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Il parassitismo della proprietà fondiaria e la teoria marxista della rendita

di Rob Sewell

 

Pubblichiamo questo articolo scritto da Rob Sewell nel 2017 e pubblicato originariamente su In Defence of Marxism , rivista teorica della Tendenza Marxista internazionale.

Il tema della rendita è oggi più che mai rilevante non solo per spiegare l’enorme speculazione che colpisce il mercato immobiliare, ma più in generale per il ruolo che la rendita sta svolgendo nell’esplosione dei prezzi che a partire dal 2021 ha portato alla attuale pesante crisi inflazionistica. Risulta pertanto necessario ritornare alle basi teoriche che spiegano la natura della rendita nell’economia capitalista. (la redazione, settembre 2022)

Assieme ai banchieri e ai capitalisti, la classe dei proprietari immobiliari gode di un disprezzo particolare. Essi vengono considerati come avidi speculatori, proprietari fra i peggiori che alzano gli affitti alla prima occasione, scremando per sé una parte del plusvalore creato dalla classe lavoratrice. È chiaro da dove nasce il disprezzo nei loro confronti. Nella sola Gran Bretagna, affitti e costi abitativi assommano fin alla metà, e talvolta oltre, del reddito disponibile per i lavoratori e sono diventati un peso insostenibile, specialmente per chi vive nella capitale.

Inoltre quattro milioni di inquilini in Inghilterra faticano a causa dell’esplosione degli affitti dei terreni (si tratta di persone che vivono in case di proprietà ma costruite su terreni per i quali devono pagare un affitto – ndt) . “Le case su terreni in concessione sono un racket totale”, spiega Sebastian O’Kelly della Leasehold Knowledge Partnership, “un mezzo tramite il quale i costruttori sono riusciti a trasformare le case di abitazioni in veicoli di investimento a lungo termine per investitori opachi, spesso con sedi all’estero.” Mentre il numero di senzatetto va alle stelle, il numero di proprietà vacanti è a livelli da record e vengono mantenute tali in gran parte a fine di investimento. Persino certi settori dei capitalisti strillano per gli affitti eccessivi che devono pagare per le attività commerciali.

I proprietari feudali

Il latifondismo e la proprietà terriera hanno una lunga storia che risale a ben prima dell’ascesa del capitalismo. Di fatto questa proprietà ha le sue origini nel feudalesimo, dove la terra era alla base di tutto il potere economico e politico. La misura della ricchezza di una persona era determinata da una cosa soltanto: quanta terra possedeva. La terra era la fonte del surplus che la classe dominante terriera estraeva tramite lo sfruttamento dei servi della gleba, che erano inseparabili dalla terra.

A quel tempo la rendita in natura e il plusprodotto coincidevano ed era la forma nella quale si esprimeva il pluslavoro non pagato. Queste origini feudali sono tutt’oggi distinguibili, laddove secondo fonti ufficiali “la Corona è il possessore in ultima istanza di tutta la terra in Inghilterra e Galles (comprese le Isole Scilly): tutti gli altri proprietari ne sono tenutari.” Questa terra è concessa dalla Corona sotto forma di freehold (a titolo di proprietà) o di leasehold (dietro pagamento di una rendita) che, secondo il Land Registration Act del 2002, “deriva da forme di godimento medievali”.

I grandi proprietari terrieri odierni della Gran Bretagna derivano dalle vecchie famiglie aristocratiche del passato; fra loro troviamo il decimo duca di Buccleuch, il dodicesimo duca di Queensbury, il duca di Northumberland, il duca di Westminster e il principe di Galles. Con quattro grandi proprietà, il duca di Buccleuch è il più grande proprietario terriero privato d’Europa e vive nel castello di famiglia di Drumlanrig, in Scozia. Il duca di Westminster possiede un patrimonio terriero del valore di 9,52 miliardi di sterline e la sua tenuta di Grosvenor, che risale al 1677, include nella sola Londra gli agiati quartieri di Belgravia e Mayfair. Si tratta di una delle sei “grandi tenute” che possiedono ampie porzioni della capitale. Altri pezzi grossi della proprietà immobiliare includono David e Simon Reuben (patrimonio: 14 miliardi di sterline), che lo scorso anno (2016 – ndt) hanno “fatto” quasi un miliardo di sterline, Sir David e Sir Francis Barclay (valore 7,2 miliardi), Christo Wiese (4,62 miliardi), Nathan Kirsh (3,97 miliardi), la baronessa Howard de Walden e famiglia (3,73 miliardi), Ian e Richard Livingstone (3,7 miliardi), Sir Henry Keswick e famiglia (3,26 miliardi), Edward e Sol Zakay (3,5 miliardi), Mark Pears e famiglia (3,14 miliardi), Samuel Tak Lee e famiglia (2,73 miliardi). La lista dei miliardari continua.

Questi proprietari parassitari rastrellano anche generosi sussidi. Greenpeace ha in effetti confermato che quei sedici membri dell’aristocrazia britannica sono compresi nella lista dei primi 100 fra coloro che ricevono attualmente sussidi dall’Unione europea, con 7,1 milioni da ripartirsi fra loro. [Nota: questo articolo è stato scritto prima della firma dell’accordo sulla Brexit] .

Questa classe privilegiata di proprietari terrieri si è evoluta da una fusione tra la vecchia aristocrazia e la borghesia di più recente ricchezza. La proprietà terriera in Gran Bretagna ha le sue radici nella conquista normanna, ma fu ulteriormente sviluppata dalle enclosures e dalla distruzione delle terre comuni, e con la distruzione del contadiname. In altre parole, l’odierno monopolio della proprietà terriera fu in origine il prodotto della conquista, della violenza e del saccheggio, attraverso i quali le persone comuni vennero rapinate dei loro rapporti con la terra. I piccoli occupanti di terre vennero ridotti alla condizione di braccianti a giornata e di salariati, il che costituì un requisito essenziale per lo sviluppo del capitalismo.

Secondo una rima popolare del XVII secolo:

“La legge rinchiude colui o colei

che ruba un’oca dal bene comune;

ma libero lascia il reo maggiore

che all’oca sottrae la terra comune.”

