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Gramsci e la Questione meridionale. Per una critica materialista

 di Vittorio Saldutti

Nel congresso di Lione del gennaio del 1926 il PCd’I, nel liquidare l’opposizione di sinistra guidata da Bordiga,1 comincia a riflettere sulle linee programmatiche di cui il partito deve dotarsi. Gli sguardi si fissano tutti su Gramsci, l’unico membro della direzione del partito che da tempo si è cimentato in un’analisi generale della situazione del paese e ha provato a definirne le caratteristiche peculiari. Egli è l’unico che ha, in altre parole, maturato una riflessione approfondita sulla rivoluzione italiana.2 Nel tracciare un bilancio degli anni che hanno portato al fascismo, il pensatore sardo riprende e pone al centro dell’elaborazione dei comunisti il tema della Questione meridionale. Non è un caso che, al momento dell’arresto, avvenuto a Roma solo pochi mesi dopo, stesse lavorando proprio a questo argomento, che già aveva assorbito parte rilevante del dibattito congressuale. Alcuni temi della quistione meridionale – questo il titolo del saggio che stava scrivendo3 – rappresenta, pertanto, l’esito di tutta una fase di elaborazione politica e anticipa alcuni aspetti che, nelle mutate condizioni storiche e personali degli anni ’30, verranno ulteriormente sviluppati nei Quaderni, sebbene con un’impostazione assai differente. Il testo segna, dunque, lo spartiacque tra due diverse fasi di maturazione del pensiero gramsciano, che tanta importanza ha poi avuto nella lettura del problema del Mezzogiorno nella sinistra italiana.

Dagli anni della guerra ad Alcuni temi della quistione meridionale

Dieci anni prima di Alcuni temi, nel pieno della Grande guerra, Gramsci si era cimentato per la prima volta con il problema del divario tra le due parti del paese facendole risalire al diverso grado di sviluppo al momento dell’unificazione e al carattere feudale dell’economia meridionale, quando “da una parte la tradizione di una certa autonomia aveva creato una borghesia audace e piena di iniziative, ed esisteva un’organizzazione economica simile a quella degli altri stati d’Europa, propizia allo svolgersi ulteriore del capitalismo e dell’industria. Nell’altra le paterne amministrazioni di Spagna e dei Borboni nulla avevano creato: la borghesia non esisteva, l’agricoltura era primitiva e non bastava neppure a soddisfare il mercato locale”.4

