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Il grande massacro: un’analisi marxista della Prima guerra mondiale – Parte 1

Parte 1 – L’assassinio di Sarajevo: i primi colpi del grande massacro

di Alan Woods

Cento anni fa, il 28 giugno 1914, due colpi di pistola turbarono la pace di un assolato pomeriggio a Sarajevo. Questi colpi rimbombarono in tutta Europa e turbarono la pace del mondo intero.
Si dice spesso che la prima guerra mondiale sia stata provocato dall’assassinio del principe ereditario austriaco, un gesto che però ricade piuttosto nel campo degli incidenti della storia, vale a dire eventi che potevano accadere oppure no. Se l’assassino avesse mancato il bersaglio e Francesco Ferdinando fosse sopravvissuto, la guerra non ci sarebbe stata?
E’ vero che le origini immediate della guerra derivarono dalle decisioni prese dagli statisti e dai generali a seguito dell’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando da parte di Gavrilo Princip, ma le vere cause devono essere ricercate non nel regno della casualità e degli incidenti della storia, ma sul solido terreno della necessità storica che, come Hegel ci insegna, può esprimersi attraverso il caso.
In realtà l’assassinio di Francesco Ferdinando non fu la causa, ma solo il catalizzatore che diede inizio al Grande Massacro. Fu la scintilla che incendiò i barili di polvere da sparo accumulati per decenni prima del 1914, rivelando immediatamente tutte le crepe che si erano allargate per un lungo periodo di tempo e portando ad una crisi diplomatica che rapidamente inghiottì tutta l’Europa. Fu un balzo dialettico, il punto critico in cui la quantità si trasforma in qualità.

La “questione orientale”

Per comprendere la cause della prima guerra mondiale è necessario analizzare il processo che si sviluppò su scala mondiale nei decenni anteriori al 1914: l’evoluzione economica del capitalismo tedesco e la sua relazione con i paesi capitalisti già affermati come Gran Bretagna e Francia; l’intricata rete di relazioni diplomatiche inter-imperialiste nel medesimo periodo; la lotta per le colonie, i mercati e le sfere di influenza; le ambizioni e le tendenze espansioniste della Russia zarista; le guerre nei Balcani e le contraddizioni che scaturivano dalla decadenza dell’Impero ottomano e molti altri fattori.
Un ingrediente velenoso in questo cocktail esplosivo era la questione nazionale nei Balcani, che si era intensificata con il sempre più rapido decadimento del vecchio Impero ottomano. Per tutto il XIX secolo, la “questione orientale” fu la questione dominante per le grandi potenze europee. Sotto la maschera del “panslavismo” la Russia zarista desiderava l’accesso alle calde acque del Mediterraneo per la sua flotta. Il suo sostegno ai bulgari e ai serbi nella loro lotta contro il dominio turco, era solo una conveniente copertura per una politica estera cinica ed espansionista.
Per ragioni altrettanto ciniche, la Gran Bretagna era determinata a negare l’accesso al Mediterraneo alla Russia, che in oriente minacciava l’India britannica. Nel XIX secolo sostenne l’integrità dell’Impero ottomano come contrappeso alla Russia. Ma nel caso non fosse stato più possibile mantenere l’integrità dell’Impero, Londra si garantì una polizza d’assicurazione favorendo una limitata espansone della Grecia. Da parte sua la Francia voleva rafforzare la sua posizione nella regione, in particolar modo nel Levante (Siria, Libano e Palestina).
L’Impero austro-ungarico manifestava gli stessi segni di decrepitezza dell’Impero ottomano. Terrorizzata che qualsiasi cambiamento nell’ordine internazionale potesse destabilizzare il fragile equilibrio tra i vari gruppi etnici e linguistici al suo interno, la monarchia degli Asburgo, nella persona senile di Francesco Giuseppe, desiderava ferventemente mantenere lo statu quo, comprendendo molto bene che il crollo dell’Impero ottomano l’avrebbe fatalmente danneggiata. I governanti di Vienna temevano che l’appello del nazionalismo serbo avrebbe avuto un effetto potente sui serbi della Bosnia, che si trovavano sotto il controllo austriaco.
Allo stesso tempo l’Impero tedesco aveva i propri piani, piuttosto differenti. In base alla politica conosciuta come “Drag nach Osten” (la “spinta verso est”), mirava infatti a trasformare l’Impero ottomano in uno Stato cliente della Germania, una colonia de facto. Era per questo proposito “sincero” e “del tutto disinteressato” che Berlino ne sosteneva l’integrità.

