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Il Green New Deal di Jeremy Rifkin: un mondo alla rovescia

di Enrico Duranti

 

Introduzione

Negli ultimi anni e soprattutto negli ultimi mesi, di fronte a un movimento globale giovanile sulla questione climatica, è tornata di moda la parola d’ordine del Green New Deal (GND), che ha fatto breccia in tutti i movimenti di protesta ambientalisti e anche nei partiti della sinistra riformista e viene vista come l’unica possibilità per risolvere la questione del riscaldamento globale.

Partita nel 2008 in Gran Bretagna dal “Green New Deal Group”, per anni era rimasta ai margini del dibattito, fino al lancio alla fine del 2018 negli Stati Uniti da parte di alcuni deputati del partito democratico, capitanati dalla deputata della sinistra democratica Ocasio Cortez. Nel mondo la parola d’ordine è entrata nei programmi di quasi tutti i partiti, ad esclusione di quelli sovranisti, senza nessuna distinzione. L’esempio più classico si può notare in Europa, dove la nuova presidente della Commissione Europea Van der Leyen l’ha fatta sua. Anche in Italia, il governo “giallorosso” parla di GND come soluzione alla crisi climatica e anche come ricetta per uscire dalla perenne stagnazione economica e dalla possibilità di una nuova recessione.

Sotto l’illusione di più posti di lavoro green, di un nuovo sviluppo economico sostenibile e della “giustizia sociale”, molti governi pongono le basi per far pagare alle classi meno abbienti e soprattutto ai lavoratori la crisi climatica e la riconversione ecologica. Possiamo tranquillamente sostenere che per i capitalisti e i loro governi la crisi climatica offre sicuramente una base per nuovi profitti e per un tentativo di uscire dalla stagnazione economica. Bisognerà effettivamente capire fino a che punto il settore del capitalismo fossile è disposto a concedere il mercato al nascente business delle rinnovabili. Da quello che possiamo per ora vedere, dopo anni di vertici mondiali sul clima e intense discussioni tra capitalisti e governi, la soluzione non sarà l’abbandono immediato delle fossili, ma un lungo periodo transitorio in cui le multinazionali del settore energetico diversificheranno i loro portafogli, facendo profitti sia con gas e petrolio, che con le energie rinnovabili. La lobby del green vale ormai 41 mila miliardi di dollari. Sono 370 gli investitori della lobby Climate Action 100+, per un totale di asset combinati che superano i 40 mila miliardi. L’ultima ad aderire è Blackrock. “Il cambiamento climatico sta rivoluzionando la finanza globale”, spiegava nei giorni scorsi l’amministratore delegato di Blackrock, Larry Fink. Parliamo della prima società finanziaria mondiale, che gestisce investimenti per oltre 7 mila miliardi di dollari.

Il GND è ormai accettato anche dai movimenti ambientalisti, compresi quelli “radicali”. L’ultimo libro di Naomi Klein, autrice molto popolare ai tempi del movimento anti-globalizzazione, è un elogio del GND. In Italia, uno dei leader del movimento disobbediente veneziano e del Comitato No grandi Navi, Marco Baravalle, si è spinto a difendere la prospettiva di un GND radicale:

“[…] Oggi, l’ottenimento di un Green New Deal che (mi viene in mente la ricetta di un movimento statunitense) azzeri le emissioni di gas serra nell’arco di dieci anni sarebbe un risultato rivoluzionario. Rivoluzionario perché il capitalismo del petrolio-silicio non è politicamente disponibile a una ristrutturazione tanto radicale in così breve tempo. Quello a cui dobbiamo mirare è dunque un radical Green New Deal, ovvero un set di politiche i cui costi siano riversati su quei soggetti (politici, economici e sociali) che sono i maggiori responsabili della catastrofe in atto. Andrà tenuto conto, dunque, di tutta una serie di privilegi: di classe, di razza, di genere, di specie. […] Un radical Green New Deal è un’arma nelle mani dei movimenti e, a meno di accelerazioni clamorose della catastrofe ecologica in atto, esso si darà in forma disorganica laddove i movimenti riusciranno a ottenere dei risultati sul terreno del blocco delle produzioni climalteranti e sulla redistribuzione verso l’alto dei costi del cambiamento climatico. Un radical Green New Deal o diventa parte del nostro progetto politico o non diventa affatto, la sua realizzazione (per quanto frammentaria e decentrata) segnerebbe un punto di vantaggio a favore del vivente nella sua lotta contro il capitale; finirebbe per minare (e non per consolidare) l’ordine estrattivo, segno del nostro tempo.”

Questa è veramente una soluzione in chiave anticapitalista, come alcuni cercano di prospettare? Occorre analizzarla seriamente, perché è una delle ricette più pericolose e illusorie per milioni di giovani e meno giovani che stanno riempendo le piazze in questi mesi. Questa proposta può far breccia anche nella classe lavoratrice e nelle sue organizzazioni. Il GND negli ultimi mesi è stato analizzato anche da alcuni economisti ambientalisti e “radical”, fautori di teorie che apparentemente sembrano nuove, ma in realtà non lo sono affatto. In particolare ci sono teorie per cui il GND sarebbe la base per una terza via chiamata “capitalismo sociale”, al di fuori sia del capitalismo liberista che del socialismo. Uno dei maggiori teorici di questa idea è Jeremy Rifkin.

Il pensiero di Rifkin

Rifkin nel suo ultimo libro (Un green new deal globale) sostiene che la base economica per il GND e la transizione verde debba passare da una terza rivoluzione industriale green. Scrive: “[…] Ora siamo nel mezzo di una terza rivoluzione industriale. L’internet delle comunicazioni sta convergendo con un internet dell’energia rinnovabile, a elettricità di origine solare ed eolica, e un internet della mobilità e della logistica costituito da veicoli autonomi elettrici e a idrogeno, a energia verde, in cima a una piattaforma internet delle cose (IDC) che, incorporata in edifici commerciali, residenziali e industriali, trasformerà la società e l’economia del XXI secolo.”1

Per l’autore la base di tutto è internet e la connessione veloce. Con l’economia digitale diffusa per tutti, le famiglie e le imprese saranno in grado di connettersi con l’IDC, per ogni aspetto della vita sociale a partire dalla produzione. Questo tipo di economia, per l’autore, porterà ad “abbassare il costo marginale di produzione, distribuzione e consumo di beni e servizi e riciclaggio dei rifiuti, rendendo le abitazioni più verdi e più efficienti in un’emergente economia globale post carbonio.”2 Per Rifkin la chiave della svolta economica è nel costo marginale di produzione, senza tenere in considerazione la questione dei profitti dei capitalisti. La sua superficialità consiste soprattutto nel credere che i capitalisti siano disposti a margini di profitto tendenti a zero, senza considerare realmente gli effetti di un calo del costo di produzione.

