Ombre cinesi sull’economia
9 Settembre 2015L’avanzata di Podemos e le sfide future
11 Settembre 2015di Sonia Previato
La donna libera dall’uomo, tutti e due liberi dal Capitale
Camilla Ravera – L’Ordine Nuovo, 1921
Fourier nel 1808 nella sua “Teoria del quattro movimenti” spiegò che “i progressi sociali si misurano in ragione del progresso della donna verso la libertà”. Marx ed Engels successivamente analizzarono profondamente lo sviluppo della società umana non solo sul piano economico, ma anche quello culturale e del rapporto fra i sessi.
Il marxismo ha analizzato l’origine dell’oppressione femminile e ha posto le basi teoriche per il suo superamento.
In particolare Engels ne L’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (1884), a partire dalle conoscenze scientifiche e antropologiche di allora mostra il carattere dinamico delle strutture sociali e come queste strutture siano legate al livello di sviluppo delle forze produttive.
“L’aumento della produzione in tutti i campi – allevamento del bestiame, agricoltura, artigianato domestico – rese la forza-lavoro umana capace di creare un prodotto che eccedeva la quantità necessaria al suo mantenimento. (…) Non sappiamo ancora come e quando gli armenti, da proprietà comune della tribù o della gens, entrarono in possesso dei singoli capifamiglia. Nella sua sostanza, però, ciò deve aver avuto luogo in questo stadio (lo stadio medio dello stato selvaggio – NdR). La famiglia venne ora rivoluzionata dagli armenti e dalle altre nuove ricchezze. Era sempre stato l’uomo ad occuparsi della produzione, dei mezzi di produzione da lui costruiti e della loro proprietà. Essendo gli armenti il nuovo mezzo di produzione, l’addomesticamento iniziale e, dopo, la loro custodia, erano lavori che toccavano all’uomo. Il bestiame, perciò era sua proprietà, e così le merci e gli schiavi che ne aveva ottenuti in cambio. Ogni sovrappiù che venisse ora prodotto spettava all’uomo: la donna ne partecipava al consumo, ma non alla proprietà. Il guerriero e il cacciatore “selvaggi” erano stati soddisfatti di essere secondi, in casa, alla donna; il “più mite” pastore, forte della sua ricchezza, conquistò il primo posto, respingendo la moglie al secondo. Ed essa non poteva lamentarsi. (…)
Con il dominio effettivo dell’uomo nella casa era venuto meno l’ultimo ostacolo al suo potere assoluto. Questo venne ribadito e reso eterno con la caduta del diritto matriarcale, l’avvento di quello patriarcale, la graduale transizione dal matrimonio di coppia alla monogamia. Questo fatto comportò una lacerazione nell’antica costituzione gentilizia: la famiglia singola diventò una potenza e si eresse di fronte alla gens con fare minaccioso.“1
Da questa genesi antica le donne sono state e sono considerate esseri inferiori. Contemporaneo a Marx, in Italia, l’abate Rosmini ispirava l’educazione di tante “fanciulle” di buona famiglia e si appellava alla natura per ribadirne l’antica soggezione all’uomo:
“Compete al marito secondo convenienza della natura essere capo e signore; compete alla moglie, e sta bene, l’esser quasi un’accessione, un compimento del marito, tutta consacrata a lui e dal suo nome dominata“2.
Su queste teorie che forse possono far sorridere e parere antiquate, si basava il Diritto di famiglia in Italia, riformato solo nel 1975 dopo lotte durissime.
E le lotte e i dibattiti infatti si accesero su questo tema in tanti momenti della storia, ma l’ascesa del capitalismo segna un passaggio decisivo che muta radicalmente i rapporti fra gli individui.
La liberazione fuori dalle mura di casa
Come spiega Engels l’oppressione della donna nella famiglia deriva da un cambiamento esterno ad essa. Nella misura in cui il lavoro dell’uomo, legato all’allevamento e all’agricoltura, inizia a produrre la ricchezza di quelle società perché produce un surplus rispetto ai bisogni della famiglia, che viene “venduto”, il lavoro domestico smette di essere la ricchezza fondamentale. Esso infatti ha un carattere privato, non può essere scambiato con altre merci sul mercato e dunque perde di valore. Il lavoro dell’uomo, i cui prodotti si scambiano a scopo di lucro, diventa produttivo, quello della donna il cui prodotto non è in vendita, improduttivo. Questo cambiamento esterno alla famiglia segna un’inversione dei rapporti di forza al suo interno.
Citiamo ancora Engels:
“Si chiarisce fin da adesso che la liberazione della donna e la sua equiparazione all’uomo è e resterà impossibile fintanto che la donna venga tenuta fuori dal lavoro sociale produttivo e si debba limitare al lavoro domestico privato. La liberazione della donna diventa possibile solo quando ad essa sia permesso di partecipare, su larga scala, alla produzione, e l’impegno del suo lavoro domestico sia ridotto ad una quantità irrilevante. Tutto ciò è divenuto possibile solamente con la grande industria moderna, che non solo rende possibile il lavoro della donna su larga scala, ma lo esige formalmente, ed ha la tendenza a trasformare in misura sempre crescente lo stesso lavoro domestico privato in una industria pubblica.“3
Lo sviluppo del modo di produzione capitalista ebbe infatti ripercussioni importanti su tutte le donne, da quelle delle classi elevate, fino alle proletarie. Sono precisamente quei processi descritti da Engels che spingono le donne borghesi, e anche qualche nobildonna a rivendicare più diritti e come tenteremo di chiarire qui, descrivendo alcune di quelle battaglie a cavallo fra il XIX e il XX secolo, a scuotere le coscienze e il sistema sociale.
La lotta di classe e contro il patriarcato
Il modo di produzione capitalista segna tuttavia una frattura insanabile fra interessi degli sfruttati e quelli degli sfruttatori. Il sistema capitalista spinge gli individui a trovare un ruolo nella produzione sociale. Quindi non solo le borghesi escono dalle loro “prigioni dorate” per rivendicare un posto in Parlamento o nelle professioni maschili, ma anche milioni di contadine e casalinghe vengono spinte dal bisogno nella produzione su larga scala: la fabbrica, la filanda, la miniera, l’ufficio e il call center diventano i luoghi di una ulteriore forma di oppressione, dell’oppressione di classe. Questo secondo fardello, però, le sottrae alla solitudine delle quattro mura, dà loro la possibilità di trovare altre compagne e compagni con cui ribellarsi alla propria condizione di sfruttate, diventare protagoniste della propria vita, spezzare la propria sottomissione all’uomo, insomma dare un colpo al patriarcato. Tutta l’esperienza delle lotte delle lavoratrici insegna proprio questo: alla lotta sul luogo di lavoro si accompagna sempre una crisi nella famiglia, in cui gli uomini vedono con sospetto il nuovo protagonismo femminile e le donne, presa fiducia nelle loro capacità, non tollerano oltre i soprusi e le ridicolizzazioni della loro figura da parte dei padri, mariti e fratelli.
L’entrata nel mondo del lavoro, il conseguimento di un salario e in ultima analisi il conflitto di classe non portano automaticamente alla liberazione della donna, ma i comunisti che si pongono quell’obiettivo devono cogliere il nesso che esiste fra questi due piani perché attraverso il conflitto di classe si svela più chiaramente alle masse femminili il carattere reazionario della famiglia, come luogo di oppressione degli individui e soprattutto delle donne e dei figli. I comunisti devono approfittare di questa condizione oggettiva per promuovere una idea diversa di convivenza umana, basata sulla socializzazione delle risorse economiche, dei compiti domestici, della cura e dell’educazione dei figli. Ma soprattutto devono chiarire che la causa delle tensioni e della violenza che si vivono quotidianamente nei nuclei familiari è determinata dal carattere privato delle responsabilità che il capitalismo scarica necessariamente sulle spalle della famiglia e in particolare delle donne. Dunque rompere l’oppressione della donna, rompere questo carattere privato significa inserire la battaglia per la liberazione della donna nella battaglia contro il capitalismo. L’individuazione della questione femminile non è una semplice appendice, ma è un tema decisivo che porta la lotta anticapitalista su un terreno più avanzato. I comunisti non combattono questo sistema solo perché costringe tre quarti del mondo alla miseria più disumana, ma anche perché è un freno allo sviluppo culturale, scientifico e delle risorse umane, e da semplice freno si sta sempre più trasformando in un sistema che conduce alla barbarie nei rapporti umani anche nei paesi capitalisti avanzati. La nostra battaglia è dunque anche sul terreno ideologico.
La natura del femminismo
Finora ci siamo astenuti dall’utilizzare il termine femminismo in relazione alla lotta del movimento femminile. Pensiamo infatti di dover fare alcune precisazioni rispetto a questo termine.
Fourier per primo parlò di femminismo conferendo a questo termine un valore positivo e dando ad esso il significato di lotta rivoluzionaria delle donne contro la loro oppressione. Nella storia però di questo termine si sono appropriati fondamentalmente i movimenti che avevano una direzione borghese o piccolo borghese, spesso entrando in conflitto con il movimento operaio e le sue organizzazioni.
Il movimento femminista, particolarmente nel secondo dopoguerra, ha prodotto riflessioni e analisi non solo di indubbio valore, ma che anche in alcuni casi sposavano le tesi rivoluzionarie marxiste. Tuttavia resta il fatto che nel suo complesso è rimasto prigioniero di una visione riduttiva della questione femminile, che vedeva in essa la battaglia centrale in cui accumunare tutte le donne indipendentemente dalla loro estrazione sociale e a prescindere da tutte le altre battaglie (salario, condizioni sociali, ecc.).
Seppure è vero che la negazione dei diritti colpisce le donne di diverse classi sociali, c’è una distanza abissale fra le condizioni sociali di queste donne a seconda della classe a cui appartengono e dunque questa distanza si riproduce inevitabilmente anche negli obiettivi che esse si pongono.
In primo luogo c’è il problema della proprietà. Le borghesi devono tutelare le loro proprietà e quelle dei loro familiari e conoscenti; le proletarie con le loro rivendicazioni di classe, oltre che di genere, sono una costante minaccia alla proprietà borghese che viene messa in discussione non solo dal programma del movimento operaio (che può essere più o meno avanzato), ma soprattutto dai metodi di lotta (scioperi, occupazioni, ecc.) e dal carattere di massa di queste lotte.
In secondo luogo c’è il problema degli obiettivi della lotta. Il movimento femminista ha avuto storicamente tante articolazioni che in seguito in questo testo analizzeremo. Qui tentiamo una sintesi di questi obiettivi: il tema centrale delle donne borghesi nel movimento femminista è la battaglia culturale. Se all’inizio del secolo essa si esprimeva nell’estensione dei diritti democratici, quali il diritto di voto, il diritto allo studio e all’accesso alle professioni “maschili” (avvocato, medico, ecc.), successivamente ha trovato le sue rivendicazioni nel protagonismo femminile e contro la cultura cattolica che vuole la donna “angelo del focolare” (divorzio, diritto all’aborto). Questa battaglia culturale è stata spesso accompagnata da un forte radicalismo verbale e anche da azioni “esemplari” che volevano mostrare il carattere rivoluzionario e universale di quelle rivendicazioni. Nella sostanza però, nonostante i diritti democratici delle donne siano universali, cioè riguardino tutte, impostare la battaglia culturale a prescindere dal sistema economico conferisce un carattere parziale a quella battaglia, può far clamore, ma non scardina il sistema. Da qui infatti l’eterno dibattito sull’opportunità o meno di rivendicare l’emancipazione o la liberazione della donna. I settori più moderati del movimento puntualmente si limitavano a rivendicare qualche aggiustamento nella condizione della donna promuovendone la sua più o meno lenta emancipazione e altri settori più radicali, ma spesso anche più confusi, genuinamente esigevano di più, un’autentica liberazione, senza capire che per ottenerla era necessario varcare i limiti angusti del femminismo e lanciarsi in una lotta di più ampio respiro contro il capitalismo promuovendo un programma più radicale, rivoluzionario, nel movimento operaio.
