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Il Pci di fronte alla Resistenza. Democrazia progressiva o rivoluzione socialista?

di Francesco Giliani

 

Il crollo del fascismo ed il macello della seconda guerra mondiale imperialista aprirono un periodo rivoluzionario prolungato che durò fino al 1948. Per spezzare il filo della tradizione comunista, la storiografia ufficiale presenta le lotte della Resistenza come patriottiche o, al più, solamente antifasciste, nascondendo o minimizzando il loro carattere operaio e rivoluzionario. Per cosa lottarono lavoratori e partigiani? Quale ruolo ebbe il Pci ed il suo massimo dirigente Togliatti? Perché la Resistenza non sfociò in una rivoluzione socialista?

L’Internazionale comunista e i Fronti popolari

Nell’agosto 1943 l’Office of Strategic Services (Oss), antenato della CIA, così caratterizzava il Pci:

La nuova linea seguita dai leaders comunisti italiani negli Stati Uniti mostra l’opportunismo che ha caratterizzato sin dal 1935 le direttive di Mosca ai suoi seguaci, in contrasto alla qualità categorica del programma rivoluzionario di 25 anni fa, quando una situazione come quella italiana avrebbe indotto all’installazione dei soviet e alla ricostruzione della società su basi marxiste. Adesso, nella nuova visione comunista, la struttura esistente della società deve essere mantenuta”.1

Questa linea non cadeva dal cielo, ma rifletteva quella che era stata la svolta impressa da Stalin alla politica dell’Internazionale comunista (Ic) lungo gli anni ’30 e sancita in particolare dal VII congresso del 1935. In tale congresso veniva sistematizzata la svolta dei “Fronti popolari”, che imponeva ai partiti comunisti l’alleanza con la “borghesia democratica” (e su scala internazionale la ricerca dell’accordo con Francia e Gran Bretagna) in nome della lotta contro il fascismo e la guerra. La svolta verso il Fronte popolare coincise con la fase della definitiva stalinizzazione dei partiti comunisti nel mondo e con l’avvio dello sterminio di migliaia di militanti e quadri comunisti all’interno dell’Urss, con le “purghe” e i processi di Mosca.

La politica del Fronte popolare fece le sue prime prove in Francia e in Spagna negli anni 1936-39. In entrambi i casi essa portò a sconfitte drammatiche della classe operaia e della lotta antifascista; in Spagna in particolare il Pce e l’apparato internazionale messo in piedi dall’Urss e dall’Ic stalinizzata furono strumenti decisivi nella sanguinosa repressione di ogni spinta rivoluzionaria, come testimonia l’episodio decisivo dell’insurrezione di Barcellona nel maggio del 1937. In Francia seppure lo scontro non arrivò alla guerra civile aperta come in Spagna, il governo di Fronte popolare capeggiato dai socialisti e con l’appoggio esterno del Pcf deluse rapidamente la classe operaia che lo aveva mandato al potere portando nel giro di due anni a una nuova svolta a destra. Così nel giro di pochi anni la politica dettata da Stalin al VII congresso aveva ottenuto i risultati opposti a quelli indicati: il fascismo trionfava anche in Spagna, la Francia e la Gran Bretagna voltavano le spalle all’Urss tentando di accordarsi con Hitler e quella guerra che Stalin pensava di scongiurare diventava ormai inevitabile.

Il Pci, tuttavia, venne toccato solo molto parzialmente da questi sviluppi; se il gruppo dirigente, Togliatti in primo luogo, venne completamente coinvolto nella stalinizzazione, il grosso dei quadri militava nella clandestinità, nelle carceri o al confino e solo frammentariamente era messo al corrente degli sviluppi internazionali. I primi, maldestri tentativi di applicare la politica del Fronte popolare in Italia (con il famoso appello ai Fratelli in camicia nera redatto da Grieco nell’agosto 1936, che invitava le “forze sane del fascismo” ad organizzarsi in un fronte nazionale anti-hitleriano!) non avevano ovviamente avuto grande eco, e la vera prova venne con l’avvicinarsi della caduta del regime.

Fu quindi a partire dalla fine del 1942 che la politica del fronte popolare approdò effettivamente in Italia, concretizzandosi in quella che verrà poi definita la “svolta di Salerno”.

Dalla guerra alla rivoluzione

L’Italia era entrata in guerra impreparata, economicamente e militarmente. Mussolini, impressionato dai successi tedeschi, coltivò l’idea di una guerra rapida a fianco della Germania sviluppando altresì una “guerra parallela” per obiettivi italiani. Con l’approfondirsi della disfatta militare, il malcontento cresceva sul fronte interno. Il razionamento dei beni di prima necessità ed il mercato nero comparvero sin dal ‘41. Dall’autunno ‘42 i bombardamenti alleati colpirono i principali centri industriali, terrorizzando la classe lavoratrice.

Con la crisi di regime maturavano anche gli intrighi di Casa Savoia, della casta militare, del Vaticano e della “fronda” fascista (Grandi, Ciano, Bottai) per scaricare Mussolini, denunciare l’alleanza con la Germania e firmare una pace separata con gli angloamericani. Sentendo di essere seduto su di un vulcano, il padronato cominciò a sbracciarsi a destra e a manca in iniziative “antifasciste”. Il direttore della Banca Commerciale, Mattioli, promosse un circolo che sosteneva i vecchi liberali ed in cui confluirono esponenti della neonata Democrazia Cristiana (Dc). Generali al centro degli intrighi per il coup d’Etat antimussoliniano ricevettero promesse di aiuti da parte industriale. Nessuno voleva che il capitalismo fosse travolto insieme al fascismo. Ma la talpa della rivoluzione lavorava. “La disciplina di guerra, i soprusi dei padroni, la presenza della milizia in molti reparti, le razioni insufficienti, i bombardamenti, le notizie dal fronte, acuiscono ogni ora di più uno stato d’animo che qualcuno non esita a definire prerivoluzionario2 annotava Lizzadri, dirigente socialista, dopo una riunione di partito nel febbraio ‘43. Gli scioperi del marzo aprirono il conto alla rovescia per il regime. 150mila operai scioperarono, si scontrarono con l’apparato repressivo fascista e vinsero per la prima volta dopo circa vent’anni. La debolezza dell’autorità statale diede più coraggio anche ai contadini, tra cui crebbe l’insubordinazione. L’opposizione cresceva nelle università. Il capo della milizia fascista Galbiati notò che nel 1943 era “crescente il numero degli studenti, in specie universitari, che non esitano a calpestare i più sacri sentimenti di patria”3 e che proliferavano “sette rivoluzionarie”.

Da un lato, la classe operaia usciva rafforzata e fiduciosa dal primo scontro serio. Dall’altro, una parte decisiva del padronato cambiò linea rispetto al fascismo. Giovanni Agnelli, che fino al 1942 parlava ancora di vittoria militare finale, dopo gli scioperi del 1943 abbandonò il Duce, che ormai puzzava di cadavere, ed intensificò i contatti con gli angloamericani. Lo sbarco alleato in Sicilia il 10 luglio ed il bombardamento di Roma il 19 dello stesso mese resero la destituzione di Mussolini un’esigenza immediata.

Anche il Pci tentò di partecipare alle manovre per sbarazzarsi del Duce. In accordo col Centro Interno, due intellettuali, Geymonat e Marchesi, dichiarano la disponibilità dei vertici del Pci alla collaborazione coi monarchici. I due domandarono ai liberali Bonomi, Bergamini e Casati di essere posti in contatto con le gerarchie militari. Il Pci non avanzava alcuna pregiudiziale antimonarchica ma soltanto di essere incluso in un governo democratico, perfino con una partecipazione limitata ad un solo ministro.

Il 25 luglio ’43 la destituzione di Mussolini, sostituito dal maresciallo Badoglio, fu una “rivoluzione di palazzo” che puntava ad anticipare il movimento rivoluzionario delle masse. Il regime fascista cadde come un castello di carte. La continuità delle istituzioni borghesi fu assicurata dai capi militari. Il fascismo italiano, dopo essere stato l’araldo ed il modello della reazione, si rivelò uno degli anelli più deboli della catena capitalista. La sua caduta fu di avvertimento per la reazione come la sua ascesa lo era stata per la rivoluzione.

Il 26 luglio lo sciopero era generale in buona parte del centronord e le manifestazioni di gioia per la caduta del fascismo dilagarono nel Paese. Secondo la Direzione Generale della Pubblica Sicurezza “Gli operai domandavano la costituzione immediata di consigli di fabbrica, il licenziamento immediato dei capi e degli operai squadristi, mentre facevano la loro comparsa emblemi sovversivi, bandiere rosse e simboli con la falce ed il martello”.4 Ad inizio agosto lo stato d’assedio instaurato dal governo Badoglio con la famigerata circolare Roatta riportò l’ordine con decine di lavoratori uccisi nelle piazze. Spesso, però, l’esercito aveva rifiutato di sparare sugli operai. Mentre democratici come Salvemini, non comprendendo la logica della rivoluzione proletaria, si attendevano che gli Alleati distruggessero la macchina da guerra italiana, ai centri dell’amministrazione militare italiana venne concesso un respiro perché si potessero organizzare contro le masse insorte.

