Il populismo di sinistra nel dibattito italiano. A proposito di “La variante populista” di Carlo Formenti.

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Il populismo di sinistra nel dibattito italiano. A proposito di “La variante populista” di Carlo Formenti.

di Vittorio Saldutti

È difficile sottovalutare l’effetto che ha avuto sull’elaborazione teorica della sinistra italiana quel mare grosso che le si è abbattuto contro tra l’inizio degli anni ’80 e quello dei ’90, quando il combinato disposto della fine del ciclo di lotte dei decenni precedenti – e la connessa decadenza delle organizzazioni della classe operaia – e la crisi dell’Unione Sovietica hanno reso tabù il ricorso alle categorie marxiste, e più in particolare leniniste, di interpretazione della realtà. Da allora ha avuto inizio l’affannosa ricerca di una teoria che in qualche modo sublimasse le difficoltà in cui si trovavano i lavoratori come classe individuando nuovi soggetti della trasformazione e nuove forme organizzative in grado di superare i vecchi partiti e sindacati. Gli intellettuali di sinistra si sono così dati alla caccia di idee à la page in ogni angolo del globo, di aggiornamenti a quanto elaborato nei formidabili anni ’60 e ’70, allontanandosi sempre più dalla realtà che volevano comprendere e, forse, cambiare. Si è così prodotta una catena di opere in cui ogni nuovo prodotto intellettuale, ogni anello, dialogava con la teoria precedente e solo con quella, sfruttando le categorie prese in prestito dall’ultimo filosofo di grido, senza porsi più il problema di guardare il reale, ma solo l’immagine che di questo davano altri libri scritti con il medesimo criterio.

Non si discosta da questa pratica la riflessione sul populismo che ha contagiato alcuni settori di movimento in Italia negli ultimi mesi, impressionati dal simultaneo crollo della sinistra e affermarsi del Movimento 5 stelle nei consensi. Alla ricerca della chiave per riconquistare il terreno perduto, alcuni lavori hanno suscitato su quotidiani e siti internet un certo dibattito. Tra questi si segnala per ampiezza delle argomentazioni e successo critico il volume La variante populista di Carlo Formenti.1 L’autore riprende, sebbene con alcuni distinguo, le concezioni espresse da Laclau2 (quanto in maniera corretta e coerente, si vedrà nel testo) secondo cui l’unico modo di fare politica oggi, date le trasformazioni intervenute nella struttura del capitalismo, sia quello di costruire un campo populista. Seguendo la struttura del libro di Formenti analizzeremo in un primo momento la sua descrizione del capitalismo contemporaneo e delle trasformazioni che questo ha imposto ai soggetti della trasformazione, per poi affrontare i risultati ad oggi ottenuti da quell’universo – come questo, in continua espansione –, gli esempi e le parole d’ordine unificanti e necessarie che ci vengono presentati nel testo.

Il capitalismo ai tempi dell’ordoliberismo
Alla base del ragionamento Formenti pone l’idea di un’economia che è oggi finanziarizzata al punto tale che ai manager non viene chiesto di aumentare la produzione, ma di accrescere il valore finanziario delle aziende da loro dirette, concentrandosi nella produzione di denaro dal denaro, con conseguente perdita di importanza del lavoro e dei lavoratori.3 Si sarebbe generata una impersonale “economia dei flussi”,4 in cui merci, informazioni e, soprattutto, capitali si muovono a velocità vorticosa su scala planetaria. Contro questa idea si era già scontrato Marx nel III libro del Capitale, affermando che a valorizzare il denaro è il lavoro e che la crescita esponenziale della dimensione della speculazione non è altro che l’abnorme crescita di crediti tesi ad espandere i confini del mercato oltre i suoi limiti che, nelle condizioni attuali, si sono riproposti con lo scoppio della crisi del 2007. Questa si configura, pertanto, come crisi di sovrapproduzione, che la crescita del credito ha tentato di ritardare il più possibile, aggravandone al contempo le dimensioni.5

Ad ulteriore conferma della validità della tesi marxiana basti ricordare che la crisi è deflagrata nel momento in cui è divenuto palese che una significativa parte dei crediti erogati, quelli relativi all’acquisto di case negli Stati Uniti, non era esigibile, facendo così esplodere la bolla speculativa, contagiando poi gli altri settori economici. Ma è indirettamente lo stesso Formenti a confermare quanto pensava Marx quando sostiene che le stesse imprese, il cui core business non sarebbe più nella produzione, sono intente a cercare di abbattere i costi fissi decentrando gli stabilimenti nei paesi con bassi salari e aggredendo la spesa pubblica dedicata allo stato sociale. Resta inoltre non chiarito come sia possibile che le aziende della new economy, a dire i grandi colossi di internet, che hanno e mantengono le loro sedi nel cuore della ricca California, sono i modelli verso cui guardano le altre industrie, che invece delocalizzano le produzioni.

