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Ci sarà una recessione? (1960)

In questo testo, scritto nel pieno del boom economico del dopoguerra, Ted Grant illustrava come le contraddizioni del capitalismo non fossero venute meno e avrebbero portato a nuove crisi. È uno degli scritti più significativi di Ted Grant, in cui la teoria economica marxista non solo viene brillantemente difesa, ma aggiornata e arricchita.

La Redazione

 

di Ted Grant

 

La lunga ascesa del capitalismo britannico e mondiale successiva alla Seconda guerra mondiale, nelle aree dove il capitalismo si è mantenuto, ci chiama a un esame delle idee basilari del marxismo sulla questione dello sviluppo economico. Se il funzionamento del sistema ha subìto un cambiamento di fondo, allora è necessario che i marxisti ne facciano un riesame adeguato. Il marxismo rappresenta l’analisi concentrata delle leggi che governano lo sviluppo della società. In campo economico, le leggi sottostanti allo sviluppo della società capitalista vennero elaborate e spiegate da Marx. Nonostante gli approfondimenti e le estensioni delle opere di Lenin e Trotskij, queste leggi di base sono rimaste fondamentalmente le stesse per oltre un secolo.

Indubbiamente dopo la Seconda guerra mondiale l’economia si è sviluppata su linee alquanto diverse da quelle successive alla Prima guerra mondiale. Ma ogni decade dello sviluppo capitalista tende ad essere diversa da tutte le altre. Le leggi di base che reggono lo sviluppo dell’economia capitalista, tuttavia, sono rimaste intatte.

La prospettiva immediata per l’economia è di una crescita della produzione in quest’anno, probabilmente del 6 per cento. Questo a sua volta significherà un rafforzamento delle rivendicazioni della classe operaia per ottenere una parte maggiore della produzione. Da qui le concessioni del capitalismo in materia di salari e orari di lavoro negli ultimi mesi. La vittoria dei ferrovieri è stata determinata da questo fatto.

L’economia mondiale si sta avviando verso una crisi (o una recessione, ossia una piccola crisi che non si approfondisce in una depressione di lunga durata, secondo la definizione degli economisti capitalisti). Ancora recente ente ci sono stati tassi di sviluppo molto alti nell’economia di tutti i principali paesi capitalisti, di fatto in larga misura in tutto il mondo capitalista. Questo sviluppo in Europa occidentale e in molte delle aree “sottosviluppate” del mondo comincia a rallentare. Ci sono già i segni nella caduta dei prezzi delle azioni a Wall Street, un barometro sempre sensibile, anche se non sempre preciso, che l’economia degli Stati Uniti potrebbe presto volgere verso il basso, cadendo in una “recessione” o “crisi” più profonda.

I grandi investimenti nell’industria, l’adozione della meccanizzazione e dell’automazione, aumentano al tempo stesso l’ammontare del capitale costante in proporzione al capitale variabile, cioè del capitale investito in macchinari, edifici, impianti, ecc. in rapporto a quello investito in salari. Questo deve portare a un calo nel tasso di profitto. L’attuale calo degli investimenti è un riflesso del fatto che i capitalisti si rendono conto di questa tendenza, anche se non ne comprendono la ragione.

Tuttavia questi alti e bassi sono normali nello sviluppo del ciclo commerciale, in ogni fase dello sviluppo del capitalismo. Quello che si deve accertare non sono le differenze episodiche, ma se vi sia un elemento nuovo, quale l’intervento dello Stato, che cambia fondamentalmente il movimento del ciclo economico, rendendolo differente da qualsiasi cosa sperimentata in passato dal capitalismo.

I postulati basilari del marxismo su questo punto sono che lo sfruttamento della classe operaia da parte dei capitalisti significa che il plusvalore, creato dai lavoratori, è accumulato dai capitalisti e quindi reinvestito nell’industria. In tali condizioni, la spiegazione dello sviluppo dell’economia sta nella divisione dell’economia nella “sezione 1” (produzione di mezzi di produzione) e “sezione 2” (produzione di beni di consumo). Il surplus prodotto dalla classe lavoratrice in aggiunta al necessario per la sua sussistenza, a parte una piccola parte consumata dai capitalisti, viene reinvestito nella produzione. Tutto il ruolo storico del capitalismo consiste nello sviluppo delle forze produttive della società attraverso l’uso del surplus per la formazione di capitale. Di qui la crescita della produzione.

La concorrenza fra diversi capitali ha prodotto la necessità di attrezzature produttive ancora maggiori. Questo a sua volta ha portato alla graduale accumulazione e concentrazione del capitale in sempre meno mani. L’espansione continua della spesa in capitale costante (C), o mezzi di produzione, in relazione alla somma spesa nel capitale variabile, o salari, (V) a sua volta ha prodotto la tendenza alla caduta del saggio di profitto. Questo è confermato, sia pure con un linguaggio diverso, da tutti gli economisti seri, compreso Keynes. Persino i professori universitari, studiando le cifre, sono costretti ad ammettere la verità di questa affermazione nell’epoca moderna, persino più che in passato.

La causa fondamentale delle crisi nella società capitalista, un fenomeno peculiare della sola società capitalista, è l’inevitabile sovrapproduzione sia di beni di consumo che di beni capitali, ai fini della produzione capitalista. Vi possono essere ogni sorta di cause secondarie della crisi, particolarmente in un periodo di sviluppo capitalista: sovrapproduzione parziale solo in alcune industrie, speculazioni finanziarie, raggiri inflazionistici, sproporzioni nella produzione e numerose altre, ma la causa fondamentale della crisi risiede nella sovrapproduzione. Questa, a sua volta, è causata dall’economia di mercato e dalla divisione della società in classi reciprocamente in conflitto.

Nulla di ciò è stato cambiato dagli sviluppi del periodo successivo alla Seconda guerra mondiale. Questo si può dimostrare attraverso un paragone fra il periodo tra le due guerre, il periodo pre-1914 e quello postbellico.

Dopo la Seconda guerra mondiale, a causa della pressione creata dalla concorrenza americana e dall’ascesa della produzione sovietica, europea orientale e cinese come formidabile minaccia per le prospettive future del capitalismo, è stato necessario razionalizzare le economie di paesi in precedenza relativamente arretrati quali Giappone, Gran Bretagna, Francia e Italia. Lo sviluppo della produzione mondiale ha significato che la concorrenza fra capitalismi nazionali ha imposto una ulteriore modernizzazione e una maggiore divisione del lavoro e specializzazione anche fra le maggiori nazioni capitaliste. (Questa è una delle ragioni per le quali è stato creato il Mercato comune europeo, sia pure su basi fragili, provocando come conseguenza il raggruppamento di risposta dei sette paesi esterni attorno alla Gran Bretagna).1  Le economie “nazionali” pertanto lavorano sempre di più assieme allo Stato e usano lo Stato come una leva. Il capitalismo monopolistico e lo Stato si intrecciano e si fondono.

