia, han sempre ceduto. Questo la storia da quasi duecento anni ce lo dice. Infatti non c’è nessun intervento di polizia per sgomberare le fabbriche. Non ci mettono neanche il becco. Nei rapporti della sezione politica dei servizi segreti, che sono oggi leggibili, si riconosce una situazione rivoluzionaria. Quindi l’avversario di classe, anche durante i fatti, ha ampiamente riconosciuto la situazione rivoluzionaria. Addirittura c’è una città nella Loire-Atlantique, Nantes, che ha un porto sull’Oceano Atlantico, è molto industrializzata e tutto attorno ha la campagna, dove per una settimana si forma quello che in parole russe chiameremmo Soviet e che i francesi chiamano Comité de grève, cioè un comitato di sciopero che unisce operai e contadini della zona. La Francia nel ’68 ha il 38% della popolazione attiva operaia, ma ancora una fetta importante di popolazione contadina. I contadini si uniscono a Nantes allo sciopero, danno gratis i loro prodotti per rifornire la città e per una settimana è il Comitato di sciopero che distribuisce i buoni alimentari. Quindi c’è anche un inizio di esercizio di funzioni amministrative, sociali: si va nei negozi con un buono firmato “Comité de grève”. Quindi lo Stato, in un certo senso, è stato scalzato non solo dalla gestione dell’ordine pubblico, ma da questa forma di organizzazione, questa sì di autorganizzazione dei lavoratori e dei contadini. La società incomincia in un certo senso a ricostruirsi. I prezzi si abbassano del 50%, talvolta dell’80%: il prezzo delle patate passa da 0,80 a 0,12 franchi al kg perché si eliminano i commercianti, la grande distribuzione, i grossisti. Questi sono fatti che, messi tutti assieme, marchiano la vita delle persone.

Più tardi nel movimento entrano anche, con grande forza, le donne dell’industria tessile, che è il settore più massacrato nei venti anni precedenti. A Clermont-Ferrand, dove c’è la sede centrale della Michelin, il padrone non riceve i sindacati dal 1947. Il 20 di maggio, a Clermont-Ferrand, parte un corteo di 10mila operai dalla fabbrica che arriva fin sotto la casa del padrone, François Michelin. Chiaramente si delinea una situazione insurrezionale, non solo una situazione rivoluzionaria, perché la borghesia è sospesa in aria, non ha alcuna leva per poter contrastare questo sciopero poderoso che si sta allargando ad un settore dopo l’altro della società. Ci sono forme aperte di ciò che chiamiamo dualismo di potere, come è il caso di Nantes, dove questa situazione dura appunto una settimana, ma la cosa è molto diffusa. Non c’è alcuna forma di centralizzazione di tutto questo. Non c’è, naturalmente, perché non c’è nei piani dei dirigenti della CGT – per lo meno a livello nazionale, non a livello di fabbrica – e del PCF, che all’epoca è un partito molto grande, addirittura il secondo partito avendo preso il 22% dei voti nel 1967.

Il PCF all’inizio, quando il movimento era soltanto studentesco, l’ha minimizzato, dicendo che si trattava di gauchistes, cioè degli estremisti. Cohn-Bendit, che pure ha tanti difetti, viene però criticato sull’Humanitéin un articolo di George Marchais, futuro segretario del PCF, che lo definisce un gauchiste tedesco. Quindi si usa del nazionalismo, del putrido, schifoso nazionalismo. Quando lo sciopero parte, i dirigenti del PCF e della CGT, che poi agiscono spesso assieme, cercano in ogni modo di dare a quel movimento un carattere solamente sindacale.

Il 24 maggio la paralisi del paese è totale da giorni e chiaramente non può durare all’infinito una situazione di questo genere. Ci sono energie che si spendono, tensioni che si accumulano. Le masse, i giovani, i lavoratori, gli operai cercano sempre uno sbocco ad ogni movimento, tanto più ad un movimento politico di queste caratteristiche rivoluzionarie. Quello che propone la CGT è di aprire una contrattazione con Stato e padroni: una contrattazione di tipo sindacale. Era l’idea che stavano discutendo anche nel consiglio dei ministri,  ma De Gaulle, il presidente, non era d’accordo perché voleva tenere ancora più su il tono dell’autorità dello Stato. In qualche modo questo aiuta a togliere le castagne dal fuoco alla borghesia, che trova un punto d’appoggio nei sindacati. Noi siamo abituati a tempi in cui i sindacalisti vorrebbero i tavoli e i padroni non glieli danno. Dobbiamo fare un sforzo perché lì la situazione è diversa, però la dinamica alla fine ha la stessa logica. Si può avere tutto, chiediamo una parte che non si sa mai, perché sennò dopo come facciamo senza i padroni, senza la controparte, senza la contrattazione?