Queste contraddizioni sono eluse, fondamentalmente perché ricordano all’autore che una classe operaia tradizionalmente intesa non solo continua ad esistere ma, alzando lo sguardo oltre i paesi occidentali, cresce nei numeri, a dispetto anche della crisi economica e anzi negli ultimi anni ha raggiunto il suo massimo storico, assorbendo i contadini assieme ai lavoratori impiegati nei servizi.6

Proprio su quest’ultimi sono concentrate le riflessioni di Formenti, che nella crescita del terziario, assieme alla trasformazioni dell’economia e della politica, individua gli elementi su cui si è costituito il moloch dell’ordoliberismo, ovvero una “Unità ontologica di struttura e sovrastruttura […], dimensione totalitaria che sovradetermina valori, pratiche e comportamenti dei soggetti esposti all’ambizioso progetto di ‘uomo nuovo’”.7 Negli ultimi decenni non solo il modo di produzione si sarebbe trasformato in virtù di un’idea di autoimprenditorialità e autosfruttamento che avrebbe assunto dimensioni colossali, ma la politica si sarebbe assunta il ruolo di promotore della concorrenza e del libero mercato, generando “un sistema di potere che si fonda su un’integrazione pressoché totale tra élite economiche ed élite politiche”.8 La concezione ordoliberista fa il paio con la critica, a cui l’autore dedica numerose pagine, del postoperaismo e delle teorie sulla centralità del lavoro cognitivo che hanno dominato il dibattito in Italia tra la fine degli anni ’90 e i primi anni del nuovo secolo. Si sottolinea, a ragione, come non vi sia nulla di immateriale e di non quantificabile nelle produzioni del capitalismo digitale;9 che è errato intendere il capitalismo contemporaneo come semplice furto, riesumando le idee di Proudhon; ed infine che il livello più alto di sfruttamento, ma anche di risposta allo sfruttamento, è stato espresso nel terziario legato all’industria.

I fatti hanno la testa dura e, alla fine, la montagna partorisce il topolino. Per supportare l’idea di un dominio assoluto del capitalismo finanziarizzato, egli ingigantisce in maniera abnorme la dimensione di fenomeni come Uber e Airbnb, che costituiscono, invece, una quota assai minoritaria di quel vasto mondo che in maniera generica va sotto il nome di terziario, se si guarda dentro il quale si nota che il 40% è costituito da servizi all’industria che negli anni sono stati esternalizzati, e dunque vanno accorpati a questa, mentre il restante 60% è composto da lavoratori che non sono riducibili al paradigma ordoliberista, fatto di disponibilità al lavoro prolungato, tendenza alla delazione contro i colleghi, rifiuto di ogni forma di socializzazione dei problemi. Ad Almaviva, ad esempio, il principale nodo del contendere è stata la contrarietà dei lavoratori al controllo da remoto e in numerose aziende della grande distribuzione sono stati indetti scioperi e proteste contro le angherie dei capetti. Inoltre interi settori in cui l’atomizzazione del lavoro l’ha fatta da padrone, basti pensare alla logistica, negli anni passati sono entrati nella lotta esprimendo una radicalità che era inimmaginabile per i teorici della fine del lavoro. Di questo si rende conto anche Formenti, che recupera una parte dei lavoratori del terziario, da lui definito “arretrato” in contrapposizione con una parte avanzata, ossia quella più qualificata.10 In tal modo il ragionamento cade, però, in contraddizione. Da un lato egli recupera la centralità della produzione nel capitalismo, che in precedenza era stata negata, dall’altro, escludendo dal dominio ordoliberista una così ampia parte della classe, rimane sospesa in aria la categoria dell’“uomo nuovo liberista”. Se ci si riferisce ad un sottile strato di lavoratori collocati nella direzione di aziende tecnologiche o di servizi avanzati, non vale certo la pena di coniare roboanti definizioni e sprecare tanto inchiostro; se al contrario è una realtà che coinvolge ampie fasce della popolazione, come le apocalittiche allusioni ad una mutazione antropologica sembrano far pensare, allora il discorso è privo di coerenza, perché non si dà una società totalitaria che consenta alla maggioranza della popolazione di vivere al di fuori dei suoi paradigmi.11 Infine – ed è l’aspetto determinante – non viene mai chiarito il motivo per cui i dipendenti delle aziende esternalizzate collegate all’attività produttive possano essere arruolabili al conflitto di classe, mentre i colleghi che lavorano al loro fianco nei rami d’azienda non esternalizzati, e che nei fatti condividono le stesse condizioni di lavoro e di vita, non lo possono essere.

