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Spesa militare alle stelle
La spesa pubblica per il settore militare nei paesi dell’Unione europea membri della Nato è aumentata del 10% nel solo 2023 rispetto al 2022. Detto in altri termini, ogni cittadino di questi paesi si è trovato a sostenere un costo medio annuo di 508 euro per la spesa militare.
Relativamente all’Italia, in occasione dell’approvazione della legge di Bilancio del 2023, il Parlamento italiano ha deciso di portare al 2 per cento del PIL la spesa militare in Italia. Vale a dire circa 38 miliardi di euro all’anno, quasi il doppio dei 21,4 miliardi del 2019.
Nel resto del mondo la tendenza è la stessa. La spesa militare mondiale ha raggiunto nel 2022 la somma record di 2.240 miliardi di dollari complessivi, corrispondente ad una crescita del 3,7% rispetto all’anno precedente.
Per fare un paragone, secondo il report Finance for Nature presentato alla COP28 ad oggi la media degli investimenti “green” a livello mondiale è pari a 154 miliardi di dollari all’anno, cioè oltre 14 volte di meno.
La Lobby delle armi nell’UE e in Italia
Le multinazionali del settore hanno messo in atto una attività di lobbing incessante e multimilionaria in seno alla Comunità Europea (Report Enaat 2023). La Rete europea del disarmo ha contato tra il 2019 e il 2023 ben 536 incontri dei lobbisti delle armi con membri della Commissione europea. Il colosso aeronautico francese Airbus la fa da padrone, mentre l’italiana Leonardo è terza dopo Safran. “Solo Google ha più incontri di lobby di Airbus, a Bruxelles”, ha raccontato Bram Vranken del Corporate Europe Observatory.
Non stupisce quindi come dal 2017 Bruxelles abbia finanziato il settore bellico con circa mezzo miliardo di euro stanziati per la ricerca militare, mentre nel 2021 sono arrivati gli altri 8 miliardi di euro del Fondo Europeo per la Difesa. Solo a luglio 2023 è stata approvata la legge ASAP a sostegno della produzione di munizioni, la quale fornisce 500 milioni di euro in sussidi all’industria militare per incrementare la produzione di munizioni e missili fino al 2025.
Le tante “porte girevoli” fanno sì che l’industria bellica giochi sempre in casa. Emblematico l’esempio di Thierry Breton, a capo della Direzione generale per l’industria della difesa e lo spazio (Dg Defis), ma anche ex amministratore delegato della francese Atos (tecnologie militari). All’inverso, Jorge Domecq è passato dalla European Defence Agency a consulente del ramo militare di Airbus nel 2022.
In Italia si riproducono le stesse dinamiche europee. Prima di diventare ministro della Difesa, Guido Crosetto era presidente della AIAD (confederazione delle aziende italiane per l’aerospazio e la difesa), il gruppo di rappresentanza dei produttori di armi in Italia, attualmente guidato da Giuseppe Cossiga, figlio dell’ex Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga. Il centrosinistra non è certo estraneo alla lobby delle armi. Marco Minniti, ex Ministro dell’Interno (PD) è oggi presidente di Med-Or, la maggiore fondazione promossa dall’azienda Leonardo. Per non parlare dell’ex presidente della Camera, Luciano Violante (PD), ora eletto a presidente sempre della Fondazione Leonardo.
Greenwashing militare
Non tutti sono a conoscenza dell’impatto ambientale devastante dell’industria e delle attività belliche. Le emissioni militari di CO2 rappresentano circa il 5% delle emissioni totali di gas serra. Questa cifra rappresenta a livello planetario più del trasporto aereo commerciale e del trasporto di navi portacontainer messi insieme. Eppure alla COP28 non sono mancati stand e annunci pomposi da parte delle industrie belliche relativi alla loro presunta politica aziendale “green”, a dimostrazione che anche nel settore militare è ampiamente in atto la strategia del greenwashing.
