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Fiat 1980: una lotta da non dimenticare

Rendiamo disponibile questo scritto del 2006 di Paolo Grassi che analizza la sconfitta della lotta alla Fiat del 1980. Quella sconfitta segnò un punto di svolta nella storia dell movimento operaio italiano.

 

di Paolo Grassi

La sconfitta della lotta degli operai Fiat dell’autunno 1980, passata alla storia come i “35 giorni”, rappresentò un punto di svolta nella storia del movimento operaio italiano. In occasione del ventesimo anniversario molto è stato scritto, quotidiani come Il manifesto e Liberazione hanno dedicato anche un inserto speciale; Sabattini, già allora esponente di primo piano dei metalmeccanici, ha pubblicato un libro, “Restaurazione italiana”. Purtroppo nulla di quello che è stato pubblicato è andato oltre alla descrizione dei fatti. A vent’anni di distanza la domanda “cosa si poteva fare?” rimane senza risposta.

Nei mesi successivi all’ottobre dell’80 il numero dei cassaintegrati cresce di altri 8.000 lavoratori. Nel luglio del 1981 la Fiat dichiara un eccesso produttivo di 250mila vetture giacenti nei piazzali e chiude il Lingotto (lo stabilimento simbolo a Torino). Altri 3.500 lavoratori vengono messi in mobilità. Nel febbraio del 1982 la Lancia di Varrone viene ridimensionata, altri 1970 lavoratori in cassaintegrazione.

Sono soprattutto delegati e militanti sindacali comunisti, oltre a donne, invalidi e handicappati a essere esclusi dalla fabbrica.

Tantissimi, la stragrande maggioranza abitanti a Torino, sottoposti a una campagna sempre più martellante che porta avanti l’equazione “cassaintegrato uguale parassita”, visto che senza lavorare percepiscono quasi uno stipendio intero. Sono sottoposti a continue umiliazioni, all’isolamento, solo i più politicizzati terranno duro dando vita al coordinamento dei cassaintegrati, unico appiglio per chi è innanzitutto emarginato dal vertice sindacale che li vede come un ultimo fastidioso residuo di quella vicenda.

Alla fine del 1987 dei 28.000 lavoratori espulsi tra ‘80 e ‘82 meno di 8.000 rientreranno, fondamentalmente come merce di scambio tra Fiat e Governo per nuovi finanziamenti statali a fondo perduto e la possibilità di assumere giovani con contratti precari. Su 300 delegati sindacali, solo 7 rientreranno.

Le radici della sconfitta

Dall’autunno caldo fino a metà degli anni ‘70, i vertici sindacali furono costretti dai lavoratori ad assumersi la direzione delle lotte. Lo statuto dei lavoratori, la scala mobile, gli aumenti salariali non furono il frutto della determinazione dei vertici, anzi questi dirigenti si dovettero controvoglia schierare dalla parte dei lavoratori, proprio perché capivano che altrimenti avrebbero perso il controllo del movimento operaio. In una fase di crescita del capitalismo, ai padroni tutto sommato conveniva cedere qualcosa, soprattutto se l’alternativa era uno scontro frontale. In quel contesto per i dirigenti sindacali risultò abbastanza facile appropriarsi dei meriti di quelle vittorie conquistandosi la fiducia dei lavoratori.

Ma dal 1974-’75 la situazione economica ha un’inversione di tendenza, la sovrapproduzione apre una nuova era di crisi del capitalismo, mostrando i limiti delle lotte per le rivendicazioni economiche. È l’occasione per i vertici sindacali di farla finita con l’esperienza dell’autunno caldo.

La politica della direzione sindacale, di concerto con il Pci in parlamento (che portava avanti il compromesso storico con la Democrazia cristiana), ha il suo apice con la famosa assemblea dell’Eur. Una dichiarazione di Lama rilasciata nel gennaio del ‘78 a La Repubblica rende perfettamente la sintesi non solo di questa linea, ma anche di tutto il dibattito che aveva attraversato la sinistra e il sindacato nei due anni precedenti.

Il sindacato propone ai lavoratori una politica di sacrifici. Sacrifici non marginali ma sostanziali“. “C’è un certo numero di aziende che hanno un carico di dipendenti eccessivo. Non si tratta di cifre terribili, ma neppure esigue. Siamo nell’ordine di parecchie decine di migliaia di lavoratori (…) Perciò, sebbene nessuno quanto noi si renda conto della difficoltà del problema, riteniamo che le aziende, quando sia accertato il loro stato di crisi, abbiano il diritto di licenziare” .

Su queste basi è abbastanza chiaro con quali generali l’esercito dei lavoratori si stava apprestando a incominciare la sua battaglia più dura.