La soggettività rivoluzionaria 
Questo interrogativo ci conduce al secondo pilastro del ragionamento di Formenti, ossia la linea di demarcazione tra il dentro e il fuori del sistema economico-politico attuale. Questa distinzione è decisiva all’interno della sua architettura teorica, perché, se l’attuale ordine capitalista ingloba e neutralizza ogni contraddizione, compre-sa quella tra capitale e lavoro, non si capisce chi sono i protagonisti della trasformazione e come si collocano rispetto al capitalismo imperante. Formenti ritiene che quanti sono inseriti a vario livello all’interno del sistema non siano in grado di modificarlo, perché ad esso assuefatti. La possibilità di trasformazione del sistema deve pertanto provenire dall’esterno, dal “di fuori”, per usare le parole di Formenti.12

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Il superamento della demarcazione tra struttura e sovrastruttura non impone più di individuare sul piano economico le contraddizioni e la classe che possa far deflagrare il sistema. Vengono pertanto vagliati tutti i soggetti politici e sociali che hanno animato i conflitti nei passati decenni. Tra questi figurano il movimento femminista, quelli per i diritti sociali e civili, quello ambientalista, ma nessuno passa l’esame della critica di Formenti, poiché “nessun movimento sociale […] è in grado di sottrarsi alla trasformazione in fattore d sviluppo capitalistico”.13

Eppure un fuori deve esistere, secondo Formenti, che per supportare tale idea riprende, decontestualizzandola, una (errata) concezione di Rosa Luxemburg, secondo la quale il capitalismo è in grado di svilupparsi solo conquistando settori esterni ad esso.14 Tanto basta per perseverare nella ricerca di questo mondo esterno. Alla fine della ricerca veniamo a scoprire che esso si incarna nei contadini e nelle comunità, nella maggior parte dei casi indigene, non ancora assorbiti nelle logiche del capitalismo sia da un punto di vista economico che antropologico. Se a questi gruppi aggiungiamo i lavoratori del terziario arretrato, lo scenario appare piuttosto eterogeneo, ma non abbastanza da impedire di individuare un solido criterio che possa spiegare cosa accomuna soggetti tanto differenti. Per questo viene in aiuto la definizione di classe data da Piketty che, svincolandola dall’analisi dei mezzi di produzione, utilizza il criterio del reddito e della ricchezza patrimoniale.15 Pertanto i “diversi strati proletari [appartengono] alla comunità di destino che li inchioda tutti – a prescindere dalle loro differenze reciproche – ai decili di reddito inferiori, mettendoli in una relazione antagonista nei confronti di quell’1% che concentra nelle proprie mani una quota crescente della ricchezza sociale”.16

Proviamo ad entrare nel merito di questo guazzabuglio teorico. Quella contadina è una classe in rapido declino, i cui membri vengono assorbiti ad un ritmo crescente nelle schiere dei lavoratori salariati in tutto il mondo. Ciò avviene non in virtù di un astratto potere magnetico del capitalismo, né per una sua bulimia di esseri umani, bensì per la prospettiva, che esso incarna, di un miglioramento materiale delle condizioni di vita, anche se poi non si dimostra adeguato alle attese.

I contadini sfuggono dalla miseria e si recano in città, dove divengono lavoratori salariati, perché il possesso della terra, in assenza di adeguati strumenti per renderla produttiva, impone una vita che può apparire piacevole solo a chi vi specula su dalla comoda stanza del suo appartamento cittadino. In questo senso, con buona pace della esaltazione antisviluppista di Formenti, il capitalismo ha dimostrato la sua superiorità sul regime feudale, pur con tutte le enormi criticità su cui occorre fare leva per il suo superamento.