Che l’alterità tra Sud e Nord del paese fosse dovuta al mancato sviluppo capitalistico del primo rimarrà una costante nella riflessione gramsciana, sebbene in termini meno perentori e, per certi versi, meno approssimativi. Da queste premesse derivava una visione che escludeva ogni forma di sviluppo industriale del Sud Italia, descritto sempre come privo di manifatture e, dunque, di classe operaia; popolato, e questa è la seconda conseguenza del ragionamento gramsciano, da una massa indistinta di lavoratori della terra.
Ancora per tutti gli anni ’20, infatti, Gramsci sostenne che il capitalismo non si fosse mai sviluppato al Sud e il confronto con la realtà russa, che si andava imponendo con sempre maggior forza nella sua riflessione, lo con-fortava in questo senso. Egli riteneva che lo Stato moderno in molti paesi avesse tutelato le forme dello sfruttamento feudale della terra e ciò avrebbe determinato forme di resistenza da parte dei contadini più vicine alla jacquerie che alla lotta di classe.5
Con l’unità d’Italia l’evoluzione economica del Sud si sarebbe cristallizzata dato che “la borghesia settentrionale ha soggiogato l’Italia meridionale e le isole e le ha ridotte a colonie di sfruttamento”,6 bloccando per molti decenni l’evoluzione politica di parte del paese, fin quando la guerra non aveva mutato la psicologia dei contadini meridionali. La vita di trincea li aveva, infatti, concentrati, da sparsi che erano, favorendo la coesione di classe che diede in Russia i suoi primi frutti rivoluzionari.
Il pensiero gramsciano si alimentò non solo dell’esperienza sovietica, che imponeva una riflessione sui rapporti tra proletariato industriale e masse contadine fino a quel momento appena abbozzata, ma anche e soprattutto delle vicende che lo videro coinvolto in prima persona tra il ’19 e il ’20. La passività di ampi strati di masse meridionali di fronte al processo rivoluzionario del biennio rosso provocò l’isolamento delle città industriali del Nord e favorì il recupero delle forze conservatrici e reazionarie che stritolarono la rivoluzione, spianando la strada al fascismo. Sulla scorta di questa vicenda Gramsci comprese la necessità di individuare altri soggetti sociali che potessero aderire al fronte rivoluzionario e rompere la solidarietà del blocco conservatore. I contadini poveri meridionali diventarono, così, i naturali alleati degli operai del Nord e vennero con crescente frequenza richiamati negli appelli politici dell’Ordine Nuovo, che imputava il fallimento delle rivoluzioni tedesca e ungherese all’isolamento delle città rispetto alle campagne.7
La pubblicistica degli anni ’20-’24 denuncia, però, tutti i limiti di un’impostazione poco più che scolastica. I contadini sono una entità indistinta e, al di là di una generica chiamata alle armi, non esiste per loro un programma specifico né un modello organizzativo preciso.8 Inoltre, il ruolo dei contadini sarà, almeno fino alla metà del decennio, ossia negli anni più duri dello scontro di classe, sostanzialmente passivo: essi devono farsi guidare dagli operai industriali, i quali emancipando se stessi emanciperanno anche loro.9 Un protagonismo dell’elemento contadino, una parte attiva nel movimento rivoluzionario, verrà loro riconosciuto quando oramai è troppo tardi, quando il fascismo ha già imposto il suo ferreo controllo sullo Stato.
Negli anni che vanno dal ’24 al ’26, infatti, la riflessione sul rapporto tra operai e contadini si fece più precisa. Sono gli anni in cui Gramsci scrisse, assieme al gruppo de L’Ordine Nuovo, il bilancio del biennio rosso e cominciava a conoscere con maggiore esattezza la vicenda rivoluzionaria dell’Ottobre. Ne venne la parola d’ordine del governo operaio e contadino che, nella particolare situazione italiana, si “territorializzava”, si declinava, cioè, come unione degli operai settentrionali con i contadini meridionali, divenuti, perciò, elemento attivo del proprio processo di liberazione.10 È la stessa direzione del PCd’I ad ammettere che fino a quel momento il partito si era limitato, nei confronti dei contadini, alla propaganda ideologica, per cui è necessario scendere sul terreno dell’organizzazione diretta al fine di rompere il blocco agrario-industriale.11 La rottura rivoluzionaria si presenta come l’unica alternativa che consenta ai contadini di ottenere quella riorganizzazione della terra, che altrimenti le classi dominanti mai avrebbero concesso. Riprendendo l’idea di Lenin e Trotskij, che attribuivano alla rivoluzione socialista anche i compiti propri di quella borghese, che la borghesia non era stata in grado nei paesi arretrati di sviluppare, Gramsci concludeva che l’arretratezza dell’economia agricola del Sud Italia sarebbe stata superata solo con un balzo in avanti verso il socialismo, per il tramite del governo operaio e contadino.12
Si arriva così ad Alcuni Temi, l’esito della riflessione maturata in questo periodo, ma allo stesso tempo un testo gravido di quelle che saranno le riflessioni successive di Gramsci. Lo scritto era una difesa di quanto fatto fino a quel momento dai comunisti torinesi rispetto al Sud e cominciava intestandosi il merito di aver fatto divenire il problema meridionale problema degli operai del Nord, che così si ponevano alla testa degli altri strati sociali. Il rivoluzionario di Ales ribadisce che la Questione meridionale è essenzialmente questione contadina, da ciò la rivendicazione della divisione delle terre, ma all’interno di un processo rivoluzionario, senza il quale il contadino entrato in possesso di un lotto di terra rimarrebbe in balia di forze economiche a lui superiori.
Nel definire cosa sia il Sud egli dice che “il Mezzogiorno può essere definito una grande disgregazione sociale; i contadini, che costituiscono la grande maggioranza della sua popolazione, non hanno nessuna coesione tra loro. (…) La società meridionale è un grande blocco agrario costituito di tre strati sociali: la grande massa contadina amorfa e disgregata, gli intellettuali della piccola e media borghesia rurale, i grandi proprietari terrieri e i grandi intellettuali”.13 Gramsci lamenta l’assenza al Sud di una “borghesia capitalistica diffusa”, il cui sviluppo è reso “quasi” impossibile dal continuo drenaggio di risorse dal Sud al Nord, e a nulla valgono gli sforzi di quegli intellettuali, come Guido Dorso, che si propongono di formare una classe media. Il compito di rompere il legame tra agrari e contadini spetta al proletariato, che “organizz[erà] in formazioni autonome e indipendenti sempre più notevoli masse di contadini poveri; ma riuscirà in misura più o meno larga in tale suo compito obbligatorio anche subordinatamente alla sua capacità di disgregare il blocco intellettuale che è l’armatura flessibile ma resistentissima del blocco agrario”.14 A fianco alla visione pregressa, che vedeva i contadini poveri, da intendersi come coloni e mezzadri, fare la parte del leone nel futuro processo rivoluzionario, e la totale assenza delle città nell’orizzonte meridionalista di Gramsci, si materializzano due entità, da una lato il fantasma della media borghesia sognata dai meridionalisti liberali, dall’altro il demone degli intellettuali meridionali, che occuperanno il campo della riflessione sul Sud dell’ultimo Gramsci, entrambi dirottando l’attenzione dalla lotta di classe all’analisi teorica.