Il governo Badoglio continuò la guerra. La firma immediata di un armistizio avrebbe infatti rischiato di aprire un periodo di vuoto politico quando le truppe alleate erano solo in Sicilia. Non si sarebbe così aperta una breccia per il movimento operaio? Non era allora forse meglio l’occupante nazista che gli operai “rossi”? Per il delegato militare tedesco a Roma “solo il governo Badoglio può impedire la scivolata dell’Italia verso il comunismo5 e per questo lo si deve appoggiare. Badoglio ribadì al delegato tedesco: “Se questo governo cade, sarà sostituito da uno bolscevico. Questo non è né il nostro né il vostro interesse6 Lo stesso Churchill scrisse a Roosevelt che “non ho la minima paura d’avere l’aria di voler riconoscere Casa Savoia o Badoglio, sempre che costoro siano gli uomini capaci di far fare agli italiani ciò che a noi serve per i nostri scopi di guerra: scopi che verrebbero certamente ostacolati dal caos, dalla bolscevizzazione o da una guerra civile7 La paura della rivoluzione univa le borghesie al di là delle alleanze militari.

L’applicazione della linea unitaria escludeva qualsiasi azione di lotta contro il governo Badoglio che avrebbe reso più difficili i negoziati con gli Alleati. Sul terreno sindacale, il Pci concesse piena collaborazione al governo. Roveda scrisse al generale Ruggero una lettera in cui proponeva D’Aragona e lui stesso come commissari per la ricostruzione sindacale nell’esplicito scopo di riportare la calma nelle fabbriche. Il ministro del Lavoro, Piccardi, colse l’occasione e nominò il dirigente del Psi Bruno Buozzi, Roveda (Pci) e Quarello (Dc) alla testa dell’ex sindacato fascista dei lavoratori dell’industria come commissario e vicecommissari. A metà agosto i bombardamenti ripresero violentemente, soprattutto a Milano, epicentro degli scioperi di fine luglio, mentre la penisola veniva progressivamente occupata dall’esercito tedesco. I sindacati, costituiti per iniziativa dello Stato, mostrarono la loro natura durante l’ondata di scioperi del 17-20 agosto. Piccardi così ne parlò anni dopo: “toccò a me andare a Torino per cercare di farle cessare: collaborarono con me, in piena unità d’intenti, Bruno Buozzi e Giovanni Roveda”.8

Dopo la firma dell’armistizio, i vertici militari fecero tutto il possibile per evitare un’insurrezione. Se l’8 settembre non si sviluppò un’insurrezione generale, nondimeno lo Stato borghese si squagliò. Le baionette dei due eserciti occupanti divennero il principale pilastro dei capitalisti. Al Nord, la repubblichetta di Mussolini era una finzione per salvare la faccia al vecchio alleato caduto in disgrazia, a Brindisi, invece, nelle parole di Churchill “il re e Badoglio installarono un governo monco che, sotto lo sguardo attento di una commissione alleata, non possedeva gran autorità all’infuori dei palazzi dove si era stabilito“.9

La rinascita del movimento operaio

Il risveglio della gioventù e della classe operaia prese inizialmente la forma di miriadi di gruppi clandestini, spesso guidati da vecchi militanti comunisti o socialisti. La maggior parte di questi gruppi si richiamava al comunismo, senza però avere legami formali col Pci all’estero o col Centro Interno ricostituito da Massola soltanto nell’agosto 1941. In queste formazioni era assente la linea di unità nazionale. L’attività di questi gruppi prese slancio particolarmente dopo l’invasione nazista dell’Urss. Si moltiplicarono i volantini e le scritte murali a favore dell’Urss, di Lenin e di Stalin: era l’espressione dell’orientamento politico di gruppi che creavano spontaneamente dal basso una militanza dedita alla lotta per la rivoluzione ed al comunismo. È esemplare il gruppo genovese di Fillack e Buranello, entrambi studenti. L’organizzazione si dichiarò nel maggio 1942, senza aver preso contatti col Centro del Pci, comitato centrale del Pci per la Liguria. Al suo interno si discutevano il Manifesto di Marx ed Engels, l’ABC del Comunismo di Bukharin, testi di Stalin ma anche i libri sulla rivoluzione russa scritti da Trotskij. Bottai, gerarca responsabile della gioventù, confermò la spaccatura tra gioventù e regime commentando amaramente: “Dei giovani, qua e là, sono arrestati, imprigionati, confinati. Ma sono i “nostri giovani”, usciti dalle avanguardie, dai gruppi universitari, dai centri di formazione del partito”.10 A Roma la selezione del gruppo dirigente del Pci si fece scartando burocraticamente i vecchi compagni operai del gruppo Scintilla, nel partito dalla fondazione, e quelli raccolti attorno a Cerilo Spinelli, critico del patto Hitler-Stalin, per promuovere un gruppo di giovani intellettuali (Ingrao, Natoli, Lombardo Radice, Trombadori, Alicata) acquisiti alla politica di fronte popolare ed in contatto col centro di Parigi del Pci dal ’38, provenienti dai gruppi universitari fascisti o dagli ambienti dell’opposizione liberale.

La svolta dell’Urss verso le democrazie occidentali, rilanciata dopo il giugno 1941, data l’assenza di un’organizzazione del Pci in Italia, ebbe subito ripercussioni solo nell’esilio attraverso la ricerca di un accordo al vertice con le forze antifasciste disponibili. Nell’ottobre 1941 si tenne la riunione di Tolosa tra Pci, Psi e Giustizia e Libertà, di tendenza democratica. Nel contempo, Massola scriveva: “Deve essere chiaro che tale governo [un governo che si appoggia sulla volontà del popolo e sul carattere nuovo della Guerra, NdR] non sarà un governo socialista (ripetiamo che il nostro obiettivo immediato non è il socialismo) ma un governo democratico”.11 Togliatti, da Mosca, indicò i compiti fondamentali per il partito: costruire un Fronte Nazionale esteso a tutte le forze d’opposizione, monarchici, cattolici e perfino fascisti dissidenti. Alla fine del 1942, però, il Fronte Nazionale restava soltanto un’etichetta, gli accordi al vertice stentavano infatti a tradursi nella realtà. Nel Pci questa politica provocava incomprensione e nella seconda metà del 1942 si delineò un fenomeno inquietante per il gruppo dirigente: l’opposizione interna si organizzava.

La forza di questo processo rivoluzionario risiedeva nella spontaneità e nella volontà di ispirarsi alla rivoluzione russa, orientamento che portava con sé il rifiuto di stringere alleanze con le forze politiche e sociali compromesse col fascismo, monarchia innanzitutto. La debolezza essenziale di questo risveglio delle masse stava nella confusione rispetto all’Urss ed a Stalin. Per la maggior parte di questi militanti Stalin era il capo della rivoluzione mondiale che sarebbe risultata dall’unione tra l’Armata Rossa e gli operai rivoluzionari italiani ed europei. Fino a quando l’unico avversario sembrò essere il fascismo questa confusione poté sembrare ininfluente. Diventò decisiva quando, davanti ai compiti della lotta rivoluzionaria, si sviluppò l’urto inevitabile tra i promotori della politica di unità nazionale ed i gruppi comunisti sorti nella lotta al fascismo.

Durante il ventennio fascista l’apparato clandestino del Pci si era mostrato più solido di quello socialista. Tuttavia, la repressione continua dell’Ovra e le crisi interne al partito ebbero effetti nefasti e dal 1934 il Centro Interno si sciolse. Allo scoppio della guerra il gruppo dirigente del Pci era in crisi politica e disperso geograficamente. Nel luglio ‘42 ricomparve l’Unità che in dicembre era un bimensile con 4mila copie di tiratura. Solo nell’agosto ’43 si formò una direzione interna composta da Scoccimarro, Longo, Secchia, Li Causi, Roasio, Massola, Roveda, Novella, Negarville e Amendola. Questi uomini, guidati da Secchia, formavano un gruppo acquisito alla politica di alleanza coi partiti democratico borghesi. Furono decisivi per inquadrare una serie di militanti usciti dal carcere dopo aver vissuto da lontano il passaggio dalla politica ultrasinistra del “socialfascismo” (primi anni ’30), violentemente antisocialista, a quella del fronte popolare. La presenza di Longo e di Roasio è rivelatrice. Entrambi si erano formati in Spagna nella caccia contro i militanti del Poum, i trotskisti, gli anarchici.