La proprietà terriera giocò un ruolo molto importante nell’emergere del capitalismo. Anche se la sua origine era feudale, venne trasformata dalle azioni del capitale, con la trasformazione delle rendite in natura in rendite in denaro, che fu la genesi della rendita fondiaria capitalista. “La trasformazione della rendita in prodotti in rendita in denaro” , scrive Marx, “che si verifica dapprima sporadicamente, poi su una scala più o meno nazionale, presuppone già un considerevole sviluppo del commercio, dell’industria urbana, della produzione di merci in generale e con ciò della circolazione monetaria.” (Il capitale, vol. 3, pag. 1072).

Questa è parte del processo complessivo che Marx descrive come “accumulazione primitiva”, che distrusse le vecchie relazioni, creando da un lato un proletariato spossessato e dall’altro una concentrazione di grandi proprietà terriere. Queste terre venivano affittate a coltivatori e fornirono la base per l’agricoltura capitalistica e la rivoluzione agraria del secolo XVIII, che a sua volta permise di alimentare la crescente popolazione urbana.

Con lo sviluppo dell’industria e la crescita della società urbana, l’agricoltura capitalista doveva fornire un prodotto maggiore con una forza lavoro in diminuzione, costituita da braccianti agricoli. Riuscì a farlo introducendo nuove tecniche per incrementare la produttività del lavoro, producendo di più con sempre meno “braccia”. Senza questo crescente surplus agricolo, non ci sarebbe potuta essere la divisione del lavoro, la crescita dell’industria, né della ricchezza sociale. Senza di esso la rivoluzione industriale sarebbe stata impossibile.

Come spiega Marx, “in nessuna parte del mondo la produzione capitalistica, da Enrico VII in poi, sovvertito così brutalmente i rapporti tradizionali dell’agricoltura, adeguandone e soggiogandone le condizioni.” (Storia delle teorie economiche, II, pag. 214).

Tutto questo ebbe il suo prezzo. Come notò Marx, “ se il denaro (…) viene al mondo con una macchia di sangue indelebile su una faccia, il capitale nasce trasudando sangue e fango da ogni poro, da testa a piedi”.

Terra = denaro

Oggi la proprietà terriera viene mantenuta come un segreto ben custodito. Il registro della terra del Regno Unito è stato creato e concepito per nascondere la proprietà, non per svelarla. “Ciò che sappiamo, tuttavia, è che l’aristocrazia e la famiglia reale svolgono ancora una parte importante nella proprietà del nostro Paese. Più di un terzo della terra è tutt’ora nelle mani dell’aristocrazia e della tradizionale nobiltà terriera” , spiegava un numero recente della rivista Country Life. Esso rivela che circa 36.000 persone, lo 0,6 per cento della popolazione, possiedono più della metà delle terre rurali in Inghilterra e Galles. In Scozia la concentrazione della proprietà terriera è ancora più estrema. La Scozia ha in effetti la distribuzione della proprietà terriera più diseguale in Europa occidentale, con soli 432 potenti proprietari che possiedono il 50 per cento della terra, riservandola prevalentemente a imprese mondane quali la caccia al gallo cedrone e al cervo.

Il latifondismo è grande capitale, come mostrano le cifre riportate. La classe dei proprietari terrieri è una parte della classe dominante che vive grandiosamente a spese del lavoro di altri. La proprietà terriera capitalista è una fonte di enormi ricchezze, non da ultimo tramite la sua monopolizzazione, i valori gonfiati e le speculazioni. Per esempio, l’Emperor Group ha concluso dei contratti per acquistare una proprietà a Wardour Street, Londra, per 260 milioni di sterline, pari a un valore di 2.986 sterline per piede quadrato ( un piede quadrato corrisponde a 0,0929 metri quadrati. NdT). Esempi simili di prezzi astronomici degli immobili si possono ripetere a piacere.

Storicamente, prima dell’ascesa del capitalismo, la rendita della proprietà fondiaria era considerata una fonte di reddito rispettabile, mentre il capitale prestato ad interesse veniva associato all’usura e disapprovato, specialmente dalla Chiesa. Tuttavia con l’emergere del modo capitalista di produzione e con la lotta tra l’aristocrazia e la borghesia in ascesa, la rendita venne considerata come un reddito non guadagnato connesso a una classe pigra e parassitaria di latifondisti.

Il grido di battaglia della borghesia ascendente contro la vecchia aristocrazia venne raccolto da David Ricardo e Adam Smith, capiscuola degli economisti classici, nella loro teoria della rendita. Essi rivendicarono l’abolizione delle Corn Laws (leggi sul grano – ndt), introdotte nel 1815, che avrebbe minato i latifondisti incrementando il libero scambio a beneficio degli industriali. La revoca delle Corn Laws avrebbe significato derrate alimentari più a buon mercato, permettendo di ridurre i salari e di competere meglio sul mercato mondiale. “L’interesse del proprietario terriero è sempre opposto a quello del consumatore e del fabbricante” , affermò il loro portabandiera Ricardo.

Gli economisti borghesi predicavano i principi del laissez faire, dove ognuno deve essere libero di seguire il proprio interesse. Tuttavia i latifondisti condussero una battaglia di retroguardia per proteggere le proprie fonti di reddito. A quell’epoca dominavano sia la camera dei Comuni che il Senato. Nell’aspra lotta tra queste due sezioni della classe dominante, il parlamento dominato dai proprietari terrieri si prese la rivincita e restituì il colpo raccogliendo le rivendicazioni della classe operaia per ridurre l’orario di lavoro e condizioni migliori. Questo colpì gli industriali nel punto sensibile, ossia nelle tasche. Essi sostennero una guerriglia sistematica contro queste leggi, che alla fine dovettero tuttavia accettare controvoglia. A conti fatti comunque gli industriali più ricchi ne uscirono vincitori. Le leggi sul grano vennero abolite da un governo Tory sotto Peel con l’appoggio dei Whig (liberali). Questo spaccò il partito conservatore, che venne poi ricostituito sotto Benjamin Disraeli trasformandosi da partito dei proprietari terrieri in un partito principalmente del capitale finanziario.