L’Alleanza atlantica ha lanciato una strategia per ridurre le proprie emissioni e azzerarle entro il 2050, ma la metodologia adottata per il monitoraggio non è mai stata resa pubblica. I dati più recenti dell’Unfccc (Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici) mostrano come nessun paese abbia migliorato il proprio Military Emission Gap. L’intera flotta di jet degli Stati Uniti ha prodotto nell’ultimo anno tanta CO2 quanto quella emessa da sei milioni di auto (Decarbonize the military — mandate emissions reporting, Nature 22 novembre 2022).
Un problema strutturale del sistema capitalista
I dati del Financial Times evidenziano come il portafoglio ordini delle prime 15 aziende militari sia cresciuto del 76% negli ultimi 8 anni (da 441,8 miliardi nel 2015 a 777,6 nel 2022). Questa crescita di lungo periodo della spesa in armamenti ha preparato il terreno agli attuali conflitti in Europa e Medio Oriente. A sua volta lo scoppio delle ostilità ha fornito un ulteriore stimolo alla militarizzazione, generando un circolo vizioso di sangue e profitti.
L’aumento della spesa militare globale non rappresenta infatti un fenomeno episodico e contingente all’esacerbazione dei conflitti russo-ucraino o palestinese. Si tratta piuttosto di dinamiche strutturali, le quali hanno portato alla formazione del complesso “militare-industriale-finanziario” del XXI secolo. Tra i principali azionisti delle maggiori aziende belliche troviamo infatti i “mega fondi” (BlackRock, Capital Group, Jp Morgan…) che dominano il mercato finanziario. A titolo di esempio la società statunitense Vanguard, che gestisce asset per oltre 5mila miliardi di dollari, possiede il 7,2% di Northrop Grummann, il 7,2% di Lockheed Martin, il 7,5% di Raytehon.
Ai colossi del capitale un mondo senza conflitti armati rappresenta quindi una prospettiva ben poco profittevole. È per questo che la loro enorme influenza politica, frutto di fatturati superiori al PIL di interi Stati, contribuisce in maniera sistematica ad alimentare guerre e ostilità in giro per il mondo.
La necessità di una lotta dal basso
Oltre agli effetti deleteri derivanti dal loro utilizzo, l’acquisto di armi sottrae risorse finanziarie ad altri settori e presenta un effetto moltiplicatore sul resto delle attività economiche nettamente inferiore a quello degli investimenti per l’ambiente, la sanità e l’istruzione. Rispetto a questi settori, un investimento in armamenti, il quale in Italia per lo più si traduce in importazione di armi, porta a un ridotto aumento sia della produzione interna (PIL) che dell’occupazione.
Come invertire la crescente militarizzazione a livello globale? Di fronte alla complicità dei governi e alla sete di profitto dei capitalisti, le masse dei lavoratori di tutte le nazioni possono contare solo sulla propria forza organizzata.
I portuali di Barcellona e di Genova sono da emulare in tal senso, avendo bloccato l’attività di navi contenenti materiale bellico poco dopo l’inizio dei bombardamenti su Gaza. Lo stesso è accaduto negli Stati Uniti, a Oakland e a Tacoma, dove manifestanti pro Palestina e portuali sono riusciti a bloccare la partenza di due navi cariche di armi dirette a Israele. Parallelamente gli operai impiegati nelle industrie belliche potrebbero incrociare le braccia e pretendere la riconversione aziendale. La loro lotta sarebbe senz’altro sostenuta dai milioni di persone scesi in piazza per manifestare in difesa della pace e dei palestinesi.
In un mondo capitalista sempre più fragile e interconnesso, azioni di sciopero mirate potrebbero facilmente interrompere la catena di approvvigionamento dell’industria di armamenti a livello globale, mettendo fine ai super profitti dei signori della guerra. La strada della pace e del disarmo passa inevitabilmente dalla lotta internazionale e congiunta della classe lavoratrice, senza la quale non un bossolo di proiettile viene prodotto. Senza armi a propria disposizione, le minoranze borghesi al potere avrebbero vita dura nel mantenere lo status quo e i propri privilegi. Ecco quindi che la lotta al militarismo si inscrive in una cornice di lotta più estesa: internazionale, di classe, anticapitalista.