Le guerre balcaniche

Il dominio turco, che aveva retti nei Balcani per secoli, fu scosso nel XIX secolo dai movimenti di liberazione nazionale dei serbi, dei greci e dei bulgari. Agli inizi del XX secolo la Bulgaria, la Grecia, il Montenegro e la Serbia avevano ottenuto l’indipendenza dall’Impero ottomano. Tuttavia i piccoli e deboli Stati che erano sorti, divennero immediatamente le pedine delle diverse potenze straniere. In particolare la Russia zarista mirava a estendere i suoi tentacoli verso i Balcani ponendosi come “protettrice degli slavi meridionali contro la tirannia turca”. Questa grandiosa pretesa sorvolava convenientemente sul piccolo dettaglio della mostruosa tirannia esercitata dal regime zarista su tutti i popoli del proprio impero.
Prima del 1912 un gran numero di slavi erano ancora sotto il governo turco, soprattutto in Tracia e nell’area conosciuta come Macedonia, che comprendeva non solo Skopje ma anche Salonicco. Ci fu un duro scontro tra Bulgaria e Grecia per il controllo della Macedonia ottomana. I greci, un tempo vittime di persecuzioni nazionali sotto i turchi, divennero gli oppressori degli slavi macedoni, che furono costretti a sperimentare le gioie della “ellenizzazione” forzata. Allo stesso modo i bulgari portarono avanti una politica di “bulgarizzazione” dei greci. Bulgari e greci inviarono milizie armate irregolari in territorio ottomano per proteggere e assistere i propri connazionali. A partire dal 1904 ci fu un costante stato di guerra in Macedonia, con la guerriglia greca e bulgara che combattevano contro l’esercito ottomano sulle impervie montagne macedoni.
Nel luglio del 1908 la prolungata decadenza dell’Impero ottomano portò ad un colpo di Stato conosciuto come la rivoluzione dei Giovani Turchi. Traendo vantaggio dai disordini a Costantinopoli, la Bulgaria dichiarò la propria totale indipendenza e allo stesso tempo l’Austria-Ungheria colse l’opportunità per annettersi la Bosnia-Erzegovina, che occupava fin dal 1878 ma in teoria era ancora una provincia ottomana. Questa mossa, che bloccava l’espansione della Serbia verso nord, mandò Belgrado su tutte le furie, ma la Serbia fu costretta ad accettare l’annessione a denti stretti. La Bosnia rimase una bomba ad orologeria destinata ad esplodere e a sconvolgere il mondo nel giugno del 1914.
Nel frattempo gli agenti di San Pietroburgo non erano rimasti con le mani in mano. Nella primavera del 1912 la diplomazia russa ottenne un grande successo con il lancio della Lega balcanica, un’alleanza tra Grecia, Serbia, Montenegro e Bulgaria, il cui obiettivo specifico era strappare la Macedonia alla Turchia. Nella prima guerra balcanica (1912), la Lega balcanica ottenne una vittoria schiacciante contro gli eserciti dell’Impero ottomano. La vittoria più importante fu ottenuta dai bulgari, che sconfissero le principali forze ottomane e avanzarono fino ai sobborghi di Costantinopoli (oggi Istanbul) e posero sotto assedio Adrianopoli (Edirne). In Macedonia l’esercito serbo sbaragliò i turchi a Kumanovo, catturò Bitola e, assieme ai montenegrini, entrò a Skopje. Contemporaneamente i greci occuparono Salonicco e avanzarono su Giannina. In Albania i montenegrini assediarono Scutari e i serbi entrarono a Durazzo.
Si aprì una conferenza di pace a Londra, ma nel gennaio del 1913 la guerra ricominciò. La Lega balcanica sconfisse ancora gli ottomani: Giannina cadde nelle mani dei greci e Adrianopoli in quelle dei bulgari. Il 30 maggio 1913 fu firmato un trattato di pace a Londra, in cui l’Impero ottomano rinunciò a quasi tutti i suoi restanti territori europei, compresa l’intera Macedonia e l’Albania. Le potenze europee insistettero sull’indipendenza dell’Albania, mente la Macedonia fu divisa tra gli alleati balcanici.
La seconda guerra balcanica fu una lotta sanguinosa per la spartizione delle spoglie. Come cani che si azzannano tra loro per un osso, le voraci classi dominanti di Serbia, Grecia e Romania litigarono con la Bulgaria a proposito della terra “liberata” di Macedonia. La formazione della Lega balcanica non aveva infatti eliminato le rivalità mortali tra i suoi membri e la vittoria servì solo ad esacerbarle. Nell’atto costitutivo della Lega, la Serbia aveva promesso alla Bulgaria il grosso della Macedonia, ma le cricche al potere in Serbia e Grecia avevano siglato un patto segreto per tenersi la maggior parte del territorio conquistato. Serbia e Grecia si coalizzarono contro la Bulgaria in una guerra che scoppiò nel giugno del 1913.
Montenegro, Romania e l’Impero ottomano si unirono ai combattimenti contro la Bulgaria, che si trovò in una posizione estremamente svantaggiosa. I serbi e i greci godevano di un considerevole vantaggio militare alla vigilia della guerra, perché nella prima guerra balcanica le loro armate avevano affrontato forze ottomane comparativamente deboli e avevano patito relativamente poche perdite, mentre i bulgari avevano sostenuto il peso dei combattimenti più pesanti in Tracia. Sconfitta e tradita, la Bulgaria perse la maggior parte del territorio che aveva conquistato versando così tanto sangue.
Grecia e Serbia si spartirono tra loro il grosso della Macedonia, lasciando la Bulgaria con solo una parte insignificante della regione, mentre la Romania si impossessò della Dobrugia meridionale e la Bulgaria fu costretta a cedere Salonicco alla Grecia. L’amarezza e il risentimento per questo tradimento avrebbe giocato un ruolo fatale successivamente, quando la Bulgaria si sarebbe unita alla potenze centrali in un violento attacco contro la Serbia.
Le guerra balcaniche furono in sostanza guerra per procura principalmente tra la Russia zarista e l’Impero austro-ungarico. I russi giocarono la carta del “panslavismo” come un mezzo per espandere la loro influenza nei Balcani a spese sia dell’Impero ottomano che di quello austro-ungarico. Notevolmente allargatasi grazie alle sue conquiste, la classe dominante serba aspirava a niente meno che alla completa dominazione dei Balcani nella forma di un’unione dei popoli slavi meridionali (Yugoslavia). Questo inevitabilmente portò ad un conflitto aperto con l’Impero austro-ungarico, che si vedeva minacciato dalle ambizioni della Serbia e della Russia.
Superficialmente queste guerre sembravano guerre di liberazione nazionale e di autodeterminazione dei popoli dei Balcani. In realtà non erano niente di tutto questo. Dietro ad ognuna delle cricche borghesi nazionali c’era un “grande fratello” nella forma di una o l’altra delle grandi potenze europee. Come oggi gli imperialisti americani si sono presentati costantemente come i difensori di una o l’altra nazionalità oppressa (per esempio i curdi e gli sciti in Iraq contro Saddam Hussein), o come Hitler utilizzò i tedeschi dei Sudeti come pretesto per invadere la Cecoslovacchia o fece ricorso ai cruenti servigi del nazionalismo ucraino per ridurre in schiavitù l’Ucraina, così allora la Russia, la Germania, la Francia, la Gran Bretagna e l’Austria-Ungheria utilizzarono le nazioni dei Balcani come merce di scambio nei loro intrighi e nelle loro manovre.

