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10 Settembre 2015I ripetuti crolli delle borse nel mese di agosto potrebbero essere il preludio ad una nuova onda di crisi economica su scala internazionale. Come nel 2007 il crollo dei mutui subprime fece esplodere la “bolla” del credito negli Usa avviando la grande crisi del 2008, i crolli della Borsa di Shanghai indicano che la crescita cinese sta toccando i suoi limiti e minaccia di trascinare il mondo in una nuova recessione.
Con un calo del 6,6 per cento il Dow Jones ha chiuso in agosto il peggior mese dal 2010, mentre a Shanghai il calo del 12 per cento si è aggiunto al -14 di luglio, la maggiore ondata di vendite dal 1996. Le altre Borse mondiali hanno tutte risentito dell’ondata di ribassi.
La Borsa cinese è stato teatro negli ultimi anni da una ondata speculativa, con una crescita cumulata di circa il 150 per cento accompagnata dai classici fenomeni del “gregge” degli investitori che si getta nel mercato con soldi presi a prestito.
Ma la base reale della crisi è nel brusco rallentamento dell’economia cinese. La “fabbrica del mondo” non riesce più ad esportare come un tempo. La ripresa americana è incerta, la domanda europea è depressa dai bassi salari e dalla disoccupazione; ovunque gli investimenti ristagnano, le grandi multinazionali Usa siedono su una montagna di circa duemila miliardi di dollari che non sanno dove investire: in queste condizioni l’export cinese rallenta bruscamente, si manifesta la sovrapproduzione e viene meno uno dei pilastri della crescita, non solo in Cina ma nel mondo.
Ormai da diversi anni i dirigenti cinesi hanno manifestato timori per l’inevitabile fine del modello economico (bassi salari, massicci investimenti esteri, esportazioni alle stelle) che per trent’anni ha fatto le loro fortune. La loro risposta è stata quella di sostenere il mercato con la spesa pubblica in infrastrutture di ogni tipo, spesso finanziate da un sistema bancario “ombra” che rende impossibile calcolare la reale entità del debito pubblico cinese (governo centrale più governi regionali). Ma queste misure hanno solo rinviato il problema.
Il debito pubblico cinese è ancora molto basso se paragonato a quelli Usa e dei paesi europei (41 per cento del Pil nel 2014), il debito dei governi regionali è molto più nebuloso anche a causa del “sistema bancario ombra” che sfugge in parte alle rilevazioni, e a maggior ragione lo è il debito privato, esploso in misura incontrollabile.
Secondo una stima della società di consulenza americana McKinsey, il debito cinese (sia pubblico che privato) si è quadruplicato dal 2007 al 2014, passando da 7mila a 28mila miliardi di dollari, secondo il Fmi il debito totale ammonterà nel 2020 al 240 per cento del Pil (infodata il Sole 24ore).
Anche molti paesi “in via di sviluppo”, colpiti dal calo dei prezzi delle materie prime di cui sono produttori, hanno diminuito la loro domanda di beni e investimenti cinesi.
La cosiddetta transizione dell’economia cinese dal modello basato sull’export a uno basato sul mercato interno (alti salari, sviluppo del welfare, ecc.) è solo un’astrazione degli economisti dell’accademia che pensano basti predicare l’aumento dei salari (in casa d’altri…) per convincere i capitalisti a rinunciare a qualche porzione dei loro profitti.
Il rallentamento cinese a sua volta colpisce i paesi fornitori innanzitutto nella regione asiatica. La Corea del Sud in agosto ha visto le proprie esportazioni cadere del 14,7 per cento, il peggior dato dall’agosto del 2009 a causa del rallentamento cinese e della stagnazione in Europa e Giappone.
Un altro effetto è il possibile ritiro disimpegno dei capitali cinesi (e non solo) dai mercati finanziari e in particolare da quello Usa. Per decenni i grandi attivi dell’economia cinese hanno generato acquisti di titoli Usa, ma la tendenza ora tende ad invertirsi, e i capitali si ritirano: “La liquidazione di 2-300 miliardi di dollari di riserve cinesi (investite in titoli Usa – ndr) e la prospettiva di ulteriori vendite renderebbe vano buona parte dell’ultimo Qe americano.” (il Sole 24 ore, 3 settembre).
Gli occhi sono puntati sulla Cina, ma la crisi borsistica ha anche altre cause. Il mercato Usa è stato abbondantemente drogato dalle politiche della Federal Reserve, la chiusura ufficiale del Quantitative Easing (QE), ossia degli acquisti di titoli di Stato da parte della stessa Fed ha già sostanzialmente fermato la crescita di Wall Street. Ma c’è dell’altro: secondo la Fed i tassi dovrebbero tornare a salire fin verso il 2 per cento nel giro di 18 mesi.
Se realmente la Fed entrerà in questo terreno ormai sconosciuto (l’ultimo rialzo dei tassi risale al 2006!) le conseguenze potrebbero essere pesantissime: pesanti cali in Borsa, fuga di capitali dal resto del mondo verso gli Usa, effetti recessivi su scala internazionale. La prospettiva più probabile è quindi che la Fed (e la Bce) rinunci ai suoi bellicosi propositi e si appresti invece ad aprire nuovamente i rubinetti della liquidità.
Così l’editoriale del Sole del 3 settembre: “C’è sicuramente una dipendenza da droga valutaria tra gli operatori, ma c’è anche la consapevolezza che con i tassi d’interesse a zero, e tali da parecchi anni, la politica monetaria convenzionale non ha più leva e ha finito per smarrire pure autorevolezza. Il Qe è rimasta l’unica e l’ultima arma a disposizione per fronteggiare qualsiasi genere di crisi o un’altra possibile recessione mondiale.”
A sette anni dall’inizio della crisi emergono sempre più chiaramente i dati reali, ossia:
1) Dalla crisi non si è mai veramente usciti, piuttosto è stata parzialmente tamponata da un fiume di denaro cartaceo gettato sui mercati dalle principali banche centrali.
2) I cosiddetti “Brics”, compresa la Cina, hanno potuto sottrarsi solo in parte alla crisi nella prima fase, contribuendo a mantenere a galla il sistema, ma non possono trainarlo fuori dalle difficoltà. Al contrario, sono oggi questi paesi a generare la maggiore instabilità.
3) Le banche centrali (e a maggior ragione i governi) non possono affatto “governare” l’economia, di fatto non hanno più la scelta tra diverse opzioni: possono solo continuare a creare capitale fittizio, fintanto che questo non provocherà un crollo valutario, o una serie di crolli.
4) Ci avviciniamo a una nuova crisi senza che gli effetti di quella precedente siano stati minimamente riassorbiti.