A tal proposito scrive:

“[…] In questa economia digitale verde il costo marginale di alcuni beni e servizi si avvicinerà addirittura a zero, imponendo al sistema capitalistico una svolta fondamentale. La teoria economica ci ha insegnato che il mercato ottimale è quello in cui le aziende vendono al costo marginale. Per ridurre il costo marginale di produzione e distribuzione di beni e servizi, potere quindi vendere a prezzi inferiori, conquistare quote di mercato e assicurare un profitto sufficiente agli investitori, le imprese sono stimolate a introdurre nuove tecnologie e altri incrementi di efficienza. Tuttavia, agli economisti non è mai venuto in mente che un giorno sarebbe potuta esistere una piattaforma tecnologica polifunzionale così iperefficiente nella produzione e distribuzione di beni e sevizi da fare precipitare il costo marginale dell’attività economica al punto da ridurre drasticamente i margini di profitto, minando il modello economico capitalistico. A costi marginali estremamente bassi i mercati divengono troppo lenti e irrilevanti come meccanismi economici. La terza rivoluzione industriale digitale verde fa proprio questo.”3

Prima di analizzare realmente la questione del costo marginale, serve soffermarsi su queste considerazioni di Rifkin. Per lui, il capitalismo che abbiamo conosciuto verrà sostituito da un nuovo modello economico con bassissimi profitti e mercati lenti e un superamento della proprietà. Come tutto questo possa succedere, visti i rapporti di produzione esistenti e la divisione della società in classi, non è dato sapersi. Nel capitalismo la classe dominante è interessata solo ed esclusivamente ad incrementare i propri margini di profitto e la forbice tra ricchi e poveri continua ad aumentare di anno in anno. Basti citare qualsiasi dato sulla distribuzione della ricchezza mondiale. Ad esempio, nel rapporto Oxfam 2020 è scritto:

“La disuguaglianza economica è un fenomeno ormai fuori controllo. Nel 2019 i 2.153 miliardari della Lista Forbes possedevano più ricchezza di 4,6 miliardi di persone. I 22 uomini più ricchi del mondo avevano più ricchezza di tutte le donne africane. Tali esorbitanti patrimoni coesistono con la più grande povertà: le nuove stime della Banca Mondiale rivelano che quasi la metà della popolazione mondiale vive con meno di 5,50 dollari al giorno e che dal 2013 ad oggi il tasso di riduzione della povertà si è dimezzato.”

Per Rifkin, con la nuova rivoluzione industriale green non esisteranno più le classi e il mercato diverrà inutile. Al posto delle classi ci saranno fornitori e utenti. A tal proposito scrive:

“[…] Grazie a questo fenomeno della contrazione dei costi marginali e dei profitti capace di contrastare la lentezza delle transazioni di beni e servizi fra venditori e acquirenti, i mercati tradizionali divengono pressoché inutili. Nella terza rivoluzione industriale la transazione di beni lascia il posto a un flusso continuo di servizi ventiquattrore su ventiquattro e sette giorni su sette; nel nuovo sistema economico che sta emergendo, la proprietà lascia il posto all’accesso, e venditori e acquirenti nei mercati sono sostituiti, in parte, da fornitori e utenti nelle reti. In esse al posto di industrie e settori vi sono competenze specializzate che s’incontrano su piattaforme per gestire il flusso ininterrotto di merci e servizi in reti intelligenti, assicurando un profitto sufficiente, anche a bassi margini, grazie al traffico ininterrotto lungo il sistema.”4

Il costo marginale e la questione dei profitti

Cos’è questo costo marginale, cui Rifkin attribuisce tanta importanza? Secondo gli economisti il costo marginale è il costo aggiuntivo per incrementare la quantità di produzione di una proporzione infinitesima, il costo appunto dell’ultima unità prodotta. Il costo marginale è quindi determinato dal rapporto tra la variazione dei costi e la variazione della quantità di produzione.

In base alla teoria ufficiale, la curva del costo marginale è a U perché gli economisti suppongono che la produttività marginale dei fattori produttivi abbia una fase decrescente (in cui l’impiego di unità addizionali dei fattori produttivi consente di utilizzare meglio l’impianto) e una fase crescente, oltrepassato il punto minimo che coincide con il massimo profitto; in questa seconda fase, ogni ulteriore unità addizionale di impiego dei fattori produttivi peggiora l’efficienza dell’impianto. Il produttore sceglierà dunque la quantità che è legata al minimo della curva perché produce il massimo dei profitti. Secondo Rifkin invece, grazie alle proprietà miracolose dell’Internet delle Cose, la curva del costo marginale è costantemente decrescente, fino ad approssimarsi allo zero.

Senza entrare nel merito di questo dibattito, ci limiteremo ad osservare che tutte le elaborazioni incentrate sul costo marginale muovono da un presupposto, e cioè che non esistano costi fissi. Si tratta di un presupposto non da poco, perché in presenza di costi fissi la quantità ottimale di prodotto è la massima possibile: più si produce meglio si spalmano i costi fissi, il che contribuisce a spiegare anche lo sviluppo di aziende sempre più gigantesche. Nonostante tutta l’enfasi posta da Rifkin, dunque, guardare solo ai costi variabili non ci dice molto sul piano teorico.