Pci e crisi rivoluzionaria al Sud

Dopo l’armistizio, la politica del Pci nei confronti di Badoglio si indurì. Tuttavia, le posizioni di fondo non si modificarono. Longo si preoccupava che toni accesi nei confronti del governo Badoglio inducessero i lavoratori a pensare ad una rivoluzione socialista. Scoccimarro replicò che una collaborazione col governo avrebbe portato alla rottura del Cln, date le difficoltà già esistenti di controllare il Psi ed il PdA. Da Radio-Milano-Libertà Togliatti appoggiò Longo esprimendosi per una linea di allargamento del governo all’antifascismo. La posizione di Scoccimarro non esprimeva una frazione “di sinistra” interna all’apparato. Scoccimarro credeva che il suo orientamento fosse più capace di resistere alle spinte classiste. Sia Longo che Scoccimarro credevano che “oggi i più grandi ostacoli ci vengono da sinistra”.12 Anche l’analisi sullo stato del partito era identica: “Dissidentismo comunista. È un problema su cui richiamo la vostra attenzione. C’è del dissidentismo a Napoli (ma non ne abbiamo precise informazioni); c’è del dissidentismo a Roma, c’è a Milano e ci sarà senza dubbio altrove. C’è del dissidentismo anche dentro le nostre file. Queste tendenze si collegano ideologicamente al neo massimalismo che fiorisce nel PS. Queste varie e diverse correnti possono ad un certo momento tendere a coalizzarsi e trovare una base nella immaturità politica delle masse operaie italiane, specie tra i giovani”.13 La crisi al vertice che scosse il Pci discendeva dalle paure che suscitava la linea dettata da Mosca. Il fallimento dei negoziati portati avanti nel gennaio ‘44 tra Badoglio e i dirigenti del Pci, Reale e Spano, per entrare nel governo conferma che la posizione “dura” risentiva della volontà di evitare una crisi che avrebbe annientato l’autorità del gruppo dirigente togliattiano. La direzione nazionale al V congresso del Pci, dicembre ’45, ricordò così quel momento: “Molti fra i vecchi quadri respingevano decisamente la politica di unità nazionale e ponevano come compito fondamentale l’organizzazione di formazioni armate che scendessero in lotta per conseguire immediatamente obiettivi socialisti. […] A Catania per esempio, i compagni sostenevano che il nemico principale delle popolazioni liberate erano gli inglesi contro i quali bisognava rivolgere la nostra attività anche per impedire loro di proseguire vittoriosamente la guerra ed evitare che essi potessero arrivare in Germania prima dell’esercito rosso… Infatti, quando nel mese di novembre giunse in Sicilia, nelle Calabrie e nelle Puglie l’opuscolo del compagno Spano ‘I comunisti e l’unità nazionale contro l’invasore’, opuscolo nel quale era più particolareggiatamente trattata la linea del nostro partito, esso fu accolto da alcuni con scetticismo, da altri addirittura con indignazione. Molti dei vecchi compagni giudicavano essere questa linea un vero e proprio tradimento del comunismo“.14

Quando il 1° ottobre i carri armati alleati entrarono a Napoli, la città si era già liberata da sola, prima in Europa ad insorgere vittoriosa contro il nazifascismo. Ciononostante, la città cadde sotto il comando degli Alleati e del governo Badoglio. La ricostituzione del Pci a Napoli si era realizzata attraverso la fusione di gruppi senza contatti col Centro. Alla sua testa si trovavano militanti che possedevano il minimo comun denominatore di aver avuto riserve e critiche sulla politica di Stalin (Mancini, Palermo, La Rocca). All’indomani della liberazione rientrò in città Reale a nome della direzione nazionale, scontrandosi immediatamente col Comitato Federale. Quando il 1° ottobre un migliaio di comunisti invase la prefettura gridando “Viva la Russia dei Soviet” e chiedendo la destituzione del prefetto Soprano, Reale deplorò l’azione assieme ai liberali. Sicuro di essere in minoranza, Reale preferì impedire alla maggioranza dei compagni la discussione. “La sede rimase chiusa per ben quattro giorni, e questo atto costituì il volontario, deliberato distacco del gruppetto Reale; essi arbitrariamente sottrassero alla massa dei comunisti napoletani il loro luogo di riunione“.15 Così spiegarono la scissione gli oppositori di sinistra che si trasferirono in Piazza Montesanto. La scissione avvenne sulla democrazia interna ma la differenza era anche programmatica. La federazione di Montesanto si dichiarava per l’abbattimento della monarchia marciando su Brindisi, attraverso una mobilitazione indipendente dai partiti borghesi. L’opuscolo Ciò che ci divide, prodotto da Montesanto, chiariva ulteriormente le differenze con la politica nazionale del Pci: “Noi siamo per l’unità: non per quella fittizia e formale, ma per l’unità rivoluzionaria e marxista che nell’ora angosciosa e tremenda fa trovare spontaneamente i veri rivoluzionari sul terreno concreto della lotta“.16 Nonostante lo slancio iniziale, l’isolamento nazionale ed internazionale unito a forti pressioni spinse gli oppositori a porre fine alla scissione e ad accettare la direzione di Reale.

Ad ogni grande crisi, ad ogni svolta storica, le masse contadine del Meridione hanno cercato di occupare le terre. Fu così nel 1860 e nel 1919. Fu così anche nel 1943-1944. Questi movimenti furono essenzialmente spontanei ed accompagnati da scontri coi proprietari terrieri e l’apparato repressivo dello Stato. Ovunque scoppiano rivolte e addirittura “repubbliche rosse” (Piana degli Albanesi, Maschito, Caulonia, S. Michele Salentino ecc.). I proprietari terrieri facevano appello agli Alleati per la difesa dei loro privilegi. Le truppe coloniali francesi, destinate al mantenimento dell’ordine in Calabria, fallirono. Cacciati il giorno, i contadini rioccupavano le terre la notte. Nonostante il potente paternalismo alleato, anche la classe operaia era in moto, soprattutto a Napoli, Bari, Taranto e nelle miniere di zolfo siciliane. L’epurazione, bloccata da Alleati e governo, spingeva gli operai all’azione perché, come sostenne un gruppo di militanti della Navalmeccanica di Napoli, “se l’epurazione deve assumere il ruolo di una farsa, noi la trasformeremo in una tragedia“.17 Questa situazione venne analizzata da differenti federazioni del Pci (Catanzaro, Salerno, Messina, Foggia, Catania, Siracusa ecc.) come l’inizio del processo rivoluzionario aperto dalla sconfitta tedesca e dalla fine della guerra. La soluzione doveva giungere da un’alleanza tra operai e contadini. Un dirigente della federazione di Catanzaro scrisse: “Quando i Tedeschi saranno battuti, cioè fra qualche mese, voi, contadini, siate pronti per l’azione che vi deve rendere l’autentica giustizia: che la terra e il frutto del vostro sudore siano vostri“.18 Secondo questi compagni la caduta del fascismo apriva una crisi storica, non soltanto di questa forma di dominazione di classe ma della borghesia in quanto classe dominante. Particolarmente fuori controllo era Salerno, dove la federazione e la Camera del Lavoro erano state ricostruite sotto la guida di due oppositori: Ceriello, bordighista, e Mannucci, oscillante tra trotskismo e bordighismo. La federazione pubblicò, senza autorizzazione alleata, il proprio giornale intitolandolo Il Soviet. Gli Alleati si affrettarono a sequestrare la stamperia, arrestare i tipografi e condannare ad un mese di prigione con la condizionale e a 25mila lire di multa Ceriello e Mannucci. Benché membri del Cln locale, i dirigenti salernitani non facevano mistero delle loro convinzioni, scrivendo sul giornale del Cln provinciale: “L’azione del partito comunista non ha per fine un’affermazione platonica dei principi socialisti, ma mira unicamente all’obiettivo, che è la fine e l’inizio del suo programma, di conquistare il potere o in maniera esclusiva o attraverso l’eliminazione di tutte le altre correnti politiche che tendono ad ottenere le simpatie del proletariato” e l’integrità rivoluzionaria che ha mantenuto “consiste nella necessità proclamata e non rinviabile di prendere prima il potere politico per realizzare in seguito, attraverso la dittatura del proletariato, le sue finalità economico-sociali”.19 Queste posizioni erano analoghe a quelle espresse al congresso delle federazioni della Sicilia orientale (Catania, Siracusa, Ragusa, Messina), convinte di avere la stessa posizione dei dirigenti nazionali. Lo stupore dovette essere enorme quando alla conferenza meridionale del Pci del 26-27 gennaio ‘44 i delegati intesero dal relatore che “se noi volessimo oggi fare la rivoluzione, faremmo un favore a Hitler“.20

Dall’inizio del 1944 si intensificarono le manovre burocratiche (riunioni segrete, calunnie, scioglimento di organismi democraticamente eletti, nomine dall’alto), organizzate da Spano, per mettere al passo le federazioni ribelli ed impedire un loro coordinamento, soprattutto una saldatura con gli oppositori di Napoli. La lotta contro gli oppositori a Napoli, Salerno, Cosenza e Catanzaro fu portata avanti frontalmente, utilizzando la repressione assieme all’offerta di posti ministeriali per i più malleabili (Palermo divenne sottosegretario alla guerra). In Sicilia, invece, data l’assenza delle correnti comuniste antistaliniste, il Centro meridionale preferì agire con prudenza, tenendo il Pci siciliano fondamentalmente isolato dalla discussione nazionale. Ovunque ebbe un ruolo centrale l’appoggio dell’Urss a Togliatti.

