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Cercando la rivoluzione. Cenni sulla storia dell’estrema sinistra in Italia

di Claudio Bellotti

 

Lo scopo di questo testo non è quello di fornire una storia del Pci e dei gruppi che sorsero alla sua sinistra a cavallo degli anni ’60 e ’70. L’obiettivo è invece quello di tentare di trarre un bilancio politico del biennio ’68-’69.

Si dice spesso che la storia viene scritta dai vincitori, e non sono mancate negli anni ’80 e ’90 le “interpretazioni” del ’68 come origine del terrorismo, gazzarra di studenti svogliati e di operai senza voglia di lavorare, causa prima e ultima di tutti i mali della nostra società.

Non è certo contro queste interpretazioni che vogliamo spenderci a polemizzare. Tuttavia è doveroso segnalare come anche sull’altro versante, sul fronte cioè di quanti intendono difendere e indagare l’eredità di quel “biennio rosso”, spesso nascano interpretazioni che a nostro avviso fanno più danni di tanti attacchi aperti provenienti dalla stampa e dagli intellettuali borghesi.

La prima di queste interpretazioni è quella che parla dell’autunno caldo come di una semplice “lotta per la democrazia”, per il completamento delle conquiste avviate con la Resistenza, come un semplice allargamento dei diritti politici e sociali. È l’interpretazione prevalente nel campo sindacale (come lo fu in passato nel gruppo dirigente del Pci ) la quale tenta quindi di minimizzare la portata rivoluzionaria di quegli avvenimenti e di ridurli in qualche modo a una semplice “lotta per le riforme”. Ci pare un’interpretazione riduttiva, che non risponde a una domanda fondamentale: se questo fu il contenuto dell’autunno caldo, come si spiega che in quel movimento sorsero decine di organizzazioni politiche rivoluzionarie, che giunsero a organizzare e a influenzare decine e centinaia di migliaia di persone in Italia? Fu solo un’esaltazione collettiva di studenti infatuati dall’idea della rivoluzione, come tante volte ci viene suggerito? O non fu invece una delle espressioni di una spinta profonda a mettere in discussione il capitalismo?

Un’altra interpretazione che non ci sentiamo di condividere è quella che tenta di spiegare origine, sviluppo ed esiti dell’autunno caldo unicamente sulla base di un’analisi dei metodi di produzione prevalenti, della modificazione della figura operaia e della composizione di classe. Si tratta di un’interpretazione che ha una lunga storia e ha origine nelle correnti operaiste che negli anni ’60 tentarono di mettere in discussione la linea riformista già allora prevalente nel Psi e nel Pci. Questa interpretazione, riproposta con grande chiarezza per esempio da Marco Revelli, ci pare riprendere precisamente i punti più deboli di quelle correnti. Se infatti l’operaismo degli anni ’60 aveva indubbiamente un’approccio unilaterale, ebbe però anche un grande pregio, che fu quello di tentare di capire le ragioni del distacco abissale che separava la nuova classe operaia cresciuta negli anni del “miracolo economico” da quello che era il movimento operaio ufficiale (Pci, Psi, Cgil). Le riviste operaiste dei primi anni ’60 svilupparono una indagine concreta dei mutamenti dell’economia italiana durante il boom, e una critica vigorosa dei miti del “miracolo economico”. Queste analisi erano molto più aderenti alla realtà di quelle del gruppo dirigente del Pci, che per lunghi anni si limitò a una generica denuncia del sottosviluppo e dell’arretratezza, e che quindi si lasciavano spesso influenzare dalle posizioni “modernizzatrici” che emergevano dai settori più lungimiranti della borghesia, che sostennero poi la formazione dei governi di centrosinistra.

Le correnti operaiste, che influenzarono la formazione di molti dei futuri quadri dell’estrema sinistra, ebbero però un limite fatale. Appiattite in un’analisi prevalentemente sociologica (nuove figure operaie, cambiamento nelle professionalità, ecc.), non diedero risposte credibili alla domanda decisiva: come combattere non solo su un terreno culturale e ideologico, ma anche più direttamente politico, la linea ereditata da Togliatti, che mostrava ormai chiaramente tutti i suoi limiti, e cosa sostituire a essa.

Mancando di questa riflessione fondamentale, la sinistra operaista si ridusse al ruolo di “vivaio” da un lato per le nuove formazioni che sarebbero nate dalle sue ceneri, e dall’altro per una nuova leva di sindacalisti che si limitarono a trarre da quelle elaborazioni quanto poteva esser loro utile per “rinsanguare” una pratica sindacale sempre più distante dai lavoratori, ma senza per questo mettere in discussione la linea complessiva della Cgil.

Nel 1989 Revelli scrisse: “Forse proprio in questo sta il carattere più specifico del nuovo ciclo di lotte inaugurato dal 1969. In questo suo far propri, rovesciandoli, gli aspetti di straordinarietà del modello produttivo e organizzativo entro cui si genera.” Detto in altre parole, l’autunno caldo non poteva che nascere in quelle condizioni, e una volta mutato il quadro (nuove tecnologie, nuova fase del ciclo economico), non poteva che esaurirsi.

Il punto di partenza della nostra analisi è invece un altro, e cioè che le condizioni materiali e sociali determinano l’innesco del movimento, ne costituiscono la base, lo sfondo, se vogliamo il motore decisivo; ma che una volta acquisito questo, l’esito del movimento, lo sbocco finale non è e non sarà mai determinato a priori da considerazioni di tipo sociologico. È nello scontro di forze vive, di diverse alternative politiche, di differenti organizzazioni e tendenze politiche, che si determina l’esito della lotta. Decisive, in questo quadro, sono quindi le idee, le teorie, le tattiche e le pratiche che i settori più avanzati del movimento fanno proprie, e la loro capacità o meno di trovare una strada corretta, di saper capire tempi e ritmo degli avvenimenti, di sapere avanzare proposte e parole d’ordine corrette, in una parola la capacità di essere direzione.

Ogni epoca dello sviluppo capitalistico ha avuto le sue caratteristiche peculiari. Certamente le condizioni tecnologiche, produttive, la fase del ciclo economico, hanno una influenza sulle concezioni che i lavoratori sviluppano, e quindi sul movimento operaio, sulle sue organizzazioni, sui metodi di lotta; tuttavia limitare l’analisi a questo livello significa inevitabilmente cadere in una sorta di fatalismo che impedisce di giungere a una reale comprensione degli avvenimenti, e di trarne le dovute lezioni.

Prima del ’68: una sinistra in crisi

Gli anni che precedettero l’esplosione del ’68-’69 sono anni di crisi nel movimento operaio ufficiale. I governi di centrosinistra con la partecipazione del Psi, inaugurati nel 1963, deludono ben presto le aspettative che potevano aver suscitato. Il Psi viene coinvolto sempre più strettamente nella gestione del potere democristiano, accentuando un processo di svuotamento della militanza che nei fatti non si sarebbe mai più invertito.

Ma neanche il Pci vede un reale avanzamento delle proprie posizioni, bensì il contrario.

Il Pci aveva raggiunto nel 1947 il massimo storico dei suoi iscritti, con 2.252.000. Da allora in poi c’era stato un calo costante, con una vera e propria emorragia dopo il 1956 (“destalinizzazione” e intervento sovietico in Ungheria), scendendo nel 1968 a 1.502.862 iscritti. Ancora più significativo il calo di iscritti nelle grandi città. Fatto pari a 100 il numero di iscritti nel 1949, nel 1968 la cifra è la seguente: Torino 29,2, Milano 43,7, Genova 52,3, Napoli 37,3. Si tenga a mente il dato di Torino, epicentro dell’autunno caldo e punto più alto di conflitto fra il Pci e i gruppi di estrema sinistra.

Nella Conferenza operaia del Pci del 1970, Giuliano Pajetta, responsabile dell’ufficio fabbriche, sottolinea come negli anni precedenti il partito “nella maggioranza delle fabbriche italiane non disponeva di una vera e propria organizzazione di partito e talvolta nemmeno di un nucleo organizzato di comunisti capaci di una iniziativa autonoma.”

Il rapporto tra iscritti e votanti si eleva continuamente. Nel 1948 il Pci prende 3,8 voti per ogni iscritto, nel 1968 il rapporto è salito a 5,7.

Il fatto che il partito, in una fase di forte riflusso delle lotte, aumenti i suoi voti mentre perde iscritti e militanti, dimostra indubbiamente una spinta all’istituzionalizzazione.

Un partito sempre più elettoralista e provinciale, quindi, che dietro alla facciata dei grandi numeri di un partito di massa, vive un distacco profondo dalle nuove generazioni operaie plasmate dagli anni del “miracolo economico”.

Processi simili investono la Cgil e in particolare la Fiom, sulla difensiva dalla metà degli anni ’50 e in particolare dopo il 1955, anno che vede la sconfitta nelle elezioni interne alla Fiat. La Fiom, che nel 1949 aveva 37.520 iscritti su 41.882 operai della Fiat, nel 1967 ne aveva appena 1.041. La maggioranza dei quadri sindacali era ormai da decenni uscita dalle fabbriche, come conseguenza dei licenziamenti politici; i giovani e gli immigrati non erano praticamente presenti nei gruppi dirigenti del sindacato. Sebbene la situazione torinese rappresentasse probabilmente un punto particolarmente basso, considerazioni analoghe si potrebbero fare per molte altre realtà in tutto il paese.