L’assassinio di Sarajevo

Quello che accadde a Sarajevo nel giugno del 1914 sembra ancora oggi avere un carattere quasi surreale. Il 4 giugno apparve sui giornali la notizia di una visita programmata dell’erede al trono austriaco, l’arciduca Francesco Ferdinando, e sua moglie a Sarajevo, la capitale della Bosnia. L’obiettivo dichiarato era il desiderio del principe ereditario di creare un’impressione favorevole nella sua prima visita ai suoi sudditi bosniaci, in questo territorio acquisito di recente, e partecipare alle manovre militari in programma sulle montagne vicino a Sarajevo.
La visita era un atto di estrema stupidità, che poteva venire in mente solo a una dinastia sclerotizzata: organizzare una visita del principe ereditario di una potenza occupante a Sarajevo e per di più, tra tutti i giorni possibili, proprio il 28 giugno, la giornata nazionale della Serbia, l’anniversario della battaglia del Kossovo del 1389, quando il regno serbo era stato sconfitto dai turchi.
Chi, sano di mente, poteva immaginare che i serbi di Bosnia prestassero un omaggio di gratitudine a un membro della famiglia reale che ostacolava l’unificazione di tutti i serbi in una Grande Serbia? Per aggiungere al danno la beffa, la visita dell’arciduca a Sarajevo fu preceduta da manovre militari sulle montagne a sud della città, provocatoriamente vicino alla frontiera con la Serbia. Persino contemplare soltanto una visita pubblica di un membro della famiglia reale austriaca in un posto come Sarajevo, un territorio ostile ribollente di intrighi, complotti terroristici e pericoli di ogni tipo, era un atto di follia.
Furono in molti a prevedere un disastro. L’ambasciatore serbo a Vienna fece presente al ministro responsabile per gli affari bosniaci che alcuni serbi avrebbero potuto considerare il tempo e il luogo della visita come un insulto deliberato. Avvertì che alcuni giovani serbi, che partecipavano alla manovre militari austriache, avrebbero potuto approfittare dell’opportunità per sparare contro l’arciduca. Il personale politico e amministrativo austriaco a Sarajevo esortò a cancellare la visita. La polizia avvertì che non avrebbe potuto garantire la sicurezza dell’arciduca, dato soprattutto il lungo itinerario previsto per la coppia reale lungo il fiume Miljacka, dalla stazione ferroviaria al municipio.
“Coloro che gli dei vogliono distruggere, prima li rendono folli”. Seguendo il vecchio proverbio greco alla lettera, gli austriaci ignorarono tutti gli avvertimenti. Il 26 giugno il principe ereditario arrivò a Sarajevo in pompa magna e si mescolò compiacente alla folla esultante, ignaro che i suoi movimenti erano seguiti da un giovane nazionalista bosniaco, lo studente Gavrilo Princip, deciso a sopprimerlo.
Si supponeva che questa fosse una brillante occasione per glorificare il dominio austriaco in Bosnia-Erzegovina. L’arciduca aveva atteso con impazienza per mesi la sua entrata trionfale nella città di Sarajevo, splendente nella sua uniforme di ispettore generale dell’esercito austro-ungarico, accompagnato da sua moglie Sofia, duchessa di Hohenberg, in un lungo abito bianco con una fascia rossa e con un ombrellino per ripararsi dal sole. Sfortunatamente l’ombrellino non forniva alcun riparo dalle pallottole.
Princip era un membro del Mlada Bosna (Giovane Bosnia), un movimento di giovani serbi di differenti provenienze etnico-religiose, che si poneva l’obiettivo di rovesciare il governo austro-ungarico. Princip era ispirato da un bruciante desiderio di vendetta contro gli oppressori austriaci e per la causa della liberazione nazionale serba, ma era qualcosa di più di un nazionalista serbo.
Come membro della Giovane Bosnia, era un nazionalista bosniaco oltre che serbo. Figlio di un povero contadino serbo-bosniaco, propendeva per le idee anarchiche e per la “propaganda dei fatti”. Credeva che fosse possibile cambiare la società assassinando un esponente chiave della classe dominante, un’idea che condivideva con i terroristi russi dl Narodnaja Volja (Volontà del Popolo). Diede la sua vita per quell’idea.