Sul piano pratico vediamo che nei settori economici utili alla “terza rivoluzione industriale”5 di Rifkin, la famosa “piattaforma tecnologica polifunzionale”6, si assiste a un pauroso sfruttamento dei lavoratori. È emblematico quello che succede proprio nei settori della logistica del trasporto. Basti pensare alle lotte dure di questi ultimi anni dei facchini, dei magazzinieri e anche dei riders. Per ridurre i costi i padroni in questi settori economici abbassano i salari e i diritti, facendo leva su contratti di lavoro scadenti, precariato, paghe misere, nessun diritto. Alla fine le basi economiche proposte da Rifkin per la sua terza rivoluzione industriale si basano proprio sul maggior sfruttamento, altro che “flusso continuo di servizi ventiquattrore su ventiquattro e sette giorni su sette”7 con margini di profitto zero che minano il modello economico capitalista. Se non si esce dal capitalismo, la proposta di Rifkin porta a una maggior sfruttamento della classe lavoratrice e a una sua maggior frammentazione. Da una parte investire in nuove tecnologie è costoso e incerto, mentre abbassare i salari e i diritti aumenta i profitti all’istante. Dall’altra le nuove tecnologie, anche laddove vengono effettivamente introdotte, sono utilizzate dai capitalisti per controllare e spremere maggiormente i lavoratori, come dimostrano le condizioni di lavoro da incubo in un gigante hi-tech come Amazon. Alla fine questo è il funzionamento reale del capitalismo.

Ne scriveva già Marx a proposito delle innovazioni tecnologiche della sua epoca:

“Dunque, nella produzione capitalistica l’economia di lavoro mediante lo sviluppo della forza produttiva del lavoro non ha affatto lo scopo di abbreviare la giornata lavorativa. Ha solo lo scopo di abbreviare il tempo di lavoro necessario per la produzione di una determinata quantità di merci. Che per l’aumento della forza produttiva del suo lavoro, l’operaio produca in un’ora per esempio il decuplo di merce di prima e consumi quindi per ogni pezzo il decimo di tempo di lavoro, non impedisce affatto di farlo lavorare dodici ore come prima, e che gli si facciano produrre in queste dodici ore milleduecento pezzi invece dei centoventi di prima. Anzi, la sua giornata lavorativa può essere contemporaneamente prolungata, cosicché egli adesso produca millequattrocento pezzi in quattordici ore, ecc. […] Entro i limiti della produzione capitalistica, lo sviluppo della forza produttiva del lavoro ha lo scopo di abbreviare la parte della giornata lavorativa nella quale l’operaio deve lavorare per se stesso, per prolungare, proprio con questo mezzo, l’altra parte della giornata lavorativa nella quale l’operaio può lavorare gratuitamente per il capitalista.”

L’illusione della sharing economy

Una delle basi fondamentali per la terza rivoluzione industriale di Rifkin si basa sulla sharing economy, come se con questo tipo di pratica economica si potessero risolvere tutti i problemi legati alla produzione e alle emissioni nocive.

“La condivisione di una gamma di beni virtuali materiali è alla base di un’emergente economia circolare che sta consentendo alla specie umana un consumo delle risorse della terra molto minore grazie alla pratica di passare ciò che non viene più utilizzato ad altri, riducendo in questo modo drasticamente le emissioni di carbonio. La sharing economy è una componente fondamentale del Green new deal.”8

Quando si parla di sharing economy dobbiamo innanzitutto precisare che non si tratta affatto di una vera “condivisione”, il cui presupposto è che le risorse disponibili vengano messe in comune gratuitamente, senza un tornaconto economico. Qui parliamo semplicemente di aziende private che offrono sul mercato determinati servizi a pagamento, per trarne un profitto. Uber o Airbnb non sono l’alternativa al sistema capitalistico, ma nuove aziende con un nuovo modello di business, che sfruttano lacune normative, manodopera a basso costo e senza diritti, macchine e infrastrutture di proprietà di terzi, pur di aumentare la propria redditività.

La tendenza di tutte queste aziende riflette già ora e rifletterà sempre più le logiche capitalistiche, cioè la ricerca del massimo profitto, l’aumento della produttività e dello sfruttamento dei lavoratori, la concentrazione di capitale e l’abbandono dei mercati non profittevoli. Ad esempio Uber a gennaio ha venduto le sue attività di consegne dei ristoranti in India al concorrente locale Zomato. Airbnb ha invece sempre più il monopolio delle case nei centri storici delle grandi città: per esempio a Roma, dal 2017 al 2019, si è passati da 12mila appartamenti disponibili a 15mila, il che ha comportato, in base alle regole della domanda e dell’offerta, un aumento generale degli affitti.

Nonostante tutte le suggestioni di Rifkin sulla “economia del dono”, infatti, i servizi in sharing non hanno affatto l’effetto di abbassare il costo degli affitti e dei noleggi. Secondo uno studio degli economisti Kyle Barron, Edward Kung e Davide Proserpio, dell’Università della California di Los Angeles, dove l’offerta del servizio di home sharing aumenta del 30%, il prezzo medio del canone di locazione raddoppia. Anche sulle aziende di sharing economy che si occupano di mobilità sostenibile sarebbe utile dire due parole. Sempre a Roma, Uber è sbarcata con il servizio di bike sharing Jump, piazzando in città 2800 biciclette elettriche a pedalata assistita. Il costo è però del tutto proibitivo, visto che sfiora i prezzi del car sharing, con tariffe di 0,2 euro al minuto e un extra per lo sblocco di 0,50 euro. Un servizio per soli ricchi, non di certo un dono o una condivisione.

I padroni delle nuove infrastrutture

Rifkin si pone una domanda importante su chi debba possedere e controllare le infrastrutture della rivoluzione green. Non c’è miglior risposta per capire la vacuità delle sue posizioni:

“Le rivoluzioni nel campo delle infrastrutture comportano sempre un sodalizio fra pubblico e privato e richiedono una sana economia sociale di mercato che unisca a ogni livello governo, industria e società civile e veda un appropriato mix di capitale pubblico, privato e sociale.”9

L’economia sociale di mercato è quella famosa terza via tra il liberismo e il socialismo, di cui in tantissimi hanno parlato nel corso degli anni, ma che nessuno ha mai visto mettere in pratica, per la semplice ragione che l’economia di mercato ha le proprie leggi di funzionamento e non può essere piegata a fini “sociali”. Quanto al mix pubblico/privato, ha sempre voluto dire privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite.