Lavoratrici e ideologia patriarcale
Dall’altra parte, fra le lavoratrici, l’oppressione di genere nell’ambito domestico, si intreccia con i problemi legati alla condizione sociale. Per le lavoratrici essa è rappresentata dalla letterale asfissia da lavoro domestico e di cura, che a differenza delle borghesi non possono scaricare sul lavoro salariato (badanti, domestiche, maggiordomi, ecc.). Sebbene negli ultimi decenni, nei paesi avanzati, ci sia stato un certo coinvolgimento degli uomini nella cura dei figli e della casa, continua a ricaderne sulla donna la responsabilità ultima. Sui ceti meno abbienti e sulla classe lavoratrice questa responsabilità è ancora più accentuata perché la società capitalista non ha alcun interesse a socializzare quella responsabilità. Questa situazione modifica il ruolo della donna e particolarmente della lavoratrice nella società: il tempo dedicato alla casa, ai figli, alla cura in generale è sottratto allo studio, al sindacato, alla politica, al miglioramento della condizione lavorativa, ecc. Tuttavia, a differenza delle borghesi, le donne della classe operaia, pur essendo anch’esse oppresse dai loro uomini, sono costrette ad un percorso più tortuoso e faticoso per liberarsi. Non hanno da invidiare agli uomini della loro classe sociale una bella e ben pagata professione, per la quale battersi in concorrenza. Sebbene i lavoratori hanno in media una paga più alta delle lavoratrici, si tratta pur sempre di lavoro salariato. Quello che resta è una vita di coppia e familiare insostenibile sul piano umano ed economico, che inevitabilmente entra in crisi. E anche qui vediamo le difficoltà maggiori che colpiscono le lavoratrici, che di fronte alla prospettiva del divorzio, devono affrontare il problema di una vita da single, magari con figli (che nel 98% dei casi vanno alla madre), con un salario da fame e un nuovo affitto da pagare. Il capitalismo impone alla donna il doppio fardello del lavoro fuori e dentro casa, di fronte all’insostenibilità di questo fardello, non offre alcuna soluzione, se non una ulteriore solitudine e disgregazione sociale. Circa la metà dei nuclei familiari in Italia non sono più quelli tradizionali (padre, madre, figlio/i): nella gran parte dei casi sono donne che disperatamente cercano una via di emancipazione dall’oppressione familiare, ma pur sfuggendo agli obblighi verso il proprio marito, non possono sfuggire al ruolo di donne che comunque il capitalismo affibbia loro. Resta la cura dei figli, restano le discriminazioni sul lavoro, restano e anzi aumentano le necessità economiche e resta il bisogno di solidarietà umana nella quale però si riproducono sempre le divisioni dei ruoli in base al genere di appartenenza.
A questa solitudine dell’oppressione vissuta nel privato, le lavoratrici possono, a differenza delle borghesi, rispondere con il protagonismo nella lotta sul proprio luogo di lavoro. La lotta di classe, perché è collettiva e mostra il potere delle lavoratrici, accresce la fiducia nelle proprie capacità, contribuisce a far maturare una coscienza, fra larghi strati della classe lavoratrice femminile, della condizione di oppresse nella società in quanto donne e mostra come nell’azione collettiva anche l’oppressione delle donne può essere riscattata.
Perché questa maturazione possa esprimersi in una lotta cosciente per la propria liberazione necessita di una analisi e un programma rivoluzionari. Le organizzazioni riformiste del movimento operaio, invece, sono passate da un atteggiamento, in alcuni casi, apertamente ostile (si pensi ai tanti dirigenti socialisti contrari al diritto di voto alle donne) o ad una impostazione del problema esclusivamente economica (paga e condizioni uguali, orario di lavoro, ecc.) senza cogliere la portata rivoluzionaria della lotta contro l’oppressione della donna, anzi denunciando quel problema come una questione che interessa esclusivamente le borghesi.
Successivamente, in assenza di una analisi di classe indipendente, i dirigenti riformisti hanno completamente capitolato alle concezioni femministe, facendo proprie le riflessioni e l’impianto rivendicativo del settore più moderato. A questo va aggiunto che il movimento femminista ha sempre considerato le lavoratrici come le “sorelle di serie B”, in parte perché meno sensibili ai suoi argomenti, in parte perché considerate vittime quasi irrecuperabili dell’egemonia maschile delle organizzazioni operaie. A dimostrazione di questo atteggiamento di sufficienza c’è la quasi inesistenza di testi sulla storia delle lotte della classe lavoratrice femminile, a differenza di una pubblicistica ben superiore relativa ai dibattiti e iniziative del movimento femminista in senso stretto, per non parlare del silenzio assordante sulle conquiste delle donne in Unione Sovietica grazie alla rivoluzione d’ottobre.
Femminismo e movimento operaio
Detto questo va chiarito un corretto rapporto fra femminismo e movimento operaio e fra conflitto di genere e conflitto di classe. Nonostante la questione femminile, come abbiamo spiegato sopra, debba essere pienamente abbracciata dai comunisti, va contrastata una impostazione parziale che vede al centro dell’iniziativa la battaglia culturale indipendentemente dall’appartenenza di classe. Questa impostazione fa arretrare la coscienza con cui le donne si approcciano alla loro condizione: in essa le donne possono vedere solo la descrizione della loro oppressione, ma vengono loro sottratti gli strumenti per superarla.
Sebbene non sia il capitalismo l’origine dell’oppressione femminile, come abbiamo spiegato, la sua esistenza rappresenta l’ostacolo decisivo al suo superamento. Questo sistema è costretto a basare il suo dominio sull’oppressione della classe lavoratrice e a questo scopo deve promuovere tutte le divisioni possibili al suo interno. L’ideologia patriarcale è fondamentale per garantirsi una larga fascia di manodopera femminile a cui imporre salari e condizioni inferiori, che alla bisogna possa entrare e uscire dal mercato del lavoro ed essere una costante pressione verso il basso dei salari e delle condizioni di tutta la classe lavoratrice. Nella stessa identica misura viene usato il razzismo per dividere la classe operaia sulla base della razza. Dunque sebbene il capitalismo spinga le donne, così come gli immigrati delle zone più arretrate del mondo, nella produzione sociale, al tempo stesso deve promuovere l’idea che compito della donna è quello di stare a casa a curare i figli e la famiglia.
Quindi il capitalismo è diventato, insieme ai suoi ideologi della chiesa, il promotore fondamentale dell’oppressione della donna. Svelare questo legame è un compito imprescindibile per chi affronta la questione femminile, dimostrando quanto la cultura patriarcale venga usata e promossa dal capitalismo per conservare il suo dominio. Qualsiasi battaglia che non tenga conto di questo, non solo è destinata alla sconfitta, ma non è in grado di orientare né le lavoratrici, né quelle donne dei ceti borghesi che non desiderano semplicemente un aggiustamento della loro condizione, ma aspirano ad un’autentica liberazione.
Infine affrontiamo le ragioni della centralità del conflitto di classe su quello di genere. In primo luogo è evidente da quanto detto finora che per liberare la donna, o almeno porre le basi per la sua liberazione, significa innanzitutto liberare le risorse economiche per poter socializzare il lavoro domestico e la cura dei figli, lavori che inchiodano le donne alle loro responsabilità e al loro ruolo nella società in quanto donne. Liberare queste risorse significa entrare in conflitto con la proprietà privata dei mezzi di produzione, con la classe dominante, significa rivendicare la necessità di un processo rivoluzionario in senso socialista che si ponga l’obiettivo della presa del potere da parte della classe lavoratrice, della nazionalizzazione delle multinazionali e delle principali risorse economiche e della pianificazione di queste risorse sotto il controllo delle masse oggi sfruttate, che solo in un contesto del genere, in una società socialista, potrebbero usarle a proprio beneficio.
La centralità della classe lavoratrice in questo processo è determinata dal suo ruolo nella produzione sociale, dal fatto che i lavoratori, in quanto classe di salariati, permettono al capitalismo di funzionare, di esistere, pur non essendo consapevoli, nei momenti normali della loro vita, di questo potere. È quindi decisivo il loro protagonismo perché la loro forza diventi forza cosciente e possa sovvertire l’ordine costituito.
Recentemente nella sinistra si contesta questa centralità, sostenendo che esistono anche altri conflitti di analoga importanza come appunto il conflitto di genere, o la questione ambientale. Non è qui in discussione l’importanza di queste tematiche, bensì qual è la contraddizione centrale del capitalismo attorno alla quale si articolano tutte le altre contraddizioni.
La questione femminile, così come quella ambientale, non può essere risolta in modo indipendente dall’abbattimento del capitalismo, un sistema ormai incapace di garantire alle donne e all’umanità tutta il suo armonioso sviluppo. Inoltre non si può fare una battaglia culturale, senza porsi il problema centrale di rompere il motore che quella cultura produce e di rovesciare la classe dominante, che attraverso quella cultura esprime i propri interessi.
Dunque pesa sulla classe lavoratrice, che ha il potenziale, di cui si diceva sopra, la responsabilità di assolvere anche questi compiti che il sistema borghese non può garantire, avviando ora una campagna anche sul terreno ideologico in primo luogo fra le lavoratrici stesse e in seguito, una volta conquistato il potere, mettendo in pratica i nostri propositi di liberazione.
A questo proposito ci pare di estremo interesse l’esperienza bolscevica proprio relativa alla questione femminile e vi rimandiamo quindi all’articolo di Elisabetta Rossi nella presente rivista.
Le brevi note di carattere prevalentemente storico che seguono sono volte a dimostrare le tesi qui sopra esposte. Come già detto sopra ci interessa dare nota del valore e dei limiti dei movimenti borghesi a livello internazionale, fra i più importanti quello delle suffragette inglesi, ma per ragioni di spazio ci concentreremo sul caso italiano.
Le borghesi “rivoluzionarie”
Già nel ’700 in America come in Europa si svilupparono circoli di discussione sull’uguaglianza dei sessi, ma dal carattere estremamente moderato, il tema centrale era il diritto all’educazione. Persino in Italia le nobildonne disputarono sull’utilità dello studio e sulla sua superiorità rispetto ai bei vestiti.
La rivoluzione francese è il primo caso in cui questi circoli ristretti vengono letteralmente “allagati” dalle masse, dalle popolane, che vedono nel processo rivoluzionario la possibilità di riscatto dalla propria miseria e di mettere in pratica l’uguaglianza dei sessi. Olimpya de Gouges, una borghese girondina, si fa paladina di queste aspirazioni e nel 1791 presenta la sua Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina. Qui tuttavia vediamo chiaramente quanto il marxismo ha successivamente analizzato ovvero la superiorità degli interessi di classe su quelli di genere. Quando infatti il processo rivoluzionario entra nella fase critica in cui la reazione si organizza per affossare la rivoluzione, la de Gouges non capisce che per difendere quegli stessi diritti per cui diceva di battersi era necessario sconfiggere i sostenitori della monarchia, pena il tradimento e la sconfitta delle masse in rivolta. Nel 1793 si schiera contro la messa a morte del re e contro la politica del terrore di Robespierre e per questa ragione viene a sua volta ghigliottinata nel 1793.
Tuttavia le battaglie che ebbero un carattere di massa furono successive e con un chiaro contenuto politico: il diritto di voto.
Negli Usa a partire dalla guerra tra Nord e Sud per l’abolizione della schiavitù si sviluppò un movimento femminile. Alle donne non fu concesso di firmare la dichiarazione abolizionista degli Stati del Nord e per questa ragione fondarono una Società antischiavista femminile nel 1830. Questa società iniziò una campagna in cui metteva sullo stesso piano la condizione dei neri con quella delle donne e avviò una lungo percorso di dibattiti pubblici (allora praticamente vietati per le donne) e di pubblicazioni in cui si rivendicava il diritto di voto, il diritto a disporre della proprietà e dei guadagni, l’affidamento dei figli in caso di divorzio e una diversa educazione per le donne. Nel 1850, anno in cui si tenne il primo congresso nazionale per i diritti femminili, su un milione di lavoratori circa un quarto erano donne. Nonostante quindi ci fosse una presenza importante di donne fra il proletariato, gli interessi delle associazioni femminili erano orientati, a parte la questione del voto, alla tutela dei loro diritti nell’ambito della classe borghese.
Le suffragette inglesi
Il movimento che più scosse le coscienze per la radicalità dei metodi di lotta fu quello delle suffragette inglesi, che rivendicavano appunto il suffragio universale. Il partito laburista fin dalla sua nascita (1900) rivendicava il diritto di voto alle donne e le dirigenti sindacali e del partito laburista indipendente erano attive nella campagna per il diritto di voto alle donne lavoratrici. Nel 1903 nasce l’Unione sociale e politica delle donne, fondata da Emmeline Pankhurst. Questa associazione definisce superati i metodi dei convegni e delle petizioni, inizia una campagna di boicottaggio dei candidati liberali e di azioni simboliche. Le suffragette interrompono i comizi dei liberali, si aggrappano ai lampioni, in ogni iniziativa politica sono presenti con i loro cartelli a rivendicare il diritto di voto. Il governo passa alla repressione dura. Ci sono arresti di massa e molte suffragette vengono condannate ai lavori forzati. Nelle carceri entrano in sciopero della fame, della sete e del sonno e per non farle morire il governo ordina l’alimentazione forzata. Il partito laburista che appoggia il movimento denuncia le torture in prigione, ma il governo non cambia strategia. Anzi, nel novembre del 1909 due suffragette vengono uccise dalla polizia nel corso di una manifestazione. Da qui inizia una spirale sempre più violenta: le femministe reagirono incendiando edifici e vagoni ferroviari, furono distrutte vetrine e caselle postali. Le carceri si riempiono di donne che iniziano subito lo sciopero della fame e la polizia, per non torturarle, le libera per riarrestarle poco dopo, inaugurando la famosa strategia del “gatto e il topo”. Nel 1913 la polizia invade la sede delle femministe, sopprime il giornale e scioglie l’associazione.
Lo stesso anno, manifestando la disperazione per il vicolo cieco in cui era entrato il movimento, una suffragetta, Emily Davidson, nel corso di una corsa ippica al cospetto del re e della regina e di migliaia di spettatori, si getta fra i cavalli in corsa, restandone mortalmente schiacciata.
Di lì a poco sarebbe scoppiata la prima guerra mondiale e una buona parte delle dirigenti del movimento femminista abbracciò la propaganda patriottica; Emmeline Punkhurst tornò in libertà e venne incaricata dal governo di organizzare le donne per sostituire gli uomini richiamati alle armi.