Con la mescolanza degli interessi fondiari, commerciali ed industriali attraverso i matrimoni e gli affari, i rapporti capitalistici cominciarono a dominare l’agricoltura. Come risultato, le rendite erano spesso raccolte dai ricchi capitalisti o finanzieri così come lo erano da membri dell’aristocrazia o dai suoi agenti. La rendita come reddito non guadagnato era ora “rispettabile”. Tanto i proprietari terrieri come i capitalisti, i cui interessi erano ormai fusi insieme, fronteggiavano un nemico comune nella crescente opposizione della classe operaia, che veniva spremuta da entrambi i lati attraverso i bassi salari e gli affitti elevati.

Cos’è la rendita?

Marx, nella sua analisi del modo capitalista di produzione, dovette rispondere agli errori degli economisti classici, compresa la loro esposizione confusa della rendita e la loro incapacità di riconoscere la forma della rendita assoluta. Marx impiegò molto tempo analizzando la materia, principalmente perché aveva questa centralità per gli economisti borghesi del tempo. Dedicò quindi 200 pagine all’argomento nel terzo volume del Capitale e una parte cospicua del secondo volume delle Storia delle teorie economiche (pubblicate anche sotto il titolo di Teorie sul plusvalore – ndt). In queste opere egli offre centinaia di esempi per illustrare i suoi numerosi argomenti e per sfidare i propri avversari. Il suo contributo mostra un approccio rigoroso alla materia.

Marx la considerava tuttavia secondario l’argomento del modo in cui il plusvalore prodotto dalla classe operaia fosse trattenuto e suddiviso fra diverse ali della classe dominante, rispetto alla questione chiave di come innanzitutto il plusvalore venga creato. “Le circostanze nelle quali il capitalista è a sua volta costretto a dividere una parte del plusvalore o del pluslavoro da lui predato con terze persone non lavoratrici, non vengono che in seconda istanza. Del resto è un fatto della produzione che, eccetto la parte del valore pagata come salario e detratta la parte del valore eguale al capitale costante, tutto il plusvalore passa direttamente dalle mani dell’operaio in quelle del capitalista. Rispetto all’operaio, egli è il possessore immediato di tutto il plusvalore, anche se più tardi deve ripartirlo con il capitalista che presta il denaro, il proprietario fondiario, ecc.” (Storia delle teorie economiche, vol. 2, pag. 132).

Altrove nel Capitale Marx tocca il punto: “L’analisi della proprietà fondiaria nelle sue diverse forme storiche esula dai limiti del presente lavoro. Ce ne occupiamo unicamente in quanto una parte del plusvalore prodotto finisce nelle mani del proprietario fondiario. (…) Altrimenti l’analisi del capitale non sarebbe completa.” (Il capitale, vol. 3, pag. 837 e 838).

Fu quindi per completare la sua analisi della produzione capitalista che Marx intraprese l’analisi della teoria della rendita. Per cominciare, Marx dovette spiegare il concetto di rendita fondiaria e da dove derivasse. Mentre nell’industria tutti i fattori della produzione – macchinari, materie prime, forza lavoro – possono essere prodotti e riprodotti, nell’agricoltura il materiale di base, la terra, è limitata nella quantità. Pertanto si tratta di un monopolio naturale. Essendo in mano a una classe di proprietari terrieri, sotto il capitalismo questa classe riceve una rendita da coloro che desiderano affittare la terra in una determinata quantità e durata nel tempo. L’accesso è proibito fintanto che non si paga un affitto e il proprietario esercita il suo diritto di proprietà. La terra è pertanto una proprietà monopolistica. Il tributo per il suo utilizzo è ciò che chiamiamo rendita.

Una “escrescenza sibaritica”, un parassita sulla produzione capitalista

È chiaro che tale entrata non è un reddito guadagnato, dato che il latifondista non lavora per ottenerla. Egli riceve la rendita semplicemente perché è il proprietario monopolistico della terra e garantisce ad altri il proprio permesso di usarla. Marx conclude che il pagamento ricevuto dal proprietario terriero altro non viene che dal prodotto di un lavoro non pagato, ossia dal plusvalore. Del resto da quale altra fonte questi parassiti possono ricevere la loro porzione, se non a spese della classe lavoratrice?

Essi non si sporcano necessariamente le mani direttamente nello sfruttamento dei lavoratori, come fanno gli industriali, non danno alcun contributo alla società e vivono a nostre spese. Questo reddito non guadagnato non è diretto, ma indiretto, attraverso terzi. Il proprietario terrieri affitta la sua terra a un capitalista che la lavora impiegando lavoro salariato. I lavoratori impiegati producono plusvalore attraverso il loro lavoro non pagato, che a sua volta finisce nelle tasche del capitalista investitore. Ma il capitalista è costretto a dividere questo plusvalore con il proprietario terriero, sotto forma di rendita fondiaria. È chiaro che tale rendita può venire solo dal plusvalore creato dalla classe operaia. Come spiega Marx: “Il capitalista che produce il plusvalore, cioè estrae direttamente dagli operai lavoro non retribuito e lo fissa in merce, è sì il primo ad appropriarsi di questo plusvalore, ma non è affatto l’ultimo suo proprietario. Deve in un secondo tempo spartirlo con capitalisti che compiono altre funzioni nel complesso generale della produzione sociale, con i proprietari fondiari, ecc. Quindi il plusvalore si scinde in parti differenti. I suoi frammenti toccano differenti categorie di persone e vengono ad avere forme differenti, autonome fra loro, come profitto, interesse, guadagno commerciale, rendita fondiaria, ecc.” (Il capitale, vol. 1, pag. 693-4)

E ancora: “Il capitalista è lo sfruttatore diretto degli operai, non soltanto il diretto beneficiario del pluslavoro, ma il suo creatore. Ma poiché ciò può avvenire (per il capitalista industriale) soltanto mediante il e nel processo di produzione, ne è il dirigente. Il proprietario fondiario, invece, possiede nella proprietà fondiaria (rendita differenziale) un titolo che lo autorizza ad intascare una parte del pluslavoro o del plusvalore, alla cui direzione e creazione non contribuisce per niente. Perciò, in caso di conflitto, il capitalista non lo considera che una semplice ‘superfetazione’, un’escrescenza sibaritica, un parassita della produzione capitalistica, un pidocchio che si annida nella sua pelliccia.” (Storia delle teorie economiche, vol. 2, pag. 308-9)

Quindi per Marx il plusvalore prodotto dalla classe lavoratrice si divide tra le diverse sezioni della classe dominante nella forma di “rendita, interesse e profitto”, la Santa Trinità capitalista, laddove la rendita viene pagata al proprietario terriero, l’interesse al prestatore e il profitto al capitalista industriale. La lotta per il surplus, di conseguenza, non è semplicemente una lotta tra il capitalista e l’operaio, in quanto il capitalista deve anche lottare contro il proprietario terriero e il finanziere, e tutti cercano di massimizzare la loro porzione a spese di tutti gli altri.