La nascita del centrosinistra contribuisce a spostare a destra la linea dei partiti operai, non solo del Psi, ma anche del Pci, che pure rimane all’opposizione. Già nel 1964 Giorgio Amendola, dirigente della corrente di destra del Pci, lancia una proposta di scioglimento del Pci e unificazione col Psi in un unico partito dei lavoratori. La proposta troverà forte opposizione e verrà infine abbandonata, ma non per questo si ferma il processo di “risucchio” del Pci verso il centrosinistra.

Prima del ’68: la genesi dell’estrema sinistra

Il quadro immediatamente precedente all’esplosione dell’autunno caldo è quindi di sostanziale arretramento, sia sociale, che politico. Tuttavia non mancano i segnali premonitori, non solo in singoli episodi di lotte operaie e studentesche, ma anche a livello politico. Gli anni ’60 vedono un vero e proprio proliferare di tentativi di dare una risposta di sinistra all’evidente crisi di strategia e di radicamento del Pci. È la stagione delle riviste, dei piccoli gruppi di intellettuali e militanti che intraprendono, spesso in condizioni di forte isolamento, una ricerca difficile. È impossibile qui elencare tutte le voci, i gruppi e le organizzazioni che sorsero negli anni 1964-’67. Cerchiamo però di indicare alcuni percorsi significativi.

Vi è innanzitutto il Psiup, nato nel 1964 in opposizione all’entrata del Psi al governo con la Dc. Di tutte le formazioni che in questa fase si pongono alla sinistra del Pci, il Psiup è l’unico che possa definirsi un partito con un radicamento di massa: la scissione dal Psi, guidata dagli esponenti storici della sinistra socialista, viene appoggiata da un settore decisivo dei sindacalisti socialisti. Tuttavia il Psiup non uscirà mai dalle ambiguità che storicamente caratterizzarono quella corrente, e subirà sempre di più l’attrazione del gruppo dirigente del Pci da un lato, e la critica da sinistra delle nuove formazioni che sorgeranno nel corso di quegli anni; al culmine della crisi, le elezioni del 1972 vedranno il Psiup cancellato dal parlamento e l’immediato scioglimento del partito con la confluenza nel Pci della maggioranza dei suoi quadri e il ritorno al Psi di un altro settore, mentre alcune migliaia di iscritti fonderanno il Pdup.

Anche nel Pci le voci critiche cominciano a farsi sentire: un intero settore ne esce fra il 1964 e il 1965 su posizioni di adesione acritica alle posizioni di Mao, nel tentativo di recuperare una versione “dura” e “di sinistra” dello stalinismo, considerato che nelle loro critiche al “revisionismo” sovietico i dirigenti cinesi fanno principalmente riferimento alle posizioni di Stalin.

I gruppi filocinesi si dimostreranno però incapaci di darsi un vero radicamento, e perderanno gran parte della loro influenza organizzata in una vera e propria “diaspora” alla fine degli anni ’60.

Altre esperienze ci paiono più significative, per l’influenza che ebbero sui gruppi che sorsero nel 1968-’69.

Sorta nel 1961 attorno a Raniero Panzieri, la rivista “Quaderni rossi” tenta di orientare i militanti di avanguardia di fronte ai fenomeni nuovi del “miracolo economico” e del centrosinistra. Si sviluppa un’analisi dei miti prevalenti (radicati anche a sinistra) riguardo lo sviluppo economico e tecnologico, si analizza la nuova condizione operaia. La rivista vedrà ben presto aprirsi delle divisioni fra i suoi principali redattori e nel 1965 cessa le pubblicazioni. Significativo il fatto che il sindacato torinese attribuisse la rivolta di piazza Statuto (1962) precisamente a una provocazione del gruppo che faceva capo alla rivista, che si definiva “espressione di un lavoro teorico e pratico di militanti impegnati nelle lotte sindacali e politiche del movimento operaio”.

I “Quaderni rossi” furono il principale precursore di molti gruppi sorti negli anni successivi dai vari tronconi in cui la rivista si suddivise, e che furono in varia misura influenzati dalle sue analisi.

C’è un momento, attorno alla metà degli anni ’60, in cui si aggregano queste esperienze, traendo alimento dallo scontento dei settori di sinistra del Pci, del Psiup e del sindacato. Significativo è il percorso del Potere operaio toscano, animato da Adriano Sofri, Luciano della Mea e altri, che vede dapprima il gruppo impegnato in una battaglia interna alla federazione di Massa del Pci, venendone poi espulso nel 1965. A partire dal maggio del 1967 cominciano le pubblicazioni della rivista “Potere operaio”, che nei 19 numeri pubblicati prima dello scioglimento del gruppo vedrà la sua tiratura aumentare da 5.000 a 20.000 copie. Ritroveremo in seguito alcuni di questi protagonisti, a partire da Sofri, e vedremo quali frutti produssero le idee sviluppate in quegli anni e poi in gran parte ereditate dalla formazione di Lotta continua nel 1969.

Percorso simile fu quello della rivista “Falcemartello” (da non confondere con la rivista omonima, nata nel 1984, che oggi partecipa al dibattito nel Prc e nella sua sinistra) che ereditava la battaglia condotta dalla sinistra della Fgci di Milano (giunta alla metà degli anni ’60 ad essere maggioritaria nel Comitato federale), poi emarginata con metodi burocratici nel 1966. Fu una parte di questo gruppo, nel 1968, a dare vita ad Avanguardia operaia.

Vi fu, infine, la nascita del “Manifesto”, che vide per tutto il 1969 lo scontro fra la nuova rivista, diretta in sostanza da una parte della corrente ingraiana, e la dirigenza del Pci, fino all’espulsione del gruppo e alla nascita del quotidiano e dell’omonima organizzazione.

Alla ricerca di un’alternativa

Già da questi brevi accenni vediamo come fu decisivo, nella costruzione delle organizzazioni dell’estrema sinistra, il ruolo politico e dirigente dei quadri usciti dai partiti operai tradizionali. Con l’eccezione di quelli che uscirono dall’associazionismo cattolico di base e di coloro che si politicizzarono nel movimento studentesco universitario, la stragrande maggioranza di coloro che ebbero un ruolo dirigente nelle nuove formazioni veniva quindi da un’esperienza più o meno lunga di militanza e di scontro politico all’interno del Pci, del Psiup e anche del Psi.

Al centro della loro svolta c’è la ricerca di un’alternativa all’eredità di Togliatti e in generale dello stalinismo, che appariva ormai sempre più debole e screditato. La “via italiana al socialismo” era ormai diventata una formula sempre meno convincente. Il Pci appariva incapace di ribaltare i rapporti di forza e di prospettare uno sbocco rivoluzionario alla crisi del centrosinistra. Già nel 1962, quando si profila la nascita del centrosinistra Dc-Psi, le tesi del X congresso del Pci parlano di volgere la programmazione economica, che era appunto la parola d’ordine del centrosinistra, a favore dei lavoratori e di farne uno “strumento di fini diversi”. Queste posizioni si approfondiranno negli anni, e nel 1967 i parlamentari della Cgil si asterranno sul “Piano Pieraccini” (una legge di programmazione economica).

Si alimenta una illusione che le politiche keynesiane del centrosinistra possano, in qualche modo, aprire la strada a un’avanzata verso il socialismo, che viene descritta in modo sempre più gradualistico e fumoso come “uno sviluppo graduale nel quale è assai difficile dire quando, precisamente, abbia luogo il mutamento di qualità”.

È questa doppia crisi, del centrosinistra ma anche del gruppo dirigente del Pci, ad alimentare la critica da sinistra delle correnti che abbiamo citato.

E proprio qui possiamo misurare l’importanza della teoria. Tre decenni di dominio pressoché incontrastato dello stalinismo nel movimento operaio italiano avevano lasciato un segno profondo. La rivoluzione russa e l’eredità del partito bolscevico, per quanto celebrate e canonizzate da Togliatti e dai suoi successori, rimanevano in realtà dei grandi sconosciuti anche per gran parte delle avanguardie più coscienti. Le autentiche lezioni della storia del bolscevismo, della Terza internazionale dei primi anni, della rivoluzione russa erano state sepolte da un cumulo di distorsioni, falsificazioni, omissioni. La stessa storia del movimento operaio italiano e del Pci era stata scritta e riscritta ad uso e consumo delle necessità politiche di Togliatti e del suo gruppo dirigente. Il percorso rivoluzionario che dal 1914 al 1926 aveva visto la nascita del Pci, il “biennio rosso” 1919-’20, lo sviluppo della rivoluzione in Italia e poi del fascismo, tutto veniva ridotto a una semplice anticipazione della “via italiana al socialismo”, con Gramsci trasformato in un apostolo pacifista delle “conquista dell’egemonia” senza rivoluzione.

