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7 Luglio 2022Il bonapartismo in Francia – Dal golpe del ’58 al Maggio ’68: quando De Gaulle si infranse contro la classe operaia
di Francesco Giliani
“Perché lo Stato fosse, come deve essere, lo strumento dell’unità della Francia, dell’interesse superiore del paese, della continuità nell’azione nazionale, ritenevo necessario che il governo dipendesse non dal parlamento, cioè dai partiti, ma, al di sopra di essi, da una testa direttamente incaricata dall’insieme della nazione e messa in condizione di volere, di decidere e di agire”.
(C. De Gaulle, Mémoires d’espoir, p. 12)
Con queste semplici parole il generale Charles De Gaulle, retrospettivamente, indicava quali erano state le intenzioni e gli obiettivi che avevano plasmato la sua carriera politica. In quel passaggio è anche possibile rintracciare un buon punto di partenza per comprendere il bonapartismo, quella forma di dominio politico che Karl Marx definì, innanzitutto, come “governo della spada”.
Ruolo eminente delle forze armate nella vita del paese, mistica della nazione, marginalizzazione del parlamento e dei partiti, appelli al popolo e referendum plebiscitari, ossequio alle tradizioni del passato e, infine, concentrazione del potere politico in un individuo carismatico: queste tendenze sono assieme le caratteristiche del bonapartismo gollista che s’impose in Francia tra gli anni ’50 e ’60 del XX secolo e la modalità con la quale la classe dominante provò a congelare il più a lungo possibile le contraddizioni sociali che sarebbero esplose nel Maggio ’68.
Oggi, di quel regime politico rimane l’architettura costituzionale, imperniata sull’elezione diretta del Presidente della Repubblica, e qualche detrito ideologico. Ma le condizioni sociali che permisero l’ascesa del gollismo sono ben lungi dall’essere riunite. Quando, dunque, nel dicembre 2018, all’apice del movimento dei gilet gialli, il Presidente della Repubblica Emmanuel Macron si è rivolto direttamente alla nazione con un discorso a reti unificate, il suo scimmiottamento dei modi carismatici del generale De Gaulle non ha sortito alcun effetto concreto. Il possente movimento di scioperi del dicembre 2019 contro la riforma delle pensioni, comunque si concluda, indica una fase di ascesa della lotta di classe in Francia. Prima di una sconfitta decisiva del movimento operaio e giovanile, prospettiva che oggi è lungi dall’essere la più probabile, un’offensiva bonapartista da parte della borghesia non è all’ordine del giorno. Tuttavia, resta vero che, in una fase generale di erosione della democrazia borghese anche nei paesi a più antica tradizione parlamentare, intenzioni soggettive da parte della classe dominante di governare maggiormente “con la spada” continueranno a manifestarsi con frequenza e, per certe fasi, persino ad approfondirsi.
Non mancano, dunque, i motivi per studiare le cause e le lezioni da trarre dall’ascesa di De Gaulle a “salvatore della patria” nel maggio 1958.
Il declino dell’imperialismo francese
Poiché il bonapartismo è un fenomeno politico proprio delle società in crisi, la sua affermazione in Francia non può essere compresa senza essere messa in relazione col processo di declino relativo della potenza di quel paese. La guerra d’Algeria (1954-1962), infatti, segnò un arretramento brusco dell’imperialismo francese. Non era il primo. Fin dall’ultimo quarto del XIX secolo, in effetti, la scarsa concentrazione del capitale era stata la causa di un graduale ma permanente declino del peso relativo del capitalismo francese a livello internazionale. La posizione della Francia, inoltre, si era notevolmente indebolita come conseguenza della Seconda guerra mondiale: oltre alla perdita dei mandati coloniali sulla Siria e sul Libano, infatti, la Francia apparve per la prima volta come una potenza di secondo rango, di fatto esclusa dai negoziati di Yalta.