Nell’analizzare la rendita, Marx fece anche una distinzione tra quelle che chiamò rendita differenziale e rendita assoluta.

Rendita assoluta e differenziale

Nell’industria quelle compagnie che hanno una produttività superiore alla media ottengono un super profitto. Esse producono i beni al di sotto del tempo di lavoro socialmente necessario. Anche nell’agricoltura questo avviene, dove la produttività della terra più fertile è superiore alle altre, o un terreno è più accessibile di altri, permettendo di produrre dei superprofitti e di controllare pertanto una rendita superiore rispetto alla terra meno favorevole o meno produttiva. Il pagamento di questo vantaggio si chiama rendita differenziale. Ricardo erroneamente la considerava la sola forma di rendita. Marx tuttavia spiega che il proprietario riceve anche una rendita di base, minima, che si paga per l’uso di qualsiasi terra, compresa quella peggiore. Questa si chiama rendita assoluta.

In questo caso, il prodotto coltivato in queste condizioni sfavorevoli riceverà comunque il saggio medio di profitto. Come è possibile? Chiaramente la terra, per essere usata, deve poter produrre un surplus dal quale il proprietario terriero possa raccogliere una rendita. Pertanto anche il capitale investito nella terra peggiore deve rendere il tasso medio di profitto, altrimenti, sotto il capitalismo, non ci sarebbero ragioni economiche per coltivarla. Il reddito che il latifondista riceve dipenderà in ultima analisi dalla offerta e domanda di terra. Anche sulla terra peggiore egli riceverà una rendita assoluta, ma nulla di più. Tale rendita sorge dal monopolio nella proprietà della terra, e continuerà ad esistere fintanto che esisterà la proprietà privata.

Naturalmente la rendita fondiaria non viene “prodotta” dalla terra. Un pezzo di terra abbandonato non “produce” nulla, neppure un atomo di rendita. La rendita può sorgere solo dal prodotto della forza lavoro impegnata nell’agricoltura, ossia dei lavoratori agricoli. Essa si paga con il plusvalore che essi creano. Ma si tratta di un caso speciale, non soggetto alla perequazione dei profitti, come spiegheremo oltre.

Come spiegato, la rendita differenziale è la rendita pagata per i vantaggi legati a una maggiore produttività della terra. Alcuni appezzamenti sono in posizione più favorevole di altri, che possono essere più isolati o inaccessibili. Zone diverse hanno una diversa fertilità, quindi lo stesso investimento su suoli più ricchi può dare risultati migliori. Alcune terre possiedono maggiori risorse naturali quali l’accesso all’acqua, o a boschi, cave, miniere di carbone. E ancora, una terra situata vicino a un mercato risparmia spese come il trasporto, riducendo i costi generali di produzione. I prodotti agricoli di queste zone sono quindi venduti a un prezzo superiore al prezzo di produzione, ma questo prezzo superiore viene intascato dal proprietario terriero sotto forma di rendita differenziale, che sorge dal monopolio nell’uso della terra. L’investitore capitalista naturalmente continuerà a ricevere il profitto medio, ma la differenza andrà al proprietario terriero. Laddove esiste un monopolio privato della terra, ci sarà anche l’opportunità per dei proprietari predoni di fare un rapido guadagno.

Tuttavia se i prezzi dei prodotti agricoli cadono sotto un certo livello, la terra non sarà più redditizia. A quel punto la rendita di certi appezzamenti svanisce e smetteranno di essere coltivati fino a un nuovo aumento dei prezzi.

Nella sua analisi, Marx si domanda quale sia la causa sottostante alla divisione del plusvalore tra le diverse branche dell’industria e i diversi tipi di capitali. Prima di poter dare una risposta nel terzo volume del Capitale, Marx deve spiegare la formazione di un saggio generale del profitto. Questo è strettamente collegato con il saggio di plusvalore, ossia con il livello dello sfruttamento. Naturalmente i capitalisti e i loro apologeti non riconoscono il “plusvalore” – che comprende tutto il nuovo valore creato dai lavoratori ma di cui gli sfruttatori si appropriano – ed evitano questo termine spiacevole, in quanto rivela la realtà fondamentale dello sfruttamento capitalistico. Usano invece il termine più accettabile di “profitto”, a cui tengono molto. Dopo tutto, questa è la ragione della loro esistenza e la forza motrice del loro sistema. Non hanno interesse ad analizzare il rapporto tra il surplus prodotto e i salari che pagano, ossia al tasso del plusvalore, ma si preoccupano invece molto del rapporto tra il surplus che ottengono e il totale del capitale che impiegano. Questo è il tasso di profitto.

Il saggio di profitto e il saggio del plusvalore.

Il saggio di profitto può essere definito come il rapporto tra il plusvalore (s) e il capitale totale, che è composto dal capitale costante (c) e dal capitale variabile (v). In breve, il saggio di profitto è = s/(c+v).

Per il nostro riccone, il capitalista, ciò che spende in salari (capitale variabile) e ciò che spende in materie prime e macchinari (capitale costante) sono tutti semplicemente costi di produzione, e il surplus che ottiene al di sopra di questi costi è profitto. Per quanto riguarda i capitalisti, la cosa è quindi semplice.

Ma diversi fattori determinano il saggio di profitto, non ultimo il saggio del plusvalore. Per esempio, un capitalista investe 100.000 sterline, delle quali 90.000 in materie prime ecc., e 10.000 in salari. Se il saggio del plusvalore (sfruttamento) è del 100 per cento, il profitto sarà uguale alla somma spesa in salari, ossia a 10.000 sterline. Se tuttavia il saggio del plusvalore sale al 150 per cento, il profitto conformemente sale a 15.000 sterline. Il saggio di profitto sarà del 10 per cento quando il saggio del plusvalore è del 100 per cento, e del 15 per cento quando questo sale al 150 per cento.