Di fronte ai risultati fallimentari della politica di Togliatti (cacciata del Pci dal governo nel 1947, ritorno in forze della Dc al potere, sconfitta nelle fabbriche, ingresso dell’Italia nella Nato) non erano mancate le voci critiche, sorte in particolare all’interno della base partigiana. Ma tutte finirono in un vicolo cieco, cercando di contrapporre a Togliatti uno stalinismo “duro” e “di sinistra”, e finendo emarginate nel partito o in piccoli gruppi senza influenza.

Di fronte a ciò, le teorizzazioni operaiste di cui abbiamo già parlato non erano certo sufficienti a fornire una risposta ai giovani rivoluzionari in cerca della loro strada. Era necessaria un’alternativa complessiva, che sapesse dare conto non solo delle difficoltà del Pci o della Cgil, ma anche degli sviluppi internazionali, dello scontro fra Cina e Urss e in particolare degli avvenimenti rivoluzionari che attraversavano il mondo coloniale.

Abbiamo già indicato fino a che punto fosse difficile rintracciare l’eredità della rivoluzione russa e del leninismo a causa del ruolo dominante avuto dallo stalinismo nel movimento operaio italiano. Ancora peggio, naturalmente stavano le cose per quello che riguarda l’esperienza degli anni successivi alla morte di Lenin. Il processo di degenerazione della rivoluzione russa, l’ascesa dello stalinismo, le rivoluzioni degli anni ’30, la Seconda guerra mondiale e la Resistenza, tutti questi avvenimenti storici decisivi erano stati conosciuti solo attraverso la lente deformante dello stalinismo e dei suoi seguaci e successori.

Eppure, nonostante questo quadro apparentemente desolante, gli anni ’60 sembrarono aprire un varco alla riscoperta delle idee di Lenin, di Trotskij e a una ripresa di possesso dell’autentico patrimonio storico del marxismo.

La sconfitta di Ingrao

La nascita dei governi di centrosinistra, con la partecipazione del Psi, apre una divisione nel gruppo dirigente del Pci. Amendola, leader della destra, avanza già nel 1964 la proposta di avviare un processo di unificazione fra Pci e Psi, che si sarebbero dovuti sciogliere in un unico partito; l’idea era chiaramente che per questa via il Pci sarebbe stato a sua volta coinvolto nei governi di coalizione.

Questa proposta viene abbandonata per le aspre critiche che suscita, e il risultato è che si crea una spinta contraria, verso sinistra.

In una prima fase è Ingrao a raccogliere le spinte di opposizione nel Pci, accentuando la sua critica alla linea ufficiale. La sua opposizione trova un consenso crescente anche come reazione alle proposte liquidatorie avanzate da Amendola. Tuttavia la critica di Ingrao non uscirà mai dai limiti del consentito. L’alternativa che oppone alle proposte di Amendola è quella del dialogo “alla base” con i cattolici. Ingrao teorizza che la partecipazione delle masse cambierebbe in modo qualitativo la natura della democrazia borghese. Di fatto non è altro che un aggiornamento delle posizioni di Togliatti sulla “democrazia progressiva”, e coerentemente con il carattere del tutto platonico della sua opposizione, Ingrao si guarderà bene dal condurre una battaglia organizzata per veder prevalere una linea alternativa. All’XI congresso (1966) Ingrao rinuncia a dare una battaglia seria ed esce sconfitto su tutta la linea. Dalla delusione successiva nascerà da un lato il distacco di alcuni dei suoi sostenitori (che successivamente daranno vita al Manifesto), mentre dall’altro si apre lo spazio per una nuova opposizione con la radicalizzazione a sinistra di una parte dei giovani, che si coagulano attorno alla IV Internazionale.

I principali sostenitori di Ingrao (quelli de “il manifesto”: Rossanda, Pintor, Parlato, Magri) accentuano sempre di più il loro conflitto con il partito, e alla fine del ’69 vengono espulsi dal Pci. La realtà, tuttavia, è che “il manifesto” non romperà mai realmente con la tradizione ingraiana e con un’interpretazione “di sinistra” del pensiero di Togliatti. La loro rottura è quella di un gruppo di intellettuali che vuole avere il diritto di esprimere liberamente le proprie posizioni, non di una corrente che si ponga realmente il compito di costruire una linea politica alternativa e di lottare per l’egemonia nel movimento operaio. “Il manifesto” si dà successivamente un’organizzazione, e nel 1974 avvia una fusione col Pdup, che naufragherà nei dissidi interni. Ma al di là delle vicende organizzative, rimarrà sempre (ed è tuttora) un quotidiano che si assume il ruolo di “coscienza critica”, di consigliere dei gruppi dirigenti dei partiti maggioritari nella sinistra, e niente di più.

È un fatto poco noto e poco commentato che alla metà degli anni ’60 Livio Maitan e il gruppo dirigente della IV internazionale entrarono in relazione con settori significativi dell’opposizione che cresceva all’interno e attorno al Pci, anche a livelli dirigenziali. Questo incontro avrebbe potuto essere decisivo, aprendo per la prima volta dagli anni ’30 la possibilità di radicare nel movimento comunista le idee e l’eredità di Trotskij come alternativa allo stalinismo.

Dall’incontro fra i militanti della IV Internazionale e una parte della base ingraiana delusa dall’atteggiamento remissivo di Ingrao nasce la rivista “La sinistra” (1966). Questo episodio, come pure altri (il “Potere operaio” toscano, il gruppo “Falcemartello” a Milano), dimostra a nostro avviso come le difficoltà del gruppo dirigente del Pci, l’aprirsi di divisioni al suo vertice, la sempre minore credibilità della “via italiana al socialismo” aprivano una seria possibilità di condurre una battaglia nel partito comunista. Esisteva un terreno favorevole, migliaia di militanti erano aperti a una critica da sinistra del gruppo dirigente, così come esisteva uno spazio per mettere in pratica nei movimenti una linea alternativa.

Tuttavia, questo risultato non si produsse. I Gruppi comunisti rivoluzionari (questo era il nome dell’organizzazione che faceva capo a Livio Maitan e al Segretariato unificato della Quarta Internazionale) conducevano infatti la battaglia all’interno del Pci su basi estremamente sfocate, diluendo largamente le proprie posizioni con ogni genere di idee, in particolare legate al maoismo e ai movimenti guerriglieri, adottando una tattica arciprudente che verrà definita nel gergo di quel movimento come “entrismo profondo”.

Con queste premesse è impossibile per i Gcr elaborare una strategia e una tattica che permettano di affrontare la inevitabile reazione del gruppo dirigente del Pci, che in diverse occasioni ricorre a espulsioni e campagne calunniatorie per screditare gli oppositori. Incapaci di impostare sia una battaglia aperta nel partito, sia un valido intervento nei movimenti che cominciavano a svilupparsi, i Gcr perdono rapidamente ogni attrattiva e finirono anzi col perdere gran parte dei loro aderenti verso le nuove organizzazioni sorte attorno al ’68-’69.

“La sinistra” ha un’ampia diffusione, giungendo a una tiratura di 15.000 copie e passando nel 1968 da mensile a settimanale. Tuttavia le sue basi politiche diventano sempre più confuse. La battaglia sacrosanta in favore della lotta del Vietnam diviene il veicolo per la diffusione di ogni sorta di illusioni sulla guerriglia, la critica allo stalinismo e all’Urss si trasforma in un appoggio sostanzialmente acritico alla Cina e a Cuba. Anziché lavorare a una battaglia coerente e organizzata attorno a un programma rivoluzionario prevale la linea della “ricostruzione della sinistra italiana”, cioè la classica proposta di fondere correnti politicamente non omogenee (sinistra ingraiana, sinistra Psiup, settori giovanili). Il risultato è quello prevedibile: nel 1968 “La sinistra” è completamente egemonizzata dalle posizioni guerrigliere.

Gli errori della IV Internazionale nella battaglia nel Pci ebbero un ruolo non secondario nello spingere i militanti che si erano avvicinati ad essa verso la frettolosa conclusione che, se l’alternativa era quella proposta da Maitan e compagni, era meglio abbandonare il Pci e provare a costruire nuove organizzazioni: significative, a questo proposito, sia le esperienze milanesi che quelle toscane. Questo fu un errore che segnò largamente il percorso successivo di tutte quelle organizzazioni, che cancellarono dal proprio orizzonte il problema di come contendere l’egemonia al Pci e al gruppo dirigente della Cgil, gettandosi nel “mare aperto” del movimento. Quel problema rimosso porterà ad ogni genere di posizioni settarie (come vedremo successivamente) per poi riemergere con asprezza negli anni ’72-’75, quando l’evidente recupero di posizioni da parte dei gruppi dirigenti del Pci e della Cgil risvegliò bruscamente dai propri sogni le varie organizzazioni rivoluzionarie e aprì il periodo della loro crisi.