Veniamo all’idea, strettamente connessa alla precedente, secondo cui la piccola comunità sarebbe di per sé antagonista rispetto al grande capitale internazionale.17 Il fulcro del ragionamento è che il contatto personale, la dimensione face-to-face della comunità, garantirebbe una sua naturale umanità. Non è necessario qui richiamare le torsioni reazionarie che, al contrario, tale entità sta subendo negli ultimi anni, ma basta ricordare quale incubatore di violenza di genere, razziale, culturale ed economica siano state le piccole comunità nel tempo, quando il contatto quotidiano non impediva ai detentori delle proprietà di imporre condizioni di vita inumane ai loro dipendenti, ed espellere quanti non si sottomettevano a tali condizioni.18 Il movimento operaio nella sua storia è stato in grado di mutuare forme organizzative dalle esperienze democratiche precedenti, ma ipotizzare che i consigli di fabbrica degli anni ’70 possano essere stati una riproposizione delle dinamiche democratiche delle comunità contadine meridionali significa non avere alcuna idea dello stato in cui versavano i contadini meridio-nali e limitarsi a fare una mitologia del piccolo centro. Quello che Formenti definisce elogio dell’arretratezza non è altro, in definitiva, che elevare a feticcio il racconto edulcorato di un eden precapitalistico, che mai è esistito e certo non esiste oggi in nessun angolo del pianeta.

L’esito più importante di questa riflessione concerne la sua applicazione all’occidente capitalista laddove l’autore professa a più riprese19 l’auspicio che la ricostruzione di una soggettività che sia antagonista rispetto ai flussi del capitale possa tradursi in un ritorno alla sovranità nazionale, unica forma di possibile declinazione del concetto di comunità in questi contesti. Per evitare che si ceda all’arrembante propaganda del cosmopolitismo borghese, Formenti getta il bambino assieme all’acqua sporca e proclama la necessità di “superare un’ideologia internazionalista”. Ma come non vedere che nel contrasto alle dinamiche di internazionalizzazione dell’economia la fanno da padroni altri settori della borghesia, non meno rapaci e politicamente altrettanto reazionari? Formenti cade nell’inganno, i cui pericoli furono denunciati tempo fa da Lenin, di avere offuscato la coscienza proletaria mediante l’ideologia borghese, o almeno di parte della borghesia.20 Ciò emerge, come anche altri hanno già notato,21 dall’osservazione della realtà, che non concede esempi alla sua proposta, poiché in ogni angolo dell’occidente imperialista la difesa della sovranità nazionale, da parte di formazioni populiste dà vita a torsioni reazionarie piuttosto evidenti.22

Per una teoria del populismo di sinistra
Ma tutto questo ha un senso e una ricaduta concreta. Si ha la sensazione che ogni sforzo argomentativo sia teso a creare le premesse per l’impiego della categoria che si è scelto di utilizzare: il populismo. Dopo aver individuato un gruppo così variegato di potenziali antagonisti si pone il problema di quale possa essere il collante politico che li tenga uniti. Viene in soccorso la teoria formulata da Ernesto Laclau, secondo cui diverse istanze sociali – domande le definisce – se non trovano risposta da parte delle istituzioni, possono connettersi (in una catena equivalenziale), individuare un fulcro attorno al quale agglutinarsi (un significante vuoto) ed avviare un confronto contro l’alto, ossia l’establishment. Si forma così un popolo contrapposto a chi detiene il potere. La riflessione di Formenti si incunea in un’ambiguità del pensiero di Laclau, che dopo aver ribadito, in aperto contrasto con la riflessione marxista, che le domande inevase, ossia gli attori sociali, non possono essere predeterminate, ma si mettono in relazione nel momento stesso in cui vengono respinte dall’alto, afferma in maniera contraddittoria che “un capitalismo globalizzato crea miriadi di punti di rottura e antagonismo, crisi ecologiche, squilibri tra i settori dell’economia, altissimi tassi di disoccupazione, eccetera, e solo una sovradeterminazione di questa pluralità antagonistica può dare vita a soggetti anticapitalistici globali, capaci di mettere in atto una lotta che sia degna di questo nome. E, come dimostra l’esperienza storica, è impossibile determinare a priori quali saranno gli attori egemonici di questo scontro. Non c’è nulla che indichi con certezza che saranno gli operai. Tutto ciò che sappiamo è che saranno gli esterni al sistema, gli emarginati, i derelitti, quelli che abbiamo definito gli eterogenei: saranno costoro a risultare decisivi nella costituzione della frontiera antagonistica. E ciò significa che l’estensione della categoria di Lumpenproletariat – già avviata dal vecchio Marx, come si è visto – raggiunge qui il suo punto massimo”.23