La Cgl “rossa”

La Cgl rinacque sotto l’impulso di militanti comunisti perlopiù contrari alla politica di unità nazionale. A Napoli, città marcata dall’insurrezione vittoriosa ma anche da importanti fenomeni di disgregazione sociale, la reazione del movimento operaio fu immediata. La Cgl rinacque nel novembre ‘43, diretta da Enrico Russo, segretario della Fiom napoletana e della federazione regionale del Pci negli anni ’20.21 Nel segretariato meridionale della Cgl tutti i rappresentanti del Pci erano oppositori di sinistra (Russo, Gallo e Iorio). Il Psiup aveva Di Bartolomeo, trotskista, e Zvab, protagonista delle 4 giornate al Vomero. Il movimento operaio, appena ricostituito, dovette subire l’enorme peso delle armate alleate. Gli Alleati approfittarono della fame utilizzando come strumento controrivoluzionario supplementare il loro controllo sulle derrate alimentari, cercando di salvare al contempo le illusioni sulla loro benevolenza.

La Cgl, salita a 150mila iscritti, tenne il 18-20 febbraio ’44 il congresso di fondazione a Salerno, alla presenza di più di 2000 lavoratori. Dopo mesi di attesa ottenne dagli Alleati i quantitativi di carta e l’autorizzazione necessari per un proprio giornale, Battaglie Sindacali. Nell’editoriale del primo numero, Russo chiariva che al sindacato attribuiva una funzione classista non limitata alle rivendicazioni economiche ma diretta a “realizzare l’emancipazione del proletariato e la civiltà del lavoro” dato che, anche dopo il crollo del fascismo, “i capitalisti ed i bancarottieri dispongono ancora di quelle ricchezze che le sudate fatiche degli operai produssero nelle officine e nei campi”.22 Al congresso Villone, partendo dal conflitto inconciliabile tra borghesia e proletariato, indicava la buona norma di sfruttare le debolezze momentanee dell’avversario perché “il proletariato deve e può nel momento attuale sfruttare il vantaggio che gli deriva dal marasma in cui versa la società capitalistica italiana, per infliggerle il colpo mortale”. Mentre la dirigenza del Pci sudava sette camice per imporre una politica di alleanza con la borghesia, da Salerno emergeva un’intransigenza classista che condannava ogni compromesso con forze non proletarie perché “ogni alleanza, ogni compromesso con la classe borghese è da questa accettato soltanto quando essa sente di non poter esercitare il suo sfrenato dominio sul proletariato, ma con un unico scopo: di riportare il proletariato in condizioni di assoluto asservimento”. Tra le mozioni approvate, spicca quella presentata da Di Bartolomeo a favore della socializzazione dei grandi mezzi di produzione e di scambio in cui si dichiarava “di non riconoscere alcun programma di ricostruzione nazionale che tenda a rivalutare la proprietà privata ed a ricostituire il privilegio del capitale sul lavoro”.23

Il dibattito sulla guerra mise in evidenza l’ala moderata del sindacato, guidata dagli azionisti di Gentili e spalleggiata dai rappresentanti ufficiali dei partiti operai. La mozione conclusiva, infatti, appoggiava la guerra alleata. Tuttavia, nel dibattito era emersa la posizione dell’ala rivoluzionaria di Russo che aveva difeso un intervento operaio nella guerra contro i nazifascisti “solo a patto che sia davvero ed essenzialmente operaio, con ufficiali prescelti dagli stessi soldati. Nessun operaio, nessun contadino, è disposto a recarsi ad affrontare la morte se non per la libertà ed un avvenire migliore della classe proletaria”.24 Nelle conclusioni, però, Gentili fece appello a sostenere l’azione della Giunta Esecutiva dei Cln nominata a Bari.

Il congresso di Salerno mise in evidenza l’enorme potenziale dei lavoratori del Sud e lo spazio che potevano conquistarsi dei rivoluzionari. Nonostante la presenza di un’ala riformista, rafforzatasi nei mesi successivi, il bilancio di quel congresso fu positivo ridando fiducia e unità ai lavoratori.

Agli inizi del febbraio ‘44 la Camera del Lavoro di Napoli aveva organizzato un movimento di 5mila impiegati dei servizi pubblici e diretto l’occupazione delle ferrovie Circumvesuviane dove i lavoratori riuscirono a cacciare i dirigenti fascisti, seguiti da altre fabbriche del napoletano. A Taranto, l’8 febbraio, 12mila lavoratori avevano invaso la prefettura domandando più salario e la fine della monarchia. Soldati e marinai, sotto il comando alleato, si rifiutarono di sparare sugli operai. Queste lotte esemplari, non sempre convocate dalla Cgl, erano comunque dirette da suoi militanti, molti dei quali si trovarono a Salerno. Questa vivacità inquietava il Pci, al punto che l’Unità scrisse: “[queste lotte] pongono, per la loro sola esistenza, un grave problema politico: quello di farle cessare, perché la calma continui a regnare nel paese, perché sia mantenuta la più solida unità nel fronte interno nella lotta armata contro l’invasore tedesco“.25

Svolta di Salerno

I fatti principali del marzo ’44 furono il riconoscimento del governo Badoglio da parte dell’Urss e lo sciopero insurrezionale al Nord che coinvolse centinaia di migliaia di operai. Accompagnando il rientro di Togliatti in Italia, le Izvestia chiarirono che “l’attuale scopo degli sforzi dell’Unione Sovietica è di far sì che tutte le forze antifasciste italiane si riuniscano intorno al governo Badoglio“.26 Togliatti scrisse brutalmente che “non possiamo oggi ispirarci ad un sedicente interesse ristretto di partito, o ad un sedicente interesse ristretto di classe… È il partito comunista, è la classe operaia che deve impugnare la bandiera degli interessi nazionali che il fascismo e i gruppi che gli dettero il potere hanno tradito”,27 candidando il Pci a governare in nome della patria capitalista. Togliatti sostenne che i partiti antifascisti dovevano accantonare la questione istituzionale e formare un governo che unisse le forze impegnate nella guerra. La direzione di Milano adottò il 17 aprile, all’unanimità, una risoluzione che approvava l’iniziativa. Il Pci entrò al governo per la prima volta nella storia e la nuova linea venne presentata come una manovra o tattica momentanea. Ciò permetteva ai dirigenti di rivendicare continuità col marxismo-leninismo sostenendo che gli obiettivi finali restavano immutati.

Il secondo governo Badoglio, con l’appoggio dei partiti del Cln, mise in moto un poderoso processo di ricostruzione dello Stato borghese. Nessuna seria epurazione venne messa in pratica, si assicurò il salvataggio per i vertici militari compromessi col fascismo e con la mancata difesa di Roma e si rafforzarono i corpi repressivi dello Stato, a partire dai carabinieri, deboli numericamente e demoralizzati a causa del disprezzo della popolazione, che li associava al fascismo, e delle misere condizioni economiche. La svolta di Salerno non ebbe una portata strategica perché era in linea con la politica seguita dall’Internazionale comunista stalinizzata dal 1935. Coincise, certo, con un approfondimento della lotta della dirigenza del partito contro le spinte rivoluzionarie maggioritarie nel Pci. Ma fu soprattutto percepita come svolta strategica dai militanti, i quali non avevano vissuto direttamente la politica dei fronti popolari negli anni ’30 e le sue tragiche conseguenze.