I vertici capivano che non era sufficiente basarsi solo sulla propria autorità per imporre la ristrutturazione nelle fabbriche. Avevano bisogno di chiudere anche con un altro capitolo ereditato dall’autunno caldo: chiudere con l’esperienza dei Consigli di fabbrica (Cdf).

I Consigli di fabbrica

I Cdf nacquero alla fine degli anni ‘60 come una risposta dei lavoratori al bisogno di superare le vecchie Commissioni interne, che avevano nel corso degli anni subito una forte burocratizzazione. Nei Cdf vigeva la norma: tutti elettori, tutti eleggibili, iscritti e non al sindacato. Vigeva il diritto, per i lavoratori, di revocare immediatamente il delegato che, nelle trattative con la controparte, non si fosse attenuto alle indicazioni decise in assemblea.

Questo preoccupava non poco. Così mentre si preparavano alla resa incondizionata davanti ai padroni, incominciarono a preparare le condizioni per eliminare i Cdf.

Lo snaturamento dei Cdf iniziò prima con il loro assorbimento nelle strutture sindacali tradizionali e poi incominciando a svuotare di contenuti i principi su cui si fondavano. Con la sconfitta alla Fiat si consoliderà la sistematica prevaricazione delle posizioni espresse dai delegati.

Da allora i vertici hanno accelerato questo processo di svuotamento della rappresentatività dei delegati, fino a partorire l’attuale struttura delle Rsu (rappresentanze sindacali unitarie), che impone che 1/3 dei delegati di fabbrica non siano eletti dai lavoratori ma decisi dai funzionari sindacali.

Purtroppo i dirigenti che non hanno condiviso questa politica non hanno neppure tentato di organizzare, nella Cgil, nel Pci e nel movimento operaio una valida politica alternativa

Non è sufficiente, come fanno Bertinotti e Sabattini (allora con posizioni di responsabilità nella Cgil) dire che quell’accordo non l’hanno condiviso.

A quel tempo c’era un pezzo del sindacato, l’Flm (il sindacato dei metalmeccanici che allora univa le tre sigle confederali Cgil, Cisl e Uil) che per molti rappresentava la sinistra del sindacato. L’Flm, che si oppose fin dall’inizio alla cassaintegrazione senza rotazione tra i lavoratori, in precedenza si era opposta anche agli accordi dell’Eur. L’Flm fu sicuramente la struttura che più si scontrò con i vertici del sindacato. Detto questo però rimane il fatto che mai, anche quando il tradimento dei vertici fu evidente, l’Flm prese l’iniziativa, almeno nei piani alti della sua direzione.

Alla politica dell’Eur si contrapponeva l’idea di una resistenza fabbrica per fabbrica, che era destinata alla sconfitta.

Quello che mancava era anzi tutto una analisi corretta del contesto e una politica rivendicativa adeguata. Questi due elementi dovevano essere le basi fondamentali su cui costruire una solida opposizione da contrapporre al vertice sindacale.

Ai lavoratori si dovevano dire le cose come stavano, spiegando che rivendicazioni come la riduzione d’orario dovevano essere collegate alla prospettiva della nazionalizzazione della Fiat sotto il controllo dei lavoratori, unica soluzione per non fare pagare la riorganizzazione della fabbrica ai lavoratori. Non sarebbe stato facile sostenere questa rivendicazione, oltre tutto in un periodo in cui si faceva strada la propaganda che accomunava l’industria pubblica a spreco e inefficienza. La rivendicazione della nazionalizzazione andava legata al ruolo qualitativamente decisivo che avrebbero avuto i lavoratori e i Cdf nel controllo della produzione. Questo, inoltre, gettava le basi, essendo la vertenza Fiat sotto gli occhi di tutti i lavoratori italiani, per una campagna che spiegasse come l’industria pubblica non controllata dai lavoratori, ma da questo Stato (dei padroni) non era a disposizione della comunità, ma serviva solo per far fare più profitti ai privati.

L’Flm questo non era disposta a farlo e in nome dell’unità di vertice, soppresse la critica, rinunciò a mettere in guardia i lavoratori, e a portare avanti la battaglia organizzando sul campo quello che i dirigenti non erano disposti a fare.

Neppure Sabattini affronta queste questioni nel suo libro. L’unica tesi che è in grado di sostenere è che il sindacato aveva ragione, ma non aveva capito quanto erano determinati i padroni, e come la fabbrica stesse cambiando, passando dal modello fordista a quello toyotista. Una tesi comoda, che scarica i dirigenti di ogni responsabilità.

La realtà è che tutti i dirigenti della cosiddetta sinistra sindacale abbandonarono il campo di battaglia e si resero oggettivamente complici dei vertici sindacali, i quali presentarono come una “vittoria” quella che fu una disastrosa sconfitta.

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