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Dalla Prima guerra mondiale alla nascita dei Consigli

di Fernando D’Alessandro

 

Prima dell’entrata in guerra dell’Italia nel 1915 si era venuto a creare un grosso distacco tra il gruppo dirigente della Cgl e i lavoratori. I dirigenti avevano sconfessato lo sciopero generale del 1913 e si erano impegnati a limitare il movimento pre-insurrezionale che si era venuto a creare dopo che la polizia aveva sparato sui lavoratori in piazza ad Ancona nel 1914. Quel movimento entrò nella storia come la “settimana rossa”. Rigola, l’allora segretario della Cgl, giustificò il comportamento del gruppo dirigente col fatto che “prolungare lo sciopero non poteva essere conveniente da nessun punto di vista”. D’Aragona, un altro dirigente riformista della Cgl che avrebbe sostituito Rigola dopo la guerra, disse: “Immaginavo che ferrovieri e sindacalisti (i “sindacalisti rivoluzionari” dell’Usi, usciti dalla Cgl nel 1912, NdR) ne avrebbero approfittato per sollevare l’odio delle folle contro la nostra organizzazione… non potevamo girare per le vie di Milano senza essere accolti da fischi, ci davano dei venduti, dei traditori; e questo era detto non dai sindacalisti… ma da socialisti che ci conoscono… Sono andato domenica a votare e quasi sono stato bastonato”.
Nel 1914 pesava sui lavoratori anche l’effetto della crisi economica del 1913 che indeboliva ulteriormente il già scarso potere contrattuale delle organizzazioni sindacali. Gli scioperanti nel 1914 furono solo 141.932, meno della metà del 1913. Gli iscritti alle Federazioni di categoria passavano dai 213.695 del 1913 ai 111.546 dell’anno dopo.
Nel 1914 i dirigenti del Psi e della Cgl avevano minacciato lo sciopero generale nel caso l ‘Italia fosse entrata in guerra, ma quando questo avvenne non reagirono minimamente. Così le masse subirono la decisione dell’intervento come un atto di forza della borghesia.
Così durante la guerra ci fu un forte calo sia della Cgl che del Psi. Il sindacato assunse un ruolo prevalentemente istituzionale e di fatto collaborò allo sviluppo della produzione bellica. Questo distacco tra i dirigenti sindacali e le masse fece sì che quando le lotte scoppiavano queste avvenivano al di fuori degli schemi e del controllo dell’organizzazione sindacale. Questo si dimostrò chiaramente nei fatti di Torino nell’agosto del 1917.

Lo sciopero di Torino

Il movimento fu iniziato dalle donne, che erano entrate in gran numero nelle fabbriche per sostituire gli uomini richiamati in guerra. Il giorno che le donne trovarono i negozi pattugliati dai carabinieri e sulle porte la scritta “pane esaurito” si sviluppò uno sciopero spontaneo che si allargò in tutta la città. I lavoratori si affollavano davanti alla Camera del lavoro cercando una direzione ma i dirigenti non sapevano cosa fare. I dirigenti riformisti volevano addirittura diffondere un manifesto sconfessando il movimento, ma i dirigenti locali riuscirono ad impedirlo e decisero di mandare a Milano una delegazione per chiedere alla direzione del Psi e della Cgl di estendere il movimento, ma questi si rifiutarono.
Così, nell’assenza di una direzione, la rivolta operaia si sviluppò in maniera spontanea per quattro giorni. Nei quartieri operai di Torino sorgevano le barricate. Quando le autorità mandavano i soldati contro i lavoratori le donne si rivolgevano a loro con l’invito a non sparare. Un intero reparto di alpini consegnò i fucili agli operai. Le donne riuscivano a fermare anche le automobili blindate arrampicandosi sino ad arrivare alle mitragliatrici montate su di esse.
Purtroppo, a causa dei dirigenti riformisti della Cgl, il movimento rimase isolato a Torino. Il risultato fu un bagno di sangue: 42 i morti ufficiali, ma si calcola che in realtà furono circa cinquecento e i feriti alcune migliaia. Fu in quel momento che per le vie vennero distribuiti dei volantini che invitavano gli operai a nome del Psi e della Cgl a tornare al lavoro. Questi erano i “rapporti” che si erano venuti a creare tra i lavoratori e i loro “dirigenti” sindacali alla fine della Prima guerra mondiale. Ma nonostante le sconfitte subite nel periodo precedente, durante la guerra la classe operaia si era rafforzata enormemente in termini numerici grazie allo sviluppo industriale, particolarmente in settori come quello metallurgico. Questo fatto, combinato alla crisi economica, venutasi a creare subito dopo la fine della guerra, creò le con-dizioni per un grande conflitto tra le classi.