Nel suo libro Trends and Cycles in Economic Activity, William Fellner dimostra che il ciclo commerciale nel periodo postbellico non è stato fondamentalmente diverso dai cicli del passato:

“Anche se calcolando i valori medi decennali sparisce la maggior parte dell’instabilità ciclica, le medie decennali rimangono significativamente influenzate dal carattere piuttosto depresso dell’insieme del decennio 1890, e dalla prosperità bellica e postbellica di tutti gli anni ’40. […] Una tendenza di fondo verso un tasso proporzionale di crescita tra il 30 e il 40 per cento per decennio […] Quando due decenni sono ‘anormali’ nelle due direzioni opposte, quali gli anni ‘30 e ‘40, la tendenza si afferma su un periodo ventennale.”

Trattando degli Stati Uniti, J. A. Schumpeter in Business Cycles afferma:

“Il numero di interruzioni minori fra i cali principali sembra essere stato maggiore negli Stati Uniti che nella maggior parte dei paesi europei, anche se la tendenza secolare è stata di un’ascesa particolarmente netta negli Stati Uniti.”

Trattando delle differenze fra il ciclo economico in Gran Bretagna e in America, per spiegare la situazione odierna Fellner afferma:

“Può essere che il ciclo britannico sia leggermente più lungo di quello negli Usa. Gli studi più seri registrano che nel diciannovesimo secolo la lunghezza del ciclo britannico era fra i sette e i dieci anni; i ricercatori americani hanno trovato un ciclo di durata alquanto più breve […] La differenza potrebbe essere dovuta alla struttura dell’economia, o persino a una differenza di temperamento nazionale. Si potrebbe dire che gli americani reagiscono più rapidamente a un cambiamento nelle circostanze, oppure che che sono più volubili.

Per molti anni il ciclo britannico, e anche quello europeo, è stato sfasato rispetto a quello americano […] La causa principale di questa divergenza è stata la scala maggiore dello sforzo bellico americano, anche in proporzione alle dimensioni dell’economia, dopo l’episodio coreano.”

È vero che il tasso di crescita nel periodo 1870-1914 era più rapido che nel periodo tra le due guerre, ma questo rifletteva il fatto che era mutata la natura relativamente progressista del capitalismo. La guerra del 1914-18 segnò una fase definita nello sviluppo del capitalismo. Questa si è riflessa nel vicolo cieco nel quale la proprietà privata dei mezzi di produzione e lo Stato nazionale hanno condotto la società.

L’ascesa economica che ha seguito la Seconda guerra mondiale è dovuta a una serie di fattori. Non c’è nulla di “unico” in questa crescita. La possibilità di un’ascesa di questo genere della società capitalista era stata prevista da Trotskij nella sua critica delle concezioni ciecamente meccaniche degli stalinisti:

“La borghesia sarà capace di garantirsi una nuova epoca di crescita e potere del capitalismo? Negare semplicemente questa possibilità, contare sulla ‘situazione disperata’ nella quale si trova il capitalismo non sarebbe altro che fare chiacchiere rivoluzionarie. Non esistono situazioni assolutamente disperate (Lenin). L’attuale equilibrio instabile fra le classi nei paesi europei non può durare all’infinito, precisamente per la sua instabilità […]

Non ci sarà un nuovo boom del capitalismo mondiale (naturalmente, con la prospettiva di una nuova epoca di grandi sconvolgimenti) solo se il proletariato sarà in grado di trovare una via d’uscita dall’attuale equilibrio instabile percorrendo la via rivoluzionaria.”2

E ancora:

“Da Marx in avanti abbiamo costantemente ripetuto che il capitalismo non può sostenere lo spirito della nuova tecnologia, della quale ha determinato l’ascesa e che fa a pezzi non solo il rivestimento costituito dai diritti borghesi di proprietà ma anche, come ha dimostrato la guerra del 1914, il guscio nazionale dello Stato borghese.3

La politica, intesa come forza storica di massa, è sempre in ritardo rispetto all’economia […] Il sistema capitalista internazionale si è già esaurito e non è più capace di progredire nel suo insieme.

Teoricamente, è vero, anche un nuovo capitolo di progresso generale del capitalismo nei paesi più potenti e dominanti, non è escluso.”4

Trattando del ciclo economico, l’American National Bureau of Economic Research ha preparato una tabella che risale indietro di circa un secolo. Questa tabella mostra i picchi e i minimi dell’attività economica negli Usa lungo questo periodo (vedi tabella 1).

Tabella 1

 

A questi si possono aggiungere il picco del 1953, il calo del 1954, il picco del 1957, il calo del 1958, il picco del 1959-60 e il successivo declino.

 Quali sono allora le ragioni di fondo dello sviluppo postbellico dell’economia?

1) Il fallimento politico degli stalinisti e dei socialdemocratici, in Gran Bretagna e in Europa occidentale, ha creato il clima politico per una ripresa del capitalismo.

2) Gli effetti della guerra, con la distruzione di beni di consumo e capitali, hanno creato un grande mercato (la guerra ha effetti simili, ma più profondi,  a  quelli  di  una  crisi  nel  distruggere  capitale). Secondo le Nazioni Unite questi effetti sono scomparsi solo nel 1958.

3) Il Piano Marshall e altri aiuti economici hanno aiutato la ripresa dell’Europa occidentale.

4) L’enorme incremento degli investimenti nell’industria.

5) La nascita di nuovi settori industriali: plastica, alluminio, missilistica, elettronica, energia atomica, con i loro sottoprodotti.

6) La produzione crescente delle industrie più recenti: chimica, fibre artificiali, gomma sintetica, plastica, la rapida ascesa dei metalli leggeri, alluminio, magnesio, elettrodomestici, gas naturale, energia elettrica, edilizia.

7) L’enorme quantità di capitale fittizio creato dalla spesa per armamenti, che in Gran Bretagna e in America ammonta al 10 per cento del reddito nazionale.

8) I nuovi mercati per beni capitali e prodotti meccanici creati con l’indebolimento dell’imperialismo nei paesi sottosviluppati, che ha fornito alle borghesie locali l’opportunità di sviluppare l’industria su scala maggiore che in passato.

9) Tutti questi fattori interagiscono l’uno con l’altro. L’accresciuta domanda di materie prime, causata dallo sviluppo dell’industria nei paesi metropolitani, a sua volta ha effetto sui paesi sottosviluppati e viceversa.

10) L’aumento del commercio, particolarmente di beni capitali e macchinari, fra i paesi capitalisti, conseguente all’aumento degli investimenti, è a sua volta uno sprone.

11) Il ruolo dell’intervento statale nello stimolare l’economia.