I gruppi dell’estrema sinistra: concezioni e idee fondanti

Una chiara comprensione dell’epoca di formazione della “nuova sinistra”degli anni 1964-67 è decisiva per capire gli sviluppi successivi. La fase embrionale di qualsiasi organizzazione politica, l’epoca cioè nella quale si vanno definendo concezioni, analisi, prospettive, principi organizzativi , è decisiva per capirne lo sviluppo futuro. Quando i diversi gruppi incroceranno il loro percorso con quello dei movimenti del ’68-’69 sarà questo “capitale” teorico ad essere messo alla prova.

Come abbiamo già accennato, il primo elemento comune fu l’attrazione per il maoismo e la Rivoluzione culturale cinese.

Nella ricerca di un’alternativa al gradualismo della direzione del Pci, la tradizione della rivoluzione russa e dell’Internazionale comunista della prima fase appariva lontana, sfuocata dalla stessa strumentalizzazione che ne faceva da decenni l’apparato comunista. Più vicina nel tempo e più attrattiva appare la lotta guerrigliera, che nel dopoguerra ha portato la rivoluzione a vincere in Cina e a Cuba, e che in Vietnam sfida l’imperialismo Usa. Il conflitto Cina-Urss alimenta questa spinta, così come il martirio del Che Guevara, ucciso in Bolivia nel 1967.

Non solo i gruppi “marxisti-leninisti” ortodossi, ma in generale tutta l’estrema sinistra fece proprie le concezioni maoiste. In alcuni casi, gli esiti furono caricaturali: si vedano ad esempio i vari partitini “cinesi” che copiavano riga per riga gli Statuti del Partito comunista cinese. Ma anche a prescindere da questi estremi, il maoismo precluse la via a una qualsiasi comprensione del ruolo e delle caratteristiche dei regimi dell’est europeo e dell’Urss, e in generale dello stalinismo. Il rifiuto crescente delle politiche dell’Urss venne spesso catalogato sotto l’etichetta di “socialimperialismo”, categoria priva di qualsiasi contenuto scientifico. Qualsiasi seria analisi della realtà cinese veniva bandita, e al suo posto si alimentava il mito degli 800 milioni di cinesi che, compatti come un solo uomo, sfidavano l’imperialismo e il capitalismo sotto la guida del “grande timoniere” Mao Tse Tung.

Un altro punto comune a tutti questi gruppi fu l’attrazione verso i movimenti guerriglieri, stimolata dagli esempi della rivoluzione cinese, di quella cubana e soprattutto di quella del Vietnam. Frettolosamente i “teorici” della “nuova sinistra” misero in soffitta le lezioni della rivoluzione russa e delle rivoluzioni europee, e si gettarono verso l’idea della guerriglia, convinti di aver trovato il “modello” della rivoluzione che superasse lo “schema insurrezionalista” proprio della Terza Internazionale. A tutti sfuggivano due fatti decisivi. In primo luogo che la guerriglia, con i suoi tempi lunghi, con la conquista graduale del territorio e la lenta formazione di un esercito vero e proprio, aveva potuto svilupparsi solo in paesi a forte prevalenza contadina, dove la composizione della società e del territorio permetteva la liberazione di intere aree e la formazione di uno Stato alternativo che potesse contendere il potere allo Stato borghese. Come tutto questo fosse applicabile nei paesi capitalisti avanzati era e rimase sempre un mistero. Certo non è possibile “liberare” una fabbrica o un quartiere di una metropoli alla stessa maniera con cui gli eserciti contadini di Mao liberavano una valle o una regione.

L’altro aspetto che non venne mai messo in discussione era il fatto che la guerriglia relegava in secondo piano la classe operaia e i lavoratori delle città, capovolgendo quindi l’esperienza della rivoluzione russa (che aveva visto un proletariato numericamente ridotto mettersi alla testa della maggioranza contadina) e concentrava quindi la direzione del processo rivoluzionario non nelle mani di un partito proletario (con una partecipazione di massa e democratica dei lavoratori) ma nelle mani del gruppo dirigente militare della guerriglia. L’esito inevitabile, laddove le guerriglie riuscivano a prendere il potere, era la formazione di Stati che poco o nulla avevano a che vedere con una reale democrazia operaia, ma che rapidamente imboccavano la strada della burocratizzazione, di regimi monopartitici modellati sull’esempio dell’Urss, dove ben presto dalla casta militare guerrigliera e dalla sua fusione con parti del vecchio apparato statale nasceva una nuova élite privilegiata che impediva qualsiasi reale partecipazione delle masse alla gestione del potere.

Le concezioni guerrigliere ebbero due effetti opposti, ma ugualmente disastrosi, sulle organizzazioni rivoluzionarie in Italia (come pure in altri paesi, in particolare Spagna, Messico, Argentina). Infatti, una piccola minoranza prese sul serio quelle teorizzazioni, e impugnò le armi dando vita alle varie formazioni terroristiche. Ancora più paradossalmente, una buona parte dell’estrema sinistra (in particolare Lotta continua) sviluppò una concezione gradualistica, che dietro alle teorizzazioni sulla “lotta di lunga durata” derivanti appunto dalla guerriglia, rimuoveva in realtà il problema della rottura rivoluzionaria, della presa del potere, dello Stato, insomma tutti i nodi centrali di quella che dovrebbe essere una strategia e una tattica rivoluzionaria.

Un’altra caratteristica comune a molti gruppi fu l’adesione a una concezione spontaneistica, che attribuiva all’organizzazione politica, al partito, non il compito di lottare in modo sistematico per selezionare e formare quadri in gradi di conquistare un appoggio maggioritario fra i lavoratori, ma quello di “mettersi al servizio” del movimento, di essere un semplice canale di collegamento dalle strutture indefinite, con una gestione sostanzialmente assembleare (e con l’inevitabile contraltare di un leaderismo sfrenato). Ne nacque una catena infinita di errori e di confusioni, poiché si può dire che nessuna organizzazione aveva una chiara concezione della differenza che passa tra un partito rivoluzionario, che deve strutturarsi in modo permanente, sulla base di una definizione politica e strategica, e quelli che erano i vari organismi di massa (Cub, comitati vari, gli stessi consigli di fabbrica), il cui sviluppo era strettamente legato alla dinamica del movimento e risentiva pertanto di tutti i flussi e riflussi delle lotte.

Mancava completamente una riflessione sul ruolo del Pci, della Cgil e dei loro gruppi dirigenti. Come vedremo in seguito, nel periodo più alto delle mobilitazioni operaie si diffuse una concezione ottimistica che vedeva nella semplice generalizzazione delle lotte la forza che avrebbe portato alla crisi definitiva del potere della borghesia, e quindi anche del controllo dei gruppi dirigenti riformisti sui lavoratori. Di fatto tutti aderivano a una prospettiva che vedeva i lavoratori perennemente all’offensiva, perennemente in mobilitazione, con obiettivi sempre più dirompenti. Il fatto che alle lotte potesse succedere un riflusso, le capacità di recupero del gruppo dirigente del Pci e della Cgil, le riserve di appoggio che questi mantenevano fra le masse, tutto questo non rientrava nell’orizzonte dei gruppi.

Le vicende della lotta interna al Pci (vedi sopra) e la spinta dei movimenti contribuirono a far nascere una concezione del tutto spontaneistica del partito, del suo ruolo, dei suoi compiti. Nel 1967 il Potere operaio toscano fu attraversato da una polemica che portò infine alla sua dissoluzione in tre tronconi, proprio su questo tema decisivo. È importante analizzare qual’era la concezione di Sofri, che fu quella poi maggioritaria e che trovò un’applicazione concreta nei mesi successivi con l’intervento alla Fiat Mirafiori e poi con la formazione di Lotta continua. “Noi oggi abbiamo un compito, che è quello di costruire nella lotta delle masse la direzione rivoluzionaria organizzata: non quello di far “riconoscere” una direzione rivoluzionaria esistente. Il “Partito di quadri”, inteso come l’organizzazione di militanti “professionali” ideologicamente formati sulla base di un programma e di una disciplina statutaria, non ci riguarda”. Si tratta con tutta evidenza di una concezione spontaneistica, per la quale i rivoluzionari devono semplicemente “porsi al servizio” del movimento, e il resto verrà da sé. (Vale la pena di notare che l’apparente democraticismo e movimentismo ebbe come risultato di fare di Lotta continua un’organizzazione fortemente leaderistica, basata sull’autorità di un gruppo di dirigenti carismatici, priva di qualsiasi serio lavoro di formazione dei propri militanti e quindi di un vero controllo dei militanti e di una effettiva partecipazione collettiva all’elaborazione della propria politica).