Questo esempio si basa su un singolo ciclo di produzione. Ma se la rotazione del capitale aumenta di modo che nello stesso tempo si completano due cicli (assumendo un saggio del plusvalore del 100 per cento), il capitalista otterrà un profitto di 10.000 sterline per due volte, vale a dire di 20.000 sterline, sul suo capitale, che è un saggio di profitto del 20 per cento. La rotazione più rapida ha raddoppiato il suo saggio di profitto.

Un altro fattore può avere un effetto importante sul saggio di profitto, ed è il rapporto tra capitale costante e capitale variabile. Mantenendoci sul saggio del plusvalore del 100 per cento, con una singola rotazione, se il capitalista avesse investito solo 70.000 sterline in materie prime ecc., e 30.000 in salari, il surplus sarà equivalente ai salari di 30.000 sterline, il che è un profitto del 30 per cento. Questo rapporto tra capitale costante e capitale variabile viene chiamato composizione organica del capitale.

Attraverso la concorrenza, il capitalista cerca di battere sul prezzo i suoi rivali e di incrementare la propria quota di mercato. Egli pertanto introduce nuove tecniche e macchinari che fanno risparmiare forza lavoro, che riducono i suoi costi e gli permettono di produrre ad un tempo di lavoro inferiore alla media sociale che determina il prezzo di mercato. Egli ottiene così un super profitto, che dura però solamente fino a quando i suoi concorrenti non seguono la stessa strada, investendo a loro volta nelle nuove tecnologie e cancellando il suo precedente vantaggio. Quanto più si introducono tecnologie avanzate, tanto più si investe nel capitale costante (macchinari, ecc.) in relazione al capitale variabile (salari), portando a una composizione organica del capitale più alta. Questo produce una tendenza alla caduta del saggio di profitto, anche se vi sono dei fattori che agiscono nel senso opposto. Mentre il saggio di profitto tende a scendere, l’ammontare complessivo dei profitti non necessariamente declina, dato che probabilmente aumenta il capitale totale impiegato.

Chiaramente la composizione organica del capitale varia in grande misura nei diversi rami industriali per motivi tecnici, con alcune industrie a maggiore intensità di lavoro di altre. I salari, per esempio, possono formare un’ampia parte dei costi totali nell’estrazione di materie prime. Questo significa che nelle industrie ad alta intensità di lavoro il saggio di profitto è eccezionalmente altro rispetto alle altre? Nella pratica non è così. Ma per quale motivo?

La ragione risiede nelle potenti tendenze alla equalizzazione del saggio di profitto. Seppure diverse industrie possono temporaneamente creare un saggio di profitto maggiore in paragone al resto, questo non può durare a lungo. I capitalisti che investono il loro denaro cercano di massimizzare il rendimento. Se l’industria A rende meno dell’industria B, i capitalisti di A ritireranno il loro denaro e lo investiranno in B. Cosa accadrà allora? Nel settore B si produrrà di più, e di meno in A, creando nell’uno sovrapproduzione e nell’altro sottoproduzione. Ci sarà da un lato un eccesso e scarsità dall’altro, causando una caduta dei prezzi dei prodotti dove c’è sovrabbondanza, e un aumento dove questi scarseggiano. Con lo spostamento del capitale da un settore all’altro in cerca del massimo profitto, il saggio di profitto delle due industrie cambierà portando infine a una equalizzazione. Questa tendenza opera sull’intera produzione capitalista e in tutti i settori.

Questa tendenza del capitale a distribuirsi fra i diversi rami d’industria risulta in un eguale saggio di profitto per tutti i capitali, o saggio medio di profitto. Ciò si deve alla concorrenza fra capitali e agli effetti della domanda e dell’offerta sui prezzi. Marx spiega pertanto che in una economia capitalista sviluppata, ogni capitale non si appropria del plusvalore prodotto dalla “propria” forza lavoro, ma di una parte del plusvalore sociale secondo la porzione che esso rappresenta del capitale totale. Le merci quindi non si vendono necessariamente al loro valore, ma ad un prezzo che equivale al loro costo più il saggio medio di profitto. Marx lo chiama prezzo di produzione. Il prezzo di vendita delle merci può quindi essere rappresentato come c + v + p dove p è il profitto medio.

Come le merci tendono quindi a scambiarsi al loro prezzo di produzione, ogni capitale riceverà una porzione del plusvalore totale equivalente alla sua quota di capitale (costante e variabile), a prescindere dalla sua composizione organica. La somma totale dei prezzi di produzione è sempre uguale alla somma dei valori. Non viene creato né distrutto alcun valore aggiuntivo.

“Ma questo è un processo che avviene a sua insaputa [del capitalista], che egli non vede né comprende e che, in realtà, non lo interessa” , spiegò Marx. (Il capitale, vol. 3, pag. 240).

Questa conclusione che le merci tendono a scambiarsi al loro prezzo di produzione pare in contraddizione con la teoria del valore, che ci dice che il valore di una merce è determinato dal tempo di lavoro socialmente necessario a produrla. Questa è la base della legge del valore. Ma non c’è contraddizione. La teoria marxista non dice da nessuna parte che le merci si scambiano sempre al loro valore. Spiega che solo attraverso le fluttuazioni del prezzo al di sopra e al di sotto del valore di una merce, esse tendono a scambiarsi al loro valore. Questo rimane a grandi linee vero nella produzione mercantile semplice, ma la legge deve essere modificata per metterla a pari con la realtà della produzione capitalistica pienamente sviluppata. Questo sviluppo non nega la legge del valore, ma si costruisce su di essa, mostrando come nel capitalismo pienamente sviluppato, le merci tendano a scambiarsi al loro prezzo di produzione.