Per Rifkin la questione dell’infrastruttura è fondamentale, al punto di essere considerata il cuore del GND. Questo tipo di infrastruttura porterà a “un passaggio dalla globalizzazione alla “glocalizzzazione”10, “dove individui, imprese e comunità si relazioneranno a vicenda, bypassando molte imprese globali che hanno mediato commercio e scambio del XX secolo”11. Con la glocalizzazione si “renderà possibile una grande espansione dell’imprenditoria sociale”12, delle piccole e medie imprese, con la prospettiva di una democratizzazione del commercio e degli scambi.

Anche qui è incredibile il distacco di Rifkin dalla realtà, dove le piccole imprese sono quotidianamente strangolate dallo strapotere economico delle grandi multinazionali, proprio perché queste ultime possono contare su infrastrutture di produzione e distribuzione più grandi e potenti. La subordinazione della piccola borghesia al grande capitale non avviene solo sul piano economico, ma anche su quello politico. In Italia abbiamo sentito più volte discorsi a favore della piccola imprenditoria, ultimamente soprattutto da parte dei 5 Stelle, ma sono solo chiacchiere. Al momento dei fatti, anche i paladini della piccola impresa pentastellati hanno capitolato ai Benetton, ad Acerol Mittal, etc.

La confusione dietro a queste posizioni nasce dalla mancanza di comprensione della natura dello Stato e di come questa si connetta a chi detiene i mezzi di produzione. Rifkin, al pari di tutti i teorici della glocalizzazione, cerca di sostenere che il passaggio della politica a livello locale porterà ad una nuova governance. Infatti scrive:

“Il passaggio dalla globalizzazione alla glocalizzazione trasformerà il rapporto tra governi nazionali e comunità locali, trasferendo in un certo senso la responsabilità del funzionamento dell’economia e il compito della governance dello Stato alle regioni.”13

E ancora:

“Il parziale trasferimento del potere politico da nazioni a regioni cambierà la natura della governance. Se tutta la politica è locale, nell’era glocale anche lo sviluppo economico sarà sempre più distribuito fra località connesse fra loro dovunque nel mondo.”14

Dunque “la terza rivoluzione industriale”, la rivoluzione digitale, la Green New Deal ci porteranno al… federalismo! Caspita che conquista, il governatore Zaia ne sarà entusiasta… Non si capisce per quale ragione uno Stato capitalista federalista dovrebbe essere superiore a uno Stato capitalista centralizzato. Forse le logiche del capitalismo non operano a livello locale, ma solo a livello nazionale? Pensiamo al caso di molte regioni italiane, come Lombardia e Veneto, dove le privatizzazioni nel nome del profitto hanno completato la distruzione dello stato sociale nazionale. La “devolution” è stata una potente leva per la distruzione dello stato sociale. Anche portando la governance a livello locale, senza cambiare i rapporti di produzione, non cambierebbe assolutamente nulla. Più in generale la soluzione non può essere quella di frammentare ulteriormente gli Stati nazionali in tante comunità locali, ma l’esatto opposto. Di fronte a problemi globali, come il riscaldamento climatico, è necessario superare i limiti angusti degli attuali Stati nazionali e andare verso una federazione mondiale, in grado di coordinare e pianificare le politiche economiche dei diversi paesi. La proposta della glocalizzazione richiama molte vecchie teorie di tempi anche precedenti alla Prima internazionale, già ampiamente demolite da Marx ed Engels, teorie piccolo borghesi che cercano di trovare la conciliazione tra le classi sociali in una forma di Stato super partes, teorie che rinnegano la stessa divisione in classi sociali della società odierna. Per Rifkin non esistono le classi sociali, ma i dati sul mondo del lavoro dicono ben altro.

I proletari a livello mondiale sono aumentati. Se i posti di lavoro industriali sono diminuiti in Occidente, sono di gran lunga aumentati in Oriente e a livello globale la classe operaia è fortemente cresciuta. Secondo un rapporto del 2019 della Banca Mondiale, tra il 1993 e il 2017 il proletariato mondiale è aumentato da 2,5 miliardi a e 3,3 miliardi di lavoratori. Allo stesso tempo, nonostante la fiducia messianica di Rifkin nei benefici dello sviluppo tecnologico, la povertà è cresciuta e comincia a colpire anche chi ha un lavoro. Secondo il già citato rapporto della Banca Mondiale, “senza un’adeguata protezione sociale è difficile adeguarsi ai cambiamenti del mercato del lavoro, generati dal progresso tecnologico” e “nei paesi in via di sviluppo, 8 persone su 10 non ricevono assistenza sociale e 6 su 10 lavorano in modo informale senza previdenza sociale.”

È soprattutto interessante notare come crolla l’occupazione industriale ad alto reddito. Secondo recenti stime dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), nei Paesi emergenti e in quelli in via di sviluppo quasi un lavoratore su tre vive in condizioni di povertà, e il fenomeno è in espansione. Tra il 1995 e il 2014 l’OIL ha condotto uno studio in 133 Paesi ricchi e in via di sviluppo, riscontrando che in 91 di essi i salari non sono aumentati di pari passo con la maggiore produttività e con la crescita economica. E a questo bisogna aggiungere il lavoro insicuro, pericoloso e senza diritti. Secondo il rapporto dell’OIL:

“Nel 2019, oltre 630 milioni di lavoratori in tutto il mondo — vale a dire quasi uno su cinque, o il 19% di tutti gli occupati — non hanno guadagnato abbastanza per far uscire loro stessi e le loro famiglie dalla povertà estrema o moderata (guadagnando cioè meno di 3,20 dollari al giorno a parità di potere d’acquisto).”

Avere un lavoro retribuito non garantisce un lavoro dignitoso:

“Nel 2019 avere un lavoro retribuito non era una garanzia di condizioni di lavoro dignitose o di un reddito adeguato per molti dei 3,3 miliardi di lavoratori in tutto il mondo. Troppo spesso, la mancanza di reddito o altri mezzi di sostegno finanziario costringe i lavoratori a impegnarsi in lavori informali, che offrono retribuzioni basse, senza garantire l’accesso alla protezione sociale e ai diritti sul lavoro. Questo è particolarmente vero per i 1,4 miliardi di lavoratori autonomi o per i coadiuvanti familiari nei paesi a basso e medio reddito, che lavorano generalmente in modo informale, in condizioni di vulnerabilità, e guadagnano un reddito molto più basso rispetto alle persone che hanno un lavoro salariato e un lavoro dipendente. Anche nei paesi ad alto reddito, un numero crescente di lavoratori autonomi deve far fronte a condizioni di lavoro sfavorevoli — una situazione che si riflette in parte nella diminuzione del vantaggio del reddito da lavoro autonomo rispetto ai salari e ai lavoratori dipendenti. Tuttavia, i lavoratori dipendenti sono spesso soggetti a contratti precari, a basse retribuzioni e all’informalità. Complessivamente, circa 2 miliardi di lavoratori in tutto il mondo svolgono un lavoro informale, rappresentando il 61% della forza lavoro globale.”