Il Mezzogiorno nei Quaderni dal carcere

I nodi problematici che si erano stretti nei precedenti testi, Gramsci prova a scioglierli negli anni del carcere, gettando le basi per quella che sarà la politica del Pci al Sud negli anni seguenti.
La riflessione sul Mezzogiorno viene sviluppata all’interno dell’analisi della storia d’Italia, in particolare di quella del Risorgimento. Mutuando ancora una volta un’idea dai pubblicisti liberali, Dorso in testa, per Gramsci l’unificazione si configurava come “conquista regia”. Ciò era avvenuto da un lato per la debolezza della borghesia che, proprio a causa della scarsa forza, temeva di porsi alla testa delle masse popolari, nello specifico quelle contadine;15 dall’altro per l’inerzia delle masse contadine, che avevano permesso al processo di assumere i connotati di una “rivoluzione passiva”.16 La ricostruzione gramsciana, carente in diversi punti – come l’aver eccessivamente ridimensionato il ruolo delle masse contadine al momento dell’unificazione e non essere riuscito a definire in maniera precisa l’economia meridionale dell’Ottocento17 –, comportava due conseguenze.
La prima, dovuta al carattere di conquista e non di liberazione del Risorgimento, consisteva nella condizione in cui il Sud si venne a trovare, cioè di semi-colonia del Nord, con il conseguente sottosviluppo.18 L’industria settentrionale non si era gradualmente espansa su tutto il territorio nazionale ponendo le basi per una superiore unità, al contrario “l’egemonia si presentò come permanente; il contrasto si presentò come una condizione storica necessaria per un tempo indeterminato e quindi apparentemente ‘perpetua’ per l’esistenza di un’industria settentrionale”.19
In questa direzione, Gramsci, sviluppando alcune idee delle Tesi di Lione,20 rileggeva la storia del Risorgimento alla luce della contraddizione centro-periferia che egli, a differenza di Marx e Engels,21 applicava non ai centri produttivi nel confronto con le circostanti campagne, ma al Sud come campagna del Nord industriale. L’assenza di uguaglianza al momento dell’unificazione aveva prodotto l’“egemonia del Nord sul Mezzogiorno nel rapporto territoriale di città-campagna, cioè che il Nord concretamente era una piovra che si arricchiva alle spese del Sud e che il suo incremento economico–industriale era in rapporto diretto con l’impoverimento dell’economia e dell’agricoltura meridionali”.22 Essendo conscio che tale rapporto non era quello tradizionale, provò a individuare le anomalie di tale relazione tra due aree così vaste. Il cerchio si chiude osservando che, trattandosi di aree molto estese e con una differente storia civile e culturale, tra Nord e Sud si veniva a determinare un “conflitto di nazionalità”,23 contraddicendo la ben più corretta e frequentemente ribadita posizione che vedeva nella Questione meridionale un problema risolvibile solo sul terreno dell’unità nazionale, omogeneizzando, e non separando, le due aree del paese.
Una conclusione subordinata di questo ragionamento, che avrà però molti riflessi nel successivo dibattito meridionalista, è che nel Sud, in quanto enorme campagna, i centri urbani non avessero alcuna centralità. Idea, questa, che affiorava, ma solo in forma implicita, già negli scritti precedenti, ma che nei Quaderni viene esplicitata quando si dice che nel Meridione i centri urbani non detenevano la direzione dell’economia e della politica, erano anzi subordinati alla campagna, non trattandosi di centri di produzione, neppure nel caso di Napoli.24
La seconda conseguenza della ricostruzione gramsciana dell’unificazione italiana riguardava la composizione sociale del Sud per come si era venuta delineando nel XIX secolo. “La differenza tra Nord e Sud era anche e specialmente nella composizione sociale, nella diversa posizione delle masse contadine, che nel Sud dovevano mantenere col loro lavoro una troppo grande quantità di popolazione passiva economicamente”, dice Gramsci.25