L’intero Capitale di Marx è un tentativo di ridurre il capitalismo ai suoi fondamentali per potere mettere a nudo le leggi principali che governano il sistema. “In teoria si postula che le leggi del modo capitalistico di produzione si sviluppino senza interferenze. Nella vita reale c’è solo un’approssimazione (…)” , spiegò Marx (Il capitale, vol. 3, pag. 250). Il modo di produzione capitalista delineato nel Capitale non esiste nel mondo reale, è un’astrazione che ci permette di vedere più chiaramente i processi reali. Tutti gli aspetti secondari vengono omessi o ignorati, non hanno importanza. Tuttavia quando applichiamo le leggi generali al mondo reale dobbiamo modificarle secondo le altre tendenze operanti. Questo è il solo modo di sviluppare una comprensione scientifica.

L’emergere del capitalismo monopolistico, per esempio, modifica e distorce le leggi del capitalismo, permettendo di risucchiare dall’insieme del plusvalore generale, un profitto monopolistico, vale a dire profitti al di sopra del tasso medio di profitto, a spese della società. Ma anche se i monopoli risucchiano questo profitto eccedente, è solo una questione di distribuzione. Non aggiungono nulla. La quota del profitto è limitata dal plusvalore totale prodotto dalla società, che in ultima analisi è prodotto dal numero di ore lavorate da lavoratori produttivi, vale a dire dalla quantità totale di lavoro spesa. Una volta ottenuta la massa totale del plusvalore, o la massa totale del profitto, l’unico modo per ottenere profitti monopolistici è semplicemente trasferendo plusvalore da altre branche della produzione, cioè una redistribuzione all’interno del processo di circolazione. Una crescita dei profitti monopolistici significa un calo corrispondente del saggio di profitto in altri settori dell’economia. La somma dei prezzi di produzione deve essere equivalente alla somma dei valori. “La somma dei profitti di tutte le diverse sfere della produzione deve essere uguale alla somma dei plusvalori, e la somma dei prezzi di produzione del prodotto complessivo sociale totale deve essere uguale alla somma dei suoi valori” , spiega Marx. (Il capitale, vol. 3, pag. 247).

La crisi degli alloggi

Nel Capitale Marx tratta della rendita fondiaria, che è parte del plusvalore creato nell’agricoltura capitalista. Non è esattamente lo stesso dell’affitto comunemente usato per pagare un alloggio. Questo è in larga misura il pagamento per una parte del valore d’uso di una merce, precisamente di una casa. Ma con la cronica carenza di abitazioni, i padroni di casa possono esigere degli affitti esorbitanti per le loro abitazioni private. Inoltre gli affitti delle case comunali negli anni hanno ripagato più volte il costo originale delle case e vengono pagati semplicemente per coprire l’ininterrotto flusso di interessi da strozzinaggio imposti dalle banche e dalle immobiliari che le hanno costruite.

È da qui che i finanzieri ritagliano la loro libbra di carne dall’affitto di una famiglia operaia. La mia stessa casa comunale fu costruita nel 1929, probabilmente per poche centinaia di sterline in manodopera e materiali. Questo ammontare negli anni è stato ripagato più volte. La mia vecchia fattura dell’affitto, successivamente abolita, riportava dettagliatamente le voci per ogni sterlina pagata. Ricordo che quasi il 90 per cento del mio affitto andava a “interessi”, cioè a una finanziaria.

L’ascesa costante degli affitti dei terreni porta a un continuo aumento nel prezzo della terra. Con la carenza di alloggi urbani, gli speculatori immobiliari comprano immobili non appena restano vuoti. Questi speculatori non sono solo individui super-ricchi, ma gigantesche imprese immobiliari che possono muovere miliardi di sterline liquide. Queste proprietà spesso restano vuote in quanto la carenza cronica di abitazioni e la domanda crescente semplicemente fanno crescere il valore di case e appartamenti. Ne risulta che le persone comuni vengono escluse dal mercato, nella nostra cosiddetta “democrazia di proprietari.”

I terreni edificabili possono ottenere prezzi considerevolmente più alti dei terreni agricoli a causa della “rendita differenziale” che si può ottenere affittandoli. Le zone all’interno o ai margini delle città che sono adatte ad ospitare zone residenziali, edifici a più piani, edifici commerciali o uffici, fabbriche, ecc. sono limitate e molto richieste. Non stupisce che le catene di supermercati e le imprese abbandonino le zone centrali e si ricollochino nei centri commerciali di periferia, mentre un numero crescente di zone centrali vengono abbandonate.

Potremmo chiederci allora qual è il valore della terra. Se il valore di una merce è definito dalla quantità di lavoro socialmente necessario implicato nella sua produzione, la terra dovrebbe valere zero, in quanto non è il prodotto del lavoro umano. Non ha più valore dell’aria, della luce o del vento. Marx fa l’esempio di una foresta vergine, dove non è stato impiegato alcun lavoro. È un dono della natura. Tuttavia la terra, come sappiamo, può avere un prezzo molto alto. Vi sono quindi cose che possono avere un prezzo senza avere un valore.

“Il prezzo delle cose le quali in sé e per sé non hanno valore, in quanto non sono prodotto del lavoro, come la terra, oppure non possono, comunque, essere riprodotte con il lavoro, come le antichità, le opere d’arte di certi maestri, ecc., può essere determinato in modo del tutto fortuito. Per vendere una cosa basta che essa possa essere oggetto di monopolio e sia alienabile.” (Il capitale, vol. 3, pag. 862).

In altre parole, dove non è stato stabilito un monopolio della proprietà privava della terra, la terra non ha né “valore”, né prezzo. È la proprietà monopolistica che porta con sé un prezzo, ossia la pretesa di una entrata. Stiamo qui parlando di prezzi di monopolio.

“La proprietà terriera presuppone il diritto monopolistico, da parte di certi individui, di disporre di determinate porzioni del globo come di sfere riservate della loro volontà privata, con l’esclusione di tutti gli altri. Ammesso ciò, si tratta di analizzare il valore economico, ossia la valorizzazione di questo monopolio, sulla base della produzione capitalistica.” (Il capitale, vol. 3, pag., 839-40).

Tuttavia nella misura in cui si spenda tempo di lavoro “socialmente necessario” per migliorare la terra – per esempio con bonifiche, fertilizzanti, recinzioni, ecc. – allora essa contiene effettivamente valore nel vero senso della parola. È l’unica eccezione.