È difficile immaginare un’affermazione più contraddittoria e un più smaccato recupero di concezioni prescientifiche, ma ancora più incredibile è sfruttare questa crepa in un sistema di pensiero per costruire una teoria autonoma, come fa Formenti. L’antagonismo tra alto e basso, che va a sostituire quello tra destra e sinistra, ha senso solo se si propone uno scontro che non sia produttivo, detto altrimenti, solo se non prefigura un diverso tipo di gestione della società. Il fatto che oggi la distinzione tra destra e sinistra sia in crisi non è conseguenza delle trasformazioni economiche, ma del fallimento della direzione del movimento operaio, che per decenni è stata incantata dalle sirene del riformismo di varia natura e non è stata capace di delineare una prospettiva di rottura con il capitalismo.

E la sua realtà
Non sfugge a questa dinamica, però, neppure una delle formazioni a cui si riferisce Formenti quando prova a dare sostanza tangibile al suo ragionamento. In tutta la parte finale del discorso, quella in cui si analizzano i processi politici che in vari paesi hanno sollevato la questione del populismo, i fatti discendono dalla teoria generale. Detto altrimenti, i programmi e i percorsi dei movimenti populisti di sinistra vengono letti con le lenti della teoria preventivamente formulata. La ricostruzione di Formenti si concentra su tre angoli del globo che sarebbero stati attraversati da tale tipo di fenomeni: le rivoluzioni bolivariane in Ecuador, Bolivia e Venezuela; l’ascesa di Sanders negli Stati Uniti; infine, la Spagna di Podemos e l’Italia del M5S.

Mi sembra preferibile non assecondare l’autore nella disamina di ogni singolo caso, ma sottoporli complessivamente alla verifica rispetto ai pilastri su cui si basa la teoria generale, vale a dire centralità dei contadini e delle minoranze indigene; rifiuto delle organizzazioni tradizionali della classe come partiti e sindacati; rivendicazione della sovranità nazionale; sostituzione di precise rivendicazioni programmatiche con un generico antagonismo rispetto al potere.

Per quel che riguarda la centralità delle classi arretrate, in particolare i contadini, la riflessione si concentra in particolare sulle vicende latinoamericane. Recuperando certa retorica indigenista dello zapatismo, si sottolinea l’importanza avuta in Ecuador e Bolivia (il Venezuela fa eccezione) dalla componente nativa. Ciò non può stupire in un paese come l’Ecuador, dove oltre il 70% della popolazione si definisce meticcia e solo il 6% bianca,24 tanto meno ina Bolivia, dove metà della popolazione è indigena, mentre è di origine europea il 15% degli abitanti.25 Senza voler negare importanza al riscatto di un’identità vessata per secoli, determinante è che questi indigeni siano la spina dorsale della classe operaia dei rispettivi paesi, in particolare in Bolivia dei minatori.

Il secondo punto tra quelli sottolineati vale per l’Ecuador, il Venezuela, la Spagna e l’Italia, ma non per la Bolivia e gli Stati Uniti, dove i movimenti hanno attraversato organizzazioni tradizionali, in Bolivia la Cob e il Mas, negli Usa addirittura un partito borghese come quello democratico. A ben vedere anche in alcuni degli altri paesi le cose sono più complesse, perché, se in generale molti dei movimenti politici degli ultimi anni si sono basati su una critica alle organizzazioni tradizionali identificate con l’establishment, il tentativo messo in atto da alcuni di questi, come quello bolivariano in Venezuela e quello degli Indignados in Spagna, di fondare ex novo delle organizzazioni di riferimento come il Psuv e Podemos non è in alcun modo paragonabile a quanto fatto dal M5S, che pure si è dotato nel tempo di un apparato. L’esigenza stessa di organizzarsi esprime l’insopprimibile necessità dei movimenti di provare ad incidere nella realtà politica.