A ciò aggiunge, precisando per la prima volta cosa egli intenda per contadini, che “i braccianti sono ancora oggi, nella maggior parte, ed erano tanto più nel periodo del Risorgimento, dei semplici contadini senza terra, non degli operai di un’industria agricola sviluppata con capitale concentrato e con la divisione del lavoro”.26 Non esiste, pertanto, alcuna reale distinzione all’interno dei lavoratori della terra. Un’affermazione che stupisce, se si considera che, quando sente il bisogno di indicare un esempio della capacità rivoluzionaria delle masse contadine meridionali, Gramsci cita sempre i fasci siciliani e le lotte in Puglia,27 quando a scendere in campo erano stati proprio i braccianti. Ma tant’è.
Il Mezzogiorno era dunque una enorme concentrazione di contadini poveri, privi di terre e dunque di mezzi per migliorare la propria condizione economica. Ritorniamo così alle premesse da cui eravamo partiti, ossia al cuore della teoria gramsciana sul Risorgimento come processo in cui una borghesia impaurita dalle masse contadine aveva promosso un movimento nazionale, ma non la rivoluzione sociale. In Italia non si era formato un partito della borghesia radicale che, come i giacobini francesi, promosse un’alleanza con i contadini contro i moderati (i girondini nel modello d’oltralpe) imponendo una politica agraria centrata sulla divisione della terra. Esiti della politica giacobina furono la creazione di uno strato sociale in grado di allargare il mercato, assorbendo le crescenti produzioni industriali, e la formazione di uno Stato in cui la borghesia si era imposta come classe nazionale dirigente, superando anche il conflitto tra città e campagna.28 L’assenza di tutto ciò in Italia determinò i dislivelli tra le aree del paese e la costante conflittualità sociale.
Ora, al di là dell’attendibilità della ricostruzione storica del Risorgimento come rivoluzione borghese mancata, vi è un punto, centrale, che occorre sottolineare. Nell’analisi dei Quaderni viene completamente rimossa la prospettiva rivoluzionaria, cioè una proposta politica che permetta di superare la situazione determinata dal processo storico del Risorgimento. Se si aggiunge che l’intero impianto argomentativo gramsciano è teso a dimostrare come si possa divenire classe dominante tramite l’egemonia culturale e non l’azione rivoluzionaria,29 così da proporre questa prospettiva ai comunisti nei duri anni del fascismo, si comprende appieno come sia stato possibile per buona parte della successiva riflessione riformista sul Meridione partire proprio da queste pagine. In altre parole, l’attenzione verso la riforma agraria come anello mancante dell’evoluzione sociale italiana, in assenza di un simultaneo sbocco rivoluzionario, getta le basi per il gradualismo che caratterizzerà l’analisi e la proposta politica del Pci nei decenni successivi. Il gap creatosi e cristallizzatosi con l’annessione del Sud poteva essere colmato rompendo la solidarietà tra contadini e proprietari terrieri tramite il superamento del latifondo, da ottenere attraverso una redistribuzione della terra. La trasformazione in senso socialista non era più necessaria, almeno non per risolvere il problema specifico dell’arretratezza meridionale.
Colgono, dunque, nel segno quelle critiche che imputano al Gramsci dei Quaderni parte della responsabilità di aver fornito una base teorica per la svolta moderata impressa da Togliatti al Pci, anche se ciò avvenne a prescindere dalla volontà di Gramsci stesso e quando tale politica era già stata assorbita da un partito che ancora non conosceva, perché non pubblicata, l’elaborazione dei suoi ultimi anni di vita.30