Il prezzo della terra

Cosa determina allora il prezzo della terra? Anche se ha valore zero, non essendo un prodotto del lavoro, essa ha certamente un prezzo, che è determinato dall’entrata che può generate annualmente. “Il prezzo della terra non è altro che la rendita capitalizzata e quindi anticipata”, spiega Marx. Il prezzo riflette il fatto che la terra è disponibile in quantità limitata e che certe località di prima scelta possono essere molto vantaggiose per un capitalista, permettendogli di tagliare i costi e mettere fuori mercato i suoi concorrenti.

Prendiamo un esempio di come si arriva al prezzo della terra. Il capitalista che vuole comprare un titolo su una terra, acquista il mezzo di appropriarsi di una determinata quantità di plusvalore. Supponiamo che questa sia 500 sterline all’anno.

Naturalmente la scelta di dove investire il suo denaro dipende dal quanto gli renderà. Questo tra parentesi mostra come si forma un tasso generale d’interesse, nella misura in cui gli investitori si aggirano cercando di sottrarsi l’uno con l’altro gli sbocchi più profittevoli per il loro denaro, spingendo i prezzi a scendere a un livello generale. A titolo di esempio diciamo che il tasso prevalente d’interesse sia il 5 per cento. Un investitore può quindi ottenere un surplus di 500 sterline prestandone di 10.000.

Certamente potrebbe invece investire il suo denaro in terreni e ricavarne una porzione di rendita. Ma chiaramente non investirà 10.000 sterline per ricavarne sole 250, se prestandole direttamente o lasciandole in banca può ottenerne 500. Allo stesso modo, nessuno presterebbe il denaro per ottenerne solo 250 sterline se affittando un pezzo di terra può ottenerne 500.

Pertanto se il tasso d’interesse è del 5 per cento, il prezzo di un terreno con una rendita di 500 sterline l’anno sarà di 10.000 sterline. Questo significa che un investitore con 10.000 sterline può alternativamente prestare il suo denaro e ottenerne 500 sterline all’anno, oppure comprare un pezzo di terra e anche qui ottenere le 500 sterline. In questo caso, il prezzo è solo la rendita capitalizzata. Ne segue che se il tasso d’interesse cade, il prezzo della terra sale. Nel nostro esempio, se il tasso d’interesse cade al 2,5 per cento, il prezzo della terra raddoppierà a 20.000 sterline in quanto non ci sarebbe differenza tra investirle in terra o lasciarle in banca, rendendo in entrambi i casi il 2,5 per cento. Il prezzo è quindi fissato alla cifra che porterebbe un’entrata equivalente se prestata o depositata in banca ad un determinato tasso d’interesse.

Il prezzo della terra spesso è quindi esorbitante, ma non ha valore nella misura in cui non rappresenta alcun impiego di tempo di lavoro. Per questo i marxisti considerano il prezzo della terra come capitale fittizio. Esso permette semplicemente all’investitore capitalista di appropriarsi di una porzione del plusvalore dal resto della società.

La natura consolidata del monopolio naturale della proprietà della terra introduce ogni sorta di particolarità. Per esempio, il monopolio impedisce il libero movimento del capitale dall’industria all’agricoltura. Seppure i singoli capitalisti possono prendere in affitto la terra, si trovano purtuttavia di fronte una classe di proprietari terrieri i cui interessi economici sono legati alla rendita, che garantisce loro un reddito regolare. Sono una classe di rentier, è il loro scopo di vita. Per questo non cederanno il loro monopolio nella proprietà della terra. Questa diviene allora una barriera per il capitale: mentre il capitale può liberamente entrare ed uscire da qualsiasi sfera dell’industria, non può entrare liberamente nell’agricoltura.

Da un punto di vista tecnico, l’agricoltura è a un livello inferiore dell’industria, dove la composizione organica del capitale è più alta. Con lo stesso ammontare di capitale investito, nell’agricoltura si produce più plusvalore che nell’industria. Se il capitale potesse muoversi liberamente tra agricoltura e industria, il tasso di profitto si pareggerebbe attraverso la concorrenza. Ma questo viene impedito dal monopolio nella proprietà della terra. I prodotti agricoli vengono pertanto venduti al di sopra del prezzo di produzione. Come spiegato, l’eccesso ottenuto finisce nelle tasche del proprietario terriero sotto forma di rendita.

Una funzione dei monopoli sotto il capitalismo è di prevenire l’equalizzazione del tasso di profitto restringendo il flusso di capitale fra i diversi settori dell’economia. Questo in sostanza è il ruolo del monopolio della proprietà terriera. Marx stesso spiega questa differenza qualitativa tra industria e agricoltura.

Marx si domanda “perché, a differenza delle altre merci, il cui valore è egualmente superiore al prezzo di costo, il valore dei prodotti agricoli non viene abbassato dalla concorrenza dei capitali al prezzo di costo. La risposta è già contenuta nella domanda. Perché ciò si verifica solo e in quanto al concorrenza dei capitali può effettuare questa perequazione, ma ciò, a sua volta, può verificarsi solo e in quanto tutte le condizioni di produzione, o sono creazioni del capitale, o si trovano uniformemente, elementarmente, a sua disposizione.

Questo non è il caso per quanto riguarda la terra, perché esiste una proprietà fondiaria e perché la produzione capitalistica inizia il suo corso partendo dal presupposto della proprietà fondiaria, che non deriva da essa, ma è ad essa preesistente. Quindi la semplice esistenza della proprietà fondiaria risponde alla domanda. Tutto ciò che il capitale può fare, è di sottomettere l’agricoltura alle condizioni di produzione capitalistiche (…). Se [la proprietà fondiaria] esiste, il capitalista deve lasciare al proprietario fondiario l’eccedenza del valore sul prezzo di costo.” (Storia delle teorie economiche, vol. 2, pag. 219)

Chiaramente, Marx non aveva simpatie per i ricchi industriali, ma ne aveva ancora meno per i parassitari proprietari terrieri:

“Questa forma di rendita si distingue (…) per la tangibile e totale passività del proprietario, la cui attività consiste unicamente (soprattutto nelle miniere) nello sfruttare il progresso dello sviluppo sociale al quale egli non contribuisce e per il quale non rischia nulla, come tuttavia fa il capitalista industriale, e infine per la preponderanza del prezzo di monopolio in molti casi, particolarmente per lo sfruttamento assolutamente spudorato della miseria (poiché la miseria è per la rendita ricavata dalle abitazioni una fonte più lucrosa di quanto non lo siano mai state le miniere del Potosí per la Spagna) e per il tremendo potere che questa proprietà fondiaria conferisce, quando è unita al capitale industriale nella stessa persona, che permette praticamente di escludere i lavoratori in lotta per i salari dalla terra dove abitano. Una parte della società pretende qui dall’altra un tributo per il diritto di potere abitare la terra, come in generale nella proprietà fondiaria è incluso il diritto del proprietario di sfruttare la terra, le viscere della terra, l’aria e quindi la conservazione e lo sviluppo della vita.” (Il capitale, vol. 3, pagg. 1041-2).