È facile capire da questa pur breve e sommaria carrellata sulle idee base che crebbero nei vari gruppi, come il contraccolpo che essi subirono fu molto forte. Il riflusso delle lotte dopo il ’72, la ripresa di autorità del Pci e della Cgil, l’amara scoperta che davanti a loro non avevano un percorso rettilineo né breve verso la rivoluzione, ma una lotta lunga e complicata contro avversari potenti: tutto questo causò una vera e propria crisi dei gruppi rivoluzionari e violenti sbandamenti. I limiti di questo scritto non ci permettono di entrare a fondo negli avvenimenti della metà egli anni ’70. Basti quindi accennare a come si passò da un certo disinteresse alle questioni elettorali ad una vera e propria svolta elettoralista, dall’opposizione frontale al Pci a una maldestra tattica di appoggio all’idea del “governo delle sinistre”, in cui si distinsero particolarmente il Pdup e Lotta continua. Si aprì una fase di crisi, con scissioni e unificazioni a catena, su basi politiche sempre più confuse, dettate soprattutto dall’istinto di conservazione dei vari gruppi dirigenti: un lento declino che vide nella seconda metà degli anni ’70 la confluenza verso il Pci di una parte dei gruppi, un’altra sopravvivere a stento in Democrazia proletaria, mentre gran parte dei militanti prendeva semplicemente la via di casa. Infine, una parte non secondaria dei gruppi dirigenti riusciva a fare il “salto di qualità” integrandosi nei partiti borghesi, nel Psi, o nel mondo delle professioni, dal quale molti di loro provenivano.

L’incontro con il movimento

Il movimento studentesco del 1967-68 apre la strada a una rapida crescita dei gruppi. Una nuova fascia di migliaia di giovani si radicalizza nel movimento, e con il riflusso e la crisi del movimento stesso, la parte più avanzata comincia a cercare una strada per collegarsi ai lavoratori e unirsi ad essi. Il canale che trovano sono precisamente i gruppi rivoluzionari, che sperimentano una rapida crescita della loro influenza. L’Autunno caldo è annunciato e in qualche modo preparato dalla presenza quotidiana di centinaia di studenti ai cancelli delle grandi fabbriche, a partire dalla Fiat. Questa presenza fece da catalizzatore e da punto di raccolta per quella nuova leva di lavoratori (in gran parte immigrati, privi delle tradizioni politiche e sindacali della generazione precedente ma anche privi dei segni delle sconfitte degli anni ’50) che non riconoscevano l’autorità del Pci e della Cgil, e che soprattutto erano animati dalla voglia di rivincita per tutti i soprusi, le vessazioni, i bocconi amari che avevano dovuto ingoiare.

È difficile a trent’anni di distanza tracciare una mappa precisa della presenza della “sinistra rivoluzionaria” nelle fabbriche, ma alcuni punti sono chiari:

-) A Torino, l’assemblea operai -studenti (che firmava i propri volantini con lo slogan “Lotta continua” e nell’autunno ’69 diventerà l’organizzazione omonima) diresse gli scioperi nell’estate del ’69, e contese la direzione degli scioperi contrattuali in autunno.

-) Nell’estate ’68 il gruppo Potere operaio gioca un ruolo significativo nella lotta del Petrolchimico di Porto Marghera.

-) Tra il 1968 e il 1969 nascono i primi Cub (Comitati unitari di base). I Cub o organismi analoghi si formeranno a Milano (tra gli altri Pirelli, Borletti, Atm), a Roma (Fatme), a Trento, a Pavia, il più delle volte con un ruolo decisivo degli studenti che si orientano ai cancelli delle fabbriche. Successivamente si sviluppa negli stessi Cub l’intervento di Avanguardia operaia.

-) In Toscana già nel 1967-68 il Potere operaio pisano gioca un ruolo dirigente in diverse vertenze (Olivetti, Saint-Gobain, ecc.).

-) Su scala minore in molte altre realtà si produce l’incontro fra studenti, gruppi rivoluzionari e lotte operaie: alla Necchi di Pavia, alla Olivetti di Ivrea, a Porto Torres, con livelli diversi di penetrazione dei gruppi fra i lavoratori.

Si tratta quindi di una presenza significativa in alcuni dei punti più alti della mobilitazione, che fa intravedere per la prima volta la possibilità di creare un’alternativa alla linea riformista che dominava il movimento operaio da decenni. Centinaia, migliaia di lavoratori si avvicinano rapidamente alle idee rivoluzionarie, trovano un ambito di militanza, mettono in difficoltà e spesso scavalcano completamente i vertici sindacali. Nonostante la strutturazione approssimativa dei gruppi non consenta statistiche accurate, possiamo considerare che decine di migliaia di lavoratori subiscono direttamente o indirettamente l’influenza dei gruppi, e alcune migliaia si organizzeranno nei gruppi principali: Lotta continua, Avanguardia operaia, il Pdup. A questi si aggiungano il Manifesto, il Movimento studentesco di Milano, e via via una miriade di altre sigle minori.

Cosa permette questo rapido radicamento dei gruppi?

C’è, in primo luogo, la crisi delle organizzazioni tradizionali di cui già abbiamo parlato. Ma c’è una seconda causa, più immediata. Il 1968-69 vide la rapida crescita di decine di organismi di base in numerose fabbriche, organismi spontanei che univano, con i nomi più diversi, un settore di lavoratori radicalizzati, di studenti provenienti dal movimento del 1967-68, e di militanti dei gruppi rivoluzionari.

I lavoratori, soprattutto nella prima fase del movimento, sono costretti più e più volte a improvvisare nuovi canali di organizzazione, spinti dalla necessità di aggirare il boicottaggio più o meno aperto dell’apparato sindacale. Chiuse, almeno in parte, le vie tradizionali di organizzazione, ostile e distante l’apparato sindacale, i protagonisti di questa prima ondata delle lotte trovano nelle sedi universitarie occupate, nelle assemblee operai-studenti, nei gruppi cresciuti nel periodo precedente i canali per esprimersi, per incontrarsi e organizzarsi, per discutere le proprie rivendicazioni; trovano anche dei quadri che, pur con tutti i limiti, sembrano in grado di dare un’espressione organica e generalizzata alle loro rivendicazioni, e anche di costituire un punto di riferimento organizzativo.

Furono dunque gli organismi di base a creare un ampio bacino per la crescita dei gruppi e della loro influenza. I militanti dei gruppi si trovarono rapidamente di fronte a un terreno di intervento molto più ampio di quando non fosse stato in precedenza e videro moltiplicarsi rapidamente la propria militanza.

Il bilancio del movimento

È in questa fase, di fronte al movimento di massa, che tutto il lavoro svolto precedentemente dai gruppi viene messo alla prova di grandi avvenimenti. E nonostante la rapida crescita di cui abbiamo parlato, in realtà le concezioni dei gruppi ne escono sconfitte. Questo non appare chiaro immediatamente, ma nel giro di pochi anni tutte le contraddizioni emergeranno in modo dirompente.

In primo luogo, vediamo una valutazione del tutto unilaterale e semplicistica dell’Autunno caldo e dei suoi sbocchi. Prevale un ottimismo semplicistico, che vede una crescita ininterrotta del movimento fino a uno sbocco rivoluzionario. L’idea dell’”offensiva permanente” è comune nella “sinistra rivoluzionaria”, con conseguenze disastrose nella fase successiva.

Vi era alla base di questo errore anche una concezione teorica sbagliata della lotta sindacale. I gruppi ritenevano che bastasse porre obiettivi sindacali più radicali (aumenti uguali per tutti, rifiuto della nocività, riduzione d’orario) e adottare forme di lotta più dura (picchetti duri, scioperi a scacchiera, a gatto selvaggio, ecc.) per dare automaticamente alle lotte sindacali un carattere rivoluzionario e incompatibile con il capitalismo.

Ora, è certo che la grande ondata dell’autunno caldo vide l’emergere di una diffusa coscienza anticapitalista, la messa in discussione del potere della borghesia, dei suoi valori, della sua ideologia, del suo sistema economico e produttivo.

Questo fatto politico di enorme importanza è quello che ci porta a dire che l’Autunno caldo fu un movimento realmente rivoluzionario, che poteva aprire la strada alla trasformazione socialista in Italia e non solo. Tuttavia i gruppi rivoluzionari vedono questa prospettiva in modo estremamente semplicistico. Era diffusa l’illusione che obiettivi sindacali più radicali potessero di per se stessi portare a un mutamento sociale. Scompariva il problema di come conquistare la maggioranza dei lavoratori alla prospettiva rivoluzionaria, di quale tattica adottare verso il movimento operaio “ufficiale”. Il ruolo dei partiti, dell’apparato statale, delle alleanze, insomma tutto quello che va sotto il nome di strategia e tattica veniva cancellato dall’illusione di un movimento di lotte “autonome” (per usare una terminologia dell’epoca) sempre all’offensiva, sempre più radicale, sempre più in conflitto con il sindacato e il Pci, che una spallata dopo l’altra, senza un partito, senza un’organizzazione, senza altre strutture che non i comitati di base sorti spontaneamente nelle lotte, avrebbe portato i lavoratori al potere.

Il gruppo di Potere operaio sorto alla fine del ’69 (solo in parte erede dei gruppi omonimi presenti fino ad allora), espresse nella forma più cruda questa concezione, teorizzando che l’idea degli aumenti uguali per tutti, slegati dalla produttività, fossero di per sé obiettivi rivoluzionari in grado di far saltare il “piano” del capitale. Sembrava fosse sufficiente la “volontà” di spingere il movimento sempre più avanti per portare a uno sbocco rivoluzionario.