La riflessione gramsciana sul Sud nel secondo dopoguerra

La spaccatura in due del paese negli anni dell’occupazione tedesca, alla fine della Seconda guerra mondiale, rendeva quella meridionale una questione di straordinaria attualità. La risposta al problema contingente fu data dalla legge Gullo, promossa dal ministro comunista dell’agricoltura, che stabiliva la distribuzione di terre marginali a cooperative di braccianti e contratti agricoli più favorevoli alla mano d’opera. Lo scopo di questi provvedimenti era garantire una maggiore stabilità nelle campagne meridionali in modo che venisse estinta la fame di terra dei contadini, senza, tuttavia, procedere ad un esproprio di massa del latifondo.31 Il partito assumeva, in sostanza, l’idea che l’esclusione dalla vita politica delle masse contadine era il cuore del problema del Sud, ma provava a porvi rimedio non più, come aveva auspicato il Gramsci di Alcuni Temi (l’unico allora conosciuto) tramite uno sbocco rivoluzionario, bensì attuando il programma riformista delineato da Togliatti con la svolta di Salerno. Si trattava, in sostanza, di inserire le masse contadine nella vita democratica del paese tramite alcune concessioni, senza modificare a fondo i rapporti sociali preesistenti. Centralità dei contadini e politiche moderate di redistribuzione della terra furono i due pilastri su cui si resse la politica del Pci al Sud anche negli anni del secondo dopoguerra.
Un ruolo di primo piano nel definire questo orientamento lo ebbe Emilio Sereni, la cui ricostruzione dello sviluppo capitalistico italiano coincideva con quella, ancora inedita, di Gramsci. Ne Il capitalismo nelle campagne (1860-1900), pubblicato nel 1947, Sereni sottolineava le profonde differenze tra agricoltura settentrionale e meridionale al momento dell’unificazione. Il Nord stava già vivendo un processo di specializzazione produttiva e di intensificazione delle colture, che aumentò quando la conquista regia espanse anche al Mezzogiorno della penisola il mercato per i suoi prodotti. Ciò comportò un drastico peggioramento delle condizioni di vita dei contadini meridionali, che si trovarono a competere, loro che lavoravano in una struttura ancora semi-feudale, contro la più sviluppata agricoltura settentrionale. Sereni aggiungeva che il processo di sviluppo capitalistico dell’agricoltura si ebbe in un secondo momento anche al Sud, grazie alla vendita dei terreni ecclesiastici, che furono accaparrati, però, dalla borghesia latifondista escludendo pertanto i piccoli agricoltori. Si venne a creare così quella saldatura tra latifondisti del Sud e del Nord, che escluse definitivamente i ceti popolari dal processo di sviluppo economico.
La convergenza con le tesi gramsciane dei Quaderni è straordinaria, come riconobbe lo stesso Sereni quando questi furono pubblicati, ponendosi sotto l’aura protettiva di quello che era divenuto il nume tutelare del Pci. Il partito si ritrovava concorde nel far coincidere la Questione meridionale con la mancata partecipazione dei contadini alla vita politica ed economica dello Stato unitario. L’esplosione dei conflitti nelle campagne meridionali nell’immediato dopoguerra sembrava confermare la linea. Si trattava di compiere il passo che nell’Ottocento non si era compiuto e, come disse Ruggero Grieco, uno dei principali dirigenti comunisti del Sud e amico di vecchia data di Gramsci, ci si aspettava che “il nostro secolo assolve[sse] il compito di portare a termine, e sino in fondo, la rivoluzione democratico-borghese nelle campagne, sotto la guida del proletariato in marcia verso il socialismo”.32 Ma i tempi iniziarono a correre con una velocità che evidentemente non era stata prevista. Mentre il Sud era attraversato da conflitti profondi per l’appropriazione delle terre, il boom economico cominciava a trasformare la struttura economica dell’intero paese nella direzione di una rapida industrializzazione.
Negli anni seguenti, tuttavia, il dibattito del Pci, pur avvertendo che qualcosa stava accadendo, era pervaso dal timore di superare l’interpretazione gramsciana dello sviluppo meridionale. Ancora in un documento approvato al X Congresso, nel 1962, si diceva, in riferimento alla moderata legge stralcio del ’49 sulla distribuzione delle terre, che “essendosi fermati sulla via della riforma agraria, la soluzione della Questione meridionale [era stata] sacrificata, ancora una volta”,33 dato che l’allargamento del mercato che si era ottenuto era ancora insufficiente. Certo non si poteva negare il processo di rapida industrializzazione del Sud (sebbene venisse giustamente criticata la logica dei “poli di sviluppo”), ma anche in questo caso l’analisi risuonava di echi gramsciani quando si affermava che “una funzione particolare viene assegnata ai nuovi gruppi di intellettuali e tecnici, con una politica e un’iniziativa culturale dei ceti dominanti che si va facendo, nel Mezzogiorno, sempre più intensa”.34
Solo nel decennio seguente, pur nel rispetto dell’autorità di Gramsci, il dibattito si concentrò sui problemi dell’anomalo sviluppo industriale del Mezzogiorno, mentre da altri ambienti si sollevarono le più acute analisi delle posizioni gramsciane.