Pochi anni dopo, in Indocina, nonostante notevoli aiuti da parte degli Usa, la rotta dell’esercito francese a Dien-Bien-Phu nel maggio 1954, ad opera della guerriglia contadina del Viet-Minh, stimolò la radicalizzazione delle lotte nelle colonie nordafricane. Dopo la fuga precipitosa dalla penisola indocinese e la concessione dell’indipendenza a Tunisia e Marocco, tutte le forze furono concentrate in Algeria. L’Algeria era un dipartimento francese fin dal 1881 e aveva un’importanza strategica: la sua economia era integrata a quella francese e vi abitavano nel 1954 quasi un milione di francesi, dominati politicamente ed economicamente da alcune migliaia di grandi proprietari terrieri.
Già dal 1958, tuttavia, i settori decisivi e più moderni del grande capitale avrebbero preferito raggiungere un compromesso coi nazionalisti algerini, in cambio di solide garanzie per gli interessi imperialisti francesi (soprattutto in campo estrattivo). Il gruppo dirigente del Fronte di liberazione nazionale (Fln) non era pregiudizialmente ostile a un negoziato. Tuttavia, gli interessi dei grandi proprietari terrieri francesi stabilitisi in Algeria, talora sin dal XIX secolo, si opponevano implacabilmente all’ascesa del movimento di liberazione nazionale, rendendo difficile un compromesso. Per i coloni la trattativa col Fln era una minaccia assoluta. La situazione era pronta per un’esplosione.
Gli squilibri interni dovuti al ritardo nella modernizzazione capitalista avevano già permesso, nel 1954-1956, la fulminea ascesa di un demagogo piccolo-borghese, Pierre Poujade, il quale aveva animato una formazione politica basata sulla retorica contro i partiti e sulla rivolta fiscale dei piccoli commercianti e degli artigiani. La sua espansione elettorale, però, non aveva superato l’11 per cento e, nel complesso, il movimento poujadista s’era rivelato effimero e incapace di scardinare il sistema politico della Quarta Repubblica.
Le contraddizioni che covavano in Algeria parevano essere molto più dirompenti.
Chi era De Gaulle?
Ogni regime bonapartista ha bisogno del suo “Bonaparte”. Non si può dire che, in quel fatidico 1958, lo sviluppo storico non avesse prodotto un candidato con tutte le carte in regola per assumere quel ruolo. Nato in una famiglia cattolica tradizionalista nel 1890, De Gaulle aveva seguito sin da giovane la carriera militare. Decorato nella Prima guerra mondiale, dove aveva servito nella cerchia del sinistro maresciallo Philippe Pétain, De Gaulle ebbe occasione di rafforzare il suo anticomunismo quando, nel 1919-1920, prestò servizio come attendente del generale Weygand, addetto militare francese a Varsavia; in quel contesto, De Gaulle fu infatti impegnato in prima linea nell’opera di incoraggiamento e aiuto materiale al regime nazionalista polacco nella sua guerra per procura contro la Russia sovietica.
Quando scoppiò la Seconda guerra mondiale, De Gaulle era già generale di brigata. Posto davanti alla capitolazione di Pétain e dell’apparato statale francese al cospetto di Hitler, De Gaulle si rifugiò a Londra sotto la protezione di Churchill, rappresentando quella frazione della classe dominante francese che aveva deciso di porsi sotto la protezione dell’imperialismo anglo-americano. I suoi appelli patriottici, il sostegno degli Alleati e una certa abilità manovriera, oltre agli articoli pieni di rispetto della stampa clandestina del Partito comunista francese (Pcf) impegnato dal 1941 in una politica di unità nazionale, contribuirono al mito del militare democratico, resistente e antifascista.