L’opposizione della Cgl al nuovo governo era un ostacolo rilevante al progetto togliattiano. La posizione espressa da Battaglie Sindacali non lasciava spazio a mediazioni perché riaffermava che “nessun governo di collaborazione con elementi responsabili del fascismo può risolvere i problemi della crisi politica ed economica, né soddisfare le aspirazioni delle masse“.28 Al Consiglio Nazionale del Pci del 30-31 marzo Togliatti sostenne con decisione che bisognava interpellare Russo, provare a convincerlo (e Togliatti provò invano a farlo offrendogli di diventare segretario della Cgl al posto di Di Vittorio a guerra finita) e, in caso di rifiuto, sconfessarlo iniziando una controffensiva assieme al Psiup. Il punto di svolta fu la nascita della Cgil, il 4 giugno a Roma, sulla base di un patto Pci-Psiup-Dc e della benedizione di governo e vertici alleati. Quest’accordo precipitò la crisi all’interno della Cgl. Per paura di essere tacciate di scissionismo, molte Camere del Lavoro e categorie diedero l’adesione alla nuova Confederazione, che nasceva all’ombra dell’unità nazionale. Davanti alla profondità della crisi, il Comitato Esecutivo della CdL di Napoli votò un ordine del giorno per entrare nella Cgil, al fine di non dividere il movimento sindacale, mantenendo però la lotta perché il sindacato si basasse sulla lotta di classe, l’unità operaia e la democrazia interna. L’ingresso nella Cgil come corrente classista (Comitato per la sinistra sindacale) non poteva essere tollerato dalla neonata direzione sindacale che aveva ormai l’autorità per imporre la dissoluzione del Comitato che, secondo Di Vittorio, “con l’affermazione del postulato della lotta di classe … mira a provocare una scissione con i democratico-cristiani“.29 Inoltre, il Pci impose che Di Bartolomeo, democraticamente eletto, non diventasse il direttore di Battaglie Sindacali, trasformatosi in organo della CdL di Napoli.

Comunisti che si opposero a Togliatti

L’espressione “nuovo partito comunista”, martellata da Togliatti e dai suoi, non era retorica. “Nuovo” perché nasceva, se non contro il “vecchio”, quello di Bordiga e Gramsci, certo contro ciò che di esso restava, contro la sua tradizione rivoluzionaria.

Nel 1926 la vittoria del fascismo aveva congelato la storia comunista in Italia contemporaneamente all’azione delle masse. Quella storia fu sospesa quando l’Internazionale comunista non era più quella di Lenin ma non era ancora diventata quella di Stalin, presentando ancora tracce positive – e non solo cicatrici – di nome Bukharin e Zinoviev, con Trotskij non ancora completamente al bando. I militanti restati in Italia, con sacrifici e sofferenze, non erano stalinisti. Non avevano conosciuto nulla del ruolo controrivoluzionario dello stalinismo a livello internazionale.

Una congiunzione tra i settori rivoluzionari all’interno del Pci ed i gruppi di oppositori più consistenti (Bandiera Rossa a Roma, Stella Rossa a Torino, la Frazione di sinistra nel Sud, Il Lavoratore ed il Fronte Proletario Rivoluzionario a Milano) fu l’incubo del gruppo dirigente. Tanto più che le rispettive posizioni avevano molto in comune. Come Stella Rossa insisteva sul fatto che gli obiettivi degli Alleati non erano cambiati dopo il giugno ’41, “la loro guerra è una guerra imperialista-democratica”, così molti militanti del Pci dicevano a voce alta che la guerra degli angloamericani non era la loro. Il Cln era considerato da Stella Rossa una maschera della borghesia con l’obiettivo che “i lavoratori abbandonino il terreno della lotta di classe e versino il loro sangue per instaurare un regime democratico nel quale lo sfruttamento capitalista della massa lavoratrice continuerebbe quasi senza problema”;30 in quello stesso periodo un rapporto sul Pci genovese segnalava che molti compagni criticavano la partecipazione al Cln come “abbandono dei nostri principi“.31 Anche sulla fraternizzazione coi proletari in divisa tedeschi, l’internazionalismo degli oppositori è, ad esempio, della stessa natura di una lettera di protesta di militanti del Pci di Roma: “Perché si parla così spesso di tedeschi e non di borghesia tedesca”?, rendendo più difficile “giustificare domani l’unità del proletariato italiano e tedesco per la distruzione delle loro rispettive borghesie”,32 o dell’atteggiamento di tante brigate partigiane comuniste.

La debolezza politica principale di questi gruppi era che, contrari alla politica di unità nazionale, Stalin era ai loro occhi l’incarnazione del difensore dei popoli oppressi. Quando dubbi c’erano non venivano espressi pubblicamente per paura di essere sottoposti ad una pressione maggiore da parte del Pci e di isolarsi dalla classe operaia. Nessuno di questi gruppi comprese il nesso tra la politica estera dell’Urss e la linea del Pci. Credere che Togliatti stesse tradendo le direttive di Stalin creò un enorme sbandamento quando apparve chiaro che era proprio “Ercoli” la voce di Mosca.

Il recupero del Pci fu pertanto rapido. Se durante la clandestinità a Roma Bandiera Rossa ed il Pci avevano un peso simile, già nell’autunno del ’44 Bandiera Rossa stagnava attorno ai 5mila in tutto il Lazio mentre il Pci raggiungeva già i 40mila nella sola provincia. A Torino, ancora sotto il dominio nazista, il Pci contava nell’autunno 10mila iscritti quando Stella Rossa, fino alla primavera più radicata, s’aggirava attorno ai 2mila. Con la liberazione del Nord lo sviluppo del Pci s’accelerò esponenzialmente. I dirigenti del Pci, ben conoscendo le aspirazioni rivoluzionarie della propria base, temevano che dei rivoluzionari svolgessero un lavoro di frazione nel partito. Ecco perché Secchia rifiutò la riammissione nel partito milanese a Repossi e Fortichiari, eletti nel Comitato Esecutivo del Pci al congresso di Livorno del 1921 e legati a Il Lavoratore, per paura che difendessero “le loro idee all’interno, ed è un fatto che all’esterno del partito sono impotenti”.33 La richiesta di democrazia interna nel Pci era tacciata invariabilmente di “trotskismo”.

Caso particolare è la Frazione di sinistra dei comunisti e dei socialisti italiani. L’attacco alla Cgl di Napoli coincise con quello al gruppo dei comunisti che la dirigeva. Dall’aprile ‘44 l’Unità riportava valanghe di espulsioni. Questo attacco portò alla fondazione della Frazione di sinistra per opera di Pistone, divenuto trotskista a Parigi negli anni ’30, Russo e Villone assieme ad un gruppo di quadri bordighisti. Bordiga, nonostante le pressioni enormi che ricevette, non si mosse. Il fondatore del Pci negava la ripresa rivoluzionaria della classe operaia. Nata a Salerno e a Napoli, la Frazione si diramò in tutto il Sud, raggiungendo probabilmente la cifra di 10mila militanti nell’estate ’44, di cui un migliaio a Napoli. Vi partecipavano militanti del Pci, invitati a restare nel partito, ed espulsi vecchi e nuovi. La forza della Frazione derivava principalmente dalle posizioni conquistate nella Cgl, vero ponte verso le masse fatto saltare da Togliatti.

I limiti politici della Frazione furono tuttavia fatali. Il rifiuto della tattica del fronte unico, un’impostazione settaria che negava l’utilità di parole d’ordine transitorie, come il controllo operaio, la terra ai contadini e la confisca dei beni della famiglia reale, e democratiche, come l’abbattimento della monarchia e la libertà di riunione, di stampa e di sciopero continuamente violate dagli Alleati, in grado di mobilitare le masse sulla via rivoluzionaria e infine la decisione di uscire prematuramente dal Pci nel luglio ’45, furono gli errori di settarismo che compromisero definitivamente il lavoro politico della Frazione.

“Doppiezza”

Parallelamente all’“estremismo” ed al “settarismo” denunciati dai vertici, nel partito si faceva spazio la credenza in una doppia linea del Pci, la doppiezza. Di ogni azione che poteva apparire impregnata di opportunismo, inconcepibile per i militanti, la direzione del Pci lasciava intendere che si trattasse di una manovra per avvicinarsi meglio al comunismo. Scarpone, in un rapporto a Secchia, lo informava che “Molti pensano che la nostra politica fondata sul Cln non è altro che una manovra, un diversivo; la grande maggioranza [dei partigiani] vuole prendere conoscenza della nostra teoria, vogliono che gli spieghiamo come sarà la società comunista, vogliono lezioni di materialismo”.34 Su questo terreno Togliatti poté far crescere, a proprio uso e consumo, il mito della doppiezza del Pci: riformista all’apparenza ma in verità unico partito veramente rivoluzionario. La linea ufficiale, moderata, sarebbe servita per ingannare gli avversari, mentre in realtà, sotto questa copertura, ci si sarebbe preparati alla presa del potere non appena la situazione fosse migliorata, magari con la liberazione del Nord e la partenza delle truppe Alleate. Rispetto all’avvenire, i dirigenti del Pci preferivano intrattenere l’equivoco, lasciando intatta l’ambiguità di certe formulazioni come democrazia progressiva. La doppiezza presentava il vantaggio di non opporsi frontalmente alle aspirazioni degli operai e dei partigiani, non trasformando i loro dubbi sulla linea del Pci in una cosciente opposizione di sinistra.