La Questione meridionale di Gramsci oggi

Lo sviluppo industriale cominciato negli anni ’50 e proseguito, con ritmi sempre più intensi, nei due decenni successivi, cambiò in maniera profonda i connotati del Sud, che da area prevalentemente agricola divenne sede di numerosi impianti industriali. La popolazione impiegata nelle campagne diminuì fino a percentuali in linea con le principali economie sviluppate e la classe lavoratrice divenne forza anche numericamente centrale.
Un riflesso di ciò si ebbe pure negli studi sul Sud – che rimase, nonostante tutto, una regione sottosviluppata del paese – e sull’interpretazione del problema data da Gramsci. Anche se non viene detto esplicitamente, l’industrializzazione del Sud favorì la rilettura della sua storia sociale ed economica portata avanti da due studiosi critici nei confronti del Pci, Antonio Carlo ed Edmondo Capecelatro.35 Gli autori, riprendendo un’idea già avanzata da Amadeo Bordiga,36 polemizzano con Gramsci mettendo in discussione la sua caratterizzazione dell’economia meridionale come semi-feudale al momento dell’unità. In particolare, osservano, il pensatore di Ales non aveva visto come, negli anni precedenti l’unità, ci fosse stata una iniziale industrializzazione nei principali centri meridionali, Napoli e Palermo, in dimensioni non tanto differenti dalle città del Nord. Inoltre, sovrapponendo capitalismo e industria, non aveva saputo cogliere la trasformazione dell’agricoltura meridionale verso produzioni specializzate e orientate sempre più al commercio e meno all’autoconsumo, ossia verso un tipo di agricoltura capitalista. Se tali riflessioni storcono troppo il bastone rispetto alla ricostruzione di Gramsci, esagerando il ruolo avuto dalle politiche della destra storica nel creare il dislivello economico tra le varie parti del paese, la ricerca di Carlo e Capecelatro ha messo in evidenza una dinamica che pare difficile negare e che, soprattutto, aiuta a definire ulteriormente il tradimento operato dalla borghesia settentrionale di concerto con quella più arretrata del Sud nell’orientare lo Stato unitario. Le conclusioni dei due studiosi spiegano anche perché, come rilevava lo stesso Gramsci, a muoversi contro gli agrari meridionali erano stati alcuni settori specifici del mondo contadino, i braccianti che, per modalità di organizzazione del lavoro, risultavano essere più vicini, nella mentalità e nell’organizzazione, alla nascente classe operaia.
Ma cosa si può salvare della riflessione di Gramsci sul Sud, così fortemente connotata dalla centralità della questione contadina, oggi, quando oramai la Questione meridionale è divenuta da tempo questione del lavoro e del non lavoro, se non ci si vuole limitare a ridurre tutta la sua riflessione al solo metodo? Rosario Romeo, uno storico liberale che più di altri aveva combattuto le idee gramsciane sulla Questione meridionale, oltre cinquant’anni fa profetizzò che “l’inferiorità economica del Mezzogiorno (…) si presenta (…) come una condizione storica dello sviluppo industriale del Nord; ma si tratta di una condizione ‘temporanea’ (anche se si è protratta per molti decenni) e destinata ad essere rovesciata dallo stesso sviluppo interno dell’industrialismo settentrionale”.37
La profezia non si è avverata, confermando indirettamente quella che è la principale intuizione del primo Gramsci: il peculiare sviluppo storico del capitalismo italiano rende impossibile risollevare il Sud restando nell’alveo del capitalismo, poiché il sottosviluppo meridionale è funzionale allo sviluppo del Nord. Resta pertanto ancora viva la necessaria conclusione di questo ragionamento, ossia che l’unica speranza di emancipazione per questa parte del paese è legata alla prospettiva di unirsi con i settori oppressi della restante parte e procedere verso la trasformazione sociale ed economica del paese. Questa prospettiva appare oggi ancora più corretta, anche alla luce delle sconfitte e dei fallimenti subiti dalle direzioni riformiste del movimento operaio nei passati decenni. Tali sconfitte e fallimenti, infatti, sono dovuti anche alla scelta di amplificare e strumentalizzare il supe-ramento della prospettiva rivoluzionaria operata nei Quaderni, con l’intento di schierare al proprio fianco uno dei padri del comunismo italiano. Ridiscutere le idee di Antonio Gramsci significa anche e soprattutto rispolverarne lo spirito rivoluzionario e di rottura con l’ideologia conservatrice in ogni suo aspetto.

 

Note

1. Sulle dinamiche complessive del congresso di Lione, vd. P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano. Vol. I. Da Bordiga a Gramsci, Torino 1967, pp. 477-513.

2. Non è un caso che a lui sia stata affidata la redazione delle tesi presentate al congresso e del resoconto pubblicato su L’Unità il 24 febbraio 1926.

3. Per la verità Gramsci aveva dato al manoscritto il titolo, più aderente ai contenuti del testo, “Note sul problema meridionale e sull’atteggiamento nei suoi confronti dei comunisti, dei socialisti e dei democratici”, ma si preferì pubblicarlo, nel 1930 dopo il suo ritrovamento, con il titolo con cui è poi divenuto famoso.

4. Il Mezzogiorno e la Guerra, ne Il grido d’Italia, 1° aprile 1916, ora in A. Gramsci, La Questione Meridionale, a cura di F. De Felice e V. Parlato, Roma 1966, in particolare p. 56.