L’annuncio che Francesco Ferdinando e sua moglie Sofia avrebbero compiuto una visita ufficiale a Sarajevo, presentò a Gavrilo e ai suoi compagni un’opportunità unica. Mentre l’arciduca era indaffarato a partecipare alle cerimonie di benvenuto, il diciannovenne Danilo Ilic si stava riunendo con sei aspiranti attentatori in un caffè di Sarajevo per delineare un piano: si sarebbero piazzati ad ognuno dei tre ponti che attraversavano il fiume. La loro miglior possibilità di successo si sarebbe presentata in questi punti di passaggio, dove sarebbe stato facile gettare una granata nell’autovettura che trasportava la coppia reale.
Mentre distribuiva pistole e granate, Ilic avvertì preoccupato gli altri che la polizia poteva aver già scoperto il loro complotto. Ma non si poteva nemmeno prendere in considerazione l’idea di rinunciare, perché era improbabile che una simile opportunità si sarebbe nuovamente presentata. Dopodiché alcuni dei cospiratori visitarono la tomba di Bogdan Zerajic, un giovane serbo che era diventato un vero e proprio martire quando alcuni anni prima aveva tentato, senza successo, di assassinare l’imperatore. Si dice che le sue ultime parole prima di morire siano state: “lasco al popolo serbo il compito di vendicarmi”.
Quella domenica 28 giugno l’atmosfera divenne ancora più surreale. Sembrava quasi che le misure di sicurezza fossero state calcolate per aiutare gli assassini. Per incoraggiare quanti più spettatori possibile a dare il benvenuto alla coppia reale, i piani con l’itinerario erano stati pubblicati su un giornale locale, il Boshiche Post. Queste misure così “premurose” consentirono al gruppo di giovani terroristi di piazzarsi nei punti strategici. Ancora più incredibile, l’arciduca diede ordine che la vettura reale dovesse essere aperta e procedere a bassa velocità, in modo che i suoi passeggeri potessero vedere ed essere visti bene.
Ciò nonostante l’assassinio quasi fallì, quando la prima bomba gettata contro la vettura reale rimbalzò sul veicolo, ferendo alcune delle guardie. L’arciduca scese con calma dall’auto per parlare con i feriti e poi continuò il suo tragitto. Sua moglie aveva subito una leggera ferita al viso e il suo vestito bianco si era macchiato di sangue. Un indignato Francesco Ferdinando rimproverò il sindaco: “Io sono venuto a visitarvi e quelli mi gettano bombe addosso.” La risposta del sindaco non è stata tramandata.
Questa avrebbe dovuto essere la fine della faccenda. La vettura reale sarebbe dovuta procedere velocemente lungo il fiume fino alla stazione ferroviaria, ma il destino prese una svolta inaspettata. Più tardi nel corso della giornata, in una di quelle casualità di cui la storia è così ricca, l’autista imboccò una strada sbagliata e così l’auto comparve inaspettatamente, facendo retromarcia, nella stretta via appena fuori dal caffè in cui si trovava Princip. Quasi non credendo alla propria fortuna, questi camminò fino all’automobile e sparò due colpi a bruciapelo alla coppia reale. Il primo colpo colpì l’arciduca vicino alla vena giugulare; il secondo centrò la duchessa allo stomaco. Era tutto finito prima che ci fosse il tempo di far venire un medico o un prete.
Una folla inferocita tentò di linciare Princip, che fu tratto in salvo dalla polizia. Provò ad ingerire una capsula di cianuro, ma vomitò. Il giudice austriaco che lo interrogò quasi subito dopo, scrisse:
“Il giovane assassino, esausto per le percosse, era incapace di proferire parola. Era sottopeso, emaciato, giallastro e dal volto affilato. Era difficile immaginare che un individuo all’apparenza così fragile potesse aver commesso un’azione così grave.”
Gravilo fu processato da un tribunale austriaco e naturalmente ritenuto colpevole. Disse alla corte:
“Provando ad insinuare che qualcun altro abbia istigato l’assassinio, ci si allontana dalla verità. L’idea ebbe origine nelle nostre menti e l’abbiamo eseguita da soli, per amore del popolo. Non ho niente da dire in mia difesa.”
Avendo solo diciannove anni, in base alla legge austro-ungarica era troppo giovane per essere giustiziato. Fu invece seppellito vivo. Nella prigione di Theresienstadt (oggi Terezin, in Repubblica Ceca) fu condannato all’isolamento, tenuto nelle condizioni più severe e privato sia dei libri che del necessario per scrivere. A causa di queste spaventose condizioni di detenzione, contrasse la tubercolosi, che gli divorò le ossa a tal punto che dovettero amputargli il braccio destro. Nel maggio del 1918 morì, il suo corpo ridotto a uno scheletro. Aveva inciso sulle mura della sua cella questa frase: “I nostri fantasmi cammineranno per Vienna e vagheranno per il Palazzo, spaventando i nobili.”