Tutti questi fattori spiegano l’aumento della produzione dopo la guerra. Ma il fattore decisivo è stato l’allargamento degli investimenti di capitale, che sono il motore principale dello sviluppo capitalista.

Il ruolo relativamente progressista del capitalismo fra il 1870 e il 1914 consisteva nello sviluppo delle forze produttive ad un ritmo piuttosto rapido. Vero è che erano state sviluppate forze produttive sufficienti a permettere alla classe operaia di prendere il potere, ossia le condizioni materiali per il potere operaio erano state create dalla precedente espansione delle forze produttive sotto la proprietà privata. Sotto il potere dei lavoratori le forze produttive si sarebbero sviluppate più velocemente. Tuttavia fino a quando il capitalismo può sviluppare le forze produttive ad un ritmo rapido, esso assolve alle necessità del progresso e può mantenersi fino a quando sia utile a questo fine.

A seguito della Seconda guerra mondiale, il capitalismo, in modo contraddittorio e diseguale, ha vissuto questo tipo di periodo di “rinascita”.

È vero che si tratta del risollevarsi temporaneo di un’economia malata e marcia, che riflette la senilità del capitalismo e non la sua giovanile elasticità, che mostra tutte le debolezze di un sistema decaduto. Ma anche all’interno del declino generale del capitalismo, periodi di questo genere sono inevitabili nella misura in cui la classe operaia, a causa della sua direzione inadeguata, non riesca a porre fine al sistema. Non esiste l’“ultima crisi”, “l’ultima recessione economica” del capitalismo, o un “tetto nella produzione”, né alcuna delle altre idee primitive avanzate dagli stalinisti durante la grande depressione del 1929-33. L’indebolimento del capitalismo tuttavia si riflette negli avvenimenti rivoluzionari seguiti alla Seconda guerra mondiale.

Dal punto di vista del marxismo, questa riattivazione economica non è un fenomeno esclusivamente negativo. Rafforza enormemente i numeri e la coesione della classe operaia, e la posizione della classe operaia all’interno della nazione. La prossima rottura nella congiuntura economica porrà di fronte al capitalismo problemi ancora più grandi che in passato.

È questa ripresa economica, e non il ruolo della spesa pubblica o la parte accresciuta svolta dallo Stato, il principale fattore che spiega le recessioni, o le piccole crisi che si sono verificate dopo la Seconda guerra mondiale. Naturalmente il maggiore ruolo dello Stato, con la fine del lassez faire, era già stato evidenziato da Marx ed Engels. La tendenza delle forze produttive a trascendere l’involucro della proprietà privata costringe lo Stato a intervenire sempre più per “regolare” l’economia.

Lenin,  Bukharin  e  Trotskij  avevano  mostrato  l’enorme  crescita  del ruolo dello Stato durante e dopo la Prima guerra mondiale. Nei suoi ultimi scritti Trotskij rafforzò le argomentazioni sull’aumento del ruolo economico dello Stato. La grande crescita del ruolo dello Stato era spiegata dalla crescita delle forze produttive, dalla concentrazione del capitale, dalla crescita dei trust e dallo sviluppo del capitale monopolistico. Tutti questi sviluppi sono stati riassunti nell’Imperialismo di Lenin. C’è stata una fusione del capitale monopolistico con lo Stato, che agisce come agente diretto della grande borghesia. Questo non significa la “regolazione” o un “piano” dell’economia che vada in direzione dell’economia di uno Stato operaio. Né significa l’abolizione del dominio del mercato. Restando all’interno dei limiti del sistema, l’intervento statale e in particolare la produzione di armamenti, ha accresciuto le contraddizioni del capitalismo. La “regolazione” è stata principalmente a spese delle imprese medie e piccole, come nel caso della recente stretta creditizia con l’aumento dei tassi d’interesse, che colpiscono ben poco la grande borghesia, ma per i capitalisti minori sono gravosi.

I sussidi alle grandi imprese, la denazionalizzazione di settori redditizi dell’industria nazionalizzata sono un’indicazione del vero ruolo dello Stato come strumento delle banche e dei monopoli. Lo Stato ha rilevato quei settori industriali finiti in perdita a causa dello sviluppo di nuove industrie e nuove tecnologie, che necessitavano di grandi investimenti di capitali nella loro modernizzazione, che per il capitalismo non erano né economici, né redditizi.

Nel caso della Gran Bretagna era necessario trasformare le industrie di base: carbone, gas, elettricità, trasporti, siderurgia, allo scopo di rendere competitive sui mercati mondiali l’industria meccanica, la cantieristica navale, la chimica e altre. Quindi le misure di capitalismo di Stato, che costituiscono un importante argomento a favore della nazionalizzazione, di per sé stesse non alterano le leggi basilari del capitalismo.

Ma i fattori che nei principali paesi capitalisti hanno aiutato a mantenere la piena occupazione, o comunque molto alta, vale a dire la spesa in armamenti, hanno a loro volta portato a un’inflazione persistente. La Germania Ovest, che non ha questo peso, ha potuto avvantaggiarsi delle difficoltà dei propri rivali su questo punto e con un vasta riserva di forza lavoro dagli ex territori tedeschi, dalla Cecoslovacchia e dalla Germania Est, il livello dei prezzi fino al periodo più recente è stato relativamente stabile. Inoltre le somme reinvestite in investimenti di capitale erano corrispondentemente maggiori. Ora, con la piena occupazione, si trovano a fronteggiare gli stessi problemi dei loro rivali:

“In Germania Ovest gli elementi inusuali nel processo di espansione erano particolarmente significativi; la disoccupazione su vasta scala nei primi anni ’50 e un alto tasso di immigrazione di forza lavoro dalla Germania Est; i vuoti lasciati nel capitale fisico accumulato dalle distruzioni di guerra, dallo smantellamento industriale post-bellico e dalla divisione del paese. Questi fattori combinati hanno prodotto alti tassi di profitto in un processo di espansione che si è distinto per una rapida crescita dell’occupazione e per un alto tasso di investimenti nell’estensione della struttura del capitale.”5

Gli esperti delle Nazioni Unite, guardando con costernazione le ultime recessioni, sono giunti alla conclusione che la borghesia non è affatto diventata capace di risolvere i problemi economici del suo sistema. L’Annual World Survey delle Nazioni Unite pubblicato nel 1959 esprime con disappunto la seguente valutazione:

“Nessun fattore speciale di importanza primaria può contribuire a spiegare il calo dell’attività economica negli Stati Uniti nel 1957-58, né la virtuale  paralisi  della  produzione dell’Europa occidentale nel corso del 1958 […] A prescindere da quanto la recessione sia stata connessa alla costituzione di una capacità produttiva in eccesso, o possa essere stata accelerata dalle restrizioni del governo, è evidente che il mondo non ha ancora imparato come evitare il costo delle ricorrenti crisi industriali.”