5. Il tema è affrontato con ampiezza in Operai e contadini, ne L’Ordine Nuovo, 2 agosto 1919, in Gramsci, Questione meridionale, cit., pp. 63-69, in particolare pp. 63-65; e più brevemente in Il Mezzogiorno e il fascismo, ne L’Ordine Nuovo, 15 marzo 1924, in Gramsci, Questione meridionale, cit., pp. 83-88.

6. Operai e contadini, ne L’Ordine Nuovo, 3 gennaio 1920, in Gramsci, Questione meridionale, cit., p.73.

7. Si veda in particolare Operai e contadini, ne L’Avanti!, ed. piemontese, 20 febbraio 1920, in Gramsci, Questione meridionale, cit., p. 77.

8. In un solo articolo Gramsci chiarisce chi siano i contadini poveri di cui spesso parla nei suoi lavori. In Operai e contadini, ne L’Ordine Nuovo, 3 gennaio 1920, in Gramsci, Questione meridionale, cit., pp. 71-74, egli spiega, nel quadro di una critica alla rivendicazione della divisione delle terre, che: “Il motto ‘la terra ai contadini’ deve essere inteso nel senso che le aziende agricole e le fattorie moderne devono essere controllate dagli operai agricoli organizzati per azienda agricola e per fattoria, deve significare che le terre a coltura estensiva devono essere amministrate dai Consigli dei contadini poveri dei villaggi e delle borgate agricole”. Ora, tale rivendicazione prevede l’esistenza di un’agricoltura che, se non è già industriale, procede verso l’industrializzazione, cosa che egli non ammette mai per il Mezzogiorno d’Italia dove, come si diceva, esisteva secondo Gramsci ancora un’agricoltura pre-capitalista. A noi pare che Gramsci non abbia mai maturato una precisa distinzione tra le diverse forme di sfruttamento della terra al Sud, tra piccoli proprietari, mezzadri e braccianti agricoli, che pure erano figure che, da un punto di vista di classe, erano assai diverse e verso cui occorreva approcciarsi con parole d’ordine e forme organizzative differenti.

9. Si leggano le conclusioni di Clericali e agrari, ne L’Avanti!, ed. piemontese, 7 luglio 1916; in Gramsci, Questione meridionale, cit., p. 61; o, in maniera ancora più esplicita, l’affermazione, contenuta in Operai e contadini, ne L’Ordine Nuovo, 3 gennaio 1920, in Gramsci, Questione meridionale, cit., p.73, secondo cui “il proletariato settentrionale, emancipando se stesso dalla schiavitù capitalistica, emanciperà le masse contadine meridionali asservite alla banca e all’industrialismo parassitario del Settentrione”. Si vedano, inoltre, le osservazioni di F. De Felice e V. Parlato a pp. 10-11 dell’Introduzione al volume.

10. Il primo momento di questa transizione emerge nell’articolo Il Mezzogiorno e il fascismo, ne L’Ordine Nuovo, 15 marzo 1924, in Gramsci, Questione meridionale, cit., pp. 83-8, e culminerà nella redazione delle Tesi di Lione.

11. Si veda la Relazione di Gramsci sul III Congresso (Lione) del Partito comunista d’Italia, in L’Unità, 24 febbraio 1926, ora in Gramsci, Questione meridionale, cit., in particolare pp. 127-129. Fondamentale è il tentativo operato da Gramsci, di concerto con Di Vittorio e Grieco, di rompere l’egemonia socialista sul movimento contadino dando vita all’Associazione in difesa dei contadini poveri, che intendeva coinvolgere soprattutto i lavoratori non salariati nella vita politica del paese per superare la centralità dei braccianti nelle lotte politiche nelle campagne. Una ricostruzione di questo tentativo si può leggere in F. M. Biscione, Rivoluzione e contadini del Sud nella politica comunista. 1921-1926, Italia contemporanea 150, 1983, pp. 23- 55.

12. In base a queste osservazioni, non può essere fatta risalire a quest’epoca la critica secondo cui per Gramsci esisterebbe la possibilità di una soluzione nell’alveo del capitalismo alla Questione meridionale, come sostenuto da C. Cicerchia, “Il rapporto con il leninismo ed il problema della rivoluzione italiana”, in La città futura. Saggi sulla figura e il pensiero di Antonio Gramsci, Milano 1959, p. 29.