Sulla sovranità nazionale si osserva il malinteso più grave. Non è possibile, infatti, non vedere come il tema della sovranità nazionale politica ed economica nei paesi dell’America Latina, che ancora negli anni dei movimenti bolivariani hanno affrontato e affrontano uno dopo l’altro tentativi golpisti, sia qualitativamente diversa dalla sottomissione dei paesi europei ai vincoli di Maastricht, per quanto questi siano uno strumento del capitalismo. Anche il caso di maggiore ingerenza, ossia il diktat contro la Grecia, è l’esito di un concorso di colpa con il governo Tsipras, senza il cui assenso la storia avrebbe preso tutt’altra piega. L’eccezione che si osserva in questo ambito è poi colossale, dato che la sovranità nazionale statunitense non sembra poter essere messa in discussione.

Veniamo al punto centrale che distingue l’opposizione tra alto e basso con quello tra destra e sinistra: la prospettiva che orienta i movimenti. Che un grammo di esperienza per le masse valga più di chili di teoria è cosa nota, così come lo è che le esplosioni sociali nascono come generica rabbia provocata dal malessere sociale giunto al limite di sopportabilità, piuttosto che per l’adesione convinta di milioni di persone a complessi programmi rivendicativi. Le micce che hanno fatto esplodere le rivoluzioni del secolo scorso viste di per sé sono ben poca cosa. Ma è qui che interviene la necessità di un’organizzazione e di un programma rivoluzionario, decisivi per rendere efficaci gli sforzi e le lotte delle masse. La più dura critica alle idee dei teorici del populismo di sinistra è che nessuno dei movimenti che loro possono indicare come modelli ha reso stabile la vittoria delle masse di cui era espressione. La crisi dei movimenti latinoamericani è il prodotto proprio dell’assenza di un programma che attraverso l’esproprio dei potentati e la trasformazione dell’economia in senso socialista poteva imprimere una svolta al subcontinente. La sconfitta di Sanders ci dice della necessità di un partito indipendente della classe operaia negli Stati Uniti. L’assenza di una qualsiasi idea di rottura economica con l’élite italiana spiega perché il M5S sia un rallentatore dei processi politici italiani e non un catalizzatore.

Nessuna delle idee di Formenti si può applicare a tutti i modelli scelti, e una teoria generale in cui prevalgono le eccezioni non è una buona teoria. Alla fine della lettura, si rimane privi di conclusioni che siano applicabili nella pratica politica: a chi ci si deve rivolgere per cambiare la realtà, quali parole d’ordine impiegare per aggregare un fronte, soprattutto, per cosa si lotta? Alcune di queste domande trovano risposte confuse, altre non ne trovano alcuna. Oltre al dialogo, per adesione o rigetto, con le idee altrui, alla fine non rimane nulla, solo il sentore che l’autore abbia voluto aggiungere la sua voce al coro, stonato, che negli ultimi decenni si è venuto formando. Ma, piuttosto che continuare ad aggiungere cattive teorie che hanno il solo pregio della novità, occorrerebbe avviare un serio lavoro di riscoperta del pensiero marxista rivoluzionario, un’operazione che recuperi e difenda il patrimonio consolidato in decenni di esperienze da parte del movimento operaio, senza troppo preoccuparsi di dare prova di aver aggiornato al minuto la propria biblioteca.