Il movimento delle suffragette era prevalentemente formato da giovani donne della piccola borghesia, che si rivoltavano contro l’ipocrisia della società e della loro classe che le voleva solo brave mogli al servizio dei loro bravi mariti. Non c’è alcun dubbio però che suscitarono, per la loro abnegazione e perseveranza, la simpatia e l’appoggio fra la classe lavoratrice, particolarmente nei primi anni. Successivamente infatti, proprio quando la strategia delle azioni eclatanti mostrava il fiato corto, si aprì una spaccatura nel movimento. Una parte di esso, guidato dalla figlia di Emmeline, Sylvia Punkhurst entrò in contatto con le donne del movimento operaio dell’East End di Londra e comprese che, per difendere veramente le donne, il voto era solo un mezzo attraverso il quale estendere una lotta più generale contro l’oppressione della donna e del capitalismo. Sylvia fu fra le fondatrici del Partito comunista inglese.
La riscossa delle lavoratrici in Italia
La vivacità del movimento inglese non toccò in ugual misura gli altri paesi europei. In particolare la borghesia italiana era troppo debole e arretrata perché potesse cogliere gli effluvi rivoluzionari della propaganda femminista. Ancora nel 1908 il primo congresso nazionale sulla questione femminile vedeva la partecipazione di tutti i partiti politici al cospetto della regina ed era ispirato ai principi dell’interclassismo. Nell’introduzione si legge quanto segue: “Il nostro femminismo non suona lotta, si adopera, al contrario, per l’unione fra le classi, che è una delle sue più care aspirazioni”; tanto era debole l’ispirazione delle congressiste, che si “dimenticarono” di inserire nei temi in discussione la questione del diritto di voto.
In Italia infatti la questione femminile non fu posta per la prima volta dai circoli borghesi, bensì dal movimento operaio che mostrava la vitalità di una nuova classe sociale alla ricerca di una via d’uscita dalla miseria propria e di tutta la società.
Alla fine dell’800 in Italia si contavano un milione e mezzo di operaie tessili a cui si aggiungevano 300mila contadine impiegate a domicilio nel lavoro di filatura del lino e della canapa. Nel settore tessile i lavoratori maschi erano solo il 10% della manodopera. Altri settori con manodopera a forte presenza femminile erano la manifattura tabacchi e la fabbricazione dei fiammiferi. Nel settore tessile ci furono le prime forme di organizzazione delle lavoratrici, nel 1889 nacque la “Società delle sorelle del lavoro” che promosse numerosi scioperi per difendere il salario e ridurre la giornata lavorativa a dieci ore. Nelle camere del lavoro si formarono le prime sezioni femminili, la prima, a Milano, nacque nel 1890-91 per opera di tre socialiste: Linda Malnati, Giuditta Brambilla e Carlotta Clerici. Le condizioni in cui si operava erano molto difficili, alla miseria e all’analfabetismo dilagante fra le lavoratrici bisognava aggiungere l’enorme ricattabilità da parte del lavoratore e lo scherno a cui erano sottoposte le donne dai propri uomini in famiglia, come ben testimoniano alcune lettere che venivano pubblicate su L’Avanti. Ecco alcuni brani di una di esse a proposito dell’iscrizione delle donne al sindacato:
“Cominciando dai nostri fratelli che in gran parte vi appartengono (al sindacato – NdR), non avrebbero tollerato che noi si manifestasse un simile desiderio, figuriamoci poi i genitori, e perché no, i nostri ragazzi. È inutile, noi donne non dobbiamo pensare a certe cose, se non intendiamo rinunciare alle gioie della famiglia. Meglio schiave, come ci si chiama, delle convenienze, che schiave del ridicolo. È poco quello che ci si potrebbe guadagnare, ed è molto quello che ci si può perdere.“4
Ciononostante, le condizioni drammatiche in cui lavoravano le donne spinsero queste “schiave delle convenienze” a lotte durissime e ad entrare nelle organizzazioni del movimento operaio. Fra il 1880 e il 1890 assistiamo in Italia ad un’ondata di lotte che danno vita alle prime associazioni e organizzazioni operaie: leghe, casse di mutuo soccorso, sindacati, camere del lavoro, il partito socialista stesso nacque nel 1892. Particolarmente nelle campagne il movimento fu molto attivo e vide un’alta partecipazione femminile. Il primo sciopero delle mondine fu quello a Molinella nel 1883 per ottenere un piccolo aumento salariale. Tre anni dopo fu la volta delle mondariso di Medicina, con rivendicazioni analoghe. A Monselice lo sciopero venne represso nel sangue: tre mondine furono uccise e altre 11 gravemente ferite. Nella bassa padana le mobilitazioni costrinsero i padroni delle risaie a ricorrere al crumiraggio organizzato. Chiamarono dal ferrarese e dalla Romagna altre mondine a sostituire le scioperanti, ma tale era il livello della lotta che anche le crumire si unirono allo sciopero e il padrone fu costretto alla ritirata. In seguito a questa lotta durissima 42 lavoratrici vennero processate e accusate di “attentato alla libertà del lavoro, per resistenza e oltraggio a pubblici ufficiali”.
Il coraggio straordinario di queste donne, che nella lotta collettiva erano riuscite a prendere fiducia nelle loro capacità e sul loro reale potere, non poteva non avere una ripercussione anche entro le quattro mura di casa. Il ridicolo di cui le si copriva per voler interessarsi di sindacato e “di cose da uomini” doveva necessariamente cedere il passo al rispetto e ad una emancipazione del modo di pensare di quei padri, mariti e fratelli altrettanto sfruttati. Il segnale più importante di questi mutamenti lo vediamo nell’affermarsi di forme di organizzazione del lavoro femminile, nonostante prevalga lo scetticismo dei lavoratori maschi e molte delle loro organizzazioni siano precluse alle lavoratrici.
E qui vediamo come l’oppressione della donna lavoratrice da parte degli uomini della sua stessa classe sociale abbia un carattere diverso rispetto alla classe borghese. I pregiudizi contro le donne dell’abate Rosmini e della classe dominante sono determinati dalla volontà di perpetuare il dominio borghese sulle donne e sulla classe lavoratrice; i pregiudizi degli operai e dei contadini, che spesso vengono espressi con grande brutalità, sono determinati dall’ignoranza in cui volutamente la classe dominante deve mantenere tutti i suoi sottoposti. I pregiudizi dei borghesi non possono essere superati perché sono la condizione, sul piano culturale, del loro dominio. I pregiudizi degli sfruttati invece, nonostante siano profondamente radicati, entrano in contraddizione con il loro bisogno di emancipazione sociale e possono essere superati nell’azione collettiva. La classe operaia ha un interesse comune nella liberazione dal giogo capitalista: nella lotta di classe impara a conoscere la sua forza e anche a superare la miseria culturale in cui la borghesia la vuole schiacciata.
Il ruolo del Partito socialista
La lotta di classe è dunque centrale. Il neonato partito socialista, con la sua principale dirigente femminile Anna Kuliscioff, concentra la sua attenzione proprio su questo tema. Nell’appello della Kuliscioff per le elezioni del 1887 leggiamo:
“È la prima volta che anche noi donne sentiamo il dovere di risvegliarci. È passato il tempo in cui la donna non attendeva che alla famiglia e viveva al di fuori di tutte le lotte che agitano la società moderna. La macchina, la grande industria, il grande magazzino, la trasformazione generale dell’economia sociale, ci ha strappate dal focolare domestico e ci getta nel vortice della produzione capitalista. Con ciò il centro di gravità dei nostri interessi è trasportato, di necessità dalla vita famigliare alla vita sociale. (…)
Ma quel che è peggio, è che la donna è sfruttata e martirizzata assai più del sesso chiamato forte. Il padrone fa il suo interesse; cerca di farci lavorare il più possibile e di pagarci il meno possibile, e siccome non trova resistenza, ogni giorno ne inventa una nuova. (…)
Gli ultimi scioperi delle filatrici e tessitrici del bergamasco e del cremonese hanno messo a nudo tutta la vergogna della nostra civiltà borghese. Nel bergamasco, dove su 17mila lavoratori nelle filature e tessiture 11mila sono donne e fanciulli, la giornata di lavoro in certi stabilimenti dura dalle 4 del mattino alle 8 di sera, e le lavoratrici sono pagate in media 43 centesimi al giorno, se non sono maritate: queste invece si pagano solo 40 centesimi, perché il padrone vuol garantirsi del danno delle interruzioni che possono derivare dalla gravidanza, dal puerperio, dalle malattie che talvolta gli tengono dietro. E taccio delle nostre compagne che rimasero nei campi, delle mondariso, il cui sangue, oltreché dall’eccesso di lavoro, è succhiato dalle sanguisughe che si appiccicano alle loro carni, è infettato dalla malaria che le sbatte gialle e rigonfie sui covili che servono loro da letticciolo. No, questa delle donne lavoratrici non è più una vita, è un martirio lento!“.5
Quest’appassionato appello era parte di una battaglia centrale del partito, ovvero di una legge di protezione del lavoro femminile e minorile, che venne approvato, seppur con forti peggioramenti rispetto alla proposta socialista, nel 1902, come risultato della dura lotta di classe. Tuttavia il partito socialista era attraversato da un forte dibattito relativo alla questione femminile. Nella misura in cui ci si limitava a rivendicare maggiori tutele per quei lavori che erano chiaramente disumani tutti erano d’accordo, approfondendo l’analisi emergevano forti crepe. La prima battaglia era contro l’economicismo, ovvero la tendenza della maggioranza dei dirigenti socialisti, compresa la Kuliscioff, a sostenere che una volta garantita l’emancipazione economica alle donne, e dunque eliminata la dipendenza economica dall’uomo, il problema della loro oppressione fosse risolto. In particolare Anna Maria Mozzoni, una borghese di Milano che aveva iniziato la sua attività proprio contro l’ipocrisia borghese che vuole la donna priva di autonomia, tentava un approccio più articolato, denunciando la necessità di una battaglia anche sul terreno culturale.
Nonostante la Mozzoni avesse aderito al partito socialista fin dall’inizio perché considerava la liberazione della classe operaia al centro del suo pensiero, non riuscì mai a collocare in chiave rivoluzionaria la questione femminile, limitandosi ad attaccare giustamente l’economicismo, ma senza tradurre in una proposta politica le sue intuizioni corrette. Complessivamente quindi il partito socialista non riesce a tradurre una propaganda corretta in un programma politico rivoluzionario, delegando spesso il suo intervento concreto alle leghe operaie e al sindacato, i quali avevano un programma ancora più moderato.
Sulla questione del voto alle donne, poi, si evidenzia ancora più chiaramente la non comprensione della questione. Nonostante non ci sia mai stato un formale schieramento contro il suffragio femminile, l’interesse era come minimo tiepido, tanto che Filippo Turati, segretario del partito, nel 1910 nel pieno della campagna per il suffragio femminile, in cui Giolitti affermò che concedere i diritti politici a tanti milioni di donne sarebbe stato un salto nel buio, sostenne che “l’ancor pigra coscienza politica” delle masse femminili non avrebbe portato grandi benefici e al contrario avrebbe rafforzato i partiti conservatori. Sebbene questa affermazione corrispondesse forse alla situazione del momento, non era certo di stimolo a fare un lavoro per svegliare la “pigra coscienza”. Il voto del Psi in parlamento a favore del suffragio femminile rappresentava quindi più una petizione di principio, corretta ma astratta, che non una reale volontà di impegnarsi a fondo in questa lotta.
La Rivoluzione d’Ottobre e il Partito comunista
Un apporto decisivo a chiarire la situazione e a far emergere posizioni più avanzate l’ebbe certamente il dibattito internazionale del movimento operaio. Cominciavano a circolare gli articoli di Clara Zetkin sulla questione femminile anche in Italia e l’arrivo della Prima guerra mondiale fece precipitare le contraddizioni nei partiti socialisti. Alla propaganda in difesa degli operai seguì una capitolazione totale agli interessi delle borghesie nazionali. Quasi tutti i partiti socialisti della Seconda internazionale votarono a favore dei crediti di guerra avallando il massacro di quegli stessi milioni di operai di cui volevano farsi paladini. Lenin nel 1914 si distingue in questa orgia patriottarda denunciando la viltà dei partiti socialisti e lanciando una nuova internazionale che si prefiggesse l’obiettivo della rivoluzione socialista e i cui sostenitori dovevano rompere con quei dirigenti socialisti che avevano tradito la causa proletaria. La rivoluzione d’ottobre nel 1917 diede impulso alla nuova internazionale e all’avanzamento del dibattito nei partiti socialisti che si trovarono costretti a prendere posizione su quell’evento di straordinaria importanza. Fra il 1920 e il 1921 dalla scissione dei partiti socialisti nacquero i partiti comunisti e la Terza internazionale che si proponeva di conquistare il potere a livello mondiale estendendo quindi l’esperienza sovietica a tutto il mondo e in particolare in Europa dove c’era un grande fermento rivoluzionario.