E ancora, commentando il carattere brusco del calo del 1958:

“ […] né sarebbe saggio assumere, sulla base dell’esperienza postbellica, che in futuro tutte le recessioni siano destinate ad essere brevi e leggere.”

Tra l’altro gli economisti delle Nazioni Unite stimano che l’ultima “recessione” sia costata agli Stati Uniti miliardi di dollari sia in termini di reddito reale che di capacità di importare. Riflettendo le illusioni dei “sottoconsumisti”, che credono che tutto vada per il meglio se si mantiene la capacità di consumo, gli economisti delle Nazioni Unite parlano di un “apparato di stabilizzatori automatici, che comprenda un sistema fiscale progressivo, la sicurezza sociale e programmi di sostegno all’agricoltura”. Ma alla fine anch’essi devono venire al punto:

“È importante tenere a mente, tuttavia, che gli stabilizzatori possono solo rallentare un tasso di decrescita; non possono da soli dare inizio ad una crescita […] Anche se depressioni dell’ordine di grandezza di quella degli anni ’30 sono diventate impensabili sia su basi politiche che sociali, recessioni di durata e profondità maggiore di quelle sperimentate finora negli anni del dopoguerra non possono essere evitate solo affidandosi a un qualsiasi stabilizzatore automatico.”6

Gli sviluppi delle economie in Europa occidentale, Giappone e Stati Uniti – con questa o quella differenza nazionale – dimostrano tutti lo stesso fenomeno: l’aumento dell’investimento di capitale come chiave della crescita economica nel decennio e mezzo seguito alla Seconda guerra mondiale.

A parte i sussidi all’industria privata, che in Gran Bretagna nel 1958 ammontavano a 358 milioni di sterline, e l’enorme spesa in armamenti, che costituisce una spesa improduttiva, in molti dei paesi dell’Europa occidentale – ma particolarmente in Gran Bretagna – le industrie di base in rovina sono state nazionalizzate per modernizzarle così che possano servire da utili strumenti per aumentare i profitti delle imprese private, particolarmente nei settori più moderni.

Quei settori che mostravano possibilità di fare profitti, quali la siderurgia e il trasporto stradale, sono stati denazionalizzati dai conservatori, come ora si propone di fare per le attività di alloggio, ristorazione e le altre attività non ferroviarie di proprietà delle ferrovie. Così il settore nazionalizzato, che in Gran Bretagna costituisce circa il 20 per cento dell’economia, funge da serva dell’industria privata.

Anche se queste industrie fossero rimaste in mano a imprese private avrebbero significato grandi spese, come in America, per modernizzarle. Ma l’investimento in questi campi è tutt’ora solo la metà di quello delle industrie che non sono state nazionalizzate. Se il totale degli investimenti in capitale nel 1957 è stato del 14,7 per cento, il livello di investimenti più alto in Gran Bretagna dopo la guerra, si può vedere come le industrie nazionalizzate hanno contribuito circa per il 5 per cento contro un 10 per cento di investimenti delle industrie private. Al tempo stesso, la produzione delle industrie private è stata di sei o sette volte più grande della produzione di quel- le controllate dallo Stato. Questo significa che è il settore privato dell’economia a dominare l’industria e l’economia nel suo insieme, e non viceversa. Questo si dimostra facilmente attraverso le statistiche pubblicate nel censimento della produzione pubblicato nel 1958 (vedi Tabella 2).

Tabella 2




È vero che il tenore assoluto di vita è cresciuto (e la spiegazione sta negli straordinari, nella partecipazione delle donne, nell’aumento di produttività, nei piani di partecipazione agli utili, nel pieno impiego, ecc.) ma in termini relativi la parte spettante alla classe lavoratrice è calata. Pertanto l’idea “sottoconsumista” che la crisi capitalista sia stata superata grazie all’aumento della parte spettante ai consumatori si dimostra evidentemente falsa. La parte dei “consumatori”, compresi i capitalisti, è calata da circa il 67 per cento nel 1938 a poco più del 54 per cento nel 1957, sul totale della “torta” della produzione nazionale. Cosa  dimostrano  queste  statistiche?  Su  due  problemi  fondamentali esse forniscono una risposta inappellabile alle teorie dei revisionisti. L’argomento di Strachey, Crosland, Gaitskell e altri è che la quota spettante alla classe operaia è crescita con l’aumentare della produzione. Queste cifre dimostrano irrefutabilmente che la quota della classe operaia in relazione alla produzione totale è diminuita. Statistiche analoghe dall’America, l’Italia, il Giappone e la Germania Ovest mostrerebbero indubbiamente lo stesso fatto.

Dopo la guerra l’aumento della capacità produttiva in Gran Bretagna è stato del 3 per cento annuo, il doppio del tasso di crescita ottenuto nel periodo fra le due guerre e probabilmente più rapido di molti anni precedenti il 1914. Dopo la guerra fino al 1951 un quinto della produzione è stato annullato dall’aumento dei prezzi delle importazioni. La produzione è cresciuta tra il 1946 e il 1951 del 14,5 per cento, il reddito nazionale reale dell’11,5 per cento. Tra il 1951 e il 1955 il reddito nazionale reale è cresciuto del 15,5 per cento contro una crescita del prodotto interno lordo del 12,5 per cento. Tra il 1955 e il 1958 il prodotto nazionale lordo è cresciuto del 5 per cento contro una crescita nella produzione di solo il 3 per cento. Tra il 1951 e il 1958 gli investimenti totali lordi, gli accantonamenti e gli ammortamenti sono cresciuti dal 15 a quasi il 20 per cento. Il reddito nazionale netto è cresciuto da meno del 7 a oltre l’11,5 per cento.

Da un punto di vista marxista, in ogni caso, una continua ascesa della quota della produzione nazionale che va alla classe operaia, di per se stessa ad un certo punto provoca una crisi e una recessione poiché riduce la parte del reddito nazionale che va ai capitalisti, causando una caduta del saggio di profitto. Questo avviene perché è solo dal surplus creato dai lavoratori che i capitalisti trovano i mezzi per investire. Al tempo stesso il continuo progresso tecnologico significa che i capitalisti sono costretti a investire (in termini reali, senza contare il calo nel valore del denaro) sempre di più nella produzione allo scopo di competere sui mercati nazionali e internazionali. Pertanto la spiegazione del periodo di ascesa postbellico non può essere fornita dall’aumento del tenore di vita, come fanno Crosland e Jay.