Esplode il movimento

Il debito pubblico si era gonfiato grazie alle spese belliche: dai 14 miliardi del 1914 era arrivato a 90 miliardi nel 1920. Nel 1919, dopo l’eliminazione del controllo sui cambi, la lira crollò e si svalutò dell’80 per cento. Ciò provocò una forte inflazione portando il salario medio reale di un lavoratore al 68 per cento di quello che era nel 1914.
La reazione dei lavoratori si vede nelle cifre degli scioperi. Nel 1919 ci furono più di 1.800 scioperi e un milione e mezzo di scioperanti e nel 1920 duemila scioperi con 2.300.000 scioperanti, rispetto ai 321.500 scioperanti nel 1907, l’anno di maggiori lotte sociali dell’anteguerra.
In queste condizioni la Cgl riprese a crescere. Dai 250mila iscritti del 1918 passò ai 2.150.000 del 1920. In particolare la Fiom, che nel 1914 aveva poco meno di 11mila iscritti, passò nel 1920 a 160mila. Questa crescita esplosiva della Cgl e delle sue federazioni di categoria è la dimostrazione che quando la massa dei lavoratori si mette in moto questa si rivolge alle sue organizzazioni sindacali tradizionali.
Nonostante le sconfitte del periodo 1910-1915 dovute alla politica della Cgl e nonostante l’abbandono dei lavoratori torinesi nel 1917, la classe operaia entrò in massa nella stessa Cgl.

Nascono i Consigli

Parallelamente a questo nascevano i Consigli di fabbrica. Il primo sorse nell’agosto 1919 alla Fiat-Centro di Torino quando la commissione interna in carica si dimise e gli operai decisero di eleggere un “commissario” (il termine di allora per delegato) per ognuno dei 42 reparti della fabbrica. I Consigli di fabbrica venivano eletti da tutti i lavoratori, iscritti e non iscritti al sindacato. Questi organismi suscitarono l’ostilità dei dirigenti della Cgl perché temevano che i consigli, eletti da una base composta anche dai non iscritti al sindacato e collegati strettamente alla vita di fabbrica, prima o poi esautorassero il sindacato. E questo nonostante il fatto che nel primo programma dei Consigli, preparato nel settembre 1919 dagli operai metallurgici di Torino, leggiamo che “gli operai uniti nel sistema dei Consigli riconoscono l’utilità dei sindacati di mestiere e di industria nella storia della lotta di classe e la necessità che essi continuino nella loro funzione”.
Il problema per i dirigenti riformisti della Cgl era che i consigli non si limitavano a riconoscere il ruolo dei sindacati. Andavano oltre: “Le direttive del movimento devono nascere direttamente dagli operai organizzati sui luoghi stessi di produzione ed esprimersi per mezzo dei Consigli di fabbrica”. Allo stesso tempo dai Consigli veniva una forte spinta all’unità sindacale. Proponevano: “tutti i sindacati di mestiere e di industria del proletariato italiano dovranno aderire alla Confederazione generale del lavoro”, in modo da raggiungere “una sola grande Unione di tutte le forze proletarie italiane”. Così, mentre le sconfitte del 1910-12 avevano portato alla scissione della Cgl, il nuovo slancio del movimento del 1918-20 esprimeva un forte desiderio di unità.
Il problema dei Consigli fu quello di non riuscire a trasferire la loro lotta all’interno della Cgl in modo da togliere quell’ostacolo al futuro sviluppo del movimento che erano i dirigenti riformisti.

Lo sciopero dell’aprile 1920

Questo si vide chiaramente nell’aprile del 1920. l padroni torinesi erano arrivati alla conclusione che fosse necessaria una linea dura di fronte alle lotte operaie che si erano intensificate con la nascita dei Consigli. Verso la fine di marzo la Fiat licenziò i delegati di fabbrica. La reazione degli operai fu lo sciopero che il 29 marzo si estese a tutte le fabbriche metalmeccaniche di Torino. In ballo c’era l’esistenza stessa del Consigli. La lotta durò dal 29 marzo al 23 aprile arrivando a coinvolgere 120mila lavoratori. C’era troppo in gioco per i padroni, sicché la loro resistenza fu durissima.
Ed è qui che entra in gioco il ruolo dei dirigenti riformisti della Cgl. La direzione della Cgl temeva la vittoria di un movimento che usciva dal quadro tradizionale delle lotte sindacali e che tendeva a modificare profondamente la struttura stessa del movimento operaio; così non favorì le azioni di solidarietà con gli operai torinesi sorte qua e là spontaneamente e si oppose all’estensione dello sciopero ad altre regioni. D’Aragona, il segretario della Cgl succeduto a Rigola nel 1918, si recò a Torino per “seppellire il morticino”, come egli disse. Accettò in pratica le condizioni poste dai padroni che esautoravano i Consigli e imponevano una regolamentazione restrittiva dei poteri delle commissioni interne. Dopo questa sconfitta il consiglio direttivo della Cgl approvò un progetto che prevedeva dei consigli d’azienda eletti solo dagli iscritti ai sindacati. Abbiamo visto come una organizzazione sindacale burocratizzata come era la Cgl nel 1918 crebbe in maniera esplosiva tra le masse operaie. Allo stesso tempo nei grandi centri industriali, in particolare Torino, nacquero i Consigli di fabbrica dal basso. Ma pur essendo molto diffusi, questi non riuscirono a contrastare l’influenza della direzione della Cgl sulla massa dei lavoratori. Questo si sarebbe visto ancora più chiaramente nell’occupazione delle fabbriche nel settembre dello stesso anno.

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