Non è questa la sede per un approfondimento di quei grandi eventi e del loro riflesso in Italia. Ci interessa però sottolineare che questi avvenimenti ebbero un grande effetto nel dibattito sulla questione femminile in Italia. Per la prima volta la prospettiva comunista sulla liberazione della donna aveva un impulso sufficiente a formare un gruppo di quadri dirigenti capaci di portare avanti quella battaglia.
Nel partito socialista si consolidò quell’opposizione che andò poi a formare il partito comunista. Particolarmente i compagni e le compagne che diedero vita all’esperienza dell’Ordine Nuovo a Torino si posero l’obiettivo cosciente di applicare l’esperienza sovietica alla situazione italiana e infatti si trovarono a dirigere l’occupazione delle fabbriche a Torino e un movimento rivoluzionario nel 1919-20 su scala nazionale, noto come il biennio rosso.
In questo clima si formarono le dirigenti comuniste che scrissero le pagine più belle e profonde del movimento operaio sulla liberazione della donna. La principale dirigente dell’Ordine Nuovo era Camilla Ravera, lo slogan che sintetizzava il programma del gruppo, “la donna libera dall’uomo, tutti e due liberi dal capitale”. Il terreno di intervento erano le lotte operaie, ma non più con l’atteggiamento paternalistico di chi difende i miseri sfruttati, bensì promuovendo il protagonismo operaio, formando quadri operai, e conquistando gli operai alla causa del comunismo. In questa ottica cresce l’intervento fra le lavoratrici e Gramsci, direttore dell’Ordine Nuovo, affida a Camilla Ravera la cura di una rubrica settimanale del giornale dedicata alla questione femminile, La tribuna delle donne.
In questo spazio vengono pubblicati gli articoli della Zetkin, della Kollontaj, della Luxemburg, dei principali dirigenti sovietici, i resoconti sulla situazione in Unione Sovietica sull’evoluzione della lotta per la liberazione della donna durante la rivoluzione. Oltre a tutto questo c’è il materiale di agitazione per il lavoro fra le lavoratrici che ha un solido impianto teorico perché anche in articoli brevi si denuncia e si dà la giusta misura dell’oppressione femminile.
La Ravera insiste su tutti gli aspetti, anche più privati della vita quotidiana, in cui si manifesta l’ideologia borghese radicata nella classe operaia e anche “tra gli stessi compagni”; denuncia lo squallore della vita della casalinga, la fatica disumana a cui sono costrette le lavoratrici tra la casa e la fabbrica, denuncia la brutale miseria fisica e morale della maggioranza delle famiglie di fronte alla quale “tutta la fraseologia borghese sulla libertà, sull’amore, sulla famiglia, sopra i rapporti tra genitori e figliuoli, diventa tanto più nauseante“6.
La chiarezza teorica permette alle compagne dell’Ordine Nuovo di avere una posizione avanzata anche sulla maternità. Si denuncia l’ipocrisia sulle gioie della maternità, per affermare che per le lavoratrici la maternità è una disgrazia e che fintanto che la società non ne riconoscerà il valore sociale e non se ne accollerà i compiti deve essere consentito alla donna di accettarla o rifiutarla. Per la prima volta si afferma quindi il diritto di aborto. Questa coraggiosa posizione, in seguito alla degenerazione stalinista, non venne più ripresa dal partito comunista del dopoguerra e si dovette attendere lo sviluppo dei movimenti femministi alla fine degli anni ’60.
Nella Tribuna delle donne si pone l’accento sull’importanza dell’emancipazione della donna come leva per l’emancipazione anche dell’uomo. In occasione delle mobilitazioni dei reduci di guerra contro l’occupazione femminile, la Ravera non perde occasione per intervenire e denunciare la cultura patriarcale che vuole l’uomo capo indiscusso della famiglia e la mercificazione del matrimonio e del rapporto di coppia che costringe gli individui ad un brutale rapporto economico per il sostentamento reciproco.
E ancora denuncia la schiavitù del capitale nella miseria della vita privata:
“Schiavo del capitale, l’uomo, corrotto dalla sua stessa schiavitù, cerca di prendere la rivincita soggiogando la donna, sfruttandola e martirizzandola. Estenuato da un lavoro senza gioia e senza ideale, l’uomo cerca l’oblio nell’alcool, nella crapula; la donna custode del focolare, ne è sempre la vittima. È la donna che prepara la carne da cannone, la carne da sfruttare, la carne da piacere. La donna non diventerà libera che quando l’uomo sarà libero“.7
Il partito comunista di Gramsci e Bordiga, nato dalla scissione di Livorno nel gennaio del 1921, si apprestava su queste basi teoriche a costruire il lavoro fra le donne ben consapevoli delle difficoltà: il partito aveva 1200 sezioni a livello nazionale e 96 commissioni femminili, responsabili del lavoro fra le lavoratrici, le compagne iscritte erano in tutto 400 e dal 1922 si dotarono di un periodico, La Compagna, che aveva 15mila copie di tiratura.8
Sconfitta e fascismo
Il fascismo schiacciò sul nascere tutta questa esperienza. Già nel 1921 il numero delle sezioni fasciste passa da poco più di 300 ad oltre mille. Gli attacchi delle squadracce nei primi quattro mesi del 1921 vedono 102 morti sul campo. In sei mesi vengono saccheggiate o incendiate 59 case del popolo, 119 Camere del Lavoro, 141 fra circoli socialisti e comunisti. Le organizzazioni del movimento operaio vengono ridotte al lumicino e poi costrette alla clandestinità, le condizioni della classe lavoratrice peggiorano verticalmente.
Nel 1927 i salari femminili vengono ridotti alla metà di quelli maschili, che già avevano subito una forte riduzione. In uno stabilimento meccanico che produce apparecchi di precisione il salario maschile va da un massimo di 4 lire all’ora a un minimo di 2,50, mentre le donne vengono pagate 1 lira e 50. Nelle campagne i braccianti maschi ricevono 9 lire a giornata, le donne non riescono ad andare oltre le 5 lire.
Iniziò una campagna sulla prolificità delle donne il cui ruolo era stare a casa a fare figli. Nel 1927 venne proibito alle donne di insegnare in alcune facoltà universitarie e nei licei, poi la cosa si estese ad alcune materie negli istituti tecnici e nelle scuole medie, infine vennero raddoppiate le tasse alle studentesse. Il fascismo ereditò il codice precedente del 1865, nel quale l’uomo era considerato il capo indiscusso della famiglia, al quale spettava ogni decisione su moglie e figli e anche da separato o da morto, tramite il testamento, faceva valere la sua volontà; la donna, eterna minorenne, doveva giurare fedeltà assoluta e l’adulterio era punito con due anni di reclusione, ovviamente l’uomo era libero di tradirla come voleva. A questa legislazione reazionaria il fascismo aggiunse una norma ulteriore: l’articolo 587 sul delitto d’onore, secondo il quale chiunque uccidesse la moglie, la figlia o la sorella per difendere “l’onore suo o della famiglia” aveva diritto alla riduzione di un terzo della pena. Questa norma, insieme a quella che considera lo stupro un delitto alla morale e non alla persona, è stata abolita solo negli anni ‘80.
Tra il 1921 e il 1936 la percentuale di donne che svolgeva attività extradomestiche passò dal 32,5% al 24%, sebbene in alcuni settori i bassi salari e l’assenza di qualifiche incentivavano l’assunzione di manodopera femminile, checché ne pensasse l’ideologia fascista. Anzi a partire dal 1936 si ebbe anche un aumento che portò le donne con una occupazione, secondo il censimento di quell’anno, ad essere 5 milioni e 247mila. Con la Seconda guerra mondiale l’occupazione femminile crebbe ulteriormente perché le donne sostituivano gli uomini al fronte; analogamente crebbe anche il loro ruolo nella società e successivamente nella lotta contro il fascismo.
Gli anni della guerra sono durissimi, la fame e la miseria mettono a dura prova la classe operaia italiana e minano la stabilità sociale. A Torino gli operai lavorano dalle 10 alle 11 ore al giorno. Su 150mila operai 40mila sono donne, i bombardamenti hanno distrutto o danneggiato 25mila case, decine di migliaia di lavoratori sono sfollati nell’entroterra. La situazione è tale in tutte le principali città. Gli alimenti e la legna per il riscaldamento sono razionati. I prezzi al mercato nero salgono vertiginosamente: nel ’43 il burro passa da 27 a 160 lire al chilo, il riso da 2 lire e 50 a 25 lire e la farina da 1 lira e 80 a 12 lire. Con le tessere (cibo razionato dalle autorità) un operaio di Biella nel gennaio del ‘43 mangia per 1000 calorie e siccome il grosso dell’alimentazione viene tenuta per i bambini si capisce bene che le masse erano alla fame. I padroni stessi reclamano un aumento del cibo distribuito con le tessere perché cala la produttività, gli operai e le operaie sono sempre malate. Racconta un’operaia di Torino:
“Avevo sempre fame, anche perché quel poco che c’era lo lasciavamo sempre ai bambini. Ma io sono sempre venuta a lavorare, anche quando mi sentivo male. Per la debolezza avevo le mie cose irregolari, un mese mi saltavano poi magari mi venivano ogni quindici giorni. Io ero fortunata, perché non avevo mai dolori, ma una mia compagna di lavoro quando le venivano le sue cose non riusciva a reggersi in piedi. Ma dai, non venire in quei giorni… le dicevamo noi. Lei aveva una gran paura di essere licenziata. Era sola, con un bambino e senza marito.”9
Intanto iniziavano a giungere le notizie delle sconfitte militari sul fronte e sempre di più era visibile l’indebolimento del regime. Le operaie che avevano i mariti in Russia venivano ormai considerate vedove. Si davano per certe le notizie secondo le quali i soldati italiani non avevano abbastanza per difendersi dal freddo dell’inverno russo e che durante la ritirata i tedeschi avevano requisito i camion e gli italiani erano costretti alla ritirata a piedi: chi non ce la faceva restava lì, si congelava e moriva.
Nel gennaio del 1943 appare una lettera di un’operaia su un giornale sindacale fascista: “Faccio lo stesso lavoro pesante che faceva l’operaio che ho sostituito. Ma lui guadagnava 40 lire al giorno ed io ne prendo solo 23. Me ne sapete spiegare la ragione?”. Sul giornale non c’è traccia di risposta.
Gli scioperi del ’43
In questo clima scoppia la ribellione, in piena clandestinità si organizzano gli scioperi del marzo 1943, i primi dopo un lungo silenzio durato oltre vent’anni.
A Torino si chiede un aumento dell’indennità di carovita e il pagamento a tutti delle 192 ore di straordinario che venivano pagate solo ai capifamiglia sfollati.
A Mirafiori lo sciopero deve cominciare alle 10,00 quando, come tutte le mattine, suona la sirena dell’allarme. Ma l’allarme quel giorno non suona e sono le operaie con pochi ma chiari cenni e un gran lavorio fra i reparti a far partire ugualmente lo sciopero. Analogamente le agitazioni si diffondono a macchia d’olio in tutto il Nord. Si sciopera alla Lancia, alla Michelin, alla Manifattura Tabacchi. Alla fabbrica Picco di Vegliomosso sono le donne a dare il via allo sciopero. Interviene la polizia e due vengono arrestate. Immediatamente i 500 operai del vicino lanificio entrano in sciopero in solidarietà, la lotta si estende e i padroni e i loro amici fascisti capiscono che è meglio concedere qualcosa: arrivano gli aumenti salariali e gli arresti vengono ritirati.
Alla Borletti di Milano sono le donne del reparto spoletteria che danno il via agli scioperi il 25 marzo. Alla Falck durante lo sciopero gli squadristi fascisti entrano nella fabbrica con i manganelli, ma vengono respinti dagli operai. Al cotonificio di Abbiategrasso 700 operaie inferocite mettono in fuga i capi fascisti accorsi per reprimere lo sciopero. Anche a Milano lo sciopero è un successo: la Pirelli, la Face Bovisa, la Caproni, la Brown Boveri entrano tutte in agitazione.
Ecco le valutazioni del fascista Farinacci, stretto collaboratore di Mussolini che a lui si rivolge: “… Se ti dicono che il movimento ha assunto un aspetto esclusivamente economico, ti dicono una menzogna… Il partito è assente e impotente. Ora avviene l’inverosimile. Dovunque nei tram, nei caffé, nei teatri, nei cinematografi, nei rifugi, nei treni, si critica, si inveisce contro il Regime e si denigra non più questo o quel gerarca, ma addirittura il Duce. E la cosa gravissima è che nessuno più insorge. Anche le Questure rimangono assenti, come se l’opera loro fosse ormai inutile. Andiamo incontro a giorni che gli avvenimenti militari potrebbero far diventare più angosciosi…“.10
Il regime era ormai segnato. Le mobilitazioni del marzo avevano sostanzialmente vinto e soprattutto avevano dato gran fiducia alle masse oppresse.
Come è noto dalle pagine della storia Mussolini viene arrestato il 25 luglio del 1943. Immediatamente, già nella notte e poi il giorno successivo si moltiplicano le manifestazioni di giubilo e gli scioperi. Allo jutificio della Montecatini di Ravenna le operaie, quando sanno che Mussolini è caduto, convocano uno sciopero per il rilascio di una loro compagna di lavoro arrestata perché aveva protestato contro i ritmi di lavoro. Tutti leggono nella caduta di Mussolini la fine del regime e della guerra e quindi vedono giungere il momento del riscatto.