D’altro canto le statistiche sulla produzione nazionale, che pur ammettendo errori marginali sono una descrizione accurata dell’economia nazionale da un punto di vista capitalista, dimostrano la vacuità delle teorie di Maurice Dobb e di vari stalinisti, secondo le quali è stato l’accresciuto ruolo dello Stato a impedire un nuovo 1929. È vero che il ruolo dello Stato è aumentato, ma le statistiche mostrano i limiti di questo fenomeno. Dal 1938 al 1957, includendo la spesa delle autorità nazionali e locali in edilizia, servizi sociali e la spesa in armamenti, la proporzione totale del reddito nazionale speso dallo Stato ammontava nel 1957 al 14,7 per cento. Se si aggiungessero anche le cifre delle industrie nazionalizzate si arriverebbe attorno al 20 per cento del reddito nazionale, ossia un quinto: una cifra di per sé gigantesca, ma non sufficiente a determinare il movimento fondamentale dell’economia. Non è fondamentalmente l’industria statale a dettare i movimenti dell’industria privata, ma è l’industria privata a dettare i movimenti dell’industria di Stato.

In un’epoca come questa è necessario che i marxisti rispondano a tutte le tendenze, borghesi, socialdemocratiche e revisioniste (questo è particolarmente necessario nel clima politico creato dall’ascesa temporanea del capitalismo).

Una riaffermazione dei fondamenti della dottrina marxista su questa questione pone l’intero problema nella sua giusta prospettiva. Non ci potrà mai essere una recessione in un’economia che è di proprietà statale nei suoi “settori dominanti”, perché è allora possibile pianificare la produzione come avviene all’interno di una singola fabbrica. Se si commettono errori, come nel piano della burocrazia sovietica, è facile superarli con un semplice decreto amministrativo.

Il solo limite alla produzione, a parte gli errori dei burocrati, la loro disonestà, inefficienza, corruzione, ecc. è dato dal livello della produzione e dalle forze produttive stesse. Si può pianificare di produrre beni di consumo, beni capitali, missili o cannoni, o quello che si vuole, ma finché si tiene in considerazione il livello delle forze produttive e si osservano le dovute proporzioni, con questo o quell’errore, tuttavia l’intera capacità produttiva (a parte le discrepanze nelle materie prime, ecc.) può essere utilizzata fino ai suoi limiti! Questa è la distinzione fondamentale tra un’economia basata sulla proprietà statale e un’economia a parziale proprietà statale quale l’economia di capitalismo di Stato.

Perché la spesa dello Stato capitalista non può risolvere i problemi dell’economia in una società capitalista? In un’economia nella quale la proprietà privata è la forma dominante, la produzione viene fatta per il mercato. Tutte le tasse devono venire dall’economia stessa, o dai profitti dei capitalisti, o dalle entrate della classe lavoratrice. In entrambi i casi non possono prevenire una crisi oltre un certo tempo. Tagliare le entrate dei capitalisti significa ridurre il tasso di profitto; il denaro speso dallo Stato e preso dalle tasche dei capitalisti non può essere speso da questi ultimi. Analogamente, il denaro tolto ai lavoratori sotto forma di tasse, a beneficio dei capitalisti e dello Stato, riduce il mercato dei beni di consumo. Pertanto in entrambi i modi lo Stato incide sui settori vitali dell’economia. Nell’epoca moderna lo Stato è diventato un incubo mostruoso e un peso parassitario sulla produzione. Quello che lo Stato guadagna da un lato, i capitalisti lo perdono dall’altro. Dal punto di vista capitalista, la cosa peggiore è che lo Stato riduce i profitti dei capitalisti e questo aggrava la crisi, nella misura in cui l’80 per cento dell’economia rimane nelle mani dell’“impresa” privata. Per questo i capitalisti fanno sì che nel modo più rapido possibile il loro Stato riduca le tasse sui profitti e in particolare sugli accantonamenti per nuovi investimenti. Il governo conservatore (e dopo di questo il governo laburista) ha sistematicamente ridotto le tasse in questa direzione.

D’altro  canto  le  varie  “soluzioni”  keynesiane  per  questo  problema sono fondamentalmente malsane. Se attraverso una politica indebitamento pubblico, come proposta da Gaitskell, lo Stato spende denaro che in effetti non possiede, significa che ci sarà inflazione della moneta e dopo un periodo di tempo questo riporterà a quanto detto in precedenza riguardo la distribuzione del reddito nazionale, con la sola differenza che la crisi sarebbe aggravata dalla rovina della moneta. La ragione di ciò è l’inevitabile ascesa dei prezzi che, fatte salve le altre condizioni, crescerebbero in proporzione all’aumento della moneta in circolazione non sostenuta da un aumento dei beni.

Altrettanto stupido è il suggerimento di Gaitskell, al quale altri hanno fatto eco, di un aumento nelle spese delle industrie nazionalizzate. Le industrie nazionalizzate provvedono come industrie di base ai bisogni dell’insieme dell’economia capitalista. Il denaro per queste industrie, nella misura in cui non venga reperito lungo le “normali” linee di mercato, deve essere ottenuto o dal deficit pubblico, o dalle tasse e pertanto incide sull’ammontare che può esser speso nel complesso dell’industria. L’irrealisticità economica del suggerimento secondo il quale un aumento della spesa da parte delle industrie nazionalizzate potrebbe risolvere una crisi nella produzione è indicata dall’attuale crisi nell’industria del carbone. Le ferrovie, il settore elettrico e del gas e altre industrie nazionalizzate dipendono (a parte il consumo individuale) dagli ordini delle imprese private, dalla meccanica, la chimica, l’alimentare e altre industrie. Un calo nella produzione in questi settori significa inevitabilmente un calo nella produzione delle industrie nazionalizzate. La crisi dell’industria carbonifera dimostra la verità di questa proposizione, persino durante l’attuale boom. È solo grazie al boom che il governo può permettersi l’accumulo di decine di migliaia di tonnellate di carbone all’uscita dei pozzi.

La spesa in armamenti è una spesa in capitale fittizio (improduttivo). La spesa in opere pubbliche, strade, ospedali, scuole è una spesa necessaria anche se marginale (non legata direttamente alla produzione, ma ad essa necessaria), ma può solo mitigare il problema per le ragioni sopra accennate. Tra parentesi, la commissione Radcliffe ha dimostrato definitivamente la fallacia dell’idea che l’economia sia controllata dalle misure monetarie. Di fatto, come hanno sempre sostenuto i marxisti, è vero il contrario. L’evoluzione dell’economia in direzione dell’inflazione o della deflazione costringe ad alzare o abbassare i tassi d’interesse. La conclusione generale della commissione è stata che

“non ci si può affidare alle sole misure monetarie per mantenere in buon equilibrio un’economia soggetta a forti tensioni sia dall’interno che dall’esterno. Le misure monetarie possono aiutare, ma questo è tutto […] Sospettiamo che non sarebbero state riposte tante speranze stravaganti nella politica monetaria in questi ultimi anni se non fosse stato per il desi- derio di evitare soprattutto aumenti delle tasse e riduzioni nella spesa del governo. La graduale riduzione del peso delle tasse dovrebbe facilitare in futuro il prevalere di opinioni più realistiche.”