Questi dati dimostrano come il capitalismo e la sete di profitto abbiano spostato la produzione in paesi a basso reddito ed intensificato lo sfruttamento nei paesi più sviluppati, portando ad un impoverimento generale della classe lavoratrice a livello mondiale.

Una vera democrazia non si potrà mai avere finché non saranno abolite le classi sociali. Tutti i tentativi di democratizzare le varie strutture di governance, senza l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, rimangono pure utopie. Senza questa consapevolezza si rischia di andare incontro a sbandate politiche paurose. Ad esempio Rifkin nel libro elogia continuamente l’Europa, la Merkel, la Germania “federale”, come modello per sviluppare la terza rivoluzione industriale. Ma l’autore si dimentica che l’Europa, soprattutto grazie al governo tedesco, ha voluto dire per i lavoratori austerità, distruzione dello stato sociale, mancanza di diritti e di servizi. Non è un caso che proprio in Europa, dopo anni di crisi, ad esempio, cominciamo a sentire il termine “povertà energetica”, dove sempre più famiglie non possono più pagarsi i beni primari legati all’energia come il riscaldamento. Una piaga sociale frutto di anni di politiche di liberalizzazione selvaggia dei servizi e che comincia a fare molte vittime, con la prospettiva di un ulteriore aumento in caso di una nuova crisi economica.

Assemblee alla pari o gestione dell’economia da parte dei lavoratori?

“Sulla base della nostra esperienza nel mettere in piedi assemblee fra pari nell’Unione europea, la situazione ottimale è quella che vede parteciparvi e offrire contributi e feedback in ogni regione e in ogni fase del coinvolgimento trecento cittadini. Le assemblee fra pari non sono focus group o gruppi stakeholder, ma costituiscono uno spaccato della popolazione, e chi vi parteciperà verrà coinvolto fino in fondo nelle deliberazioni come nell’elaborazione delle proposte e delle iniziative che saranno incorporate nei piani del GND per il suo territorio […] In questo processo governatori, sindaci e autorità delle contee fungeranno da facilitatori e avranno responsabilità, nell’ambito delle rispettive giurisdizioni, sia di selezionare il gruppo trasversale dei partecipanti sia di sovraintendere alle operazioni delle assemblee fra pari.”15

Indubbiamente la democrazia parlamentare borghese è un sistema marcio, afflitto dalla corruzione, dal burocratismo e dagli interessi lobbistici, ma la soluzione non può essere rappresentata dalle “assemblee alla pari”. In questo caso la proposta di Rifkin rappresenta un passo indietro anche rispetto all’asfittica democrazia borghese. Invece della democrazia “dal basso”, abbiamo qui la democrazia “dall’alto”, con le assemblee che vengono nominate e dirette dai cosiddetti “facilitatori”.

Se vogliamo che le larghe masse non siano soggetti passivi, ma abbiano un ruolo da protagoniste nei processi decisionali che riguardano il loro territorio, la soluzione è creare nuovi organismi di potere più democratici nella forma di comitati, consigli, assemblee popolari, eletti dai lavoratori e dagli abitanti dei territori, in cui i delegati siano revocabili in qualsiasi momento dalle istanze che li hanno eletti.

Un nuovo sistema politico non è però possibile senza che le risorse economiche, oggi concentrate nelle mani di un pugno di grandi capitalisti, vengano espropriate e messe a disposizione della collettività. Le “infrastrutture del futuro” dovranno essere gestite in modo consiliare dai lavoratori e dalle popolazioni, e non dalle assemblee tra pari come proposto da Rifkin. Finché esiste la proprietà privata dei mezzi di produzione non esiste nessun “pari”: come vediamo ogni giorno, comandano i proprietari delle fabbriche, delle banche, dei pozzi di petrolio, attraverso i propri burattini al governo.

Osserva Lenin in Stato e Rivoluzione:

“Democrazia vuol dire uguaglianza. Si arriva a concepire quale grande importanza hanno la lotta del proletariato per l’uguaglianza e la parola d’ordine dell’uguaglianza se si comprende quest’ultima in modo giusto, nel senso della soppressione delle classi. Ma democrazia significa soltanto uguaglianza formale. E appena realizzata l’uguaglianza di tutti i membri della società per ciò che concerne il possesso dei mezzi di produzione, vale a dire l’uguaglianza del lavoro, l’uguaglianza del salario, sorgerà inevitabilmente davanti all’umanità la questione di compiere un successivo passo in avanti, di passare dall’uguaglianza formale all’uguaglianza reale, cioè alla realizzazione del principio ‘da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni’.”

Europa e Cina

La miopia di Rifkin, alla fine viene dimostrata nelle sue stesse conclusioni, dove si diffonde in grandi elogi dell’Europa e della Cina per le loro scelte politiche in merito al cambiamento climatico.

“Sia la Ue che la Cina hanno chiaro il loro ruolo in questo momento della storia mondiale: affrontare il cambiamento climatico e salvaguardare la vita sulla terra […] La Ue e la Cina stanno spingendosi entrambe al di là dei loro confini per aiutare altre regioni a compiere la transizione verso una civiltà post-carbonio in questo la Cina, con la Belt and Road Initiative (la nuova Via della Seta) ha assunto un ruolo di comando.”16

Per Rifkin “l’iniziativa è, per la Cina, parte integrante di un programma filosofico più ampio per instaurare quella che essa definisce civiltà ecologica.”17

Le affermazioni di Rifkin su questo punto lasciano a bocca aperta. Per quanto riguarda l’Unione Europea, nonostante le chiacchiere sul Green Nerw Deal, a febbraio il parlamento europeo ha approvato un pacchetto di decine di progetti totalmente incentrati sul gas, tra cui i gasdotti Tap ed Eastmed, oltre a quelli volti ad importare in Europa il gas prodotto negli USA con la tecnica del fracking, la più pericolosa e impattante sul piano ambientale.