Ma non sarà così. Badoglio, capo del nuovo governo nominato dal re, avverte che “sono vietati gli assembramenti. La forza pubblica ha l’ordine di disperderli inesorabilmente.” Il capo di Stato Maggiore ordina di sparare ad altezza uomo. A Bari il 27 luglio l’esercito spara su una manifestazione: 23 morti e 70 feriti. A Reggio Emilia il giorno dopo analoga situazione, una donna rimane uccisa.
E la guerra continua. E cresce però anche l’insubordinazione fra le masse. Prova ne è quanto accade fra le mondine nel ‘43 e il ‘44. In Emilia migliaia di donne partivano per il Piemonte per la monda del riso: per 40 giorni acqua fino al ginocchio, curve sotto il sole a liberare le piantine di riso dalle erbacce per poi trapiantarlo. In quel periodo c’era una vero e proprio arruolamento. Nell’estate del ’43 ci sono sempre meno donne disponibili. Nel ’44 i padroni chiedono 10mila donne e un migliaio di uomini. Ne partono 300. E anche quelli che partono creano qualche problemino; così strillano i padroni sui giornali dell’epoca: “le mondine immigrate influenzate da una accentuata propaganda antinazionale hanno in più parti scioperato, chiedendo aumenti di paga e miglioramenti del vitto“. E la lotta paga: le spese di viaggio diventano a carico del padrone, la paga giornaliera salirà a 35 lire (più di quello che guadagna un’operaia alla Fiat) e infine pane, formaggio e marmellata per il viaggio di ritorno!
La guerra partigiana e la questione femminile
Dopo l’8 settembre del 1943 l’esercito italiano è in piena smobilitazione e inizia la guerra partigiana. Si formano i Gruppi di difesa della donna, un’organizzazione clandestina per l’assistenza ai combattenti della libertà, con il compito di organizzare manifestazioni e scioperi nelle fabbriche e atti di sabotaggio alla produzione bellica. Non possiamo entrare qui nei dettagli di quella vicenda, basti dire che l’ambiente di protagonismo delle masse femminile che abbiamo visto crescere nei mesi precedenti ha trovato nella lotta partigiana una chiara espressione. E a dimostrazione di come la lotta collettiva nobilita l’essere umano, vediamo un gran circolare in questo periodo di libri clandestini fra la classe lavoratrice, uomini e donne. Migliaia di lavoratori imparano a leggere e scrivere nei circoli clandestini del Pci o da soli, avidi di migliorare il loro livello culturale, consapevoli, come sempre di più iniziano ad essere, del loro ruolo nella società. Nella misura in cui le donne combattano a fianco degli uomini, vengono sempre di più viste da questi ultimi come loro pari e vengono pertanto coinvolte in quelle letture, non solo politiche, che tanto peso ebbero nel formarsi di una coscienza rivoluzionaria, come ben testimoniano i racconti delle operaie che con grande fatica leggevano, imparando a farlo, La Madre di Gorki o Il Tallone di ferro di London: non più i romanzetti rosa consentiti dal regime, ma storie di lavoratori e di oppressi, in cui i lettori si identificavano maturando i loro desideri di rivolta.
Inoltre nella lotta partigiana le donne sono importanti e molto utili: hanno maggior libertà di circolazione, a loro non è vietato andare in bicicletta, e destano meno sospetti nei fascisti. Pertanto vengono impiegate massicciamente per il trasporto di messaggi, armi e attrezzature varie fra i vari nuclei delle brigate partigiane: le famose staffette. Un lavoro durissimo ed estremamente pericoloso che coinvolge migliaia di donne. Riportiamo qui alcuni passaggi di un resoconto di una partigiana dell’epoca:
“Fino a due anni prima una ragazza non poteva uscire da sola, la sera. Era uno scandalo se lo faceva. Poi, con la Resistenza, chi ci badava più a queste cose? Se dovevi uscire, uscivi e nessuno ti diceva niente. Sembrava naturale. Non pensavamo alla parità dei diritti con gli uomini, ma volevamo certe libertà che prima non avevamo mai avuto. Tra noi si discuteva anche. Ricordo che una volta un gruppo di gappisti mi incaricarono di recarmi al Comando. Come arrivai, i compagni cominciarono a rimproverarmi perché avevo deciso io da sola di prendere contatto con quel gruppo. Allora ai compagni glielo dissi chiaro e tondo: ‘Tu sei il comandante e puoi anche rimproverarmi. Però sappi che tu hai bisogno di me… questo sia chiaro, perché voi, senza di noi staffette non fate niente, ma proprio niente’”11.
Ancora una volta vediamo come le condizioni materiali e la lotta generale dei lavoratori e delle lavoratrici mutano le coscienze, le relazioni culturali e dunque anche i rapporti fra i sessi: dall’oscurantismo più becero si è passati in poco tempo a quanto sopra descritto.
E fu chiaramente un fenomeno di massa: 75mila le donne appartenenti ai Gruppi di difesa, 35mila le partigiane, 4.563 tra arrestate, torturate e condannate, 623 rimaste uccise e 2.750 deportate in Germania.12
Questo movimento, la Resistenza, rappresentò la lotta rivoluzionaria delle masse oppresse, classe lavoratrice e contadini, non solo contro il nazifascismo, ma contro il sistema capitalista che ne fu il responsabile. Le masse aspiravano ad instaurare un ordine nuovo, il loro protagonismo, la loro abnegazione erano determinati dalla volontà di farla finita con i padroni, “di fare come in Russia, dove comandano gli operai e i padroni non esistono più”.
Non fu così. In Russia, sebbene non ci fossero più i padroni, neppure comandavano gli operai. La burocratizzazione di quell’apparto statale aveva avuto pesanti effetti su tutti i partiti comunisti, particolarmente su quello italiano il cui dibattito interno era stato sostanzialmente azzerato dalla clandestinità imposta dal fascismo.
Fine della Resistenza e suffragio universale
La linea non era più la presa del potere, la rivoluzione mondiale, ma “la via italiana al socialismo”, come la svolta di Salerno (1944), operata da Togliatti, suggellò. Appena rientrato in Italia dall’Urss, Togliatti dà la massima disponibilità a Badoglio perché il Pci collabori alla formazione del “primo governo dei partiti” e a costruire la democrazia borghese in Italia.
Il dopo ‘45 fu un duro risveglio per i partigiani, non privo di conflitti anche sanguinosi: consegnare le armi, tutti a casa, potere alla Costituente; tutto ciò non era precisamente quello che si aspettavano.
La classe dominante terrorizzata dall’ascesa della lotta di classe doveva puntare sul coinvolgimento del Pci per far mostra di un’autentica volontà di rinnovamento, che nella sostanza permettesse alle forze della reazione di riorganizzarsi. Il personale dell’apparato statale rimase intatto, molti semplicemente cambiarono tessera, dal partito fascista alla Democrazia cristiana. Il punto di equilibrio che si trovò in quel contesto fu la Carta costituzionale, che non rappresentava le aspirazioni democratiche della borghesia e dei suoi partiti, bensì parte delle concessioni necessarie per far rientrare nei ranghi la classe operaia in armi.
Queste sono le condizioni che hanno portato alla conquista del diritto di voto alle donne nel 1945. Le masse aspiravano alla rivoluzione socialista, non trovarono una direzione politica nel Pci che li guidasse al potere e venne loro servita la Costituzione e il suffragio universale.
Parte del grande protagonismo delle donne durante la resistenza viene raccolto nell’Udi (Unione delle donne italiane), un’organizzazione legata al Pci che sposa un’impostazione riformista della questione femminile all’interno del quadro capitalista e della famiglia tradizionale.
Nonostante, in molti discorsi dell’epoca, Togliatti parlasse della donna, dei suoi diritti, della necessità di lottare per la parità con l’uomo, nella sostanza queste parole rimanevano lettera morta, nella misura in cui una legislazione che andasse incontro a quei temi sarebbe entrata in conflitto con la Dc e con il “mondo cattolico” che assolutamente il Pci non voleva spaventare.
Il lavoro del partito e delle iscritte era quindi prevalentemente orientato nella lotta sindacale per la protezione delle lavoratrici, dove effettivamente c’erano sfruttamento ed enormi discriminazioni. Questa lotta però non doveva mai varcare i limiti delle compatibilità capitalistiche, perché la “via italiana al socialismo” prevedeva necessariamente, secondo i vertici del Pci, una fase di rafforzamento della democrazia borghese.
La campagna, condotta dai democristiani, visceralmente anticomunista che dipingeva il marxismo come portatore della peggiore dissolutezza morale induceva il Pci ad una posizione difensiva. Invece di contrattaccare denunciando l’ipocrisia della Dc e della Chiesa cattolica, con l’obiettivo di avviare uno scollamento fra le masse oppresse che ancora avevano fiducia in queste istituzioni, esaltavano i valori “alti” della famiglia e altri temi cari alla cultura cattolica, nel tentativo, ovviamente fallimentare, di ingraziarsi le autorità cattoliche.
Dopo aver votato il famoso articolo 7 della Costituzione, che garantiva la validità del concordato stipulato nel 1929 tra il Vaticano e lo Stato fascista con i relativi privilegi per la Chiesa cattolica, Togliatti si vanterà che “questo voto ci garantisce un posto al governo per i prossimi vent’anni”. In realtà ben presto la borghesia passerà alla controffensiva, cacciando il Pci dal governo nel 1947 e lanciando una dura offensiva antioperaia.
Gli anni del dopoguerra sono gli anni della ricostruzione del boom economico e parallelamente della repressione violenta delle lotte operaie che non si rassegnavano alle mutate condizioni.
Dovettero passare circa vent’anni prima che il movimento operaio si presentasse con vigore rinnovato a riprendersi il posto che gli spetta nello scenario politico.
Anni ’60: brevi note sul femminismo anglo-americano
La società italiana negli anni ’60 era profondamente mutata rispetto all’immediato dopoguerra. La ricostruzione del paese, una forte industrializzazione, particolarmente del settentrione, e una costante proletarizzazione dei contadini, il che significava un flusso migratorio che stravolgeva le città, tutti questi fattori portavano un aumento della ricchezza prodotta e anche un aumento delle contraddizioni sociali. L’imponente crescita economica non aveva significato altrettanti miglioramenti delle condizioni di vita della classe operaia, anzi la manodopera immigrata era sottoposta ad uno sfruttamento, fuori e dentro la fabbrica, disumano. Questi, molto sinteticamente, gli elementi di fondo che hanno scatenato la rabbia della classe lavoratrice, prima con alcune battaglie molto dure (ad esempio, le lotte di diverse categorie sul contratto del ‘62) in cui si coglieva un’ambiente di riscossa, poi con una lotta generalizzata, l’autunno caldo del 1969, in cui si poneva nuovamente la questione del potere.13
In questo clima riaffiora anche la lotta per la liberazione della donna.
Iniziano a circolare fra gli intellettuali e il movimento studentesco i libri e le analisi provenienti dal femminismo americano e non solo. In particolare Betty Friedan, con il libro La mistica della femminilità del 1964, suscita grande scalpore perché fa crollare il mito della felice realizzazione femminile nella famiglia americana, successivamente definita da un’altra femminista americana, Kate Millet, “il comodo campo di concentramento”. La Friedan è una intellettuale borghese, che a partire dalla sua esperienza, coglie la frustrazione delle donne della sua classe: nel 1920 la percentuale delle donne che frequentavano il college era del 47%, alla fine degli anni ‘50 era del 35% e il tasso di natalità cresceva costantemente e calava invece quello dell’occupazione femminile. Nel suo libro denuncia quanto le donne come lei si fossero realmente convinte che la loro massima aspirazione fosse sposarsi, abitare in una bella casa e mettere al mondo quattro figli, vergognandosi quasi di ammettere delle insoddisfazioni e delle frustrazioni. Su queste basi aumentavano le donne con crisi esistenziali e psichiche e che si rivolgevano alle cure psicologiche o psicoanalitiche. La Friedan promuove un’organizzazione, la Now (National Organization of Woman) che si limita a rivendicare il diritto ad una professione e alla carriera e una maggiore presenza delle donne nelle istituzioni, nei consigli di amministrazione delle aziende, ecc. Il problema del lavoro domestico viene risolto proponendo una sua razionalizzazione, facendo uso di elettrodomestici, surgelati e liofilizzati. Altre intellettuali si spinsero decisamente più in là nella critica del sistema. Juliet Mitchell sosterrà che “finché non ci sarà una rivoluzione nella produzione, la situazione lavorativa determinerà la posizione della donna in un mondo di uomini“, pur concentrando la sua attenzione sulla critica dell’ideologia patriarcale. Kate Millet sviluppa un’analisi storica sulla necessità della “rivoluzione sessuale” a partire dalle considerazioni di Engels sull’abolizione della famiglia.
Questi e molti altri scritti, diversi tra loro, alcuni dei quali cercavano, senza approdarvi, un’interpretazione marxista e rivoluzionaria della questione femminile, ebbero certamente un’influenza sulle coscienze dell’intellighenzia di sinistra e nel movimento studentesco. Quello che però permise a queste formulazioni di uscire dai circoli ristretti degli intellettuali, fu il fermento generale della società, l’ascesa del movimento operaio e la convinzione generale che in quel clima di mobilitazione si potesse giungere realmente ad un superamento della società capitalista.