13. Gramsci, Questione meridionale, cit., p. 149.

14. Gramsci, Questione meridionale, cit., p. 160.

15. Vd. A. Gramsci, Il Risorgimento. Quaderni dal carcere vol. 5, a cura di V. Gerratana, Roma 1975, pp. 123-4.

16. Il concetto è ripreso dal Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 di Vincenzo Cuoco, che lo aveva coniato per definire la rivoluzione napoletana del 1799, quando il rivolgimento era avvenuto come conquista militare francese, e dunque subìto in maniera passiva dalle masse meridionali. Gramsci è consapevole di adattare alla situazione italiana un’idea con differente significato. Vd. Gramsci, Risorgimento, cit, pp. 103-104 e 132.

17. Il ruolo dei contadini meridionali è stato oggetto di numerosi studi nella storiografia dei passati decenni, che ne hanno messo in luce la presenza, maggiore di quanto si era precedentemente creduto, nel movimento risorgimentale (vd. A. Lepre, Storia del Mezzogiorno nel Risorgimento, Roma 1969, pp. 217-232; 283-284).

18. Gramsci, Risorgimento, cit., p. 135.

19. Gramsci, Risorgimento, cit., p. 269. Tale situazione diventa stabile anche e soprattutto sotto il governo Crispi che sacrificò ogni possibilità di sviluppo del Sud sull’altare della borghesia settentrionale (Gramsci, Risorgimento, cit., pp. 110-111).

20. Si veda la sintesi da lui stesso sviluppata in Gramsci, Risorgimento, cit., p. 125, in cui si supera, negandola, una precedente affermazione dell’articolo Il Mezzogiorno e il fascismo, in Gramsci, Questione meridionale, cit. p. 88, secondo cui “la parola d’ordine del governo operaio e contadino deve perciò tenere speciale conto del Mezzogiorno, non deve confondere la quistione dei contadini meridionali con la quistione generale dei rapporti tra città e campagna in un tutto economico organicamente sottomesso al regime capitalistico”.

21. Si vedano ad esempio le osservazioni di K. Marx, F. Engels, L’Ideologia Tedesca, Editori riuniti, Roma 1972, pp. 40-41.

22. Gramsci, Risorgimento, cit., pp. 114.

23. Gramsci, Risorgimento, cit., p. 134.

24. Queste conclusioni si leggono nella lunga riflessione sul rapporto tra città e campagna del Quaderno 19 alle pp. 133, 140-141 di Gramsci, Risorgimento, cit.

25. Gramsci, Risorgimento, cit. p. 227.

26. La citazione è contenuta ancora nel Quaderno 19, quando si affronta il problema della direzione del movimento risorgimentale, a p. 117 dell’edizione di riferimento.

27. Gramsci, Risorgimento, cit., p. 139. Ma ciò vale anche per gli scritti precedenti, come ad esempio, Alcuni Temi (Gramsci, Questione meridionale, cit., p. 149).

28. Gramsci, Risorgimento, cit., p. 121.

29. Su questo decisivo aspetto dei quaderni dedicati al Risorgimento, vd. ora G. Albarani, Gramsci e il Risorgimento, in AA. VV., Gramsci e la storia d’Italia, Milano 2008, pp. 55-71, in particolare 62-65.

30. La pubblicazione dei Quaderni dal carcere cominciò nel 1948 presso Einaudi e terminò nel 1951.

31. Questa linea metteva d’accordo anche la Democrazia cristiana, che in quegli anni si organizzava sindacalmente nella Cgil, in prima linea nel sostegno alle politiche del cosentino Fausto Gullo (vd. P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano. vol. V. La Resistenza. Togliatti e il partito nuovo, Torino 1975, pp. 492-494).

32. R. Grieco, Introduzione alla riforma agraria, Torino 1948, p.16.

33. Il Partito comunista italiano e la battaglia meridionalista, ora in Da Gramsci a Berlinguer. La via italiana al socialismo attraverso i congressi del Partito comunista italiano. Vol. III, 1956-1964, a cura di F. Benvenuti, Venezia 1985, p. 457. In più passi si ribadisce la coincidenza di questione contadina e questione meridionale, tanto che nel delineare un programma per l’iniziativa comunista, la riforma agraria continua ad avere un ruolo centrale (p. 461).

34. Battaglia meridionalista, cit. p. 458.

35. A. Carlo, E. M. Capecelatro, Contro la “questione meridionale”. Studio sulle origini dello sviluppo capitalistico in Italia, Roma 1975. Per la critica a Gramsci, vd. soprattutto, pp. 225-237.

36. A. Bordiga, Il rancido problema del Sud italiano, in Prometeo, II serie n.1, novembre 1950.

37. R. Romeo, Risorgimento e capitalismo, Roma–Bari 1998 (ed. originale 1959), pp. 46-47.

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