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Capitalismo ed epidemie – Quando la distruzione dell’ambiente è anche un problema di salute pubblica

Di Andrea Davolo

 

Dal 2011 al 2018 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha monitorato 1.483 epidemie in 172 paesi dichiarando per ben 6 volte dal 2007 un’emergenza sanitaria di portata internazionale. 4 di queste 6 emergenze sono state causate da virus di origine zoonotica, come il SARS-COV-2 responsabile dell’attuale pandemia da Covid-19. Gli allarmi su ciò che da lì a poco sarebbe potuto accadere erano quindi ben presenti a chi avesse voluto trarne le opportune conseguenze. Ma a cosa è dovuta una escalation del genere? E c’è un legame tra il verificarsi di questi fenomeni e la crisi ambientale? Di che tipo?

Cosa sono le epidemie zoonotiche

Le zoonosi sono malattie causate da agenti infettivi, batteri o virus, che normalmente risiedono in altri animali vertebrati e che accidentalmente infettano l’uomo. Con la rivoluzione neolitica avvenuta 10.000 anni fa comparvero i primi grandi insediamenti urbani grazie allo sviluppo delle attività di domesticazione delle piante e di addomesticamento degli animali che consentirono la nascita dell’agricoltura e dell’allevamento di bestiame, un salto qualitativo di enorme importanza per l’umanità. Tuttavia, molte delle malattie più pervasive che la specie homo sapiens ha conosciuto derivavano proprio dall’addomesticamento del bestiame. Tubercolosi, morbillo e vaiolo, per esempio, emersero proprio in seguito allo sviluppo delle attività di allevamento dei bovini. Altri virus che sono oggi trasmessi da persona a persona, compresi i virus influenzali e il raffreddore, erano precedentemente virus zoonotici. La zoonosi avviene attraverso una modificazione che permette ad un agente patogeno di fare il “salto di specie”, detto spillover, potendo così vivere e moltiplicarsi in un nuovo organismo. Questi eventi, relativamente rari, possono aumentare la loro probabilità di comparsa quando aumentano le possibilità di contatto tra gli esseri umani e le specie selvatiche che sono portatrici naturali (ospiti serbatoio) di questi patogeni. Inoltre, una zoonosi può verificarsi anche tramite l’utilizzo di un “ospite intermedio”, come gli animali domestici, che vivono in prossimità degli uomini e che agiscono come “vasi di miscelazione” che consentono la variazione genetica dei virus, abilitandoli ad infettare gli esseri umani.

Alcuni agenti patogeni, responsabili di malattie zoonotiche come la rabbia e la peste, hanno compiuto lo spillover alcuni secoli fa. Tuttavia, i Centri statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie (CDC) hanno stimato che tre quarti delle nuove malattie che hanno infettato l’uomo a partire dal 1969 abbiano avuto origine negli animali e tra queste AIDS, Ebola, Sars, influenza aviaria e, per ultima, Covid-19.1 Le cause generali di questi dati sono sinteticamente illustrate da David Quammen, autore di “Spillover” (Adelphi, 2014)2: “Invadiamo foreste tropicali e altri paesaggi selvaggi che ospitano così tante specie di animali e piante, e all’interno di quelle creature, così tanti virus sconosciuti. Tagliamo gli alberi; uccidiamo gli animali o li mettiamo in gabbia e li mandiamo ai mercati. Distruggiamo gli ecosistemi e scuotiamo i virus dai loro ospiti naturali. Quando accade ciò, i virus hanno bisogno di un nuovo ospite. E spesso lo siamo noi” (traduzione di un estratto da un’intervista apparsa sul New York Times).

Il caso del virus Ebola è a questo propositivo altamente rappresentativo. Negli ultimi 20 anni si sono sviluppati numerosi focolai di Ebola in Africa occidentale e centrale. Il virus è altamente contagioso e spesso mortale, con un tasso di mortalità superiore al 50% e che nel caso di un evento epidemico è giunto anche al 90%. L’ultima epidemia, iniziata nel 2014 e conclusasi nel 2016, ha provocato 11.325 morti in dieci paesi, su un totale di 28.652 casi confermati. Molti ricercatori sono riusciti a dimostrare un legame significativo tra i tassi di deforestazione nell’ovest e nel centro Africa e l’incidenza di focolai di Ebola. In particolare, Ebola ha avuto maggiore incidenza di comparsa lungo la fascia di territori in cui la coltivazione di colture quali cacao, olio di palma e gomma ha richiesto l’abbattimento estensivo delle foreste e la loro diffusa frammentazione.3