In altre parole lungi dal considerare la spesa statale come una grazia salvatrice e una benedizione, la borghesia si lamenta costantemente del carico costituito dallo Stato (un peso schiacciante sulle sue spalle, ma tuttavia necessario). Un aumento della spesa statale nella polizia e nell’esercito per difendere il bottino della borghesia, e nei servizi sociali necessari a mantenere le masse sotto controllo, nell’istruzione, ecc. significa meno denaro nelle tasche degli stessi capitalisti. In effetti, dopo la guerra, in proporzione al reddito totale e all’aumento della ricchezza, se da un lato la spesa in armamenti è aumentata enormemente, in termini reali sono stati trascurati i servizi che indirettamente servono i bisogni dell’economia. The Times Review  of Industry del dicembre del 1959 commenta: “L’effetto cumulativo degli investimenti insufficienti nelle risorse pubbliche ‘non industriali’ probabilmente genererà problemi economici e sociali di prima grandezza”.

Nel World Survey delle Nazioni Unite si trova una spiegazione della recessione del 1957-58 che si adatta alle concezioni teoriche del marxismo:

“Vi è ora un accordo praticamente unanime che la creazione di una capacità in eccesso (in Gran Bretagna e America) in tutta l’economia nel 1955-57 sia stato un fattore principale nel portare alla recessione del 1957-58.”

Al tempo stesso il primo flusso di espansione capitalista successivo alla guerra sta giungendo al termine:

“Contrariamente alle illusioni diffuse sull’ampiezza del boom del 1955-57 – alimentate in parte dalla analoga paura dell’inflazione – le vere dimensioni dell’espansione sono state davvero modeste. Negli Usa persino nel trimestre di picco nel 1957 il volume della produzione non ha superato il picco precedente alla recessione del 1953 di più del sei per cento, e al punto minimo della recessione del 1957-58 il volume era solo del tre o quattro per cento superiore a quello equivalente del 1951 – ben sette anni prima […] Anche se il tasso di crescita è stato mediamente più alto in altri paesi industriali, con maggiore evidenza in Francia, Italia, Repubblica federale tedesca e Giappone, è stato piuttosto modesto particolarmente nel Regno Unito.”7

La “capacità in eccesso” nell’industria britannica è un sintomo della sovrapproduzione di capitale e dei limiti del mercato. C’è stata una serie di crisi parziali, che nel periodo passato hanno colpito diversi settori dell’economia,  “eccesso  di  capacità”  nelle  industrie,  sovrapproduzione  di beni di consumo, sovrapproduzione di materie prime, di cibo, ecc., in momenti e fasi differenti. Fu solo la concatenazione simultanea di tutti i fattori di crisi a condurre alla depressione devastante del 1929-33. Nell’attuale marea dell’economia, gradualmente in una serie di settori economici le proporzioni stanno avvicinandosi a quelle che erano caratteristiche degli anni ’20. Ad ogni tappa successiva, gli assunti degli esperti economici delle Nazioni Unite e della borghesia nel suo insieme sono stati smentiti. L’ascesa industriale nei paesi occidentali ha prodotto a sua volta una domanda di materie prime e di prodotti alimentari (prodotti primari). Questa ha portato a un aumento della produzione nelle “aree sottosviluppate”. Il boom nella produzione di minerali, ecc. ha portato a un aumento dei prezzi di questi prodotti (il mercato continua a dominare su scala nazionale e internazionale) e a un miglioramento dei termini di scambio. Ma questo a sua volta, seguendo la stretta logica del capitalismo, ha portato alla sovrapproduzione e a una caduta nei prezzi. La caduta dei prezzi dei beni primari nella sola recessione del 1957-58 è stata fra sette e otto punti, equivalenti a sei anni di prestiti alle zone sottosviluppate da parte della Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo ai tassi del 1956-57.

Secondo l’indagine delle Nazioni Unite, “i termini di scambio alla fine degli anni ’50 appaiono simili a quelli degli ultimi anni ’20.” È stata assiduamente diffusa l’idea che la soluzione ai problemi del capitalismo possa trovarsi nello sviluppo delle aree sottosviluppate. È vero che un grande aumento negli investimenti di capitale per un breve periodo di tempo attenuerebbe il problema, ma solo per renderlo peggiore in una fase successiva. Vanno tuttavia visti i limiti di questo sviluppo su basi capitaliste. Le Nazioni Unite ammettono:

“Non si può dire che l’attuale livello di aiuto internazionale sia un contributo trascurabile allo sviluppo dei paesi più poveri; nell’insieme compensa pienamente il declino della proporzione del capitale privato straniero in relazione alle esportazioni dei produttori di beni primari che c’è stata dopo gli anni ’20 (compensa solamente! – EG). Tuttavia è sufficiente realizzare che calcolata per abitante l’assistenza totale ammonta a soli 5 dollari all’anno per i paesi contribuenti e non più di 2 dollari all’anno per le aree beneficiarie, per vedere quanto questa somma sia di gran lunga inadeguata a permettere un significativo avanzamento nello sviluppo economico.”

Il fermento che attraversa il mondo coloniale si basa su queste cifre. È un esempio del capitalismo che si rompe negli anelli deboli. Questo spiega il cambiamento nella politica dell’imperialismo, che avrà in futuro immense conseguenze politiche ed economiche.

C’è un distacco crescente tra la crescita dell’economia e il tasso di espansione delle aree sottosviluppate e i centri metropolitani avanzati. A causa della crescita della popolazione nelle aree coloniali ed ex coloniali la disparità è aumentata. Tra il 1938 e il 1955-57 c’è stato un aumento sostanziale della produzione di cibo e materie prime, ma questo assomma solo a due quinti di quello dei prodotti manifatturati.

Questo ha portato a sua volta al problema del distacco crescente tra le zone sottosviluppate del mondo e i centri metropolitani. A causa dell’aumento  nella  produzione  dei  centri  industriali,  e  nonostante  l’aumento della loro stessa produzione industriale, i paesi sottosviluppati sono ancora  più  indietro  nel  campo  della  crescita  industriale  di  quanto  fossero prima della guerra. Al tempo stesso l’aumento della popolazione in queste regioni significa che il livello assoluto del tenore di vita, che in questo momento nei paesi industriali aumenta, nelle cosiddette regioni sottosviluppate sta cadendo, poiché nel migliore dei casi l’aumento della produzione industriale e dei mezzi di sussistenza riesce a stare al passo.