Tuttavia, dalla resistenza fu il Pcf a emergere come forza decisiva. Nelle prime elezioni legislative, addirittura, il Pcf fu il partito più votato (28 per cento) e, sommando le preferenze dei socialisti della Section française de l’Internationale ouvrière (Sfio), ai partiti del movimento operaio andò la maggioranza assoluta dei voti (51 per cento). De Gaulle aveva precipitato le sue forze militari a Parigi in occasione della liberazione dell’agosto 1944, timoroso di una nuova Comune, ma non ebbe la forza necessaria per consolidare un potere di tipo bonapartista nella Francia dell’immediato dopoguerra. Così, dopo aver fondato un partito basato sulla propria leadership carismatica, nel 1953 il generale abbandonò la vita politica. Forse nutriva la speranza che, un giorno, “il popolo” – o piuttosto l’esercito – lo avrebbe richiamato al potere.
Il colpo di Stato del maggio 1958
Esasperata dall’intensificarsi della lotta di liberazione e stufa delle mezze misure dei “politici”, nel 1958 la casta degli ufficiali prese l’iniziativa, sfogando apertamente la sua frustrazione. Non mancavano, tra quei militari, elementi che erano stati legati al regime collaborazionista di Vichy o settori rimasti fedeli al generale Giraud.(1) Tuttavia, alla testa degli insorti si trovava il generale dei paracadutisti Jacques Massu,(2) gollista di ferro, il quale sintetizzò con nettezza che cosa unisse ufficiali dalla diversa provenienza politica, dichiarando all’Evening Standard: “L’esercito ha subito una sconfitta dopo l’altra negli ultimi venti anni. È colpa dei politici che non danno mano libera ai generali.”
Mano libera, tuttavia, le truppe coloniali l’avevano avuta. Da diversi anni, infatti, l’esercito francese, particolarmente il corpo d’élite dei paracadutisti, aveva scatenato il terrore in Algeria. I paracadutisti erano diventati un gruppo di torturatori e assassini pronti a tutto. Torture ed esecuzioni sommarie non avevano risparmiato nemmeno cittadini francesi che avevano militato a favore dell’indipendenza dell’Algeria, come ebbe a raccontare Henri Alleg, giornalista comunista sopravvissuto alle torture dei parà. Il punto, per i militari, era imporre a Parigi la prospettiva di una guerra a oltranza in nome della “Algeria francese”. Così, sfruttando il timore dei coloni di un accordo tra la classe dominante francese ed il movimento nazionalista algerino guidato dal Fln, i generali diedero una base sociale alla rivolta che stavano preparando. De Gaulle, senza alcun dubbio, fu messo a conoscenza del colpo di Stato che si stava tramando.
Senza opposizione da parte della polizia, il 13 maggio 1958 coloni e parà assaltarono il palazzo del Governatore di Algeri. Massu annunciò la formazione di un “Comitato di salvezza pubblica” e richiese immediatamente che il Presidente della Repubblica conferisse a De Gaulle i pieni poteri in qualità di capo di questo comitato. Il potente generale Salan si unì al movimento. Il 24 maggio i generali in rivolta occuparono la Corsica senza trovare alcuna forma di resistenza, né governativa né di altra natura. Nessuna mobilitazione fu organizzata dal Pcf. L’unica azione, se così la si può chiamare, fu un ordine del giorno del consiglio comunale di Bastia, i cui banchi erano per metà vuoti, nel quale si affermava “la fedeltà alla Repubblica e l’appoggio al governo”, concludendo con un surreale “appello alla popolazione a rimanere calma e a non manifestare”. Il movimento doveva svilupparsi anche a Parigi. Nella capitale francese, però, solo in 6mila scesero in piazza per acclamare le gesta di Massu. In altre parole, non esistevano in Francia le basi per un movimento fascista di massa. I generali rimasero isolati.