Democrazia progressiva o democrazia operaia?

La nuova pratica politica accelerò una revisione teorica del marxismo: lo Stato non veniva più presentato come organo di dominio di una classe sull’altra ma come struttura che la classe operaia avrebbe potuto trasformare dall’interno grazie all’azione dei suoi rappresentanti nelle istituzioni; il blocco storico anticapitalista era sostituito dall’alleanza col Psi e la Dc, abbellita presentandola come parte del fronte comune delle masse lavoratrici e non come il nuovo partito della grande borghesia. La prospettiva di una lenta opera di trasformazione in senso democratico dello Stato borghese sembrava avere una base teorica nuova ma in realtà era la riedizione della vecchia teoria gradualista della socialdemocrazia. Perfino dai dirigenti nazionali del Pci furono pressanti le richieste per spiegare al partito una svolta che sembrava rompere con tutta la storia passata. Secondo Colombi “anche i vecchi compagni, perfino i quadri, hanno bisogno che il partito li aiuti a dare una spiegazione teorica di una linea politica che ‘ha rivoluzionato’ alcuni canoni fondamentali del marxismo-leninismo. Basti pensare al problema dello Stato; Marx e Lenin e Stalin hanno affermato con forza e chiarezza senza pari che lo Stato borghese si abbatte, che non lo si trasforma. Oggi, non solamente entriamo in un governo di coalizione, ma designiamo i nostri migliori compagni per occupare posti ed incarichi nell’apparato statale borghese”.35

La classe operaia può governare senza prendere il potere, dirigere il paese senza bisogno di una rivoluzione che espropri i capitalisti: è questa l’idea fuorviante che si cercò di inculcare ai militanti comunisti con la teoria della democrazia progressiva. Tipico era l’appello della segreteria nazionale del Pci agli organismi periferici di moderare l’antimilitarismo dei giovani militanti perché il Partito “attraverso i propri rappresentanti nel governo si sforza di migliorare … il carattere ancora reazionario degli organismi militari italiani”; Togliatti parlava della “nostra banca nazionale” come se si fosse stabilita una coincidenza di interessi tra Stato e proletariato. Largamente diffusa era l’idea che la fabbrica era ormai cosa degli operai, in virtù della forza conquistata nella resistenza. Longo superò tutti nell’approfondire questa confusione che mirava ad evitare movimenti verso l’esproprio: “Se noi non poniamo il problema della conquista del potere, è chiaro che le officine e tutte le industrie restano ai capitalisti e, pertanto, già per forza di cosa, lasciamo sussistere questa classe. … Da noi, purtroppo, il settore capitalistico sarà quello che dominerà. Ma sarà interesse di tutti seguire onestamente la marcia delle classi lavoratrici per la ricostruzione nazionale, nel senso che le classi lavoratrici, per la loro attività, sono quelle che realizzano più conseguentemente la politica di ricostruzione. Così, noi vediamo che, in fondo, chi dirige realmente è la classe lavoratrice”.36

Cln e assemblea costituente

La borghesia era completamente dipendente dalle baionette alleate per mantenere il suo dominio. Nella condizione di fermento delle masse, dominate da intenzioni insurrezionali, con la rovina della piccola borghesia, sempre più ostile all’influenza reazionaria della borghesia, il compito dell’imperialismo alleato di restaurare “l’ordine” in Europa doveva assumere la forma di manovre astute e complicate, cioè la democrazia borghese. Dati i rapporti di forza, la sola potenza militare non era sufficiente per raggiungere gli obiettivi dei capitalisti. Era quindi necessario demoralizzare ed illudere le masse con le panacee di “progresso”, riforme e democrazia opponendole agli orrori della dittatura. A questo servì il Comitato di Liberazione Nazionale (Cln) con la sua ideologia piccolo borghese e nazionalista.

Il Cln non era un’organizzazione di massa o l’embrione di un potere sovietico ma un organismo di vertice costituito in proporzione paritaria da Pci, Psiup, Dc, azionisti, liberali e democrazia del lavoro. La composizione paritetica gonfiava il peso dei partiti borghesi, meno radicati nella società, ed il meccanismo delle decisioni all’unanimità forniva ai dirigenti del Pci e del Psiup il pretesto per rinunciare ad ogni azione giudicata troppo audace da democristiani e liberali. Dalla svolta di Salerno alla crisi ministeriale scatenata da destra a fine ’44 la burocrazia del Pci giocò un indispensabile ruolo di mediatore per tenere unito a tutti i costi il Cln: moderò il repubblicanesimo di Psiup e azionisti, rinunciò all’insurrezione a Roma, si impegnò a disarmare i partigiani a guerra finita. Longo e Secchia, in omaggio alla doppiezza, tendevano a presentare i Cln come embrione del futuro governo “popolare”. La riduzione dei Cln ad organismi di ornamento fu però realizzata nei mesi successivi alla Liberazione. Ad Amendola toccò affermare il carattere inoffensivo dei Cln, che avrebbero al massimo assicurato una “funzione unitaria di mobilitazione popolare in appoggio all’azione del governo”.37

Il Consiglio di Gestione (Cdg) fu l’organismo analogo ai Cln nelle fabbriche dove, per creare confusione, nacquero anche i Cln d’azienda. L’insurrezione dell’aprile ’45 lasciò molte fabbriche, specialmente di padroni collaborazionisti, nelle mani degli operai. Il Cln assunse immediatamente la gestione attraverso la gestione commissariale, come alla Fiat. I Cdg vennero fondati dall’alto per impedire lo sviluppo di forme di potere operaio e per incanalare la spinta operaia alla collaborazione di classe. Colombi intervenne immediatamente sulla natura della “gestione nazionale” delle industrie, prima che si consolidasse l’idea che i Cdg costituissero in realtà socializzazioni “mascherate”: “La classe operaia e il suo partito …non propongono soluzioni che sono proprie della rivoluzione socialista. … il proporre tali soluzioni, risolvendosi in una frattura del fronte antifascista, sarebbe contrario agli interessi nazionali”;38 nel Cdg “l’intervento operaio in Consiglio di gestione non è ostruzionistico, ma cooperatore e perciò costruttivo; infatti il Consiglio di gestione non tocca la responsabilità del capitale e la possibilità di una effettiva direzione dell’azienda da parte del responsabile della produzione, sia esso direttore generale o consigliere delegato, poiché, a parità di voti, prevale il voto del presidente”.39 Completavano il quadro il rispetto del segreto commerciale e la facoltà per i proprietari di eludere il controllo operaio per motivi di urgenza o di ordinaria amministrazione. Appena ebbero rapporti di forza più favorevoli, alla Fiat nel ’47, i padroni, spesso amnistiati dalle accuse di fascismo, poterono farsi riconsegnare le loro proprietà messe a nuovo dai Cln, mentre i dirigenti del Pci gettavano fumo negli occhi discettando sul ruolo dirigente della classe operaia nella vita nazionale.

La Costituente venne presentata al V congresso del Pci (dicembre ’45) come “l’inizio di un rinnovamento profondo e radicale di tutta la vita del Paese”. Le speranze dei lavoratori dovevano, secondo i dirigenti del Pci, essere riposte nella “elaborazione di una nuova Costituzione e nelle attività dei governi che usciranno dalla Costituente e dalla successiva Assemblea Legislativa” che avrebbero preso “le misure necessarie per condurre a termine la distruzione di ogni residuo fascista, per dare fondamenti indistruttibili a un regime di democrazia, per creare le basi di un’Italia nuova”.40 Smentendo la tesi della continuità Gramsci-Togliatti, canonizzata dagli intellettuali del Pci, l’approccio che sviluppò, secondo un suo compagno di carcere, il comunista sardo prevedeva invece che il Pc “deve fare sua, prima degli altri partiti in lotta contro il fascismo, la parola d’ordine dell’Assemblea Costituente, non come fine a sé, ma come mezzo. La Costituente rappresenta la forma di organizzazione nel seno della quale possono essere poste le rivendicazioni più sentite della classe lavoratrice, nel seno della quale può e deve svolgersi, a mezzo dei propri rappresentanti, l’azione del partito che deve essere tesa a svalutare tutti i progetti di riforma pacifica, dimostrando alla classe lavoratrice italiana come la sola soluzione possibile in Italia risieda nella rivoluzione proletaria“.41 Il programma del Pci per la Costituente era tutto orientato contro le forme politiche vecchie e sconfitte del dominio capitalista e si conciliava con le nuove. Le illusioni che la repubblica democratica fosse il quadro sufficiente per soddisfare le proprie rivendicazioni – e perfino per realizzare il socialismo – furono alimentate dai dirigenti del Pci, aiutati dall’assenza di esperienza del parlamentarismo da vent’anni. Sicure su che cosa non volevano, le masse non avevano chiarezza sui mezzi per raggiungere le loro finalità.