Il plusvalore non si crea nella circolazione o tramite operazioni finanziarie, ma nella produzione. Il profitto non è altro che lavoro non pagato della classe lavoratrice, che viene espropriato dai capitalisti, ma il capitalista è costretto a cederne una parte agli altri vampiri: latifondisti, banchieri e finanzieri. I proprietari terrieri semplicemente sfruttano la loro posizione di monopolio per ritagliare una porzione del plusvalore prodotto dalla classe lavoratrice. Non creano la torta, ma tuttavia se ne prendono una fetta. Senza dubbio sono molto occupati a far circolare pezzi di carta e a fare telefonate, ma non aggiungono nulla alla ricchezza della società.

Nazionalizzare la terra!

Col tempo, la distinzione tra latifondista, finanziere e capitalista si è fatta sfumata. Le loro attività si sono mescolate. Rispetto al passato, il capitalista non sovrintende più di persona alla produzione, ma delega questo ruolo a dei manager di professione. I capitalisti sono diventati semplicemente dei percettori di dividendi, che si limitano a comprare titoli e azioni senza un coinvolgimento diretto nella gestione di un’impresa. Cercano continuamente delle scorciatoie per fare soldi, che è la loro ambizione predominante.

Nella loro corsa ad arricchirsi si gettano con entusiasmo su qualsiasi opportunità che sorga. Non appena conviene loro, abbandonano il loro ruolo nella produzione diventando dei puri rentier. Si distolgono sempre più dall’investire nell’industria e nella produzione reale e preferiscono invece fare profitti attraverso la speculazione in un “capitalismo da casinò”. Oggi si investono migliaia di miliardi in “derivati”, che sono capitale fittizio, senza base nella produzione di ricchezza reale. Le banche sono diventate monopoli internazionali, “troppo grandi per fallire”. Il capitale finanziario è diventato dominante e questo è un chiaro esempio del parassitismo del capitalismo ai nostri giorni.

Monopoli giganti scorrazzano per il globo e usano il loro potere economico per estrarre profitti monopolistici e ridursi le tasse in collusione con governi compiacenti. Hanno una moltitudine di investimenti in tutti i settori, ma specialmente in terreni, immobiliare e finanza. In questo crepuscolo del sistema capitalista, l’investimento produttivo nell’industria si è quasi prosciugato, dato che la classe dominante si impegna in nuovi metodi per fare denaro, prevalentemente attraverso speculazioni, intrallazzi e maneggi sulle proprietà immobiliari. Nelle capitali del mondo si acquistano immobili non per utilizzarli, ma per guadagni puramente speculativi. Allo stesso modo saccheggiano lo Stato attraverso le privatizzazioni, una delle più grandi rapine della storia. Questi succhiasangue sono diventati un freno colossale allo sviluppo delle forze produttive. Questi fatti sono una conferma ulteriore della natura senile e parassitaria del capitalismo del ventunesimo secolo.

La teoria di Marx della rendita mantiene tutt’ora la sua rilevanza, specialmente in quest’epoca di crisi. Ci troviamo di fronte non ad una sottoproduzione su basi capitaliste, ma ad una sovrapproduzione di prodotti agricoli e di merci in generale. I coltivatori capitalisti vengono pagati per tenere di proposito la terra incolta di modo che i prezzi rimangano alti. La fame nel mondo non avrebbe nessuna necessità se la produzione di cibo fosse organizzata razionalmente. La soluzione al “problema della terra” è la nazionalizzazione, assieme alle banche e alle immobiliari. Un’agricoltura socialista sarebbe parte di un piano nazionale di produzione, dove i monopoli giganti sarebbero tolti dalle mani della classe dei miliardari e gestiti democraticamente negli interessi della maggioranza. La produzione per i bisogni prenderebbe il posto della produzione per il profitto. La rendita in tutte le sue forme sparirebbe, così come i latifondisti e i capitalisti.

Lasciamo però l’ultima parola al comunista Gerrard Winstanley:

“Al principio dei tempi Dio fece la terra (…) Non fu detta alcuna parola al principio che una parte del genere umano dovesse comandare sull’altra, ma le fantasie egoiste posero l’uomo a insegnare come dominare sull’altro. (…) I proprietari hanno avuto la loro terra con l’omicidio o con il furto. (…) E per questi mezzi l’uomo è stato incatenato ed è diventato schiavo, più di quanto gli animali dei campi lo siano a lui.

La terra deve essere coltivata e i frutti raccolti e portati in magazzini e granai per le necessità di ogni famiglia. E qualunque uomo o famiglia che necessitino di grano o altre provviste devono potere andare ai magazzini e prenderne senza denaro. Se vogliono un cavallo da montare, vanno nei campi d’estate, o nelle stalle comuni d’inverno, e ne ricevono uno dai guardiani, e quando il viaggio è compiuto lo riporti dove lo hai preso, senza denaro. Chiunque coltivi cibo e commestibili può andare dal macellaio e ricevere ciò che vuole senza denaro, oppure andare al gregge di pecore, o alla mandria di bestiame, e prendere e uccidere quanto abbisogna per la sua famiglia, senza comprare e vendere.

È questo ciò che ancora ci si attende da voi che venga compiuto, vedere il potere dell’oppressore gettato via con la sua persona, e vedere il libero possesso della terra e delle libertà posti nelle mani dei contadini oppressi d’Inghilterra.”

 

Opere citate

Karl Marx, Il capitale, vol. 1 e vol. 3, Einaudi 1970.

Karl Marx, Storia delle teorie economiche, vol. 2, Newton Compton 1974.

 

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