Mentre si realizzavano le condizioni più propizie all’irruzione sulla scena di un “salvatore della patria” capace di compattare tutte le ali del partito dell’ordine, il Pcf e la Cgt, primo sindacato francese, continuarono a evocare la minaccia fascista. I tre sindacati minacciarono uno sciopero generale a difesa del governo “costituzionale” retto dal democristiano Pfimlin, dirigente del Mouvement pour le rassemblement populaire (Mrp). Incassato l’appoggio da parte delle organizzazioni sindacali, la replica del governo fu quella di adottare il programma degli insorti: guerra a oltranza in Algeria e rafforzamento delle prerogative dell’esecutivo. Sostenendo che in tale modo avrebbero sbarrato la strada dei generali fascisti verso il potere, i dirigenti socialisti della Sfio e quelli stalinisti del Pcf votarono a favore dello stato d’emergenza in base al quale il governo proibiva assemblee e cortei. Questa politica di capitolazione non faceva altro che aprire la strada per l’ascesa bonapartista di De Gaulle, suggerendo che i capi del movimento operaio non erano disposti ad alcuna seria lotta di piazza.
I dirigenti del Pcf, infatti, alimentarono l’illusione che il governo Pfimlin avrebbe potuto disarmare gli ammutinati. Tale supposizione, nella pratica, implicava un rovesciamento delle conclusioni del pensiero marxista sulla natura e sul ruolo dello Stato.
Engels scrisse che lo Stato, in ultima analisi, è composto da corpi di uomini armati in difesa di determinati rapporti sociali di proprietà. Per il governo, così, disarmare i generali ribelli avrebbe significato distruggere uno dei propri pilastri. I dirigenti del Pcf avrebbero, invece, dovuto fare appello ai lavoratori e ai sindacati per organizzare milizie operaie in grado di schiacciare la reazione con un’azione indipendente, basandosi anche su un lavoro sistematico di propaganda tra i marinai e i soldati di leva. Un’azione difensiva di quel genere, coronata da successo, avrebbe potuto a sua volta aprire lo spazio per un’offensiva rivoluzionaria dei lavoratori.
In assenza di qualsiasi iniziativa operaia, però, De Gaulle si presentò alla borghesia francese come il “salvatore della patria”, l’uomo apparentemente al di sopra delle parti e delle fazioni, l’arbitro della situazione in grado di porre termine all’avventura di Massu e, al tempo stesso, fare da argine al movimento operaio. Questo mentre un settore di primo piano della dirigenza della Sfio già lo accreditava come rimedio a una svolta autoritaria! Il 1° giugno, quindi, egli fu nominato Primo ministro, beneficiando anche dell’appoggio della Sfio. Il sostegno a De Gaulle catalizzò la differenziazione interna a quel partito e provocò la scissione della sua sinistra interna, che fondò il Partito socialista autonomo (Psa).
Descrivendo i rapporti di forza tra le classi che si erano venuti a creare nel fuoco dell’azione, nel settembre 1958 un plebiscito vinto da De Gaulle con circa l’80 per cento dei voti sancì la nascita della Quinta Repubblica, il cui sistema istituzionale concentrava enormi poteri nelle mani del presidente il quale, eletto per via indiretta da una platea di “grandi elettori”, oltre alla prerogativa di sciogliere il parlamento, accumulava anche il potere di nominare i membri del governo e presiederne le riunioni. Il parlamento, nella pratica, divenne poco più di una camera di registrazione della volontà dell’esecutivo. Il 9 gennaio 1959 De Gaulle divenne il primo Presidente della Quinta Repubblica.