Rivoluzione tradita e assenza del partito rivoluzionario

La storiografia italiana sulla Resistenza ha sempre concordato su un punto: il periodo 1943-1948 non fu rivoluzionario e la prospettiva comunista era roba da sognatori. Scartata d’ufficio l’ipotesi di un processo rivoluzionario con spiegazioni che solitamente non superano le 5 righe su libri di 300 pagine, su tutto il resto ci si può scannare amabilmente…

Per Lenin l’esistenza di una situazione rivoluzionaria era legata a tre condizioni obiettive: una spaccatura nella classe dominante, l’oscillazione della piccola borghesia verso la classe operaia ed una radicalizzazione della classe operaia. L’esistenza del partito rivoluzionario era necessaria per portare il processo rivoluzionario a compimento attraverso la presa del potere da parte dei lavoratori. Esistevano queste condizioni in Italia? Per gli operai che hanno partecipato agli scioperi ed alle lotte di quegli anni la cacciata dei tedeschi e la distruzione del fascismo non erano che un primo passo verso l’instaurazione di una società socialista. La stessa amarezza per l’esito successivo della lotta conferma questa tesi: “Noi volevamo distruggere la proprietà privata, volevamo che il lavoro fosse un bene di tutti, un diritto di tutti. Aspiravamo ad una società senza sfruttati né sfruttatori, e da questo mi pare che siamo ancora lontani”.42 La guerra di liberazione era concepita come abbattimento del capitalismo: “Quando la sera facevamo le riunioni parlavamo di come costruire la società socialista, il comunismo, non d’altro”.43

La borghesia aveva problemi anche per controllare la piccola borghesia. Sin dalla primavera del 1943 il mondo contadino è in fiamme. Si va dalle occupazioni di terre all’assalto ai municipi per bruciare registri delle imposte e carte di proprietà fino all’assalto degli ammassi, poi ribattezzati Granai del Popolo. L’ammasso era odiato dai piccoli contadini, costretti a vendere i loro prodotti sottocosto mentre i grandi proprietari terrieri, controllando gli ammassi, si sottraevano alla raccolta arricchendosi scandalosamente al mercato nero. L’inflazione galoppante e la scarsità della tessera annonaria furono le cause del crollo del tenore di vita anche degli impiegati. Quest’enorme immiserimento li portò a lottare con metodi operai e ad organizzarsi non in sindacati corporativi ma nella Cgil. A Palermo, il 19 ottobre ’44, una manifestazione di dipendenti pubblici fu dispersa dai carabinieri facendo 19 morti. Una protesta di 5mila impiegati a Bari l’8 gennaio 1945 inaugurò un biennio di forti mobilitazioni tra i dipendenti dello Stato. Il mondo studentesco, nel 1922 serbatoio del fascismo, era in movimento verso sinistra. Ne fu un riflesso la fraseologia socialista che assunse il Partito d’Azione (PdA), tipico raggruppamento intellettuale pieno di pregiudizi verso la classe operaia. Davanti a questo equilibrio di forze decisamente sfavorevole, la borghesia italiana, indebolita e screditata dal crollo del fascismo, combinò due tattiche: repressione e ricerca di collaborazione coi capi riformisti del movimento operaio. Da Badoglio a Bonomi fino a Parri, furono utilizzati politici borghesi sempre più spostati a sinistra. Pci e socialisti restarono al governo fino al 1947. La borghesia aveva chiamato socialisti e comunisti al governo per avere uno scudo, per non fare direttamente i conti con le masse. Col passare del tempo, la borghesia si faceva sempre più esigente con i partiti operai al governo. A Togliatti toccava difendersi dall’accusa di volere cambiare la società. La confessione è eclatante: “Ci è stato detto che bisogna tranquillizzare le classi possidenti. Ma io vi chiedo: che cosa abbiamo fatto fino ad oggi che possa far perdere loro la tranquillità? Che cosa abbiamo fato di così minaccioso, di così terribile? Quali misure sono state prese per incidere sui privilegi delle classi possidenti? Nessuna o quasi nessuna! Non abbiamo fatto il cambio della moneta, perché è stato levato contro di noi uno spauracchio, per non lasciarcelo fare. Non ci siamo messi d’accordo per applicare un’imposta sul patrimonio. Non sono ancora stati riveduti i contratti di lavoro delle principali categorie industriali e quindi non sono state riconquistate quelle posizioni che i nostri operai avevano conquistato prima del fascismo, e alcune delle quali erano riusciti a mantenere anche dopo, mediante la loro resistenza. Non abbiamo ancora rifatto i contratti per i lavoratori agricoli”.44

Nell’aprile ’45 la sciopero generale operaio e la lotta partigiana si unificarono. Per una decina di giorni a cavallo del 25 aprile esistettero embrioni di potere operaio: i comitati d’agitazione clandestini si trasformarono in commissioni interne, molte fabbriche erano occupate, i partigiani e gli operai in armi esercitarono il potere reale più che le autorità nominate dal Cln. La grande borghesia, con Dc e liberali ancora privi di una base sociale di massa e che nell’estate ’45 volevano rinviare le elezioni, deve appoggiarsi alle direzioni riformiste del movimento operaio per reggere l’urto dei lavoratori.

Una dichiarazione autorevole sulla questione della presa del potere è Togliatti a darla: “Alla fine della guerra, la situazione era tale che non ci sarebbe stato difficile prendere il potere ed iniziare la costruzione di una società socialista. La gran parte del popolo ci avrebbe seguito”.45 I capi del Pci erano non solo convinti della possibilità di prendere il potere ma anche del fatto che le masse glielo chiedevano ma non vollero prendere il potere. Particolarmente in Europa, infatti, è stato solamente per l’appoggio dei dirigenti stalinisti e socialdemocratici che il capitalismo ha potuto sopravvivere alla guerra. L’assenza di una direzione realmente comunista è quindi stato l’elemento decisivo nell’impedire una rivoluzione operaia in Italia. Il Pci non fu quel partito perché, malgrado la volontà e la dedizione dei militanti, i dirigenti tradirono quelle lotte.

Le obiezioni: arretratezza del Sud e cannoni alleati

Nel dibattito che da decenni attraversa la sinistra ritornano spesso obiezioni alla nostra analisi della Resistenza come rivoluzione tradita. Due meritano particolare attenzione: la presenza delle truppe angloamericane che avrebbero represso nel sangue qualsiasi rivoluzione e una pretesa arretratezza politica del Sud rispetto ad un Centro-Nord dove invece la presa del potere sarebbe stata possibile.

Il gruppo dirigente del Pci sostenne dopo il ‘45 che la presenza delle truppe alleate doveva inibire qualsiasi iniziativa rivoluzionaria, pena finire stroncati come in Grecia. È evidente il ruolo controrivoluzionario che giocarono in Europa gli eserciti alleati (che non chiamiamo mai “liberatori”). Non esitarono a utilizzare la mafia ed ex fascisti per contrastare i comunisti. Appena sbarcati in Sicilia nel giugno 1943, gli agenti dell’Oss Corvo e Scamporino si precipitarono a Favignana per liberare i mafiosi confinati dal fascismo. Le nomine a sindaco svolte antidemocraticamente da ufficiali militari alleati beneficiarono proprietari terrieri e boss mafiosi, come Calogero Vizzini. Salendo lungo la penisola, la musica non cambiò. Pur preferendo esporre i carabinieri (spesso coordinati da ufficiali alleati) nella repressione di agitazioni contadine, i generali alleati tuttavia non esitarono a mandare truppe per schiacciare l’occupazione delle terre del Marchesato di Crotone. Verso gli scioperi operai l’atteggiamento non fu meno tenero. Una delle prime ordinanze emesse in Sicilia vietava lo sciopero (ma allora a cosa serviva avere di nuovo dei sindacati liberi?). In Campania, a seguito di un’ondata di scioperi nel maggio-giugno 1944, il governatore militare alleato Chapman il 3 luglio proibì lo sciopero, rendendolo addirittura passibile della pena di morte nel settore dei telefoni. Scandalosamente, la direzione regionale del Pci appoggiò questa ordinanza col pretesto che bisognava prima vincere la guerra.