Nel caso della Cina, invece, la Via della Seta non è certo un mezzo per esportare una filosofia ecologica nel mondo, ma un progetto di espansione di stampo imperialista e colonialista, volto ad assumere il controllo del territorio e delle risorse in una serie di paesi africani, asiatici e latinoamericani.  Basti vedere il dibattito attorno alle distese di coltivazioni per i biocarburanti, oppure quello attorno alle nuove miniere di terre rare e minerali preziosi legati proprio alle tecnologie rinnovabili. Andrebbe anche ricordato che la Cina è la prima potenza in termini di emissioni di CO2 e consuma un’enorme quantità di fonti fossili per alimentare la propria economia, ma questo non è affatto un problema per Rifkin:

“Se i critici possono giustamente obiettare che la Cina continua ancora a investire, nella Belt and Road Initiative, in infrastrutture legate ai combustibili fossili, è un fatto che essa sta rapidamente passando alle energie rinnovabili, alle reti elettriche intelligenti e alle reti di trasporto elettrico che costituiscono un paradigma della terza rivoluzione industriale.”18

Non importa se nell’accordo di “pace commerciale” siglato con gli Stati Uniti a gennaio, la Cina si impegna ad acquistare dagli USA gas e petrolio per 52,4 miliardi di dollari. Nel 2019 Pechino ha importato greggio da 45 paesi, di cui la metà delle forniture arrivate da Russia, Arabia Saudita, Angola, Iraq e Oman. Non è un caso che la Cina abbia aperto le frontiere a compagnie estere per la ricerca di gas e petroli non convenzionali, a partire dai shale gas con le tecniche di fracking.

Come finanziare il Green New Deal?

Giustamente Rifkin si accorge che per finanziare il GND servono un sacco di soldi

Negli Stati Uniti e in tutto il mondo si sta facendo sempre più pressante la domanda su dove procurarsi i soldi per costruire e portare a regime su misura per ogni regione l’infrastruttura da terza rivoluzione industriale del Green new deal.”19

Per Rifkin il GND si potrà finanziare con i fondi pensione. Nulla di strano in tutto ciò, visto che i fondi pensione sono serviti per le peggiori speculazioni finanziarie e i green bond sono pensati con lo stesso fine. Scrive Rifkin:

“Se qualche investimento pubblico a ogni livello – di città, contea, Stato e federale – sarà necessario, è probabile che buona parte dei finanziamenti occorrenti per costruire la nuova infrastruttura verrà sempre più dai fondi pensione globali. […] Karl Marx non avrebbe mai immaginato che nel XXI secolo i lavoratori del mondo, tramite i loro fondi pensionistici pubblici e privati, sarebbero stati i principali detentori del capitale di investimento globale […] È prevedibile che in futuro i fondi pensione, nell’aspettativa che nei progetti vengano impiegati almeno in parte da lavoratori sindacalizzati, investano sempre di più in infrastrutture verdi in tutti gli Stati Uniti e in altri paesi. L’enorme pool di capitali pensionistici è stato accumulato in soli sette decenni. Se non si tratta di una rivoluzione nel senso tradizionale del termine, e anche se è improbabile che la maggior parte della gente, compresi i milioni di detentori di fondi pensione, si veda come la classe che rappresenta questo impressionante pool di capitali investito nel mondo, si tratta di una nuova realtà. In un certo senso, è il segreto meglio custodito della storia capitalistica moderna. Il puro peso economico rappresentato da questi 41300 miliardi di dollari, se gestito e sfruttato fino in fondo dai milioni di singoli capitalisti che compongono questa fascia, potrebbe potenzialmente portare a una ridefinizione fondamentale del rapporto tra forza lavoro globale e le istituzioni che governano l’ordine economico internazionale.”20

Accidenti che rivelazione! I fondi pensione trasformano i lavoratori in capitalisti! Appena i lavoratori se ne renderanno conto, potranno guidare il mercato finanziario mondiale per i propri scopi. E pensare che tutto questo Marx non se l’era nemmeno immaginato! A saperlo prima, il movimento operaio si sarebbe risparmiato la fatica di lottare per il diritto alla pensione…

La realtà è esattamente l’opposto. I fondi pensione sono lo strumento con cui il grande capitale utilizza una parte (differita) dei salari dei lavoratori per condurre le proprie speculazioni. I lavoratori non decidono nulla e non contano nulla: rischiano anzi di perdere le loro pensioni, in caso di crollo dei mercati finanziari. Sostenere il contrario, sarebbe come dire che è il topo che vive nella stiva a decidere la rotta della nave.

La ricetta di Rifkin è un modo semplice per obbligare i lavoratori a usare i propri risparmi di una vita per finanziare la nuova era del capitalismo green, senza rompere le compatibilità di sistema. Non è un caso che per Rifkin questa sia l’unica possibilità, al punto di bocciare completamente anche le proposte di finanziamento pubblico attraverso la rottura dei patti di stabilità. A tal proposito è chiaro ed esplicito:

“D’altro canto, anche il finanziamento pubblico dell’infrastruttura pone dei problemi. Il primo è la necessità dei governi di ridurre al minimo il rapporto fra debito e Pil. È una regola in tutta la UE. Negli USA le amministrazioni locali e statali sono consapevoli di essere soggette agli stessi vincoli: sanno quindi che per pagare un investimento non possono semplicemente ricorrere a un aumento proporzionale delle tasse o del debito.”21

In questo modo Rifkin si pone addirittura al di sotto delle limitate proposte riformiste di tassazione dei grandi patrimoni e di revisione dei patti di stabilità, facendo sua la logica dell’austerità.