Il movimento studentesco in Italia
Nel 1967 inizia il movimento di occupazione delle università, a partire da quella di Trento, ma che si estenderà a livello nazionale nelle università e nelle scuole superiori. In ogni situazione la polizia adotterà una politica di repressione dura, si succederanno sgombri, scontri di piazza, arresti dei dirigenti del movimento e vere e proprie battaglie campali, la più famosa a Valle Giulia, Roma, il primo marzo del ‘68, in seguito alla quale ci furono quattro arresti e 228 fermi.
Il movimento studentesco getta benzina sul fuoco già acceso nel movimento operaio. Il 10 aprile del 1968 le operaie della Marzotto di Valdagno iniziano uno sciopero durissimo contro l’aumento dei ritmi di lavoro, il 19 aprile abbattono la statua del conte Marzotto, ne seguono ben 47 arresti. Il primo maggio dello stesso anno gli studenti parleranno al comizio sindacale di piazza S. Giovanni a Roma. Nel giugno successivo a Trento si terrà un convegno comune degli studenti e dei sindacati metalmeccanici. Contestualmente si moltiplicano gli scioperi in tutte le categorie, in tutto il paese, al sud mobilitazioni anche per la scarsità dell’acqua. Le rivendicazioni si moltiplicano e toccano gli interessi dei lavoratori dentro e fuori la fabbrica, contro le gabbie salariali, per il diritto alla pensione, sulla casa, per l’equo canone. L’aspetto più importante che emergeva era il carattere di questi scioperi: scioperi di massa che mostravano la volontà insurrezionale della classe lavoratrice contro il capitalismo e il controllo operaio sulle vertenze. Quest’ultimo aspetto rappresentava la principale preoccupazione delle burocrazie sindacali e dei padroni perché rappresentava la forma del potere operaio nei luoghi di lavoro e nella società che metteva in discussione l’esistenza stessa del potere borghese.
Il gruppo dirigente del Pci è preoccupato da questa ascesa del movimento, la sua linea non è la presa del potere per la trasformazione rivoluzionaria in senso socialista, bensì una lenta transizione per via parlamentare, la già citata “via italiana al socialismo”. La sua politica moderata tutta orientata alle istituzioni e a non incrinare i rapporti con la Dc, farà sì che le mobilitazioni si esprimeranno attraverso la nascita e crescita di un vasto arco di gruppi extraparlamentari, la cosiddetta Nuova sinistra, che si formerà prevalentemente proprio a partire dalle lotte studentesche.
In questo ambito, i collettivi studenteschi e i gruppi della Nuova sinistra, si forma un vasto arcipelago di collettivi e gruppi che pongono al centro della loro iniziativa la questione femminile, che in misura più o meno articolata rivendica la necessità della rivoluzione femminista. La caratteristica prevalente di questo femminismo è una sorta di rancore verso le organizzazioni tradizionali del movimento operaio, ma anche della nuova sinistra che parlano di rivoluzione, ma che snobbano o strumentalizzano la questione femminile, a partire dai rapporti fra compagni e compagne nella vita interna delle organizzazioni stesse. Da qui una esigenza ben radicata di quasi tutti i gruppi a costituirsi come collettivi separati di sole donne, vedendo in questa pratica l’unica possibile per permettere alle compagne di esprimere liberamente e autonomamente la propria personalità e le propria visione politica.
Proviamo qui a dare una descrizione, seppur sommaria, e una valutazione dei gruppi principali e del loro dibattito a partire dalla fine degli anni ’60.
Uno sguardo sul femminismo: il gruppo Demau
Il primo gruppo che definisce l’esigenza di una struttura autonoma nasce a Milano nel 1966, il gruppo Demau (demistificazione autoritarismo). Questo gruppo è impegnato prevalentemente sul terreno teorico e parte dalla critica a tutte le associazioni e movimenti femminili che si limitano a rivendicare l’emancipazione della donna e a rivendicare facilitazioni per inserirla nelle attività extra-familiari. Da questo presupposto si arriva ad opporsi al concetto di integrazione della donna nella società in quanto essa significa “immettere la donna nella società così com’è”, nella quale, secondo il gruppo, dominano i valori dell’autoritarismo maschile e “dell’inconciliabilità dei due ruoli prefissati”. Infatti, sostengono, anche nel mondo del lavoro i posti riservati alle donne sono sempre di serie B e alla bisogna le donne vengono licenziate per far posto agli uomini. Quanto spiegato da Marx sull’inevitabilità di questo fenomeno in un contesto capitalista (le donne rappresentano per il capitalismo parte della manodopera di riserva, come forma ulteriore di pressione verso il basso su salari e condizioni) non viene neppure preso in considerazione. La questione della rivoluzione socialista, che dovrebbe creare le condizioni per superare i ruoli prefissati dei due sessi e abolire la famiglia che inchioda la donna al suo, viene contestata dal gruppo Demau a partire dall’esperienza della condizione della donna in Urss: nonostante i mutati rapporti di produzione mutati, è tuttora di subordinazione all’uomo, vive la famiglia e le responsabilità sulla donna, che ne conseguono.
La presenza del modello sovietico infatti segnerà molto negativamente l’evoluzione del dibattito in molti di questi gruppi, perché la degenerazione stalinista, non compresa dalla maggioranza di essi, rappresentava la dimostrazione, ai loro occhi inappellabile, del fallimento del marxismo sulla questione femminile.
Il gruppo Demau, dunque, ritiene che per fondare su basi avanzate una teoria per la rivoluzione socialista, le donne autonomamente devono prendere coscienza del loro ruolo, analizzare tutti i campi della vita umana (teorizzazioni scientifiche, diritti giuridici, rapporti sessuali, rapporti familiari, lavorativi) per capire come in essi si manifesta l’oppressione dell’uomo sulla donna e partire da qui per elaborare una teoria che emancipi l’uomo stesso dalla sua condizione di oppressore e, da qui, l’umanità tutta.
Le questioni poste, come si può ben capire, sono di grande valore, ma sono messe a testa in giù, nella misura in cui non si comprende che le donne non possono elaborare una cultura nuova chiudendosi in una stanza, astraendosi dalla necessità di lottare con il movimento operaio tutto per il rovesciamento del capitalismo. Il gruppo infatti, tolte le altisonanti aspirazioni teoriche, partorisce dei topolini, per esempio l’opportunità di una equa redistribuzione fra i due sessi del lavoro di cura ed educazione dei figli.
Va detto, tuttavia, che queste teorizzazioni, che furono oggetto di dibattito su tante riviste dell’epoca e che coinvolsero molte intellettuali produssero risultati di cui ancora oggi vediamo i frutti, seppur sempre più risicati. E qui facciamo alcuni esempi. I libri pubblicati di pedagogia, in cui si criticava duramente il rapporto autoritario nella famiglia e nelle istituzioni nei confronti dei figli, permisero la formazione di operatrici della scuola dell’infanzia (nidi e materne), di cui si denunciava i limiti, su progetti educativi diversi, improntati al rispetto della creatività del bambino e al miglioramento delle sue capacità di apprendimento, se messo in condizioni di maggiore libertà.
Tutto il dibattito sull’autodeterminazione della donna, portò alla formazione di un settore significativo di medici a promuovere negli ospedali le pratiche del cosiddetto “parto dolce”, in cui la donna non era vittima delle angherie dei dottori, ma una persona che in piena autonomia viveva una esperienza esaltante, ma al tempo stesso anche molto drammatica, come quella di mettere al mondo un figlio. I collettivi di aiuto legale autogestito per aiutare le donne a divorziare e a trovare casa e lavoro e a rifarsi una vita senza dipendere dal marito, furono i punti di riferimento ideali che animarono tanti centri donna municipali. La nascita dei consultori familiari, che segui alle lotte dell’epoca, fu segnata da quei dibattiti che rivendicavano il superamento dei tabù sessuali e la prevenzione delle malattie attraverso un’operazione di sensibilizzazione capillare sul territorio.
Queste che furono senza dubbio delle conquiste sul terreno ideologico e della qualità della vita influenzarono i caratteri dello stato sociale conquistato in seguito alle lotte degli anni ‘70, ma nella misura in cui le risorse economiche e il potere politico erano ben saldi nelle mani della borghesia, queste conquiste avevano necessariamente un carattere transitorio e parziale, per cui mentre in alcuni ospedali si praticava il parto dolce, era contemporaneamente permesso (come lo è tuttora) ai medici di non praticare l’aborto nelle strutture pubbliche (obiezione di coscienza), per poi dichiarare la disponibilità nelle strutture private a prezzi altissimi. Tutte le sperimentazioni nelle scuole dell’infanzia per i cosiddetti progetti “dalla parte del bambino” furono progressivamente inariditi dalla scarsità di finanziamenti e portati alla loro sostanziale chiusura. Questi esempi rappresentano le contraddizioni fra una spinta enorme che veniva dal basso, dalla lotte di massa e le necessità del capitalismo e della sua ideologia che rimanevano dominanti.
Carla Lonzi e Rivolta femminile
Un altro gruppo, impegnato anch’esso sul terreno prevalentemente teorico, è Rivolta femminile, nato nel 1970, e che trova nella figura di Carla Lonzi le teorizzazioni più chiare ed estreme. Questo gruppo esaspera il tema del rifiuto dell’uguaglianza fra uomini e donne. Leggiamo nel suo manifesto:
“L’uomo è l’altro rispetto alla donna. L’uguaglianza è un tentativo ideologico per asservire la donna a più alti livelli. (…) Verginità, castità, fedeltà, non sono virtù; ma vincoli per costruire e mantenere la famiglia. L’onore ne è la conseguente codificazione repressiva.
Nel matrimonio la donna, priva del suo nome perde la sua identità significando il passaggio di proprietà che è avvenuto tra il padre di lei e il marito. (…)
Il divorzio è un innesto di matrimonio da cui l’istituzione esce rafforzata“14.
Questa posizione estrema, farà sì che il divorzio e, successivamente, il diritto all’aborto chieste dal movimento femminista, verranno considerate da Carla Lonzi e da una parte del gruppo concessioni allo scopo di rafforzare l’oppressione femminile. È ovvio che questa posizione estrema impedì alle teorie del gruppo di egemonizzare il femminismo italiano. Oltretutto, rifiutando, come molti gruppi, il concetto di organizzazione perché autoritaria e “maschile”, ogni collettivo che si richiamava a Rivolta femminile aveva posizioni e metodi di lavoro completamente autonomi, per cui rifiutava il concetto stesso di egemonia. Ciononostante, Carla Lonzi ebbe il pregio di affermare chiaramente le sue posizioni e trarre tutte le estreme conclusioni dal presupposto del separatismo e dell’antiautoritarismo. Non poteva avere molte epigone, ma rappresentò ugualmente un punto di riferimento teorico, e le sue teorie, magari in una riedizione un po’ sbiadita, le ritroviamo ancora oggi in settori del movimento anti globalizzazione che si rifanno a Toni Negri.
Carla Lonzi giunge addirittura a negare il valore di qualsiasi cultura, in quanto maschile e a rivendicare la deculturizzazione:
“La deculturizzazione per la quale optiamo è la nostra azione. Essa non è una rivoluzione culturale che segue e integra la rivoluzione strutturale, non si basa sulla verifica a tutti i livelli di una ideologia, ma sulla mancanza della necessità ideologica.”15
Da qui segue che la lotta per la liberazione della donna “vanifica il traguardo della presa del potere“16.
Per un periodo l’esperienza di riferimento della Lonzi è stata la comunità degli hippies, in cui, a suo dire, si annullavano le distinzioni sessuali nel comportamento quotidiano.
Va inoltre aggiunto che in una dei suoi scritti più importanti, Sputiamo su Hegel, chiarisce la sua posizione sul marxismo, approfondendo ulteriormente la critica del gruppo Demau. Infatti non è la sola esperienza dell’Urss a essere criticata, ma l’impostazione autoritaria del marxismo. Mentre Fourier delineava una società liberata da tutte le oppressioni in cui “ogni uomo potesse disporre di tutte le donne e ogni donna di tutti gli uomini”, Marx ed Engels insistevano sull’opportunità di riconferire un carattere privato ai rapporti umani, che semplicemente dovevano essere liberati dai vincoli economici. La concezione marxista viene rifiutata dalla Lonzi perché moralista e autoritaria in quanto non rivendica la libertà sessuale delle donne. Anche qui c’entra la cultura: le donne e gli uomini non hanno rapporti sessuali come gli animali, negarlo (cosa dalla quale Marx ed Engels ben si guardavano) significa negare le stratificazioni culturali degli esseri umani e che potranno evolvere solo in seguito all’abbattimento del capitalismo e al controllo di tutte le risorse da parte delle attuali masse sfruttate.
Ovviamente, nella misura in cui anche Lenin ebbe modo di esprimersi su questi concetti durante e dopo la rivoluzione, anch’egli, nella visione della Lonzi, concorre a dimostrare quanto il marxismo sia conservatore nella lotta contro l’ideologia patriarcale.