Ci sono tre giorni di discussioni e alla fine ci sono degli accordi, che la CGT non firma dicendo però che è una pre-intesa, gli accordi di Grenelle (dal nome della via del ministero degli affari sociali). Sono accordi che prevedono aumenti salariali del 10%, un aumento del salario minimo del 35%, libertà sindacale dentro le fabbriche e quindi possibilità di creare sezioni sindacali nelle imprese, e qualche altra riforma minore. È la montagna che ha partorito il topolino.

La borghesia è ben contenta di concedere questo. Non tutti a dir la verità, qualcuno resisterebbe nonostante tutto, però il grosso della borghesia è contento. George Seguy, l’uomo che aveva in mano l’ordine pubblico, si presenta nella più grande fabbrica Renault, a Billancourt nella periferia di Parigi, inizia il suo discorso timidamente, provando a presentare in maniera positiva gli accordi. La platea rumoreggia e poi parte un gigantesco coro di 10mila persone circa che dice “Governo popolare”. Cos’è il governo popolare? Naturalmente è una formula, se vogliamo, confusa, che però traduce una volontà molto chiara: dare a quel movimento uno sbocco politico di rottura. Governo popolare, cioè che vadano al governo i partiti degli operai, il PCF in primo luogo.

I burocrati sindacali, all’epoca, erano più bravi di oggi, quindi Seguy recupera e smette di difendere gli accordi durante il discorso. Però qual è la tattica, a quel punto, della CGT?Lasciare il movimento esaurirsi senza offrirgli una prospettiva. Gli accordi di Grenelle non sono né rifiutati né accettati: restano lì, poi diventeranno anche legge. E’su questa assenza di direzione rivoluzionaria che si gioca l’ultimo pezzo degli eventi del maggio/giugno 1968. Il 6 giugno l’Humanitè, il giornale del PCF, mette in prima pagina, come consegna politica, “Rientrare al lavoro nella vittoriosa unità”.

In quel momento ci sono ancora, nonostante il lavoro ai fianchi fatto dalle burocrazie sindacali, 4 milioni di scioperanti. Quindi c’è un lavoro cosciente dei vertici riformisti del movimento operaio per dire “è finita… abbiamo ottenuto dei vantaggi… bisogna essere graduali… poi saremo più forti… la prossima volta andremo più avanti ancora…”. C’è un lavoro fatto di astuzie, di logoramenti, talvolta di inganno puro e semplice, che complessivamente sfilaccia lo sciopero in assenza di una prospettiva. Ed è in quel momento che la reazione riconquista il pallino, l’iniziativa.

De Gaulle fa un discorso alla televisione. Mentre la società sta esplodendo, in questa trasmissione i vestiti, il tono, la mimica, anche il modo di parlare ricordano più Luigi XV. È una cosa che non parla a nessuno sostanzialmente, salvo che a quei settori più provinciali, rurali, di classi medie conservatrici che continuano ad esistere. De Gaulle parla anche della necessità di un grande mutamento; comunque, ci vuole più partecipazione della gente alla gestione della società. Quindi anche l’avversario principale del Maggio è costretto a dire che sì, bisogna cambiare.

Ma cosa fa veramente, riuscendo a riprendere l’iniziativa, De Gaulle? Il 29 maggio, questo signore qua, che è un ex-militare, va a Baaden-Baaden in Germania dal generale Massu (il comandante delle truppe francesi sul territorio tedesco) per mezza giornata. In quel momento neanche i ministri sanno dove sia De Gaulle. Pare che abbia chiesto se l’esercito era affidabile. Nel corso del mese di maggio, in diverse caserme si erano formati comitati d’azione di soldati. Alcuni hanno fatto appello alla disobbedienza in caso di impiego contro gli operai. Forse non sapremo mai cosa si sono detti Massu e De Gaulle a Baden-Baden, certo è che quando De Gaulle torna a Parigi tutti lo descrivono non soltanto con un uomo vecchio, ma anche stanco, logoro, scioccato dagli avvenimenti, distrutto nella sua percezione di essere sempre stato l’uomo della salvezza della Francia, l’uomo carismatico. Sceglie disciogliere il parlamento– il che mostra che quando ci sono avvenimenti rivoluzionari i destini non si giocano in parlamento – e di convocare nuove elezioni facendo appello all’ordine. Appello conservatore, muscolare, classico: o me o il caos.