Questa osservazione è stata recentemente confermata da uno studio che ha consentito di tracciare una mappa globale del rischio di spillover, sulla base dei precedenti focolai epidemici, che sostanzialmente coincide con le aree a più alta deforestazione.4

L’aumento delle epidemie zoonotiche è quindi il sintomo di un deterioramento nel rapporto tra l’uomo e la natura che va compreso ed analizzato alla luce delle più recenti evidenze scientifiche che puntano il dito verso il modo di produzione capitalistico, responsabile dei cambiamenti nell’uso del suolo: agenti patogeni precedentemente tenuti sotto controllo dagli ecosistemi della foresta tropicale, diventano incontrollati in seguito alla deforestazione guidata dal capitale5 secondo criteri del tutto irrazionali. Benché la quasi totalità degli studi e delle ricerche riferiscano le cause dell’emergere delle nuove malattie zoonotiche ad imprecisate “attività umane” che modificano l’ambiente, andremo ora a vedere come la comparsa di nuovi patogeni e la loro successiva rapida trasmissione sono spesso la conseguenza diretta o indiretta di cambiamenti dell’ecosistema legati a pratiche proprie della produzione capitalista.

Deforestazione e pratiche intensive

A partire dal 1990, 178 milioni di ettari di foresta sono stati abbattuti, l’equivalente delle dimensioni della Libia, il 18° paese più grande al mondo. È noto che l’inizio della deforestazione su larga scala è coinciso con ondate di malaria in Africa, Asia ed America Latina. Questo è accaduto perché le terre bonificate e i canali sotterranei che raccolgono l’acqua piovana sono siti di riproduzione più adatti per la zanzara anofele, responsabile della trasmissione dalla malaria, molto più della stessa foresta.6

Ma non è il semplice disboscamento a generare le conseguenze peggiori. Quando le foreste tropicali vengono disboscate, il suolo è generalmente trasformato in terreni agricoli a coltura intensiva o per l’allevamento intensivo del bestiame. La maggior parte della deforestazione associata all’agricoltura, inoltre, è dovuta a tre sole materie prime: carne di manzo, soia e olio di palma.7 L’emergere di molte malattie sembra avvenire proprio nella zona di interfaccia tra la foresta tropicale, con i suoi alti livelli di biodiversità, e le attività agricole, caratterizzate dalla presenza di alta densità di popolazione umana, animali domestici e colture. Le pratiche di allevamento intensivo del bestiame e la monocoltura, ovvero l’utilizzo di una vastissima area di territorio per la coltivazione di un’unica specie vegetale, fanno sì che animali e piante con genomi quasi identici si trovino a ridosso, quasi a contatto, con le specie selvatiche che ospitano gli agenti patogeni. È stato questo il caso del virus del Nipah che nel 1999 in Malaysia fece più di 100 morti. Lo sviluppo della produzione di carne di maiale su larga scala fu decisiva per l’emergere di questa epidemia. I pipistrelli della frutta, ospiti serbatoio del virus Nipah sin dalla “notte dei tempi”, si trovarono improvvisamente in prossimità di allevamenti intensivi di maiali. Non si potrebbe immaginare un sistema migliore per la trasmissione e la moltiplicazione del virus.
La biodiversità, generalmente in grado di rallentare la trasmissione di un agente patogeno, era sostanzialmente azzerata dalla presenza di soli maiali. Le barriere immunitarie furono quindi facilmente aggirate e il virus poté rapidamente evolversi ed adattarsi al nuovo ospite. Inoltre, l’elevata produttività, propria della produzione capitalistica, permetteva una continua e veloce fornitura di nuovi maiali, moltiplicando in modo esponenziale l’evoluzione dei patogeni. I maiali diventarono così facilmente l’ospite intermedio con il quale il virus Nipha finì per raggiungere ed infettare l’uomo. Questo modello, rintracciabile negli studi di molti scienziati e ricercatori8 indica negli allevamenti intensivi dei veri e propri amplificatori dell’aggressività di un agente patogeno. Sono enormi vivai in cui un patogeno può facilmente trovare ospiti da infettare, tutti con lo stesso corredo genetico, essendo stati selezionati per decenni per caratteristiche desiderabili. Il contatto continuo con gli operai che lavorano nel settore, quasi sempre in circostanze di enorme sfruttamento e quindi con condizioni igieniche completamente inadeguate, rende il passaggio successivo all’essere umano una concreta eventualità.