Le ripercussioni dell’assassinio

La notizia dell’assassinio provocò un’ondata di costernazione e indignazione. A Sarajevo e in altre città bosniache, folle filo-austriache attaccarono tutti i serbi su cui riuscivano a mettere le mani, devastando negozi e imprese serbe, entrando nelle abitazioni e gettando il mobilio nelle strade. I pogrom anti-serbi provocarono numerosi omicidi e lo Stato si prese una sanguinosa vendetta arrestando centinaia di serbi, associati o meno al nazionalismo, molti dei quali furono giustiziati.
Tutto questo fece il gioco del partito della guerra a Vienna, che da qualche tempo invocava un’azione contro i serbi. Ora avevano una scusa perfetta. Il governo si riunì in una seduta d’emergenza, durante la quale Berchtold, il ministro degli esteri austriaco, e Conrad, il capo di stato maggiore dell’esercito, discussero quale corso d’azione intraprendere. Quest’ultimo sollecitò un’immediata azione militare contro la Serbia, azione che lo stato maggiore austriaco aveva già iniziato a pianificare.
L’Austria attribuì la responsabilità per l’assassinio direttamente al governo di Belgrado. In effetti i vertici militari serbi, guidati dal capo dello spionaggio Dragutin Dimitrijevic, il fondatore dell’organizzazione terroristica della Mano Nera, addestravano una serie di persone nelle arti oscure del terrorismo, manipolando giovani idealisti come Gavrilo Princip per i propri sinistri propositi. Il terrorismo è solitamente l’arma del debole contro il forte, e la Serbia lo utilizzava come strumento ausiliario per le sue manovre diplomatiche e militari. Questa volta, però, l’arma del terrorismo aveva funzionato fin troppo bene. L’assassinio di Sarajevo dava all’Austria la scusa perfetta per attaccare la Serbia e Belgrado era in allarme.
Per ragioni apparentemente incomprensibili, la Serbia non avviò un’inchiesta sugli eventi di Sarajevo, che avrebbe permesso al governo di Belgrado di negare qualsiasi complicità nell’assassinio da parte di gruppi serbi. Così invece venne lasciata all’Austria mano libera per presentare la propria versione dei fatti. Fu il risultato di una divisione del regime o di semplice paralisi? Oppure questo stupefacente immobilismo derivava dal timore che un’inchiesta avrebbe potuto far venire alla luce fatti potenzialmente imbarazzanti per il governo serbo? In ogni modo, questa inattività invitava ad una violenta reazione da parte di Vienna.
Un’offensiva austriaca contro la Serbia, tuttavia, non era ancora inevitabile. Lo stato di decadenza e demoralizzazione del regime austro-ungarico era tale che le autorità di Vienna iniziarono immediatamente a vacillare. Il primo ministro ungherese, il conte Tisza, mise in guardia Berchtold contro i pericoli insiti in un’avventura militare di questo tipo. Lo stesso anziano imperatore era preoccupato dal rischio di un intervento della Russia al fianco della Serbia ed espresse dubbi sul sostegno della Germania. Prima di agire, era necessario appurare quale fosse la posizione dell’alleato dell’Austria, la Germania. La scena dell’azione si spostò quindi rapidamente da Vienna a Berlino.
Il conte Hoyos, un funzionario del ministero degli esteri austriaco, fu inviato a Berlino per sondare i tedeschi. I militari tedeschi sostenevano energicamente un’immediata azione aggressiva da parte dell’Austria, mentre la Russia era ancora impreparata alla guerra. Nell’estate del 1914 i circoli dirigenti in Germania sembravano disposti a correre il rischio di una guerra su larga scala in nome della loro alleanza con il pericolante Impero austro-ungarico. Quando questo decise di agire contro la Serbia a seguito dell’assassinio di Sarajevo, il kaiser Guglielmo si schierò fermamente dalla sua parte.