Note

  • 1. C. Formenti, La variante populista. Lotta di classe nel neoliberismo, DeriveApprodi, Roma 2016.
  • 2. A cui aggiunge alcuni lavori di Loris Caruso, in particolare A response to comments. The structural mobilization factors and the “populist cleavage”: searching connections between social change, economics and politics, Sociologica, 3/2015, 1-28.
  • 3. Formenti, La variante populista, cit., p. 14-16.
  • 4. La definizione, ripresa da Magnaghi, viene utilizzata a p. 122, ma è poi ribadita più volte nel testo.
  • 5. Dinamica che è stata indagata in C. Bellotti, Crisi Debito Default. Rompere con l’utopia, AC Editoriale, Milano 2012.
  • 6. Come emerge dalla seguente tabella, basata sui dati forniti dall’Ilo, che mostra la percentuale dei lavoratori mondiali divisi per settore.
    7. Formenti, La variante populista, cit., p. 92. Negli anni ’50 del secolo scorso la scuola economica di Friburgo, riunita attorno alla rivista “Ordo”, promosse una teoria in base alla quale lo Stato doveva fornire un quadro giuridico, un ordine, tale da permettere al mercato di funzionare. Questa concezione prese il nome di ordoliberalismo. Negli ultimi anni il rapporto tra cornice politico-giuridica e sistema economico si sarebbe, secondo un numero crescente di osservatori, spostato a favore di quest’ultimo, generando quello che viene definito ordoliberismo.
  • 8. Formenti, La variante populista, cit., p. 39. Si completa in questo modo un processo di messa in discussione del rapporto tra struttura e sovrastruttura che, come osserva lo stesso Formenti (p. 38), era stato invertito nel suo ordine marxista da Foucault.
  • 9. Formenti, La variante populista, cit., p. 133.
  • 10. Formenti, La variante populista, cit., pp. 154-157.
  • 11. A maggior ragione che, nella riflessione sul progresso tecnologico (pp. 52-54), si arriva a teorizzare un’imminente espulsione di massa dal ciclo produttivo in seguito all’introduzione della robotica non solo nell’industria manifatturiera, ma anche nei segmenti amministrativi e progettuali. In questo caso non si salverebbe neanche la parte privilegiata dei lavoratori, quelli certamente inclusi nella categoria di uomini nuovi ordoliberisti.
  • 12. “L’errore consiste nel pensare che la mobilità del capitale, l’economia dei flussi, possa e debba essere sfidata sul suo stesso terreno. Ma se è vero che la guerra di classe è oggi guerra fra flussi e luoghi, ciò significa che se sei dentro i flussi non puoi essere contro”, Formenti, La variante populista, cit., p. 189.
  • 13. Formenti, La variante populista, cit., p. 104. La critica ai vari movimenti sociali e politici si legge alle pp. 84-118.
  • 14. Muovendo da alcune considerazioni circa il II libro del Capitale, ne L’accumulazione del capitale, Einaudi, Torino 1972, Rosa Luxemburg si pone il problema dell’allargamento solvibile delle merci (p. 118), ovvero dell’allargamento della domanda. Stando alla lettera della concezione marxista, il capitalismo non potendo accrescere autonomamente la domanda aggiuntiva deve necessariamente rivolgersi a realtà esterne ad esso. Tale processo, però, si concluderà quando tutto il mondo sarà stato fagocitato dal capitalismo che – lascia intendere – collasserà su se stesso (pp. 479-481). Oltre alla conclusione “crollista”, ad essere fragile nel ragionamento è la premessa in base alla quale si vuole adattare uno schema teorico, volto a semplificare la comprensione dei processi economici, con la realtà, irriducibile ad esso.
  • 15. Criterio che, sia detto per inciso, includerebbe sia i lavoratori industriali che gli addetti del terziario avanzato, i quali però, ormai lo sappiamo, sono stati fagocitati dal mostro ordoliberista.
  • 16. Formenti, La variante populista, cit., p. 174.
  • 17. Idea che Formenti fonda su due presupposti: il primo è che le rivoluzioni socialiste siano state, a partire dall’Ottobre, essenzialmente contadine e abbiano nei fatti riproposto forme organizzative tipiche della campagna (pp. 194-196); il secondo che le comunità latinoamericane rappresentino un argine al colonialismo capitalista (pp. 195, 217-220).
  • 18. I comuni medievali nascono grazie a questa espulsione di massa dalle campagne e anche fenomeni più recenti, come il banditismo nel Mezzogiorno d’Italia, sono il prodotto di tali condizioni di vita nelle piccole comunità.
  • 19. In particolare Formenti, La variante populista, cit., alle pp. 206-208.
  • 20. Si vedano a tal proposito le fondamentali pagine di Lenin, “Osservazioni critiche sulla questione nazionale”, in L’autodecisione delle nazioni, Editori Riuniti, Roma 1976, in particolare pp. 36-37.
  • 21. M. Bascetta, “L’identità stanziale del populismo”, Il Manifesto, edizione del 17 febbraio 2017.
  • 22. Nella replica apparsa sul suo blog ospitato all’interno del sito della rivista MicroMega (http://ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2017/02/22/contro-la-sinistra-globalista/) Formenti prova ad uscirne ribadendo le brutture del capitalismo globalizzato, nei fatti assolvendo quelle del capitalismo meno globalizzato dei decenni precedenti. Infine ricorre a quel miscuglio di esempi eterogenei su cui ritorneremo più avanti.
    23. Formenti, La variante populista, cit., p. 142.
    24. Secondo l’ultimo censimento del 2010 (http://www.ecuadorencifras.gob.ec/resultados/).
    25. I dati sono dell’ultimo censimento disponibile, quello del 2001.
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