Più noto è poi il caso dell’influenza aviaria il cui emergere sembra essere chiaramente legato all’intensificazione dei sistemi di produzione di pollame. In uno studio del 2018 sono stati analizzati i cosiddetti “eventi di conversione”, quando cioè un ceppo d’influenza non particolarmente patogeno diventa molto più pericoloso, scoprendo che la maggior parte si era verificata negli allevamenti di pollame.9

La deforestazione e la frammentazione degli habitat quindi non sono solo catastrofici per l’equilibrio generale degli ecosistemi, ma anche perché permettono di moltiplicare le interazioni tra l’uomo e la fauna selvatica in maniera inconsueta e forzata. Questo però può avvenire non solo nelle forme indirette che sono state descritte tramite l’installazione di attività produttive (allevamenti e colture intensive) ai margini degli habitat frammentati, ma anche in forme dirette, come ad esempio le attività di caccia di fauna selvatica. È stato ad esempio osservato che la costruzione di reti stradali che hanno frazionato gli habitat naturali dell’Africa centrale fosse legata all’espansione dell’uso di carne selvatica che potrebbe aver avuto un ruolo chiave nella comparsa dell’HIV.10

L’alternativa socialista per difendere l’ambiente e la salute collettiva

La deforestazione, l’invasione e la frammentazione degli habitat naturali potranno mettere sempre più a rischio la salute collettiva a livello globale, come l’escalation degli eventi di spillover degli ultimi anni sembrerebbe indicare. Come ogni altra emergenza ambientale, anche questa richiede una soluzione non più rinviabile. Scienziati radicali come Robert Wallace, Alex Liebman e Luis Fernando Chaves hanno il grande merito di indicare chiaramente le cause strutturali dell’attuale crisi sanitaria e di altre che potrebbero seguire, puntando il dito contro gli investimenti nell’agroindustria da parte del grande capitale che portano alla deforestazione.11 Tuttavia, la loro proposta politica, riportata su Monthly Review, storica rivista della “Nuova Sinistra” statunitense, si colloca a pieno titolo nel filone delle teorie della decrescita e, in ultima analisi, nella vecchia tradizione del riformismo utopistico. “Reintrodurre la diversità del bestiame e delle colture e reintegrare l’allevamento di animali e colture su scale che impediscono agli agenti patogeni di aumentare la loro virulenza” è poco più di una innocua dichiarazione d’intenti in un sistema economico capitalista caratterizzato dalla competizione più aspra, fondata sull’abbattimento dei costi di produzione. In una intervista rilasciata al sito marx21.de, Wallace si spinge più a sinistra rivendicando la “socializzazione dei sistemi alimentari”. Per quanto in sé corretta come rivendicazione, deve essere spinta fino alle sue conseguenze perché non cada anch’essa in una vuota astrazione.

All’inizio di questo articolo le cause dello sviluppo delle malattie zoonotiche sono state presentate come il prodotto delle “attività umane” piuttosto che della produzione capitalista. D’altra parte, l’ideologia borghese ha sempre considerato il capitalismo come l’unico modo di produzione possibile. Una popolazione mondiale che in prospettiva si stima essere di 10 miliardi di abitanti nel 2050 sembrerebbe quindi non poter fare a meno della produzione agroalimentare fondata sulle monocolture e sugli allevamenti intensivi. Sulla base di queste tendenze attuali, la domanda alimentare globale dovrebbe infatti aumentare ovunque tra il 59% e il 98% entro il 2050.