L’obiettivo di Rivolta femminile è dunque l’azione eclatante in cui le donne prendono coscienza di sé, come ben viene sintetizzato dalle conclusioni del manifesto del gruppo:
“Vogliamo essere all’altezza di un universo senza risposte. Noi cerchiamo l’autenticità del gesto di rivolta e non la sacrificheremo né all’organizzazione né al proselitismo“.
Lo strumento con il quale promuovere questa pratica è l’autocoscienza. Carla Lonzi, nei suoi scritti, chiarisce perfettamente ché cos’è. La Lonzi contrappone l’autoscienza alla “presa di coscienza”: attraverso quest’ultima, nei gruppi della sinistra, le donne si rendono conto della loro condizione di oppresse in quanto lavoratrici e in quanto donne per poi confluire nella lotta comune contro il capitalismo. L’autocoscienza invece significa “l’azzeramento della cultura“, la “separatezza” e il “partire da sé“17, ovvero le donne devono confrontarsi in piccoli gruppi, in modo autonomo, rifiutare la cultura perché maschile e a partire dalla propria esperienza di vita di donna trovare una unità di visione con le altre donne, senza alcuna imposizione di sorta.
Il metodo del piccolo gruppo e dell’autocoscienza venne praticato da praticamente tutti i gruppi femministi, magari con sfumature diverse, ma esprimendo questa concezione.
Queste teorie e questi metodi rappresentavano in realtà, dietro la loro apparente radicalità, una visione reazionaria della questione femminile. L’idea del rifiuto della cultura e del partire dall’esperienza individuale significa in realtà fare arretrare la propria azione basandola sulla sola esperienza individuale, rifiutando quella crescita della coscienza che è sempre il frutto più importante delle lotte e dei movimenti di massa
Ognuno di noi può emanciparsi dalle concezioni arretrate che la classe dominante ci impone solo unendo un percorso di presa di coscienza individuale al confronto collettivo e all’azione di massa per affossare il motore di quella cultura, la borghesia.
Rifiutare questa concezione significa far rientrare dalla finestra (l’autocoscienza) la subordinazione alla cultura dominante borghese che si vuole buttare fuori dalla porta (le altisonanti teorizzazioni rivoluzionarie). In questa luce capiamo il rifiuto di questo gruppo di porsi il problema della presa del potere e dell’organizzazione stessa delle proprie forze.
Il Cerchio spezzato e i collettivi romani
Fra i collettivi studenteschi che promossero la questione femminile, citiamo quello dell’università di sociologia di Trento, “Il cerchio spezzato” e i collettivi femminili del movimento studentesco romano. L’esperienza di Trento fa proprie, con alcune sfumature diverse, le concezioni di cui sopra. Qui forse più che altrove vediamo la rabbia delle studentesse nei confronti dei loro compagni di lotta. È di questo gruppo la denuncia dell’”angelo del ciclostile”, a dimostrazione di quanto non solo in casa (nel focolare), la donna viene considerata di serie B, ma anche nelle organizzazioni politiche: le donne parlano di meno in pubblico, temono di dire stupidaggini, e allora vengono coscientemente relegate dai loro compagni alle mansioni organizzative, agli aspetti finanziari, ai ciclostili, appunto, concependo questi terreni come quasi degradanti. Non c’è dubbio che in molti gruppi di sinistra dell’epoca vigesse un certo maschilismo e che da molti la cosiddetta rivoluzione sessuale, i nuovi costumi libertari contro il sistema fossero semplicemente un’occasione per superare l’angusta monogamia, e per di più con la giustificazione politica. Resta il fatto che la scelta separatista rappresenta una sconfitta, perché non si vedono gli strumenti con i quali fare una battaglia per una politica veramente rivoluzionaria sia sul terreno sociale che su quello ideologico.
I collettivi romani si distinguono dalle esperienze precedentemente descritte perché pongono al centro della loro analisi i sistema capitalista e si rifanno all’analisi di Engels sull’origine dell’oppressione della donna. Il loro dibattito è influenzato dalle analisi di Livio Maitan e della IV internazionale. Nell’analisi delle contraddizioni del capitalismo inseriscono correttamente la questione femminile, nei loro materiali però manca una critica serrata alle concezioni prevalenti del femminismo per far emergere le contraddizioni di quest’ultimo rispetto alle sue velleità rivoluzionarie e alle concezioni marxiste.
Purtroppo molte donne, prevalentemente studentesse, ma anche qualche lavoratrice, furono affascinate dalle teorie femministe perché in quegli anni mancava un partito che avanzasse una analisi autenticamente marxista e rivoluzionaria della questione femminile.
Il Pci manteneva una posizione conservatrice sulla questione femminile, rivendicava la tutela delle lavoratrici e dei lavoratori, l’ampliamento dello stato sociale, il tutto nell’ambito delle compatibilità con il sistema capitalista, del “quadro democratico”, come veniva definito. Questa posizione ha fatto sì che fossero altre le posizioni egemoni nel movimento. L’Udi stessa venne pesantemente influenzata dal femminismo, tant’è che nel corso degli anni ‘60 fu attraversata da un dibattito che la portò a sposare nel ‘78 le posizioni separatiste.
Il momento più alto in cui il Pci mostrò la sua subalternità alla Dc fu senza dubbio quando iniziò il dibattito sul divorzio.
Il divorzio e il ruolo del Pci
All’inizio del 1971 inizia il dibattito sull’approvazione definitiva della legge Baslini-Fortuna per il divorzio. Il Vaticano si è ovviamente espresso duramente contro questa legge e i cattolici iniziano una raccolta di firme per l’abrogazione della legge. Il Pci dipinge la situazione sociale a tinte fosche: in Grecia c’è stato il golpe dei colonnelli, nel dicembre del ’69 la strage di piazza Fontana, nel luglio del ’70 strage sui binari della stazione di Gioia Tauro, seguita dagli scontri, guidati dai missini, a Reggio Calabria per la scelta di Catanzaro capoluogo, nelle amministrative del ’71 cresce il Msi. Insomma in questo clima in cui, secondo il gruppo dirigente del Pci, la destra avanza, non si può spaccare il paese con un referendum su basi religiose. “L’intero gruppo dirigente comunista non ha dubbi, è concorde nel condividere la scelta della soluzione alternativa: appunto una revisione della legge Baslini-Fortuna“.18 Inizia una fitta serie di trattative semisegrete in cui emerge chiaramente che il Pci aveva dato la disponibilità a votare a Presidente della Repubblica un candidato della Dc (presumibilmente Moro) in cambio di una posizione dialogante sulla questione del divorzio che impedisse la celebrazione del referendum.
La strategia del Pci fu sconfitta su tutti i fronti: a Presidente venne eletto Leone, con i voti fascisti, e il referendum non fu scongiurato. Anzi, a dimostrazione di quanto i vertici del Pci non cogliessero affatto la situazione i cattolici furono sonoramente battuti da 19 milioni e 380mila votanti (il 59,26%). E anche sullo spostamento a destra della società venero duramente sconfessati. Nelle elezioni del 1975 il Pci veniva portato in trionfo dagli operai che cercavano in questo partito una guida politica al desiderio di cambiamento radicale: la Dc si attesta al 35,2%, perdendo il 3,6% dei consensi, mentre il Pci sale al 33,4% con un aumento del 6,2%. A Roma, Milano, Torino, Firenze, Venezia, Napoli, Perugia, Genova, Ancona, Cagliari e altre città il Pci è il primo partito.
Berlinguer è colto completamente di sorpresa: nelle manifestazioni di giubilo per il risultato elettorale le masse esultano. Sotto Botteghe Oscure, la sede nazionale del Pci, “migliaia di attivisti e simpatizzanti reclamano con icastica eloquenza: Enrico, il pugno! Berlinguer cerca allora di sorridere, ma non riesce a far meglio di una smorfia afflitta; agita invece un piccolo foulard, lo straccetto rosso offertogli da una bambina. (…) Mentre in strada gli slogan gridati ripetono ‘È ora! È ora! Potere a chi lavora! Vittoria, Roma Rossa!’”19.
Il Partito radicale diventa rivoluzionario?
In questo contesto altre forze tentarono di approfittare dell’immobilismo del Pci. Una di esse fu il partito radicale, il quale promosse nel 1969 una struttura, formalmente federata al partito radicale nota come Movimento di liberazione della donna (Mld). L’Mld aveva colto pienamente i mutamenti della situazione sociale derivati dalle lotte in corso. Per questa ragione avanza programmi e metodi di lotta, che, sul piano della fraseologia e della propaganda, appaiono molto a sinistra e certamente sulla questione femminile più a sinistra del Pci. Per esempio nella bozza di piattaforma dell’Mld si legge:
“La lotta per la liberazione della donna è parte essenziale della più generale lotta per un mutamento rivoluzionario nel senso di una società socialista e antiautoritaria“.20
Chiaramente l’Mld si candida a raccogliere quanto il Pci da una parte e il settarismo dei collettivi femministi dall’altra non riescono a raccogliere; rifiuta il separatismo e tutte le idee movimentiste anti-organizzazione. Nella sostanza le sue proposte non sono affatto rivoluzionarie: sul terreno dello sfruttamento economico propongono “la costruzione di un assetto produttivo, inteso come impresa collettiva, in cui il lavoro sia momento di autorealizzazione e non di alienazione“.21 Come superare l’ostacolo dovuto all’esistenza dei padroni, non è dato saperlo. La giustificazione ai ragionamenti volutamente confusi è data secondo gli estensori del documento dall’”assenza di una classe che possa assumersi il compito di realizzare il rinnovamento globale della società” e quindi dalla necessità di stabilire “obiettivi concreti che non costituiscano fughe in avanti rispetto ai problemi reali”. Questo nel bel mezzo dell’autunno caldo!
L’Mld quindi e il partito radicale non erano rivoluzionari, come forse qualcuno pensò all’epoca, ma usavano una fraseologia socialisteggiante al preciso scopo di allontanare il dibattito dal punto centrale: la presa del potere economico e politica da parte dei lavoratori. Alla luce di questo ragionamento vanno comprese le proposte anche molto avanzate che fece il gruppo. Dell’Mld fu la proposta di legge per la legalizzazione dell’aborto, la battaglia per la liberalizzazione degli anticoncezionali e la formazione di asili nido pubblici e anti-autoritari, come venivano definiti allora per rivendicare non dei parcheggi per i figli delle famiglie operaie, ma dei luoghi dove ci si prendesse cura dello sviluppo psicomotorio dei bambini.
I metodi di lotta dell’Mld erano le azioni eclatanti, la “disobbedienza civile di massa”22, e la raccolta di firme a sostegno delle leggi di iniziativa popolare, essi non potevano sfondare sul piano organizzativo fra le lavoratrici, anche se portarono un certo disorientamento, perché era l’unico partito a porre certe questioni.
Lotta femminista e le azioni violente
Il gruppo che però ebbe la maggior determinazione nel promuovere le azioni eclatanti e nell’estendere la sua influenza costruendosi come organizzazione su scala nazionale fu Lotta femminista. Il collettivo nasce con un altro nome (Movimento di lotta femminile) nel 1971 a Padova e Ferrara come risultato della decisione di separarsi dalle loro organizzazioni di provenienza (fondamentalmente Potere Operaio). Già nel corso dei mesi successivi le sedi del gruppo appaiono a Milano, Venezia, Verona, Modena, Reggio Emilia, Firenze, Napoli e Gela. Si definiscono femministe marxiste sostenendo che “lotta di classe o femminismo per noi sono una stessa cosa, dal momento che il femminismo esprime la ribellione di quella sezione di classe senza di cui la lotta di classe non può generalizzarsi, allargarsi e approfondirsi.”23
In realtà il gruppo rifiuta di applicare una interpretazione di classe della questione femminile, essendo strenuo sostenitore delle concezioni separatiste. L’obiettivo delle lavoratrici non è promuovere la lotta del movimento operaio contro il capitalismo, intrecciandola alla battaglia per la liberazione della donna, bensì quello di promuovere un movimento autonomo delle donne nel quale solo loro possono affrontare i temi specifici della questione femminile. Su queste basi il gruppo arriverà, in diverse occasioni, a scontri fisici in piazza contro gli uomini (compagni della sinistra tradizionale o extraparlamentare) che volevano partecipare alle manifestazioni delle donne con propri contenuti.
Inoltre il gruppo ritiene che per far avanzare la coscienza rivoluzionaria delle donne non si debba rivendicare il loro inserimento nel mondo del lavoro. Mariarosa dalla Costa, una delle “ideologhe” del gruppo, denuncia come le donne già lavorino a sufficienza in casa e che, come dimostra l’esperienza, le donne non si liberano affatto entrando nel mondo del lavoro. Da qui chiarisce come la lotta delle donne deve essere in primo luogo contro la sua oppressione all’interno delle mura di casa.
Su queste basi una delle rivendicazioni centrali di Lotta femminista è il salario al lavoro domestico, come misura per far avanzare, fra le casalinghe, la coscienza del loro sfruttamento e della necessità di “radicalizzare lo scontro” fino all’abolizione del lavoro in casa.