Manifestazione gollista del 30 maggio, conclusa davanti al monumento del Milite Ignoto.

Lo sciopero si sta lentamente sfilacciando, gli ultimi grossi contingenti mollano a fine giugno. Il PCF, avversario politico più forte di De Gaulle, imposta la campagna elettorale dicendo: “votate comunista, votate contro l’anarchia e il disordine; il PCF è contro le violenze;  il PCF è stato il solo fin dall’inizio a denunciare pubblicamente le azioni, le provocazioni, le violenze dei gruppi di estrema sinistra, anarchici, maoisti, trotskisti che fanno il gioco della reazione”. Questo è il messaggio del PCF che si presenta alle elezioni dopo un sollevamento della gioventù e della classe lavoratrice. È chiaro che davanti a tutto questo la situazione, nello specchio deformato delle elezioni, torna indietro. E le elezioni le vince De Gaulle. Ma qual è il punto? Il punto è che una rivoluzione e una situazione rivoluzionaria ed insurrezionale non sono qualcosa di statico.

Trotskij e Lenin parlavano di momenti da cogliere, il che non vuol dire che c’è l’ora X, ma di momenti eccezionali in cui si riuniscono le condizioni per poter dare il cosiddetto assalto al cielo. Cioè quando chi governa non è più in grado di governare come ha fatto sino a quel momento, quando quelli che stanno in basso non sono più disposti ad accettare di essere governati come prima. E quando c’è una situazione di effervescenza, di ebollizione, di attività dirompente tra gli sfruttati che si estende anche a settori della classe media. Queste condizioni sono ampiamente riunite nel maggio/giugno 1968 in Francia, manca invece – ed è il punto centrale per noi anche oggi – alla testa del movimento operaio una direzione che sia capace e che voglia dare una espressione compiuta alla volontà di distruggere il capitalismo e di costruire una società socialista.

Cito, a proposito di questo, un pezzo che mi sembra molto pertinente di Trotskij, preso dal capitolo L’arte dell’insurrezione, da Storia della Rivoluzione Russa. Lui parla di come funziona l’insurrezione, di come non bisogna essere formalisti nel giudicare tale questione: “ad ottobre a Mosca e Pietroburgo c’era la maggioranza della popolazione a favore dell’insurrezione. Naturalmente ciò non va interpretato formalmente. Se sulla questione dell’insurrezione si fosse prima fatto un referendum, i risultati sarebbero stati estremamente contraddittori e incerti. L’intima predisposizione ad appoggiare una insurrezione non si identifica completamente con la capacità di rendersi chiaramente conto in precedenza della necessità dell’insurrezione stessa. Inoltre, le risposte sarebbero dipese in larghissima misura dal modo di porre la questione, dall’organismo che avrebbe diretto la consultazione o, più semplicemente, dalla classe detentrice del potere. […] Quando una grande decisione pratica diviene urgente in seguito allo sviluppo degli eventi, è proprio il momento in cui è impossibile far ricorso a un referendum. Le diversità di livello e di stato d’animo dei vari strati popolari sono superate nell’azione: gli elementi di avanguardia si trascinano dietro gli esitanti e isolano quelli che si oppongono. L’insurrezione si sviluppa proprio quando l’azione diretta è la sola soluzione delle contraddizioni.

Esattamente questo era il ruolo che doveva spettare ad una direzione rivoluzionaria: basarsi sui milioni di elementi di avanguardia, trascinare gli incerti mostrando con audacia una via d’uscita. E questo è il maggior crimine politico, ripetuto decine di volte nel corso del ‘900 dai socialdemocratici e dallo stalinismo. Non solo non aver giocato questo ruolo, ma essersi posti, nei momenti decisivi della storia che abbiamo alle spalle, dall’altro lato della barricata come principali forze dell’ordine e del mantenimento del capitalismo, nonostante tutte le etichette. Quindi è in questo senso che l’ultima lezione, il distillato del Maggio francese, è un messaggio di fiducia. Ci insegna che, anche quando tutto sembra addormentato, ci sono contraddizioni che si sviluppano e anche che non c’è movimentismo che tenga: senza un partito rivoluzionario, qualsiasi grande occasione storica risulterà perduta, mancata o colta soltanto a metà.

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