Fu proprio la bellicosità di Guglielmo a prevalere. Il kaiser esortò gli austriaci a dare una lezione ai serbi, in modo che questi imparassero a temerli. Una sua nota scritta sull’argomento, recita: “Ora o mai più… le cose devono essere chiarite con la Serbia; e tanto più presto, tanto meglio.” Dal momento che il monarca, assieme ai suoi generali, decideva su tutte le questioni importanti, questo equivaleva ad un ordine diretto. I suoi ministri accettarono le sue richieste con silenziosa rassegnazione e una fatale catena di azioni e reazioni venne messa in moto.
Il governo di Berlino stava offrendo sostegno incondizionato agli austriaci, nonostante il rischio di una guerra con la Russia. Era un azzardo pericoloso. Guglielmo e i suoi generali calcolavano che la Francia e soprattutto la Gran Bretagna si sarebbero rifiutati di appoggiare la Russia; vedevano anzi in tutta la faccenda un modo per spezzare l’Intesa. Credevano che una guerra avrebbe unito la nazione dietro il governo e fermato l’ascesa della socialdemocrazia che sembrava inarrestabile. In aggiunta i generali speravano di colpire la Russia prima che questa avesse finito di ricostituire la sua forza militare, completando la serie di riforme iniziata dopo l’umiliante sconfitta con il Giappone nel 1905.
Il 5 luglio il kaiser tedesco offrì di fatto all’Austria “carta bianca”, consigliandole di non ritardare nell’intraprendere qualsiasi azione considerasse necessaria. In forza di questo, Conrad sollecitò la mobilitazione dell’esercito per la guerra. Tuttavia quella vecchia volpe di Francesco Giuseppe, sempre incline alla cautela e temendo la frantumazione del suo impero, rifiutò. Un ostacolo altrettanto serio per il partito della guerra di Vienna era rappresentato dall’opposizione del leader ungherese Tisza: ci vollero due settimane a persuaderlo.
In una lettera al kaiser, l’imperatore austriaco dichiarò che l’obiettivo dell’Austria era quello di “isolare e ridimensionare” la Serbia (cedendo fette del suo territorio ad altri Stati balcanici, i cosiddetti “aggiustamenti territoriali”), riducendo l’influenza serba sui Balcani fino ad essere insignificante. Il governo austriaco aveva nel frattempo aperto un’inchiesta, secondo la quale il complotto era stato ordito a Belgrado e coinvolgeva funzionari del governo serbo così come ufficiali dell’esercito serbo. Anche prendendo per buone queste accuse, non c’era alcuna prova che il governo serbo fosse implicato nell’assassinio.
Bethmann-Hollweg, il cancelliere tedesco, riferì all’Austria che “poteva star sicura che Sua Maestà (il Kaiser), in base agli obblighi dei trattati e alla vecchia amicizia, starà dalla parte dell’Austria.” Non ci poteva dunque essere alcun dubbio sul fatto che il governo tedesco stesse sottoscrivendo la “carta bianca” ricevuta dal kaiser il 5 luglio. Il governo di Vienna aveva le mani completamente libere di fare tutto quello che gli fosse aggradato. Notevolmente incoraggiato da queste rassicurazione, Berchtold sperava che la crisi potesse essere contenuta in una guerra localizzata contro la sola Serbia.
A quanto pare queste illusioni erano condivise a Berlino. Un’indicazione di quanto Guglielmo fosse lontano dalla realtà è che, in un momento così difficile e pericoloso, quando la Germania e l’intera Europa barcollavano come ubriachi sull’orlo dell’abisso, il kaiser lasciò la Germania per trascorrere una vacanza in Scandinavia. Una suprema fiducia in sé stesso lo portava a credere che né la Francia né la Russia avrebbero agito sulla questione serba. Il 7 luglio il primo ministro serbo negò ogni conoscenza del complotto, ma era già troppo tardi per simili smentite. La macchina della guerra si stava già mettendo in movimento.