Durante i periodi di scarsità nel primo dopoguerra la borghesia credeva che il problema del rapporto tra i paesi produttori di beni primari e i paesi industriali sarebbe stato risolto con l’aumento dei prezzi delle materie prime e dei prodotti alimentari. Erano persino preoccupati che le ragioni di scambio per paesi come la Gran Bretagna sarebbero cambiate permanentemente a svantaggio dei paesi industriali. Gli economisti delle Nazioni Unite scrissero dotti saggi su questo problema.

La sola cosa che non venne loro alla mente era la inevitabile sovrapproduzione che sarebbe seguita alla scarsità. Seguendo la domanda, ci furono  grossi  investimenti  nella  produzione  di  rame,  piombo,  stagno, lana, cotone e altre materie prime, che portarono alla produzione di un surplus e da questo alla sovrapproduzione.

Nonostante la crescita del commercio in paragone col 1929, nel mondo capitalista c’è un calo proporzionale del commercio mondiale. Questo significa che dopo un certo periodo la crisi del capitalismo sul mercato mondiale sarà aggravata. Le diverse potenze capitaliste non saranno in grado di trovare un modo di sfuggire alle contraddizioni nazionali se non nel mercato mondiale, ciascuna a spese delle altre. Il commercio totale dei paesi produttori di beni primari è aumentato di solo un terzo rispetto ai paesi manifatturieri. Se si sottrae il petrolio, la cifra scende a un settimo, e il petrolio riguarda principalmente i paesi del Medio Oriente.

Un fenomeno simile a quello del periodo successivo alla Prima guerra mondiale è il declino relativo nella posizione che l’America aveva conquistato immediatamente dopo la Seconda guerra mondiale. L’aumento della produzione fino al 1957 è stato del 14 per cento negli Stati uniti e del 32 per cento in Europa occidentale. In Europa occidentale nei cinque anni dai primi mesi del 1953 alla fine del 1957 l’aumento della produzione industriale è stato del 40 per cento. In America, dalla metà del 1954 alla metà del 1957, l’aumento della produzione industriale è stato solo della metà, il 20 per cento. In Gran Bretagna tra i due picchi del 1953 e del

1957, l’aumento è stato solo del 6 per cento. “Le principali (ragioni del calo nella produzione): fra queste c’è il declino negli investimenti fissi, in particolare degli investimenti privati.”8

Trattando della situazione in Gran Bretagna, il World Economic Survey delle Nazioni Unite continua:

“L’economia del Regno Unito è stata stagnante dal 1955 in avanti, con piccoli alti e bassi. La produzione industriale in quel paese è calata durante il 1956 al di sotto del livello raggiunto negli ultimi mesi del 1955 e successivamente non ha superato quel livello, neppure alla fine del 1958.”

Spiegando  il  calo  dell’economia  anche  in  Europa  occidentale  e Giappone:

“Il fattore preponderante nei recenti sviluppi economici in Europa occidentale e in Giappone è stata la debolezza degli investimenti fissi e della domanda nelle esportazioni. Nel complesso, i cambiamenti nella spesa del governo non avevano contribuito all’ascesa precedente, né hanno influenzato gli sviluppi nel 1958.”9

Trattando  dell’economia  capitalista  e  in  specie  di  quella  americana dopo la Seconda guerra mondiale, Fellner giustamente sottolinea:

“In realtà il periodo durante il quale l’economia ha dimostrato una considerevole resistenza alle spinte al ribasso è sufficientemente lungo da suggerire che di tutti gli stimoli ‘artificiali’ (qui elencati) solo l’elevata spesa militare può avere avuto molta rilevanza nel periodo preso nel suo insieme […] Anche la debolezza della stessa recessione del 1948-49 difficilmente può attribuirsi alle spese militari e agli aiuti esteri poiché la recessione e l’inizio della ripresa caddero nell’intervallo che seguiva la graduale riduzione delle spese del tempo di guerra e che precedette la ripresa delle spese militari durante le ostilità in Corea.

Nell’intervallo del 1947-50, nel quale sono cadute la recessione e l’inizio della ripresa, le spese del governo erano considerevolmente più alte che negli anni ’20 in proporzione al reddito nazionale (la spesa armamentistica era di molte volte superiore) ma minori che nei depressi anni ’30, e la struttura fiscale era diventata molto più rigida.”

Un processo simile si può vedere nella recessione del 1957-58. Non la spesa pubblica, ma lo stesso sviluppo dell’economia ha tratto l’Europa occidentale, la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e altre economie fuori dalla recessione, ossia lo stesso funzionamento “automatico” dell’economia. Di fatto la borghesia, gli economisti delle Nazioni Unite e gli economisti seri in Gran Bretagna e America sono stati piacevolmente sorpresi dal carattere breve della recessione del 1958-59. Si è verificato qui il tipico boom capitalista, con la produzione che ha fatto un balzo in avanti in Gran Bretagna, Europa occidentale, Giappone e Stati Uniti.

Commentando le attuali pretese di aver risolto il problema di una crescita durevole, Oscar Hobson scrive sul numero di febbraio del Banker:

“Ombre del 1929, quando quasi dappertutto si proclamava di aver risolto il problema di un boom perpetuo accompagnato da prezzi stabili.”

Gli economisti della borghesia capiscono molto bene come gli investimenti siano la chiave della crescita economica. A pagina 179 del World Economic Survey (1959) l’esperto delle Nazioni Unite scrive:

“La crescita economica si è basata principalmente sugli investimenti su vasta scala in capitale fisso e su una rapida crescita della spesa privata in automobili e altri beni durevoli. A differenza del boom coreano, nel processo non ha avuto parte alcuna l’aumento delle spese governative. Al contrario, è stato il livellamento o declino nella spesa pubblica, con la fine del conflitto coreano, che ha liberato risorse utilizzabili nel settore privato. In alcuni paesi, tuttavia, sono state le esportazioni più che il consumo domestico a imprimere la maggiore spinta all’aumento dell’attività.”

Scrive sul Financial Times l’ex segretario alle finanze del Tesoro, l’“ortodosso” Enoch Powell:

“Questo [aumento della produzione nel 1959 in Gran Bretagna] è stato parte di una ripresa generale del commercio, così come la stagnazione che l’ha preceduto faceva parte di una recessione generale: entrambi hanno interessato paesi i cui governi facevano le mostre di comportarsi molto diversamente fra loro […] il governo ha tolto risorse all’economia attraverso le tasse e l’indebitamento pubblico tanto quanto di extra aveva dato attraverso l’aumento delle spese.

Questo a sua volta rende molto dubbio che il governo abbia in effetti fatto alcunché per ‘stimolare l’economia’, contrariamente alle sue intenzioni. La ripresa, come la recessione, si è verificata in risposta ad altre forze, di carattere diverso e più generale; o, se preferite, seguendo le immortali parole rivolte dal cameriere alla gentildonna che soffriva il mal di mare:

‘Signora, non dovete fare nulla, avviene tutto da solo.’