Altrettanto sommaria la concezione di Lotta continua, che in sostanza condivide l’idea che la lotta economica possa diventare di per sé rivoluzionaria e su questa idea basa il suo spontaneismo scatenato. Sofri e compagni letteralmente si genuflettono di fronte al movimento, pensano che basti continuare la lotta, un corteo dopo l’altro, uno sciopero dopo l’altro, per arrivare aprire un processo rivoluzionario. Va detto d’altra parte, che Lotta continua rifiuta il concetto di “rottura rivoluzionaria”. Dietro alle parole d’ordine estremiste traspare una concezione molto nebulosa, ma che in fondo si potrebbe definire gradualistica. La rivoluzione non è una rottura, non è la presa del potere da parte dei lavoratori, ma è una “lunga marcia”, un “processo”. La formazione di un partito rivoluzionario è, allo stesso modo “un processo”, il movimento è a sua volta un “processo”. Quello che conta, quindi è il movimento così com’è. Non bisogna aspirare né a conquistare un ruolo dirigente, né a difendere una concezione politica, un programma (che non sia il programma immediato delle lotte spontanee), dei principi organizzativi democratici. L’unica democrazia possibile è quella delle assemblee spontanee, tutto il resto è da rifiutarsi, come si mostra da questa posizione di Sofri: “Noi crediamo che un momento fondamentale di organizzazione, di liberazione, di presa di iniziativa da parte degli operai, sia un corteo di 10.000 persone come quello di Mirafiori, che la cosa che più si avvicina a un soviet, in questa fase della lotta di classe in Italia, è quel corteo operaio”.

Solo Avanguardia operaia si distacca parzialmente da queste concezioni e tenta di tracciare una strategia e una tattica per radicarsi fra i lavoratori, per rapportarsi con il sindacato, ecc. Ma, come vedremo in seguito, anche Ao cadrà in una lunga serie di errori estremistici.

Organismi di base e consigli di fabbrica

Con questo tipo di analisi, è facile capire come mai i gruppi adottano una tattica scorretta verso gli organismi di base sorti nel corso delle lotte, e poi verso i Consigli di Fabbrica.

Abbiamo già indicato quale fosse l’origine dei Cub e di altri organismi analoghi: essi esprimevano due spinte, strettamente collegate fra loro. Da un lato, una forte critica da sinistra alla linea del sindacato, espressa dagli obiettivi rivendicativi dirompenti che si davano; dall’altro un’esigenza di democrazia, di controllo dal basso e anche di organizzazione, indispensabili per condurre la lotta. Come sempre, la democrazia operaia non esiste nel vuoto, ma nasce e si sviluppa assieme alle lotte. Da questo punto di vista, però, gli organismi di base erano necessariamente qualcosa di transitorio. La loro strutturazione informale, l’assemblearismo, la fluidità politica e organizzativa, furono essenziali nella prima fase della lotta, quando si trattava di creare un polo d’attrazione alternativo alle direzioni ufficiali, e di raggruppare quei lavoratori d’avanguardia che fino al giorno prima erano in gran parte dispersi, isolati gli uni dagli altri.

Ben presto emergono però i limiti di questi organismi: validi e anzi indispensabili nella prima fase, spesso unico canale di espressione di posizioni alternative a quelle ufficiali del sindacato, non potevano però che avere un carattere transitorio, sotto la spinta di due forze ben distinte. Da un lato, la spinta per la democrazia operaia coinvolge centinaia di migliaia di lavoratori, che non possono trovare nei Cub una soluzione e un canale adeguato per esprimersi. Vediamo quindi la rapida generalizzazione dei delegati e dei consigli di fabbrica, che soppiantano completamente le vecchie commissioni interne e diventano il terreno principale di collegamento, dibattito e organizzazione dei lavoratori a livello di fabbrica.

Dall’altra parte si produce una inevitabile selezione politica e ideologica, e una parte significativa dei lavoratori che facevano parte dei vari organismi spontanei aderisce ai gruppi rivoluzionari. Avanguardia operaia, che fu il gruppo che fece un lavoro più sistematico e organizzato verso i Cub, teorizzava che questi dovevano essere una forma organizzativa transitoria: nei fatti, tuttavia, quei Cub che sopravvissero si trasformarono nell’organismo sindacale di quel gruppo.

La realtà è che, con alcune eccezioni, gli organismi spontanei sorti dall’autunno caldo spariscono nel processo che porta alla nascita dei CdF. Non saranno in molti a capirlo per tempo, e negli anni successivi sono numerosi i tentativi di far vivere organismi di vario tipo (i Cub diretti da Avanguardia operaia, i “Comitati politici” proposti dal Manifesto, che nessuno metterà peraltro in pratica, e altri), ma si tratterà quasi sempre di semplici espressioni di questo o quel gruppo sul terreno sindacale.

Parallelamente vediamo l’errore fatale dei gruppi nel rifiutare i CdF e i delegati come una macchinazione del padrone e del sindacato per ingabbiare le lotte. Anche Ao ha delle oscillazioni iniziali, anche se poi comincia prima di altri un intervento fra i delegati di fabbrica.

La risposta di Lotta continua è, coerentemente con tutta la sua concezione, “di fronte al padrone siamo tutti delegati.” Lo Statuto dei lavoratori viene denunciato come un bidone.

Solo nel 1972 ci sarà in Lotta continua una svolta verso i delegati, accettata in realtà controvoglia di fronte al fatto che sono sempre di più i militanti dell’organizzazione che spontaneamente entrano nei CdF.

È una parte del Psiup, in quella situazione, ad avanzare la proposta più corretta, cioè quella di coordinare i Consigli di fabbrica a livello locale e nazionale. Questa linea raccoglieva le migliori tradizioni del movimento operaio italiano, a partire da quella del “Biennio rosso” 1919-20, e se portata fino in fondo avrebbe potuto aprire una fase di molto superiore nella lotta contro la linea ufficiale del sindacato. I consigli, unificati e coordinati a livello nazionale, sarebbero stati spinti sempre più a porsi come contraltare non solo al potere padronale in fabbrica, ma anche nella società. Il “dualismo di potere” che nelle fabbriche vedeva scosso il controllo del singolo padrone avrebbe potuto crescere in tutta la società. Al tempo stesso una rappresentanza diretta, democratica e flessibile dei lavoratori avrebbe creato il terreno più favorevole alla lotta per far emergere una linea rivoluzionaria, alternativa alla “lotta per le riforme strutturali” avanzata dal Pci e dal sindacato.

Il gruppo dirigente della Cgil era ben cosciente di questo pericolo, e pose un veto durissimo disciplinando i dirigenti del Psiup, che si piegarono all’ultimatum. Per lungo tempo i Consigli rimasero organismi vitali e con reale rappresentanza di massa, ma solo all’interno delle singole aziende: la gestione dei contratti nazionali, dell’”alta politica”, restava saldamente in mano ai vertici sindacali.

Il ruolo del sindacato

Parallela a questo errore fu la clamorosa sottovalutazione delle grandi riserve di autorità di cui il sindacato e il suo gruppo dirigente potevano ancora disporre. È vero che in molti momenti l’apparato sindacale perse il controllo delle mobilitazioni a favore degli organismi di base, o fucostretto a subirne l’iniziativa assumendone parole d’ordine e proposte di lotta. Ma l’autunno caldo non fu solo questo. Fu anche la stagione dei sindacalisti portati in fabbrica a forza dagli operai (Trentin alla Fatme di Roma, Alasia alla stessa Mirafiori, ecc).

Tutti i gruppi, senza eccezioni, considerano impossibile costruire un lavoro di opposizione nei sindacati. Lotta continua dichiara il sindacato ormai superato dalla mobilitazione dei lavoratori. Guido Viale, di Lc, dichiara che si è di fronte “non a un generico ‘scavalcamento’ del sindacato, ma a un rifiuto politico del sindacato come strumento di mediazione della lotta di classe”. Il risultato delle lotte sarà, secondo Viale, “lo sbaraccamento completo e definitivo della presa politica e ideologica che le organizzazioni del movimento operaio esercitano ancora nella coscienza operaia”.

Conclusioni analoghe traggono i militanti di Potere operaio di Porto Marghera già nell’estate del 1968: “Quando non c’è lotta ci si perde in infinite discussioni sul rapporto tra sindacato e classe. Ma quando c’è la lotta il problema non esiste più: il sindacato va superato”.

Avanguardia operaia assume la stessa posizione, seppure con motivazioni esattamente opposte, e teorizza che non si può in questa fase costruire un’opposizione nel sindacato perché i rapporti di forza nei confronti dell’apparato sindacale sono troppo sfavorevoli alle organizzazioni rivoluzionarie, e quindi aderire ai sindacati significa inevitabilmente entrare in una logica opportunista di adattamento alle burocrazie del movimento operaio.

Questo errore favorisce enormemente il vertice sindacale, che abbandona la linea dello scontro frontale con le strutture autorganizzate, assume parte delle rivendicazioni sorte dalla base e riesce, attraverso i CdF, ad allargare enormemente la propria base di appoggio fra i lavoratori. I gruppi non sono in grado di capire che questa capacità di ripresa del controllo da parte dei dirigenti non è solo il frutto di macchinazioni degli apparati in combutta col governo e coi padroni, (che pure certamente esistono), o di prevaricazioni.