Il rifiuto del Pcf di contrastare il bonapartismo con metodi di lotta extraparlamentari (scioperi, assemblee, manifestazioni, formazione di milizie operaie) aveva reso ineluttabile tale esito. Nessun appello alla sacralità della precedente costituzione, d’altra parte, poté fermare il generale De Gaulle. Questa codardia politica aveva convinto la classe dirigente francese che fosse possibile una transizione ad un regime bonapartista senza pericolosi scontri di piazza, e così fu. Ragionando sulle analogie col sorgere del regime bonapartista di Napoleone III nel 1848, il trotskista britannico Ted Grant sintetizzò su Socialist Fight il significato politico essenziale di quegli avvenimenti: “Siamo ancora una volta davanti al 18 Brumaio, questa volta coi socialisti e gli stalinisti nel ruolo svolto dai democratici da operetta nel 1848. Alcuni socialisti – Mollet e Lacoste, il primo è uno strumento diretto dei crimini della cricca di Algeri – stanno sperando di diventare l’ala sinistra del bonapartismo.”(3)
Sorto sulla base di una sconfitta subita senza neppure lottare dal movimento operaio, il regime bonapartista e paternalista di De Gaulle poté reggersi grazie all’inerzia della situazione. Fu necessaria la scossa potente del Maggio 1968 per mandarlo in crisi.
I limiti di un bonapartismo “puro”
De Gaulle conquistò il potere senza alcuna profonda mobilitazione di massa del ceto medio. Il suo regime, forma tipica di bonapartismo innescato da una rivolta di militari fascistoidi e facilitato dalla paralisi del movimento operaio, non ebbe basi solide e fu un fenomeno temporaneo. L’instaurazione dell’elezione diretta del Presidente della Repubblica, nel 1962, avvenne nel tentativo di infondere energia nel sistema. La retorica nazionalista sulla grandezza dei destini della Francia si inseriva pienamente in un quadro bonapartista, ma la base materiale di quell’assetto era piena di crepe.(4)
Innanzitutto, un settore reazionario della classe media gli fornì un sostegno del tutto strumentale, basato sull’idea che non fosse praticabile alcuna alternativa migliore; basti pensare, al riguardo, al silenzio della Confederazione delle piccole e medie imprese durante il tentativo di golpe militare anti-gollista dell’aprile 1961.
Per governare il paese De Gaulle si basava essenzialmente su una ristretta cerchia di funzionari ministeriali sconosciuti alla massa della popolazione. Il suo nuovo partito a base personale, l’Unione per una nuova repubblica, non era un partito politico in senso stretto, assomigliando di più a un’appendice diretta dell’apparato dello Stato.
Pur potendosi permettere di rifiutare la convocazione di una sessione straordinaria del parlamento, come nel gennaio 1960, malgrado la richiesta in tal senso della maggioranza dei deputati, il regime gollista, all’inizio, s’appoggiò anche su formazioni politiche tradizionali, dal partito radicale, rappresentante in crisi del ceto medio rurale, ai socialisti della Sfio. Non si tratta, certo, di elementi che attestino un pieno e dispotico controllo della situazione.
Inoltre, dopo aver incanalato su binari bonapartisti l’azione più radicale dei generali golpisti, intenzionati a cancellare ogni forma di parlamentarismo, De Gaulle poté disporre della fedeltà sostanziale dei vertici delle forze armate e della polizia ma non certo di un potere senza limiti. Nuovi tentativi di golpe militare al grido di “Algérie française” si verificarono nel 1960 e nel 1961. Per non segare il ramo sul quale era seduto, De Gaulle cercò sempre di trasferire in Francia, a mezzo di promozioni, i generali più riottosi di stanza in Algeria. La fedeltà dei vertici militari e degli apparati di sicurezza fu conseguita anche da un’impunità pressoché totale.(5) Ma è un fatto che De Gaulle non raggiunse mai il suo obiettivo di addomesticare pienamente l’esercito. Ancora in pieno Maggio 1968, un settore non trascurabile degli ufficiali superiori della fanteria si mostrò reticente nel garantire un proprio eventuale intervento militare contro le lotte operaie e studentesche non solo per la loro popolarità tra i soldati di leva, ma anche per l’ostilità mantenuta nei confronti di De Gaulle fin dai tempi di Vichy o dell’Algeria.