Rifkin insiste a seminare illusioni:

“Immaginiamo, mettendo Marx a testa in giù, che i lavoratori del mondo si uniscano in un esercito di piccoli capitalisti… Che cosa succederebbe se i capitalisti della pensione americani dovessero unirsi a una legione di capitalisti della pensione di tutto il mondo e, insieme, essi iniziassero a esercitare il controllo su questo gigantesco pool di capitali nell’economia globale? Senza sparare un colpo, senza lotta di classe, senza scioperi, ribellioni o rivoluzioni, i ruoli, almeno sulla carta, si sono invertiti: la principale classe capitalista è oggi rappresentata da questi milioni di lavoratori.”22

Seguendo questo discorso, dunque, negli USA, dove i fondi pensione esistono da più tempo, i lavoratori dovrebbero essere in una posizione infinitamente migliore e di fatto a un passo dalla presa del potere, ma le cose non stanno affatto così. Rifkin vive lì, dovrebbe saperlo, come dovrebbe sapere che la disuguaglianza del reddito è ai massimi storici, anche grazie al travaso di denaro dai lavoratori ai capitalisti che avviene attraverso la trappola dei fondi pensione.

I lavoratori non devono affidare i loro risparmi ai grandi gruppi privati, ma lottare per pensioni pubbliche, garantite e dignitose. Solo quando le grandi società finanziarie, comprese quelle che gestiscono i fondi pensione, verranno espropriate e poste sotto il controllo dei lavoratori, le loro risorse potranno essere utilizzate per risolvere i problemi della nostra società, a partire da quello ambientale.

Verso il capitalismo sociale

L’approdo di tutta l’elaborazione di Rifkin è il “capitalismo sociale”. Infatti scrive:

“La clamorosa iniziativa assunta dai fondi pensione pubblici e privati di sottrarre miliardi di dollari dei loro investimenti al settore dei combustibili fossili e industrie connesse per reinvestirli nell’economia verde intelligente segna l’avvento dell’età del capitalismo sociale. Gli investimenti responsabili sono passati dai margini delle decisioni di investimento al cuore stesso dell’attività di mercato, fornendo la base per la più fondamentale delle transizioni: la strategia di uscita dalla civiltà dei combustibili fossili.” 23

La proposta di Rifkin non è per nulla anticapitalista e resta profondamente ancorata alla logica del profitto. È lui stesso a spiegarci che il profitto è alla base dei nuovi investimenti responsabili e sociali che giocano un ruolo fondamentale per l’economia odierna. L’autore stima che negli Stati uniti gli investimenti socialmente responsabili abbiano superato i 12.000 miliardi di dollari e gran parte di questa cifra viene dai fondi pensione.

La spinta a questi investimenti si basa comunque su profitti privati:

“Che cosa ha tanto accelerato il salto degli investimenti socialmente responsabili della periferia al centro degli investimenti capitalistici? Il profitto!”24

Rifkin è convinto non solo che la salvaguardia del clima e il funzionamento del capitalismo possano coesistere, ma addirittura che la fame di profitti sarà il motore attraverso il quale si risolverà la crisi ambientale. A quanto pare gli è completamente sconosciuto un fenomeno come il “greenwashing”, ossia l’utilizzo del tema ecologico da parte delle grandi aziende per farsi un po’ di pubblicità. Basti vedere il mercato obbligazionario, dove troviamo bond di tutti tipi, come i green bond e i bond di transizione, veri e propri specchietti per le allodole. Non è un caso che le principali aziende che hanno contribuito al cambiamento climatico, soprattutto quelle legate alle fonti fossili, nell’ultimo periodo si siano buttate nell’emissione di bond verdi, per cercare in tutti i modi di aggredire anche questo mercato. Se da un lato emettono bond “verdi”, dall’altro queste aziende continuano imperterrite nella strada di politiche legate al fossile. In parole povere, stanno cercando disperatamente di rifarsi una verginità ambientale, facendo leva sulla coscienza ambientale delle persone. È il caso dell’Enel o della Snam, che nell’ultimo anno si sono fatte portavoce del peggiore greenwashing, mentre in fondo continuano con le stesse politiche.

Per dirla tutta, il greenwashing di queste aziende legate alle fossili, alla fine condiziona le stesse politiche economiche, strategiche e ambientali dei vari paesi. In Italia la Snam e l’Enel, come pure l’Eni, sono riuscite a far passare a livello politico il concetto che il gas naturale è il miglior alleato della transizione climatica, quando invece è una fonte energetica inquinante, che produce emissioni di CO2. Stesso discorso vale a livello europeo, dove recentemente la BEI e il parlamento europeo hanno stabilito l’importanza del ruolo del nucleare e del gas naturale come fonti energetiche di transizione. Le multinazionali, nella società capitalistica, cercheranno sempre di indirizzare le politiche dei diversi paesi a proprio piacimento e lo Stato, in quanto struttura di dominio della classe dominante, invariabilmente le accontenterà.

L’idea richiamata da Rifkin, presa in prestito da Benjamin Franklin del “fare soldi facendo del bene”, è il tentativo del grande capitale di aprire nuovi mercati e sbocchi commerciali, reso possibile dall’incapacità dei dirigenti riformisti del movimento operaio di mettere in discussione questo modello economico. Rifkin è chiaro in merito: “In realtà fare soldi facendo del bene aumenta i profitti.”25 Il significato del capitalismo sociale di Rifkin è dunque chiaro: costi “della transizione” a carico dei lavoratori attraverso i fondi pensione e superprofitti ad esclusivo vantaggio delle grandi aziende che fanno greenwashing.

Esco: modello aziendale per il GND

Nel suo libro Rifkin propone il modello delle Esco (Energy Service Company). Questo modello aziendale è fondato “su un approccio radicalmente nuovo dell’attività economica in cui i profitti sono garantiti dal cosiddetto performance contracting: un metodo di business contro-intuitivo che stravolge le fondamenta stesse dei mercati venditore/acquirente, principio chiave del capitalismo.”26

In pratica, per Rifkin si passa dal modello venditore-acquirente al modello fornitore–utente in cui l’onere di finanziare i lavori è in mano alle società Esco e tutti i profitti sull’investimento dipendono “dalla misura in cui essa riesce a produrre nuove energie verdi e a realizzare efficienze energetiche come previsto dal contratto.”27

Il discorso sulle Esco consente a Rifkin di ribadire le sue posizioni a favore del mix pubblico-privato: “l’emergente partnership pubblico-privata fra governi ed Esco mette le competenze tecniche e le migliori pratiche imprenditoriali private al servizio del pubblico, in modo vantaggioso per tutti, creando una nuova potente dinamica fra i settori pubblico e privato.”28