La forza dell’imperialismo anglo-americano era però accompagnata da debolezze. Utilizzare l’esercito, formato in gran parte di operai, contro una eventuale insurrezione operaia in Italia sarebbe stato rischioso. La schiacciante maggioranza dei soldati inglesi parteggiava allora per il partito laburista, che nel 1945 avrebbe vinto in maniera schiacciante le elezioni politiche. Anche negli Usa il fronte della lotta di classe si andava scaldando e nel 1944-46 si verificò la maggior ondata di scioperi operai nella storia di quel paese che sfidarono anche la severissima legge antisciopero approvata anche dalle dirigenze dell’Afl e del Cio.46 Idee rivoluzionarie si diffondevano anche tra i soldati di stanza in Italia. Un rapporto dell’Oss racconta con preoccupazione che per il 1° Maggio diverse jeep americane e francesi sono state avvistate con una bandiera rossa ben in vista sulla carrozzeria; un altro segnala che militari inglesi di stanza in Puglia partecipavano attivamente alla diffusione di un giornale comunista messo al bando dalle autorità alleate. Significative le lamentele al Governo Militare Alleato da parte della direzione della Sme per il comportamento di un sergente statunitense che, partecipando come membro del governo militare alleato a trattative tra padrone e operai, sottoscrisse le accuse di dispotismo e filo-fascismo mosse dalla commissione interna all’azienda.

L’arretratezza politica del Sud è un altro mito poco fondato. Nonostante la presenza più esigua di classe operaia rispetto al Nord (10% degli operai su una popolazione del 24%), dalla ricostituzione della Cgl a Napoli nell’inverno 1943 tra la classe operaia del Sud cresceva il fermento. Già abbiamo detto della situazione nelle campagne dove il ruolo dei dirigenti del Pci fu quello di pompieri, senza mai avanzare la parola d’ordine della terra ai contadini. Tradite dai partiti di sinistra, le masse meno politicizzate potevano sbandare a destra, come il caso del referendum monarchia-repubblica dimostra. Queste oscillazioni dipendevano però dalla politica riformista e patriottarda della sinistra. Così Napoli, definita nel 1944 dagli alleati capitale antimonarchica, votò nel 1946 in maggioranza per il Re. Ugualmente fece la Sicilia dove non più tardi del dicembre 1944 scoppiò la più grande rivolta antimonarchica della guerra. Nessuno voleva partire per una guerra che si sentiva fatta in nome di interessi non propri. Le manifestazioni di piazza contro la coscrizione divennero una vera e propria insurrezione a Ragusa ed in altri centri della Sicilia orientale dove, solitamente, militanti comunisti e socialisti le guidarono. Ragusa restò alcuni giorni nelle mani degli insorti. Ma il governo Bonomi mandò l’esercito per domare quella sacrosanta rivolta che l’Unità definì con disprezzo un “rigurgito fascista”,47 fornendo così ai generali buona coscienza per la repressione, conclusa nel mese di febbraio con la fine della repubblica popolare di Piana degli Albanesi (PA).

Se la classe padronale non avesse avuto in Italia un Togliatti, avrebbe dovuto inventarlo: dove rinvenire un capo che, gravemente colpito in un attentato, trova ancora la forza di una sola raccomandazione, ‘niente avventure, niente sciocchezze”?”.48 Così un giornale borghese rendeva omaggio a Togliatti. Il gruppo dirigente del Pci, versione italiana dello stalinismo, fu infatti per la borghesia una valvola di sicurezza e soffocò il più grande assalto al capitalismo che i lavoratori ed i giovani abbiano sinora tentato in Italia, tradendone la fiducia. Sessant’anni dopo, da militanti comunisti, non dobbiamo commemorare gli affossatori ma i combattenti di quella rivoluzione tradita che fu la Resistenza e continuare quel cammino.

Note

1. National Archives of Washington, Oss, rapporto B-87 21.8.43, cit. in R. Faenza – M. Fini, Gli Americani e l’Italia, Feltrinelli, Milano, 1976, p. 16.

2. O. Lizzadri, Il regno di Badoglio, Napoleone, Roma, 1974, p. 73.

3. E. Galbiati, Il 25 luglio e la MVSN, Fabbri, Milano, 1950, p. 160.

4. AA.VV., L’Italia dei 45 giorni, Quaderni dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, Milano, 1969, p. 200.

5. F. W. Deakin, Storia della Repubblica di Salò, Einaudi, Torino, 1963, p. 495.

6. E. von Rintelen, Mussolini l’alleato, Roma, 1952, p. 219

7. W. Churchill, Memorie sulla seconda guerra mondiale, Roma, 1949, parte V, vol. I, p. 79.

8. L. Piccardi, “I 45 giorni del governo Badoglio” in Trent’anni di storia italiana, Einaudi, Torino, 1961, p. 322.

9. W. Churchill, op. cit., p. 114.

10. G. Bottai, Vent’anni e un giorno. 24 luglio 1943, Garzanti, Milano, 1949, p. 222.

11. Il Quaderno del Lavoratore, n. 4, ottobre 1941.

12. Rapporto di Scoccimarro, in Archivio Partito Comunista, Corrispondenza Roma-Milano, A/16-a.

13. Lettera di Scoccimarro del 13.12.43 alla direzione del Pci Nord Italia, in L. Longo, I centri dirigenti del Pci nella Resistenza, Editori Riuniti, Roma, 1977, pp. 252-253.

14. AA.VV., Il comunismo italiano nella seconda guerra mondiale, Editori Riuniti, Roma, 1963, pp. 48-49.

15. “Ciò che ci divide”, federazione Pci di Montesanto, novembre 1943, p. 4.

16. Ibid., pp. 5-6.

17. Battaglie sindacali, n. 1, 20.2.44.

18. C. Pascuzzi, “Compagni contadini” in La voce del popolo, anno I, n. 6, 19 dicembre 1943.

19. “Direttive” in Libertà, n. 4, 14 febbraio 1944.

20. D. Pompejano, G. Raffaele, Nel vento del Sud, la federazione messinese del Pci nella crisi e nel dibattito del 1943-1945. Storia e documenti, Savelli, Roma, 1981, p. 98.

21. Nell’emigrazione Russo aveva prima militato nei gruppi bordighisti per rompere definitivamente con essi assieme ad alcune decine di militanti a causa del rifiuto dei bordighisti di partecipare alla guerra civile spagnola. Avvicinatosi al trotskismo, partecipò a Parigi a riunioni del gruppo trotskista Nostra Parola e partì per la Spagna dove fu il comandante militare della colonna internazionale “Lenin” del Poum.

22. E. Russo, “Riprendendo il cammino” in Battaglie Sindacali, Napoli, 20 febbraio 1944.

23. Battaglie sindacali, n. 2, 27 febbraio 1944.

24. Ibid.

25. “Far pagare i ricchi”, ne l’Unità, edizione meridionale, n. 12, febbraio 1944.

26. Cit. in A. Degli Espinosa, Il regno del Sud, Migliaresi, Roma, 1946, p. 385.

27. l’Unità, edizione meridionale, 2 aprile 1944.

28. “La Cgl e la nuova situazione politica” in Battaglie Sindacali, n. 7, 16 aprile 1944.

29. Battaglie Sindacali, n. 27, 17 settembre 1944.

30. Stella Rossa, n. 1, novembre 1943.

31. Secchia, Il Partito Comunista Italiano e la guerra di Liberazione 1943-1945, Feltrinelli, Milano, p. 134.

32. “Una discussione tra comunisti”, lettera di militanti alla direzione del Lazio, cit. in Critica Marxista, n. 2, marzo- aprile1965, p. 117.

33. Secchia, op. cit., p. 883.

34. Secchia, op. cit., p. 882.

35. “Alla direzione del Pci”, Torino 31 agosto 1944, cit. in P. Secchia, op. cit., p. 632.

36. “Riunione dei segretari federali dell’Alta Italia, 28 agosto 1945, Rapporto del compagno Longo”, pp. 2-3. La copia originale reca l’avvertenza “Non riveduto e quindi da non pubblicare”.

37. G. Amendola, “I Cln nel sistema della democrazia” in Rinascita, luglio-agosto 1945.

38. L’Unità, 11 maggio 1945.

39. Progetto della sezione economica del Pci sui compiti e la struttura dei Consigli di gestione, settembre 1945.

40. Documenti del V Congresso del Pci, ed. l’Unità, Roma, 1946, p. 6.

41. A. Lisa, Memorie, Feltrinelli, Milano, p. 89.

42. Cit. in C. Pavone, Una guerra civile, Bollati Boringhieri, Torino, 1991, p. 360.

43. Ibid.

44. Cit. in D. Montaldi, Saggio sulla politica comunista in Italia (1919-1970), edizioni Quaderni Piacentini, Milano, 1975, p. 93.

45. Documenti politici e direttive del Pci dall’VIII al IX congresso, Roma, SETI, 1960, p. 485.

46. J. R. Pauwels, op. cit., p. 66.

47. L’Unità, ed. meridionale, 10.1.45.

48. Federico Artusio [Umberto Segre] in L’Astrolabio, n. 16, 10. settembre 1964.

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