L’ultimatum austriaco

Ad un riunione del Consiglio dei ministri austriaco, tutti tranne uno si espressero a favore di un’azione militare. Temendo un intervento russo, Tisza invitò ancora alla cautela. Il ministro degli esteri austriaco Berchtold, d’altra parte, pretendeva che qualsiasi azione diplomatica intrapresa dovesse “concludersi solo con la guerra”. Concluse che “una guerra con la Russia sarebbe la conseguenza più probabile di una nostra entrata in Serbia”. A chiudere la discussione, il conte Hoyos, appena ritornato da Berlino, ripeté la promessa tedesca di appoggio incondizionato all’Austria.
Un accordo fu finalmente raggiunto per presentare un ultimatum alla Serbia, scritto in modo tale da essere respinto e quindi preparare il terreno per la guerra. Ci fu una piccola complicazione quando il 13 luglio il Procuratore generale austriaco riferì che l’inchiesta sul crimine di Sarajevo non aveva rivelato alcuna complicità del governo serbo nel complotto. Nonostante questo fastidioso inconveniente, i circoli governativi a Vienna fecero finta di non sentire e intensificarono i loro piani d’attacco contro la Serbia.
Il conte Tisza assicurò all’ambasciatore tedesco che la nota austriaca alla Serbia “sarà formulata in modo che una sua accettazione sarà praticamente impossibile”. A Vienna erano fiduciosi che l’ultimatum sarebbe stato respinto, ma per precauzione vennero date istruzioni all’ambasciatore austriaco a Belgrado di respingere qualsiasi risposta da parte dei serbi. Intanto, la mobilitazione austriaca era già segretamente in corso.
L’ultimatum fu trasmesso all’ambasciatore austriaco a Belgrado il 20 luglio, per essere presentato al governo serbo tre giorni dopo. Il lieve ritardo fu cagionato dalla presenza di una delegazione francese a San Pietroburgo, da dove il presidente francese Poincaré rivolse un duro monito all’ambasciatore austriaco: “il popolo russo è un grande amico dei serbi e la Francia è un’alleata della Russia.” La delegazione francese a San Pietroburgo confermò solennemente gli impegni derivanti dall’alleanza franco-russa.
Ma oramai le cose erano andate ben al di là delle note e delle manovre diplomatiche. Alle 18 del 23 luglio l’ultimatum austriaco fu consegnato al governo serbo. Il preambolo faceva riferimento al fatto che la Serbia avesse consentito che si svolgessero in maniera incontrastata attività criminali e campagne di stampa anti-austriache, una “tolleranza colpevole” che rappresentava una “minaccia perpetua” alla pace dell’Austria. Le richieste dell’ultimatum, in particolare nei punti 5 e 6, equivalevano a niente di meno che ad una completa rinuncia della Serbia alla sua sovranità nazionale e la sua sottomissione all’Austria. Un giornale francese scrisse che alla Serbia veniva richiesto un “riconoscimento di vassallaggio”.
Tutto questo non era altro che un camuffamento diplomatico della guerra. Berchtold notò: “Qualsiasi accettazione condizionata [dell’ultimatum], o accompagna da riserve, dovrà essere considerata come un rifiuto.” Informato dei termini dell’ultimatum austriaco, Sazonov, il ministro degli esteri russo, dichiarò: “E’ una guerra europea”. Cercando di prendere tempo, il Consiglio dei ministri russo chiese all’Austria di prolungare il termine dell’armistizio e di non aprire le ostilità. San Pietroburgo consigliò alla Serbia di non opporsi ad un’invasione austriaca. Allo stesso tempo il Consiglio dei ministri chiese allo zar di autorizzare una mobilitazione parziale, cioè limitata solo al confine con l’Austria.
La mobilitazione parziale fu approvata “in linea di principio” dallo zar, sebbene non venne immediatamente realizzata. Questi tentennamenti incontravano la vigorosa opposizione dello stato maggiore russo che, come tutti gli stati maggiori delle altre potenze, era a favore di una politica più aggressiva. Il quartier generale dell’esercito aveva pianificato una mobilitazione generale diretta sia contro l’Austria che contro la Germania. L’ambasciatore francese a San Pietroburgo esortò Sazanov ad una “politica di fermezza”.
Gli eventi si susseguivano velocemente. La risposta serba fu respinta dall’Austria, che rigettò anche la richiesta della Russia di estendere il termine di quarantotto ore. La Serbia ordinò la mobilitazione generale e invocò l’aiuto dello zar, facendo appello al suo “generoso cuore slavo”. Ma né la generosità, né la solidarietà tra slavi e nemmeno il cuore di Nicola avevano niente a che fare con le macchinazioni a San Pietroburgo, determinate solo dal freddo tornaconto e dai calcoli cinici delle grandi potenze.
Ancora una volta il consiglio dei ministri si riunì all’augusta presenza dello zar, con un unico punto all’ordine del giorno: la mobilitazione parziale come strumento per esercitare una pressione diplomatica su Vienna e Berlino, o una mobilitazione generale contro sia l’Austria che la Germania, che avrebbe significato la guerra. Ancora una volta i capi dell’esercito spinsero per una mobilitazione totale; ancora una volta il Consiglio si espresse a favore dell’alternativa meno pericolosa.
La condotta esitante e vacillante a San Pietroburgo venne annotata con soddisfazione a Berlino. Il kaiser e i suoi generali ne trassero l’ovvia conclusione: la Russia non era pronta a combattere. Il che li convinse ancora di più della correttezza della loro linea dura sui serbi. Ricevuto un memorandum inviato dall’ambasciatore tedesco in Russia, che riportava l’opinione di Sazonov per cui “l’inghiottimento” della Serbia da parte dell’Austria avrebbe significato l’entrata in guerra della Russia contro l’Austria, il kaiser annotò: “Molto bene! Che lo faccia…”
La Russia era però sottoposta ad un’intensa pressione per agire, non tanto per una preoccupazione disinteressata per il destino dei fratelli serbi, quanto per la salvaguardia del suo prestigio di grande potenza e per attaccare la Germania prima che fosse questa ad attaccare per prima. In ogni caso erano in ben pochi a cullarsi nell’illusione che qualsiasi decisione a favore della mobilitazione, anche parziale, potesse essere considerata in Austria e in Germania come qualcosa di diverso da “un passo sicuro verso la guerra”.