D’altra parte, è significativo che, proprio nel pieno della crisi del Maggio 1968, De Gaulle si sia recato in gran segreto a Baaden-Baaden per rendere visita al generale Massu, di trasferimento in promozione divenuto capo delle forze militari francesi in Germania. L’obiettivo del colloquio era di saggiare l’affidabilità politica dell’esercito. In nome della difesa della società capitalista dalla minaccia comunista, i due, avversari nel 1958, trovarono un linguaggio e un obiettivo comune.
Rimasto in sella grazie, ancora una volta, alla politica riformista del gruppo dirigente del Pcf, De Gaulle fu comunque notevolmente indebolito dal Maggio 1968. In presenza di nuovi rapporti di forza l’ormai vecchio generale, che era stato sonoramente contestato e deriso dalla gioventù del suo paese (fatto sconveniente, specie per un leader carismatico), cercò di rilanciarsi con un nuovo referendum costituzionale. De Gaulle impostò la sua battaglia, come sempre aveva fatto, nella forma del plebiscito: o con me o contro di me. Per la prima volta non ebbe la maggioranza. Mestamente, si dimise e si ritirò nel suo villaggio natale. La Francia era entrata in una nuova fase politica. Le illusioni democratiche generate dal parlamentarismo e la collaborazione attiva dei partiti del movimento operaio alla stabilità del sistema capitalista sarebbero tornati a essere, ancora una volta, gli strumenti principali per disorientare e deviare i movimenti di massa.
Note
1. Il generale Henri Giraud (1879-1949) è una figura che, durante la Seconda guerra mondiale, ebbe una traiettoria simile a quella del maresciallo Pietro Badoglio. In rapporti cordiali coi vertici del regime di Vichy, nell’autunno 1942 prese contatto con gli Alleati che, sbarcati in Africa del Nord, nel novembre di quell’anno lo installarono ad Algeri come capo delle forze militari francesi. In quella posizione, continuò una politica di repressione dei resistenti e della popolazione ebrea. Co-presidente, nel giugno 1943, del primo comitato di liberazione nazionale assieme a
De Gaulle, pochi mesi dopo quest’ultimo riuscì a estrometterlo, cementando una perdurante rivalità.
2. Jacques Émile Massu (1908-2002), combatté in Africa agli ordini del generale Leclerc nel 1941-1944; dopo la fine della guerra mondiale, fu impegnato in Indocina, nella guerra di Suez del 1956 e in Algeria, da dove venne rispedito in Francia nel 1960, in ragione del suo ruolo nei tentativi di golpe. Di promozione in promozione, comunque, nel 1968 era il capo delle forze militari francesi dislocate in Germania e fu proprio De Gaulle che, il 29 maggio 1968, lo andò precipitosamente a visitare a Baaden-Baaden per capire se l’esercito fosse pronto a essere impiegato contro i lavoratori in sciopero generale.
3. T. Grant, France in Crisis, opuscolo pubblicato da Socialist Fight nel 1958.
4. Nel 1959, in base a un’analisi impressionista, uno dei massimi dirigenti del Segretariato internazionale della Quarta Internazionale, Michel Pablo, scrisse che la Francia scivolava verso un “regime militar-poliziesco bonapartista, preparatorio a un autentico fascismo”, in M. Pablo, introduzione a L. Trotsky, Écrits (1928-1940), vol. III, p. 11.
5. Basti ricordare che, ancora oggi, lo Stato francese non ha condotto una seria inchiesta su quanti manifestanti algerini siano stati ammazzati il giorno della marcia per la libertà del 17 ottobre 1961, persino nel cortile della prefettura di Parigi e mediante annegamento di feriti nella Senna (il bilancio ufficiale è fermo a tre morti, i pochi studi storici ne ipotizzano due-trecento). Prefetto di Parigi era allora Maurice Papon, durante la Seconda guerra mondiale funzionario di prefettura a Bordeaux dove collaborò coi nazisti alla deportazione di migliaia di ebrei.