Eppure, il mondo produce già oggi più di una volta e mezza il cibo sufficiente per sfamare tutti sul pianeta. Cioè, già adesso si produce abbastanza per sfamare 10 miliardi di persone, ovvero il picco di popolazione che ci aspettiamo per il 2050.12 In realtà, la maggior parte delle colture di cereali prodotte industrialmente va ai biocarburanti e ai mangimi per animali piuttosto che al cibo per il miliardo di persone che soffrono la fame in maniera cronica. Questo miliardo di persone, la maggior parte dei quali sono agricoltori poveri di risorse che coltivano appezzamenti di terra impraticabili, guadagnano meno di un dollaro al giorno e spendono la quasi totalità del loro reddito in cibo. La sostenibilità alimentare della popolazione più che una questione di quantità appare dunque essere una questione di distribuzione razionale delle risorse e di pianificazione economica. Si può stare al passo con la crescita della popolazione e contemporaneamente con la salvaguardia degli habitat naturali e della salute collettiva? Questo è possibile solo nella misura in cui non solo l’agricoltura e l’allevamento sono settori socializzati, ma l’intera catena di approvvigionamento delle derrate alimentari e l’intera economia lo sono. Ciò consentirebbe una pianificazione fondata sulle effettive esigenze alimentari delle comunità umane e sulla protezione dell’ambiente. L’utilizzo di pratiche agroecologiche che consentano un migliore equilibrio con gli habitat naturali, il ricorso razionale alle pratiche intensive, attualmente condotte in modo incontrollato e anarchico, saranno possibili quando la società umana avrà superato la logica del profitto e del mercato. Se infatti il capitalismo è un sistema economico in cui la produzione segue la logica della competizione, i prodotti invenduti vengono mandati al macero e il latte in eccedenza viene sversato13 dopo che la deforestazione è stata realizzata per fare spazio a colture e allevamenti intensivi.

Misure di pianificazione socialista potrebbero permettere inoltre un decisivo aumento degli investimenti nella ricerca scientifica nel campo del sistema alimentare e delle tecnologie ad esso collegate, che dal 1980 sono invece in costante diminuzione14, ponendo le basi per un aumento della produttività nelle aree già destinate all’agroalimentare.

In ultima analisi è il superamento del capitalismo una condizione necessaria per un uso più razionale del suolo e delle risorse naturali e, quindi, per una prevenzione più efficace delle epidemie.

 

PAROLE CHIAVE

Agente patogeno: un organismo che causa malattie (es. batteri, virus, funghi o parassiti animali).

Ospite serbatoio: un organismo che ospita un patogeno, spesso senza causare malattie per l’organismo stesso.

Ospite intermedio: un organismo che trasporta un agente patogeno a causa di un’infezione. Può essere responsabile per la trasmissione del patogeno all’uomo.

Spillover: l’evento in cui un patogeno normalmente presente in un altra specie animale infetta un essere umano superando le sue difese immunitarie.

 

Note

1. Morse et al. (2012), Prediction and prevention of the next pandemic zoonosis.

2. Una nostra recensione del testo si trova su www.rivoluzione.red/spillover-un-libro-premonitore/

3. Rulli et al. (2017), The nexus between forest fragmentation in Africa and Ebola virus disease outbreaks. (www.nature.com/ articles/srep41613).

4. Rulli et al. (2021), Land-use change and the livestock revolution increase the risk of zoonotic coronavirus transmission from rhinolophid bats,(www.nature.com/articles/s43016-021-00285-x)

5. Wallace (2016), Neoliberal Ebola: Modeling disease emergence from finance to forest and farm.

6. Charlwood, (1989), Capture-recapture studies with the South American malaria vector Anopheles darlingi.

7. Chatham House (2016), Agricultural commodity supply chains trade, consumption and deforestation.

8. Mohammad Houshmar et al. (2012), Effects of prebiotic, protein level, and stocking density on performance, immunity, and stress indicators of broilers.

9. Gilbert et al. (2018). Geographical and historical patterns in the emergences of novel highly pathogenic avian influenza (HPAI) H5 and H7 viruses in poultry.

10. Wolfe et al. (2000), Deforestation, hunting and the ecology of microbial emergence.

11. Si veda a questo proposito Wallace et al. (2020), Covid-19 and Circuits of Capital, https://monthlyreview.org/2020/05/01/covid-19-and-circuits-of-capital/

12. Seufert et al. (2012), Comparing the yields of organic and conventional agriculture.

13. La FAO stima che siano 1,3 miliardi di tonnellate mandate al macero annualmente, la gran parte nei cosiddetti paesi in via di sviluppo. Si tratta dell’equivalente necessario a sfamare 3,5 miliardi di persone.

14. How to feed the world, in The Economist 19/11/2009.

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