Questa non era più semplicemente un’altra guerra balcanica. I francesi cominciarono preparativi militari segreti, come il richiamo delle truppe dai territorio d’oltremare. Solo una delle grande potenze europee non aveva ancora chiarito da che parte stava. Con meno di un giorno allo scadere dell’ultimatum, il ministro degli esteri britannico, Sir Edward Grey, propose all’ambasciatore tedesco di tentare una mediazione da parte di Germania, Gran Bretagna, Francia e Italia e di prorogare il termine stabilito dall’Austria. In un faticoso colloquio con Sir Edward a Londra, l’ambasciatore francese tentò di scuotere il ministro degli esteri britannico dal suo apparente torpore e fargli capire che sarebbe stato troppo tardi per una mediazione, una volta che l’Austria si fosse mossa contro la Serbia.
Dietro il torpore di Londra si nascondevano però i freddi calcoli d’interesse che dettavano la politica estera britannica. Mentre Sir Edward Grey rassicurava il parlamento britannico che la Gran Bretagna non era vincolata dall’accordo franco-russo, in conversazioni private concordava sul fatto che sarebbe stato impossibile per la Gran Bretagna mantenersi fuori dalla guerra incombente. Sir Eyre Crowe, un funzionario del ministero degli esteri britannico, annotò:
“I nostri interessi sono legati a quelli della Francia e della Russia in questa lotta, che non è per il possesso della Serbia, ma è una lotta tra la Germania che aspira ad una dittatura politica in Europa e le potenze che desiderano mantenere la libertà individuale.”
Va da sé che tutto questo non aveva niente a che fare con la “libertà individuale” o l’autodeterminazione della Serbia, del Belgio o di qualsiasi altro paese. Entrare in conflitto con la Francia e la Russia era impensabile perché l’Impero britannico aveva bisogno della loro complicità per preservare il dominio britannico in India e i suoi possedimenti coloniali in Africa. La minaccia mortale nei confronti della Gran Bretagna sarebbe poi stata ancora più grave se la Germania avesse preso possesso dei porti sulla Manica.
L’ambasciatore della Germania assicurò a Sir Edward Grey che il suo governo non era stato informato in anticipo dell’ultimatum austriaco, il che era ovviamente una menzogna spudorata. Grey rispose:
“Tra la Serbia e l’Austria, non vedo alcuna ragione per un intervento, ma dal momento in cui diventa una questione tra Austria a Russia, diventa una questione di pace europea, nella quale tutti noi dobbiamo prendere posizione.”
Ogni cosa era sora al suo posto. Il singoli attori del dramma storico erano entrati sul palcoscenico, avevano pronunciato le loro battute, interpretato la loro parte, piccola o grande che fosse, ed erano scomparsi per sempre. Il ruolo degli individui naturalmente non può essere eliminato dalla complessa interrelazione dei fattori storici. Tramite le loro azioni o omissioni, possono accelerare o rallentare la potente corrente della storia, il cui esito è però in ultima analisi determinato da forze invisibili e irresistibili, che sovrastano tutti i singoli.
Per alcune settimane il nome di Gavrilo Princip svettò nelle prime pagine della stampa mondiale. Ma anche se la sua pistola si fosse inceppata, anche se gli fosse tremata la mano nel momento decisivo e anche se non fosse mai nato, quel terribile cataclisma che successivamente sarebbe stato battezzato Grande Guerra sarebbe comunque scoppiato. Con un altro pretesto, con altri nomi o altri titoli di giornale, le insostenibili contraddizioni tra gli Stati imperialisti dell’Europa si sarebbe comunque espresse nel Grande Massacro.
E’ sempre stata un’illusione comune in tutti i periodi che la storia sia fatta dalle decisioni coscienti dei re, degli statisti, dei politici e dei generali. Va da sé che queste decisioni hanno sempre giocato un ruolo nel determinare gli eventi. Eppure accade di frequente che i risultati finali siano molto differenti rispetto alle intenzioni originarie e persino in aperta contraddizione con esse.
Ciascuno dei principali attori del dramma del 1914 sbagliò i propri calcoli. La coraggiosa, ma mal concepita, azione di Gavrilo Princip non portò alla liberazione degli Slavi meridionali, ma solo al bagno di sangue della guerra mondiale. I suoi nemici mortali della Casa d’Asburgo speravano di salvare l’impero conducendo una guerra contro la Serbia, solo per arrivare alla sua completa distruzione. Il loro alleato, il kaiser Guglielmo, che sembrava l’uomo più potente d’Europa, fu spazzato via come un fantoccio dalla rivoluzione tedesca. Suo cugino, lo zar Nicola, sperava di evitare una ripetizione della rivoluzione del 1905 andando in guerra, solo per preparare il terreno ad una rivoluzione proletaria ancora più potente nel novembre del 1917.
Dunque, attraverso tutte queste complesse correnti di eventi, l’ascesa e la caduta di singoli leader, partiti e governi, le leggi della dialettica si impongono con ferrea ineluttabilità. Molto tempo fa il grande pensatore dialettico Eraclito disse: “La guerra è il padre di tutte le cose, di tutte è re; e gli uni disvela come dei e gli altri come uomini, gli uni fa schiavi gli altri liberi.” Queste parole sono profondamente vere e dovremmo ricordarci che la lotta di classe è in sé stessa un tipo di guerra.
Lo stesso Eraclito scoprì la meravigliosa legge della dialettica, secondo la quale presto o tardi le cose si trasformano nel loro opposto. Il Grande Massacro alla fine diede alla luce la più grande rivoluzione della storia. Al di là di tutta la ferocia, dei massacri, del fuoco e della distruzione, ben al di sotto della superficie della società, nelle trincee e nelle fabbriche, nei campi e nelle città, nelle capanne dei contadini e nelle caserme dei soldati, un nuovo spirito stava lottando per venire alla luce: uno spirito di rivolta contro l’ordine esistente, un spirito determinato a far di questi orrori una reliquia del passato, ad elevare l’umanità al di sopra del livello della lotta animalesca per la sopravvivenza e creare un mondo in cui la vita degli esseri umani fosse degna di essere vissuta.

Parte 2

Indice dei capitoli

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