C’è anche e soprattutto una spinta fortissima fra i lavoratori a unirsi, a organizzarsi, alla partecipazione, che viene raccolta dalle organizzazioni storiche, di massa, del movimento operaio. Nonostante le forti critiche verso il sindacato, i lavoratori colgono al volo l’occasione per riportarlo nelle aziende dalle quali era stato bandito per 15 anni (vedi gli episodi dei sindacalisti portati in fabbrica a forza dai lavoratori). E nonostante le difficoltà i vertici sindacali riescono sempre a mantenere il controllo sulla conclusione delle vertenze, assumendo parte significativa degli obiettivi che in precedenza avevano contrastato (per esempio gli aumenti salariali uguali per tutti). Di fronte a questi contratti risultarono poco credibili, agli occhi della gran parte dei lavoratori, le denuncie stereotipate dei gruppi dei contratti come “bidoni”, e gli inviti a continuare le mobilitazioni cadevano su un terreno poco favorevole.

Certo i vertici sindacali ripresero il controllo della situazione anche grazie alla collaborazione delle organizzazioni padronali e del governo, e a manovre antidemocratiche. Ma poterono farlo soprattutto per questa grande riserva di appoggio che nonostante tutto mantenevano. Essa non derivava dalle prevaricazioni, ma al contrario è un fattore sempre presente nella storia del movimento operaio: l’attaccamento alle proprie organizzazioni storiche, ai propri sindacati, ai propri partiti, costruiti sulla lotta di generazioni, è un fattore potente e durevole nella coscienza delle masse.

Oltre un secolo di storia del movimento operaio in tutti i paesi ha visto ripetersi decine di volte lo stesso processo: quando i lavoratori entrano massicciamente nella lotta politica, con la mobilitazione diretta di massa, si verifica un afflusso verso le proprie organizzazioni storiche, non solo i sindacati, ma anche i partiti tradizionali del movimento operaio. Questo non significa, ovviamente, che non sia possibile mettere in crisi l’egemonia delle idee riformiste nel movimento operaio: al contrario, è proprio l’afflusso massiccio dei lavoratori nelle proprie organizzazioni che apre un terreno nuovo e più favorevole alla crescita delle idee rivoluzionarie. Ma perché questo avvenga, è necessario che i settori di avanguardia, i più coscienti e politicamente formati, abbiano una chiara visione del processo in atto.

I lavoratori, anche nei momenti di mobilitazione, non sono un’unica massa indistinta. Continuano a esistere diversi livelli di coscienza, di organizzazione, di partecipazione. Nel periodo dell’autunno caldo furono centinaia quelli che si organizzarono negli organismi spontanei, e altre migliaia in determinati momenti seguirono le loro proposte e indicazioni; ma questo era solo un piccolo settore del movimento: altre decine di migliaia entrarono nei CdF dopo il 1969; attorno a loro, furono milioni quelli che si iscrissero ai sindacati. Circa 8 milioni furono i partecipanti agli scioperi dell’Autunno caldo. Nella V conferenza operaia del febbraio 1970 il Pci poteva riunire in assemblea 6.512 delegati eletti nelle proprie sezioni o cellule in 2.127 fabbriche.

Come si poneva il rapporto fra qualche decina di Cub, od organismi analoghi, e una simile forza organizzata dal Pci? Certo non era possibile conquistare l’egemonia solo con appelli ripetuti all’infinito a estendere le lotte, a alzare il tiro delle rivendicazioni, a rompere coi sindacati “collaborazionisti”.

Era necessario, al contrario, comprendere come il periodo d’oro dei gruppi, che precedette lo scoppio dell’Autunno caldo, avrebbe inevitabilmente lasciato il posto a una fase diversa, nella quale si sarebbe dovuto contendere il terreno con un lavoro paziente di formazione di quadri, di chiarificazione politica e teorica, e soprattutto portando la battaglia nel seno stesso delle organizzazioni di massa, nel sindacato in primo luogo, ma anche nello stesso Pci.

Nonostante la forte ostilità dell’apparato sindacale e del Pci, durante il movimento ci fu una effettiva permeabilità e anche collaborazione fra lavoratori del Pci e i militanti dei gruppi; in questo senso, l’esempio della Fiat Mirafiori, dove invece la contrapposizione fu pressoché continua e molto aspra, non può essere generalizzato, costituendo piuttosto un caso estremo. In una tavola rotonda organizzata dalla rivista del Pci Rinascita nel novembre del 1969, numerosi interventi di attivisti di fabbrica del Pci riconoscono il ruolo positivo dei “gruppi” (per esempio a Porto Torres, alla Fatme, alla Piaggio di Pontedera, alla Face Standard di Milano).

Il recupero del Pci

Il gruppo dirigente del Pci non muta le sue posizioni di fondo di fronte all’Autunno caldo. Negli anni successivi, anzi, verrà lanciata la linea del “compromesso storico”, cioè del governo assieme alla Dc che porterà ai disastrosi anni della “solidarietà nazionale” (1976-79).

Tuttavia, il gruppo dirigente riesce a operare un pronto recupero del movimento, e ad attirare decine di migliaia di nuovi iscritti, politicizzati proprio dalle lotte operaie e studentesche. La linea ufficiale è quella della “riforme di struttura”, che non si allontana da quanto sostenuto già negli anni ’60 verso i governi di centrosinistra. Ma migliaia di giovani arrivati in quei mesi al Pci vedono in questa parola d’ordine qualcosa di molto diverso da quello che realmente rappresenta. Vi vedono la possibilità di cambiare la loro vita, di andare a colpire gli interessi vitali del grande capitale. Hanno attraversato una esperienza di lotta che ha trasformato la loro visione del mondo, hanno visto per la prima volta la forza della loro classe. Come già negli anni del dopoguerra, i dirigenti del Pci parlano di riforme, ma a molti militanti pare di sentir dire “rivoluzione”.

Soprattutto, questi lavoratori sono usciti dalle lotte con una idea chiara in testa: bisogna organizzarsi, bisogna essere uniti e in tanti, e corrono in massa nel sindacato e nel Pci.

I militanti più critici, e anche più formati politicamente, se ne sono andati dal partito prima del ’68 e il campo resta libero per le posizioni del gruppo dirigente, che può recuperare rapidamente autorità e consenso.

Il resoconto della Conferenza operaia del Pci del 1970, per quanto possa essere in parte filtrato e “ammorbidito”, ci pare un documento estremamente significativo dello spirito che portò tanti giovani operai nel Pci dopo l’Autunno caldo.

C’è un’adesione unanime dei militanti alla costruzione dei consigli di fabbrica, gli interventi citano esempi a decine della partecipazione tumultuosa dei lavoratori alle assemblee e agli scioperi. Dopo anni di difficoltà si vede il rilancio del partito nelle fabbriche. Solo a Milano sono 5.000 gli operai reclutati nel corso delle lotte, quasi tutti giovani, e sono nate 55 nuove cellule di fabbrica. A Mirafiori il Pci recluta 500 operai in poche settimane, Significativo l’intervento di un’operaia di Porto Marghera, che pur in un linguaggio diplomatico riconosce che l’intervento di Potere operaio nel ’68 faceva leva sull’esperienza della dura lotta contro la Montedison e su “precise insufficienze del sindacato ad affermare il nuovo che veniva avanti, e principalmente l’esigenza dei lavoratori di essere i protagonisti collettivamente”.

Forse l’intervento che più riflette il clima dell’Autunno caldo è quello di Emma Menon, operaia tessile di Verona, da cui riportiamo alcuni stralci: “Siamo tutte ragazze dai 15 anni in su, e non operai esperti della lotta di classe. All’inizio eravamo in poche, il padrone licenziava chi era iscritto al sindacato. I compagni comunisti e un gruppo di cattolici ci hanno aiutato a costruire un collettivo formato da studenti e operai, che ha creato le condizioni perché il sindacato entrasse in fabbrica”. Di fronte ai licenziamenti politici le operaie si iscrivono in massa alla Cgil e poi, minacciate di sospensione, occupano la fabbrica per 10 giorni, trovando una vastissima solidarietà attorno a loro. La lotta viene vinta, ma partono le denuncie contro 42 operaie, fra cui tre al di sotto dei 18 anni: “Perciò non basta organizzarsi contro il padrone della nostra fabbrica, ma contro tutti i padroni ed il loro potere. Perciò abbiamo formato la cellula del partito comunista della Mavecon (il nome della ditta – NdR). Alcuni gruppetti hanno tentato di colpire il sindacato perché – secondo loro – non avremmo conquistato niente. Non è vero! Abbiamo conquistato la cosa più grande e più preziosa di tutte. Abbiamo capito cos’è la società dei padroni, abbiamo capito cosa bisogna fare per difendere la nostra dignità, per conquistare la nostra libertà.