Purtroppo per Rifkin, anche le Esco si sono dovute scontrare con la dura realtà del capitalismo e, invece di dare vita ad una fruttuosa partnership con il settore pubblico, tendono ad essere inglobate dal settore privato. Possiamo già infatti vedere una tendenza all’acquisizione delle Esco da parte delle grandi multinazionali. Lo spiega Andrea Gilardoni, presidente di Cesef (Centro studi di efficienza energetica) che, commentando il rapporto AGICI 2018 (sulla pagina Qualenergia.it del 16 aprile 2019), dichiara:

“È interessante l’emergere di intese finalizzate all’efficienza energetica e all’acquisizione di Esco come la recente acquisizione di Tep da parte di Snam. Anche A2a e Terna hanno recentemente annunciato accordi in questo settore che sta prendendo quota nell’ultimo anno e mezzo”.

Sempre in quell’articolo si parla dell’acquisizione della Esco Yuosave da parte di Enel X e di Sea, una Esco abruzzese, da parte del gigante energetico Eni. La multiservizi romana Acea Energia ha recentemente dichiarato nel proprio Business Plan 2019-2022 l’intenzione di investimenti tra i 50 e i 70 milioni di euro per l’acquisizione di Esco.”

Le società Esco sono da poco nate con le migliori “intenzioni etiche green” e già sono soggette alle leggi del mercato, in particolare alla tendenza alla concentrazione in grandi aziende e monopoli.

Coscienza biosferica o coscienza di classe?

Rifkin a questo punto delle sue tesi cerca di completare il suo pensiero sul capitalismo sociale, fatto di negazione delle contraddizioni tra le classi sociali, invocando una fantomatica “coscienza della biosfera”.

Per giustificare questa tesi parte ancora dal ruolo storico dell’infrastruttura:

“I grandi cambiamenti di paradigma nella storia umana sono rivoluzioni infrastrutturali che mutano il nostro orientamento spaziotemporale, i nostri modelli economici, le nostre forme di governance, la nostra cognizione e la nostra stessa visione del mondo […] L’infrastruttura glocale emergente della terza rivoluzione industriale del XXI secolo sta dando origine alla “coscienza della biosfera” e alla governance delle assemblee fra pari […] La presa di coscienza che fenomeni planetari influiscono sulla nostra stessa esistenza è una esperienza tale da farci sentire una piccola cosa e, nello stesso tempo, la lezione più importante che dal cambiamento climatico possiamo trarre. Imparare a vivere tra questi fenomeni che percorrono la terra, anziché dominarli, è ciò che ci può portare dal dominio alla gestione e dal distacco antropocentrico alla profonda partecipazione alla Terra e alla sua vita. È questo il grande mutamento di orientamento spaziotemporale che una prospettiva biosferica ci permette.”29

Parlando dei cambiamenti storici tra i vari modelli di società, Rifkin pone grande rilievo sul concetto di empatia: “…ognuno di questi grandi cambiamenti di paradigma è stato accompagnato dall’evoluzione della nostra capacità di empatia, giunta ad abbracciare collettività e visioni del mondo sempre più grandi.”30 Per lui l’empatia attuale si spinge fino alla coscienza di abitare tutti in una comune biosfera, al punto di pensarci come parte di una specie minacciata.

Sarebbe interessante capire dov’è l’empatia di Rifkin, mentre nel mondo cresce quotidianamente la barbarie: guerre, fondamentalismo religioso, povertà estrema, violenza contro le donne, razzismo… Al di là di questo, saremo anche una specie minacciata dal cambiamento climatico, ma non siamo affatto tutti sulla stessa barca: l’operaio che vive in un villaggio inquinato del Pakistan senza acqua corrente e l’azionista di una multinazionale del petrolio americana non sono affatto “uguali di fronte alla biosfera”.

Spesso sentiamo parlare del ruolo nefasto dell’uomo sulla Terra, mettendo tutti gli uomini sullo stesso piano. Molti ambientalisti parlano di uomo come parassita nella natura, un virus, un cancro ecc., ma il problema non è l’uomo in quanto tale ma i rapporti di produzione capitalistici. È l’inesauribile sete di profitti che spinge le aziende a devastare l’ambiente, la vita umana, le foreste, gli oceani. Il singolo lavoratore o consumatore è in balia di meccanismi economici che non dipendono da lui, ma che anzi subisce sulla sua pelle. No, non è uguale per tutti. Ci sono delle responsabilità, ci sono gli inquinatori e ci sono gli inquinati, e anche in questo caso si tratta di una questione di classe.

Invocare una coscienza biosferica interclassista non serve assolutamente a nulla, se non a scagionare i veri colpevoli del disastro ecologico. I padroni non inquinano per un capriccio soggettivo, ma perché spinti dalla concorrenza con altri padroni altrettanto famelici. La loro coscienza non è quella antropocentrica, ma quella del profitto. Le nuove tecnologie sono un’opportunità, ma solo se gestite all’interno di un sistema economico diverso, basato sulle esigenze della grande maggioranza delle persone. L’unica coscienza che può eliminare l’inquinamento è la coscienza di classe, da cui scaturisce la lotta per il socialismo.

Note

1. Jeremy Rifkin, Un Green New Deal globale, Mondadori 2019. P. 18

2. ibid. p. 19

3. ibid. p. 19

4. ibid. p. 20

5. ibid. p. 20

6. ibid. p. 20

7. ibid. p. 20

8. ibid. p. 21

9. ibid. p. 35

10. ibid. p. 38

11. ibid. p. 38

12. ibid. p. 38

13. ibid. p. 38

14. ibid. p. 39

15. ibid. p. 250

16. ibid. pp. 223, 224

17. ibid. p. 224

18. ibid. p. 226

19. ibid. p. 146

20. ibid. pp 146-148

21. ibid. p. 199

22. ibid. p. 148

23. ibid. p. 173

24. ibid. p. 173

25. ibid. p. 174

26. ibid. p. 203

27. ibid. p. 203

28. ibid. p. 203

29. ibid. pp. 220, 222

30. ibid. p. 220

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