In realtà in questa analisi manca l’elemento essenziale ovvero il fatto che, per quanto si potesse promuovere un movimento di massa delle casalinghe, ognuna di loro avrebbe certamente accresciuto il suo livello di coscienza del suo sfruttamento, ma sarebbe pur sempre rimasta da sola in casa ad applicare le sue nuove idee. Certo, come abbiamo spiegato sopra, non è il lavoro salariato a liberare la donna, ma esso è decisivo perché le permette di partecipare a pieno titolo nella lotta di classe, alla pari con i suoi compagni di lavoro. È necessario quindi partire da lì per promuovere la lotta contro il capitalismo e il patriarcato. Infine la rivendicazione del salario alle casalinghe, indipendentemente dalle intenzioni delle sue promotrici, andava nella direzione di legittimare e istituzionalizzare il lavoro domestico, invece di far crescere l’idea della necessità di una sua socializzazione nell’ambito di una società socialista.
L’impostazione di Lotta femminista, che chiaramente risente dell’influenza dell’autonomia (Potere Operaio), è tutta improntata allo sforzo volontaristico, che con slogan e metodi molto aggressivi volevano istillare l’istinto di rivolta, ma che offrivano come unico terreno di mobilitazione la partecipazione ai cortei. In una occasione promossero anche uno sciopero del lavoro casalingo, di cui, nonostante si dicessero soddisfatte dell’esito, non ripeterono l’esperienza.
Se il gruppo si fosse limitato alla battaglia per il salario alle casalinghe, probabilmente non avrebbe avuto molto successo, invece iniziò una campagna durissima e molto efficace sulla questione dell’aborto.
La lotta per il diritto d’aborto
La legge in vigore in tema di aborto, prima della 194, risaliva al codice Rocco, nel quale si definiva l’aborto “delitto contro l’integrità e la sanità della stirpe” e veniva punito con pene detentive da 5 fino 12 anni sia per chi si sottoponeva all’aborto che per chi lo procurava. Ciononostante e considerando che gli anticoncezionali erano illegali, pur di non portare avanti una gravidanza non desiderata o mettere al mondo un figlio che si sapeva di non poter mantenere, ogni anno circa 3 milioni di donne abortivano. Ogni anno in Italia morivano di aborto 20mila donne. E queste sono le cifre ufficiali, perché di molti decessi veniva falsificata la causa perché chi procurava l’aborto temeva di essere arrestato. Gli aborti venivano praticati dagli stessi medici che ufficialmente si dichiaravano contrari, ma che dietro lauto compenso, ammorbidivano le loro concezioni etico-morali. Le cifre astronomiche dei medici, costringevano le donne meno abbienti ad affidarsi alle mammane, le donne del paese cosiddette esperte, che con il chinino, gli aghi da calza, il prezzemolo, senza anestesia e in condizioni igieniche spaventose procuravano l’aborto. Inutile dire che queste condizioni accrescevano enormemente i rischi di morte per le donne.
Nel 1973 a Padova, Lotta femminista decide di trasformare in un caso politico il processo a Gigliola Pierobon che ha abortito a 17 anni e che dopo sei anni viene sottoposta a processo. La Pierobon è una ex operaia tessile e continua a cambiare lavoro perché avendo una pendenza penale nessuno la assume. Inizia una campagna che denuncia i padroni, lo Stato, la chiesa, i medici che negano i diritti fondamentali della donna.
Il 15 febbraio del 1974 in seguito alla morte sospetta di una donna, la polizia requisisce le cartelle cliniche di un medico sospettato di praticare aborti e arresta le 273 pazienti registrate.
Ancora a Firenze il 9 gennaio del 1975 i carabinieri irrompono in un ambulatorio medico arrestando le sei persone che vi lavoravano e trascinando in questura 40 donne costringendole lì alla visita ginecologica. Tutti sono sospettati di praticare o subire pratiche abortive.
Questi casi hanno l’effetto di triplicare le tariffe sul mercato nero dell’aborto, ma anche quello di far partire il movimento.
A Trento l’11 febbraio del ’75 la manifestazione nazionale di Lotta femminista (che nel frattempo ha nuovamente cambiato nome in Movimento femminista) porta 10mila donne in corteo. Altri cortei si tengono a Firenze e Padova. A Roma il 6 dicembre sono in piazza in 20mila, a rivendicare l’aborto libero, gratuito e con anestesia, e contro i tentativi del governo di scrivere una nuova legge per il diritto di aborto che però dava ai medici l’ultima parola sull’opportunità di praticarlo.
È evidente che nonostante il settarismo di Movimento femminista e degli altri gruppi, la questione aveva un valore profondo per le donne e particolarmente per quelle che, con minori disponibilità economiche (lavoratrici, studentesse, ecc.) si esponevano ai rischi maggiori. La decisione con la quale le donne si mobilitavano certamente era dovuta alla campagna martellante e aggressiva delle femministe, ma quest’ultima trovava un terreno fertile nel contesto di mobilitazione generale nella classe operaia e nella fiducia, che derivava da questo contesto, sulla possibilità di cambiare realmente le cose.
Movimento femminista articolò una campagna contro i “porci bianchi” ovvero i medici. Entrarono negli ospedali a dare volantini per il diritto all’aborto e raccogliendo interviste fra le pazienti, che denunciavano i soprusi dei medici: raschiamenti dell’utero, senza anestesia, uso dell’alcool sulle ferite per “purificare” e di fronte ai lamenti delle pazienti, commenti del tipo “non urlavi così quando facevi l’amore”. Tutti questi racconti venivano tradotti in volantini e a loro volta distribuiti davanti ai luoghi di lavoro, nelle scuole nelle università, con lo slogan “Siamo tante, siamo donne, siamo stufe. Non siamo macchine per la riproduzione ma donne in lotta per la liberazione! Medici tremate, pagherete caro, pagherete tutto!“24.
La fine del ’75 e il ’76 sono segnati da un aumento delle tensioni: alle manifestazioni per il diritto alla vita seguono le veglie “in difesa della vita” promosse dai cattolici, che si impegnano in una campagna vergognosa di denigrazione delle donne sciagurate che ammazzano i loro poveri figli. In quei mesi gli scontri di piazza e le cariche della polizia accendono ulteriormente il dibattito.
Le iniziative promosse da Movimento femminista e da altri gruppi femministi, fecero crescere la contestazione e si arrivò al momento più alto di mobilitazione con il corteo del 3 aprile del 1976 a Roma con 50mila persone, a cui aveva aderito anche l’Udi, che si apprestava ad essere pienamente conquistata dalle concezioni separatiste e femministe.
Nel 1978 viene approvata la legge 194 sul diritto d’aborto: è una grande conquista perché finalmente è la donna che decide del suo corpo. La stessa legge però ha forti limiti: si sottolinea che bisogna fare il possibile per verificare l’opportunità di portare a termine la gravidanza e soprattutto si permette ai medici l’obiezione di coscienza.
Gli scontri con le organizzazioni maschili
Le campagne in cui Movimento femminista si distinse tuttavia, erano quelle di contestazione violenta, dove la pratica era quella, tipica degli autonomi, di imporre la propria opinione con la forza fisica. Anche altri gruppi difendevano con la forza la propria autonomia e in non pochi casi i convegni delle femministe o le manifestazioni venivano attaccate da non meglio precisati “compagni” che portavano avanti così la loro battaglia contro il femminismo.
E questo a sua volta contestava i professori all’università, ma anche i comizi del Pci e quelli degli stessi ex compagni di lotta dell’estrema sinistra, come ben mostra questo passaggio a proposito della tendenza degli uomini a fare compromessi sulla questione dell’aborto in ambito legislativo:
“Ci sono anche quelli di più fresco pelo che, nostri compagni di lotta del ’68, oggi siedono sugli scranni del parlamento ribadendo sussiegosi che certo ci vuole il controllo del medico. Aggiungendo poi sottovoce che in fondo la scappatoia si può sempre trovare. Certo, noi assieme ad altre donne la scappatoia gliel’avevamo trovata, sempre nel ’68, per la loro ragazza che doveva abortire trovando l’indirizzo e raccogliendo 10mila lire ciascuna. Ma si sa il tempo passa e non si può pretendere che la gente si ricordi.
Anche perché è proprio tutto un genere di cose che non si riesce assolutamente mai a ricordare, come la mamma che ci puliva la cacca e ci faceva trovare sempre il pasto pronto e il letto fatto. Ma cosa gli fa pensare a questi di poter sedere tranquilli?“25. Ovviamente finì a botte.
Nonostante questi metodi Movimento femminista riuscì ad avere una certa influenza, particolarmente fra le studentesse ma anche fra alcune lavoratrici.
Il collettivo di Gela per esempio aveva promosso una serie di interviste sulla condizione di discriminazione delle studentesse delle medie inferiori e delle superiori, oppure andarono nelle zone più povere a parlare di anticoncezionali alle donne che avevano setto, otto o magari dieci figli. In alcune occasioni provarono ad intervenire fra le lavoratrici, volantinando davanti alle fabbriche e intervenendo ai loro scioperi. Prevalentemente le lavoratrici erano diffidenti, anche se molte di loro erano affascinate dall’idea di ribellarsi ai soprusi dei loro uomini a casa, alcune anche aderendo e partecipando ai collettivi femministi. In alcuni casi, particolarmente fra le impiegate del pubblico impiego, ma non solo, nascevano collettivi femministi, che denunciavano la discriminazione sui luoghi di lavoro e la ripetitività delle mansioni, ma non era un fenomeno diffusissimo.
Parte dello spirito di ribellione che le lavoratrici traevano dalla propaganda femminista si ritrovò nei cortei per il diritto all’aborto e nel movimento di occupazione delle case, nel quale si trovarono coinvolte tante lavoratrici immigrate dal sud.
Alcune conclusioni
Poi arrivarono gli anni della sconfitta operaia e anche il femminismo non trovò più acqua per nuotare. Le studentesse diventarono grandi, molte di esse con una professione gratificante e dei bei ricordi di gioventù.
La tragedia del femminismo è che ha sottratto la spinta rivoluzionaria di tante donne al movimento operaio. L’idea che le donne dovessero stare separate, autonome per non farsi influenzare si è dimostrato assolutamente fallimentare: da una parte, il femminismo è entrato in un vicolo cieco, ne è rimasta una caricatura patetica che serve solo alle attuali epigone per giustificare la necessità delle loro carriere nei più disparati ambiti. Dall’altra parte le organizzazioni riformiste del movimento operaio hanno avuto buon gioco a marcare un solco fra le rivendicazioni delle donne e quelle del movimento operaio, contribuendo all’arretramento di quest’ultimo.
Nonostante i suoi dirigenti, tuttavia, la classe operaia con la sua forza e la sua determinazione portò a casa importanti conquiste da quelle lotte. Oggi lo statuto dei lavoratori, il diritto ad una pensione, alla sanità uguale per tutti e anche il diritto all’aborto vengono nuovamente messi in discussione con furia iconoclasta dal padronato. Ci sono già i segnali di una ripresa di lotte della classe lavoratrice. Ma queste perché ci permettano delle conquiste durature necessitano di essere orientate alla presa del potere, all’abbattimento del capitalismo, alla nazionalizzazione delle risorse economiche e alla loro pianificazione controllata dagli attuali sfruttati. Auspichiamo fortemente che la lettura di queste vicende relative alla lotta per la liberazione della donna vi abbiano convinto dell’estrema attualità del marxismo e della rivoluzione socialista.
10 ottobre 2002
Note
1 F. Engels, L’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Newton Compton Editori, Roma 1977
2 Cit. da Gabriella Parca, L’avventurosa storia del femminismo, Mondadori, Milano 1981
3 Engels, Op.Cit.
4 G. Parca, Op.Cit.
5 G. Parca, Op.Cit.
6 C. Ravera, L’Ordine Nuovo, 24/3/21
7 C. Ravera, L’Ordine Nuovo, 6 ottobre 1921
8 P. Spriano, Storia del Partito Comunista italiano, Einaudi, Torino, 1967
9 Miriam Mafai, Pane nero, donne e vita quotidiana nella Seconda guerra mondiale, Mondadori, Milano 1987
10 Miriam Mafai, Op.Cit.
11 Miriam Mafai, Op.Cit.
12 G. Parca, Op.Cit.
13 Cfr. In difesa del marxismo n° 2, 1968-69 un biennio rivoluzionario, A.C. Editoriale, Milano, 2000.
14 Manifesto di Rivolta femminile, in Rosalba Spagnoletti, I movimenti femministi in Italia, Savelli, Roma 1978.
15 Sputiamo su Hegel, in Rosalba Spagnoletti, Op.Cit.
16 ibidem
17 Significato dell’autocoscienza nei gruppi femministi, Rivolta femminile, 1972
18 Giuseppe Fiori, Vita di Enrico Berlinguer, Edizioni Laterza.
19 Ibidem
20 Bozza di piattaforma dei principi del movimento di liberazione della donna (Mld), in Rosalba Spagnoletti, Op.Cit.
21 Ibidem
22 Ibidem
23 Rapporto da Lotta femminista, 1973, in Biancamaria Frabotta (a cura di), Femminismo e lotta di classe in Italia (1970-1973), Savelli editore, Roma 1973.
24 Aborto di Stato: strage delle innocenti, collettivo internazionale femminista (a cura di), Marsilio editore, Venezia 1976
25 Ibidem