Forse da un punto di vista teorico – ma difficilmente da qualsiasi altro – questo è fonte di rammarico. Ancora una volta siamo stati privati del pri- vilegio di poter osservare da vicino un governo britannico che affronta una recessione con una linea keynesiana ortodossa. Non sappiamo ancora quali sarebbero approssimativamente i risultati se, di fronte a un calo persistente nella propensione al consumo, un governo britannico con uguale persistenza aumentasse la spesa finanziandola con la creazione di denaro attraverso l’indebitamento. In ogni modo non è stata questa la storia della ripresa del 1958-20.” (Financial Times, 7 gennaio 1960)

Qui Powell sostiene, sulle linee dell’economia di mercato, che il tentativo dello Stato di sostenere l’economia con investimenti pubblici non risolverà il problema più di quanto lo abbia fatto la politica rooseveltiana prima  della  guerra.  Powell  comprende  alcuni  dei  limiti  dell’economia capitalista e il fatto che fino a quando ci sia un’economia di mercato basata sull’impresa privata, quanto il governo può “mettere” è determinato da quanto può ottenere sotto forma di tasse, ecc.

Un economista americano scrive sul Financial Times sulle prospettive per l’economia americana, è ovviamente pieno di ottimismo, ma persino lui manifesta cautela. Trattando i fattori che hanno portato all’ascesa dell’economia americana, commenta:

Con ogni probabilità il prossimo decennio non verrà rovinato da una seria depressione […] ci saranno cambi di passo e dovremmo prevedere uno o due cali; ma non ci aspettiamo niente di peggio. Dopo il decennio della depressione negli anni ’30, gli americani hanno appreso molto sul funzionamento della loro economia […] Il risorgere della fiducia in ciò che può fare un’economia di mercato è stato importante nel mantenere la spesa dei consumatori durante le recessioni; i sussidi di disoccupazione, una migliore posizione finanziaria e le agevolazioni al credito hanno contribuito anch’esse […]”

Gli ultimi fattori citati possono offrire solo un piccolo sollievo a un’economia declinante e non possono porla su basi stabili per lungo tempo. Questi fattori sono esistiti in Gran Bretagna fin dalla Prima guerra mondiale, senza influenzare l’economia in modo fondamentale. Ci sono tuttavia certi fattori che hanno mantenuto in equilibrio l’economia. L’ammontare speso negli Stati Uniti lo scorso anno in ricerca e sviluppo di nuove tecniche e prodotti ammontava a 12,5 miliardi di dollari, dei quali 9 miliardi erano il contributo dell’industria privata. La vera spiegazione del boom protratto negli Stati Uniti viene data dall’economista citato in precedenza nei termini seguenti:

“La dipendenza delle aziende da nuovi prodotti, materiali e metodi per poter sopravvivere e crescere in un’economia competitiva spinge ad introdurli quanto più rapidamente possibile, per timore di perdere altrimenti i temporanei profitti differenziali che coprono le spese della ricerca. Poiché la tecnologia non si ferma in attesa della ripresa economica, nuovi investimenti possono ora agire per abbreviare le recessioni e ridurre la loro severità.”

Ma questo processo non può continuare all’infinito. Nessuna impresa investe in nuove tecnologie e prodotti se la vendita di questi sarà minore di quelli precedenti. Se il ritorno non copre i margini più almeno il profitto precedente, non c’è motivo nel continuare a investirvi denaro sonante per recuperare quanto già investito. Per di più dopo un periodo di continui investimenti il tasso di profitto deve declinare in misura tale da non potere essere compensata dall’aumento del plusvalore, anche se vi fosse un aumento nel tasso di sfruttamento attraverso un aumento della produttività del lavoro.

Il Financial Times del 26 gennaio 1960 riporta le attività dell’amministrazione  Eisenhower:

“Appare  chiaro  che  negli  alti  circoli  degli  Stati Uniti è in corso una grande rivoluzione. Essa ammonta niente meno che al rigetto della dottrina keynesiana – perlomeno laddove questa implica un periodico indebitamento.”

“Il bilancio”, per citare ancora il corrispondente a Washington dell’Economist, che riferisce le opinioni dell’amministrazione, “non deve solo essere in equilibrio lungo il ciclo economico […] dovrebbe anche mostrare un attivo sostanziale.”

Già nell’affrontare la recessione del 1958 il governo repubblicano ha insistito sulla necessità di mantenere il bilancio in equilibrio. “Si sono comportati così per timore dell’inflazione, che minacciava di sfuggire di mano”.

La nuova recessione promette di essere più seria e di durare più a lungo dell’ultima. La Borsa di New York è il messaggero del crollo che si prepara. Nel suo editoriale del 30 gennaio 1960 il Financial Times suona già le sirene d’allarme:

“L’aspetto preoccupante nel comportamento di Wall Street sono le voci di una nuova recessione […] È passato poco più di un anno da quando gli Usa soffrivano degli effetti della scorsa recessione e un nuovo calo nel 1960 sarebbe intollerabile […] Su questa sponda dell’Atlantico le probabilità sembrano invece essere ancora contro un calo prematuro del ciclo.”

La stessa storia di sventure viene narrata dal The Times Review of Industry (febbraio 1960):

“È del tutto possibile che la prospettiva del boom del 1960 sia sufficientemente forte da prolungarlo anche per gran parte o tutto il 1961. Anche se questo accade, tuttavia, la sua nascita innaturale come conseguenza dello sciopero della siderurgia può rendere la recessione successiva qualcosa di più del morbido riaggiustamento al quale gli Usa si sono abituati dopo la guerra.”

L’inchiostro si era quindi appena asciugato sulle profezie di una nuova ascesa che già la stampa rifletteva i tremori di un nuovo crollo. Gli stessi capitalisti hanno troppo in gioco per condividere l’ottimismo dei Crosland e dei Jay riguardo alla stabilità del capitalismo. Quale che sia la data precisa, è assolutamente certo che il boom senza precedenti del dopoguerra dovrà essere seguito da un periodo di caduta catastrofica, che non potrà non avere un profondo effetto sul pensiero politico di un movimento operaio le cui fila si sono enormemente rafforzate.

 

Note

1. Il Mercato comune europeo venne fondato nel 1957. I “paesi esterni” erano Norvegia, Austria, Svizzera, Gran Bretagna, Portogallo, Finlandia e Islanda che si unirono a loro volta nel 1960 formando la European Free Trade Association (Efta).

2. Lev Trotskij, The Third International After Lenin, pagg. 64-65.

3. ibidem, pag. 52.

4. ibidem, pag. 81.

5.The Economic Bulletin for Europe, Volume 3, 1959.

6. World Survey, pag. 4.

7. ibidem, pag. 6.

8. United Nations World Economic Survey, pag. 181.

9. ibidem, pag. 192.

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