“Ora la parola d’ordine deve essere: contro la repressione per la democrazia e il socialismo, riprendere la lotta! Viva l’unità della classe operaia! Viva il partito comunista!”.

Queste aspettative non trovarono risposta nella politica di Berlinguer: al contrario, dopo una fase in cui (fino alla metà degli anni ’70) le speranze si concentrarono sempre di più sulla prospettiva elettorale di mandare il Pci al governo ci fu un rapido riflusso, e a partire dal 1976-79 il Pci entra in una crisi che, pur con alti e bassi, durerà fino al suo scioglimento. La generazione dell’Autunno caldo non trovò nel Pci punti di riferimento alternativi alla linea ufficiale, e rifluirà, in fasi diverse, ai margini dell’attività politica, abbandonando in gran parte la militanza.

Quei quadri che si radicalizzarono prima del ’68 e che abbandonarono il Pci per dare vita ai gruppi non capirono che come essi stessi erano arrivato a conclusioni critiche sulla linea del partito, altri in futuro avrebbero potuto fare lo stesso percorso. Abbandonarono così un terreno decisivo, lasciando il campo aperto al recupero del gruppo dirigente. Il loro fu il classico errore volontaristico, o, per usare le parole di Lenin, di quell’estremismo infantile che non capisce che un conto è che un singolo militante d’avanguardia arrivi a determinate conclusioni rivoluzionarie, un altro è fare sì che a quelle stesse conclusioni arrivi la maggioranza dei lavoratori, a partire dai settori più politicizzati e più militanti.

Il declino dei gruppi

Volendo ridurre all’osso le conclusioni che ci pare di poter trarre da quella esperienza, indicheremmo quattro punti decisivi:

1) L’Autunno caldo aprì una grande opportunità per la costruzione di una forza realmente rivoluzionaria in Italia, portando alla militanza nell’estrema sinistra diverse migliaia di studenti e di giovani lavoratori.

2) Decisivo, in questo contesto, fu il lavoro svolto in precedenza, anche da gruppi apparentemente poco significativi in termini numerici, dai quali esce gran parte dei quadri dirigenti delle nuove formazioni.

3) Altrettanto decisivo fu il bagaglio teorico accumulato negli anni precedenti, di preparazione. In questo senso, i limiti teorici e politici dei gruppi si rivelano decisivi nel momento dell’esplosione del movimento e soprattutto nella fase seguente.

4) Il ruolo delle organizzazioni tradizionali del movimento operaio, la loro capacità egemonica, sfugge in larga parte ai gruppi, portandoli a sviluppare forti illusioni nella fase delle lotte e ad adottare una linea chiaramente estremista. Una volta che le illusioni di uno sviluppo in tempi brevi e in linea retta del movimento rivoluzionario si rivelano infondate, si apre la strada alla demoralizzazione e alla disgregazione politica e organizzativa.

A partire dal 1971-72, tutti i gruppi si resero conto più o meno confusamente che la situazione non era più quella dell’Autunno caldo, che il loro momento magico era ormai passato, e che si apriva una fase di lotta assai più complicata, in cui il problema principale che si trovavano di fronte era il recupero e anche la crescita del Pci e del sindacato.

Più o meno chiaramente tutti ne trassero la conclusione che era necessaria una maggiore strutturazione, che non bastava la spinta delle lotte operaie per arrivare alla rivoluzione. Si abbandonò in parte la precedente mitologia spontaneistica per far strada a una lotta per la “costruzione del partito rivoluzionario”. Gli anni 1972-76 furono gli anni della strutturazione dei gruppi, ma furono in realtà anche anni di declino politico e organizzativo. Nel 1972 il Psiup si sciolse, dopo che non era riuscito a eleggere nessun deputato nelle elezioni politiche.

Tutte le contraddizioni che abbiamo indicato emersero in modo esplosivo all’interno dei gruppi. Ben pochi furono i tentativi di avviare una seria analisi dei propri limiti ed errori da parte dei gruppi dirigenti. Al contrario, si avviò una fase di svolte e controsvolte sempre più convulse. Le teorie più strane vennero costruite per giustificare queste contorsioni. La riduzione della base militante portò ad una serie di unificazioni senza basi politiche di principio. Nel 1975-76 tutti i gruppi furono vittime di una sbandata elettoralistica, che da un lato si tradusse in una brusca svolta verso il Pci (“uso operaio del Pci, anche elettorale”, teorizza Lotta continua), e dall’altro nella presentazione alle elezioni politiche del 1976 della lista Democrazia Proletaria, formata da Ao, il Pdup/manifesto (che nel 1974 si erano unificati), Lotta continua, il Movimento lavoratori per il socialismo (ex Movimento studentesco di Milano) e la Lega dei comunisti. Il risultato fu disastroso: 600mila voti contro aspettative di 3 milioni, mentre il Pci raccoglieva il suo massimo storico. Dopo quella data la disgregazione prende ritmi galoppanti con lo scioglimento di Lotta continua alla fine del 1976 e la nascita dell’Autonomia operaia che raccoglie tutti gli errori dei gruppi e li porta all’estremo, prima di entrare anch’essa in crisi alla fine degli anni ’70.

A partire dal periodo dei governi di solidarietà nazionale (in cui il Pci partecipava alla maggioranza con la Dc) la crisi del Pci diventò sempre più evidente. Ma tra il 1976 e il 1979 i gruppi sparirono, e non poterono giocare alcun ruolo significativo nel dare un’alternativa a centinaia di migliaia di militanti che abbandonarono il Pci, delusi dalla politica di Berlinguer e dalla linea dei “sacrifici” adottata dalla Cgil. Fu una reale tragedia politica, che vide un’intera generazione di militanti posti di fronte a un fallimento storico, a una politica sbagliata che portò infine alla sconfitta del movimento, senza poter avere alcun punto di riferimento alternativo, senza poter trovare una spiegazione di quella sconfitta, delle sue cause, e senza poter elaborare una linea alternativa.

Conclusioni

Eppure questo esito non era scontato in partenza.

La storia dell’estrema sinistra in Italia è innanzitutto la storia di migliaia e migliaia di giovani che cercarono di costruire un partito rivoluzionario, una forza in grado di portare i lavoratori al potere. Abnegazione, spirito di sacrificio, militanza ed entusiasmo non facevano certo difetto ai giovani disposti a fare della prospettiva rivoluzionaria il centro della loro vita, a sacrificare tutte le loro energie migliori per costruire una società socialista.

Queste sono condizioni indispensabili per chi si accinge a questo compito tanto arduo e complesso, ma non bastano.

La chiarezza politica, la capacità teorica di elaborare una tattica, una strategia, un programma, di comprendere i flussi e i riflussi del movimento, di orientarsi nei grandi avvenimenti storici… tutto questo non può nascere solo dall’entusiasmo e dalla mobilitazione. È necessaria una salda base teorica, una capacità di applicare il marxismo alle situazioni concrete che di volta in volta si presentano di fronte ai militanti, è necessario un capitale teorico che non può essere costruito solo nel vivo degli avvenimenti.

Gli anni di preparazione, gli anni di formazione precedenti allo scoppio dei grandi movimenti, il lavoro paziente e apparentemente privo di risultati brillanti, condotto magari da piccoli gruppi che paiono slegati dai processi storici, è decisivo per costruire questo capitale teorico.

Abbiamo tentato di indicare, sia pure sommariamente, quali furono i percorsi politici che negli anni ’60 attraversarono i futuri quadri dei gruppi rivoluzionari. A nostro avviso è precisamente nei limiti di quella fase, nelle concezioni errate, o unilaterali su cui si formarono, che va ricercata l’origine dei limiti della sinistra rivoluzionaria e della sua successiva crisi.

“Era fatale che finisse così”, ci hanno detto in coro per vent’anni tutti i professori, i politici, gli studiosi, e tutti quei “dirigenti” della sinistra o del sindacato che considerano i lavoratori come una semplice massa passiva da portare al voto il giorno delle elezioni, o da tesserare al sindacato per poi scordarsene il giorno dopo.

La nostra risposta, invece è che non era affatto fatale. Da sempre il movimento operaio deve apprendere innanzitutto dalle proprie sconfitte, dai propri errori, deve imparare a proprie spese a distinguere le idee valide da quelle sbagliate, le concezioni corrette, i metodi che possono portarlo a vincere.

Se grazie ai modesti contributi che pubblichiamo in questa rivista avremo ottenuto lo scopo di spingere i nostri lettori, a partire dai più giovani, a conoscere meglio la storia di quegli avvenimenti, ad avvicinarsi a una comprensione più profonda del marxismo, e anche a prendere ad esempio la spinta alla partecipazione e alla militanza e la passione rivoluzionaria che animarono tanti militanti che nell’Autunno caldo videro la possibilità di cambiare il mondo, allora potremo dire di aver raggiunto lo scopo che ci eravamo proposti con questo lavoro.

Aprile 2000

Questo articolo è stato pubblicato all’interno dell’opuscolo “68-69. Un biennio rivoluzionario”, disponibile al prezzo di 3,00 euro nella Libreria marxista on line a questo link.

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