Spostamenti tettonici nelle relazioni mondiali provocano esplosioni vulcaniche

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10 Gennaio 2025
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Spostamenti tettonici nelle relazioni mondiali provocano esplosioni vulcaniche

di Jorge Martin

L’intera situazione mondiale è dominata da un’enorme instabilità nelle relazioni internazionali. Questo è il risultato della lotta per l’egemonia tra gli Stati Uniti, la più potente nazione imperialista al mondo, che è in un declino relativo, e altre potenze più deboli, ma pur sempre in ascesa, soprattutto la Cina, più giovane e dinamica.

In particolare, il declino relativo dell’imperialismo americano e l’ascesa della Cina hanno creato una situazione in cui altri paesi riescono a mantenersi in equilibrio tra le due principali potenze e, così facendo, possono ritagliarsi un po’ di autonomia per perseguire i propri interessi, almeno a livello regionale.

Quello cui stiamo assistendo è uno smottamento di proporzioni geologiche riguardo la forza relativa delle potenze imperialiste in concorrenza tra loro. E come con i movimenti della tettonica delle placche sulla crosta terreste, tali movimenti si accompagnano con deflagrazioni di ogni tipo.

Le potenze imperialiste lottano per una nuova spartizione del globo

Quando Lenin descrisse l’imperialismo nel suo ben noto libro Imperialismo, fase suprema del capitalismo, nel 1916, egli non lo concepì come qualcosa di statico e immutabile nel tempo, ma piuttosto come il risultato di una lotta viva tra differenti potenze imperialiste (vedi L’introduzione a L’imperialismo di Lenin per una trattazione delle principali idee propugnate da Lenin e della loro rilevanza oggi):

Infatti in regime capitalista non si può pensare a nessun’altra base per la ripartizione delle sfere d’interessi e d’influenza, delle colonie, ecc., che non sia la valutazione della potenza dei partecipanti alla spartizione, della loro generale potenza economica, finanziaria, militare, ecc. Ma i rapporti di potenza si modificano, nei partecipanti alla spartizione, difformemente, giacché in regime capitalista non può darsi sviluppo uniforme di tutte le singole imprese, trust, rami d’industria, paesi, ecc. […] Le alleanze di pace preparano le guerre e a loro volta nascono da queste; le une e le altre forme si determinano reciprocamente e producono, su di un unico e identico terreno dei nessi imperialistici e dei rapporti dell’economia mondiale e della politica mondiale, l’alternarsi della forma pacifica e non pacifica della lotta” (V.I. Lenin, L’imperialismo, AC Editoriale, 2022, pp. 229-230).

Questo è esattamente quanto vediamo oggi: la lotta per l’ennesima spartizione del mondo tra le differenti potenze imperialiste. La guerra in Ucraina, dove si sta preparando una sconfitta umiliante per la NATO e per gli americani, e il crescente conflitto in Medio Oriente, che minaccia di allargarsi in una guerra regionale, sono espressioni di questo scontro. E non sono i soli punti di attrito nelle relazioni mondiali.

Il declino relativo dell’imperialismo americano

Quando affrontiamo il tema dell’imperialismo americano, dobbiamo tuttavia sottolineare che il suo declino è relativo, cioè è tale soltanto rispetto alla sua posizione precedente e in relazione alla posizione dei suoi rivali. Gli Stati Uniti restano, sotto ogni aspetto, la più potente e reazionaria forza sul pianeta.

Nel 1985, gli Stati Uniti rappresentavano il 34,6% del PIL mondiale. Oggi questa cifra è scesa al 26,3%, ma rimangono l’economia più grande al mondo, una delle più produttive e quella in cui il dominio del capitale finanziario si manifesta in maniera più netta.

Nello stesso periodo, la Cina è cresciuta in maniera esponenziale, passando dal costituire il 2,5% del PIL mondiale a rappresentarne il 16,9%. Il Giappone, che aveva raggiunto il picco del 17,8% nel 1995, è adesso crollato al 3,8%. Al contempo, l’Unione Europea che raggiunse il proprio apice nel 1992 (28,8%) è arretrata al 17,3%, il che riflette l’inesorabile declino delle potenze imperialiste europee (dati di FMI, valori adeguati all’inflazione).

Gli Stati Uniti dominano ancora l’economia mondiale grazie al loro controllo dei mercati finanziari. L’imponente cifra del 58% delle riserve valutarie a livello mondiale è detenuta in dollari (mentre solo il 2% è detenuto in renminbi cinesi), sebbene questo dato sia in calo rispetto a quello del 73% del 2001. Il dollaro viene anche utilizzato nel 58% dei pagamenti delle esportazioni a livello mondiale. In termini di flusso netto in uscita di Investimenti Esteri Diretti (un modo per chiamare l’esportazione di capitale), gli Stati Uniti sono i primi al mondo con una cifra di 454 migliaia di miliardi di dollari, mentre la Cina (inclusa Hong Kong) si piazza al secondo posto con 287 migliaia di miliardi di dollari.

Il ruolo del dollaro riflette un peso economico che gli garantisce una forza a livello internazionale, ma che deve essere sostenuta dalla potenza militare. La spesa militare americana rappresenta il 40% di quella mondiale, mentre la Cina arriva seconda con il 12% e la Russia terza con il 4,5%. Gli Stati Uniti hanno una spesa militare superiore a quella dei successivi dieci paesi in lista messi assieme.

Ma oltre che registrare la situazione attuale, è ancora più importante analizzarne la traiettoria. Dopo il crollo dell’Urss nel 1991, gli Stati Uniti divennero l’unica superpotenza al mondo. L’invasione dell’Iraq nel 1991 venne condotta sotto gli auspici delle Nazioni Unite, con il voto favorevole della Russia e con la mera astensione della Cina. Non esisteva quasi nessuna opposizione al predominio dell’imperialismo americano. Oggi, ciò sarebbe impensabile.

Il dominio americano ha raggiunto i propri limiti. L’imperialismo americano si è impantanato per 15 anni in due guerre senza speranze in Iraq e in Afghanistan, pagando un grande costo in termini di dispendio economico e di perdita di uomini. Nell’agosto 2021, fu costretto ad una ritirata umiliante dall’Afghanistan.

Queste guerre lunghe e costose hanno tolto al popolo americano qualsiasi desiderio di ulteriori avventure militari all’estero e la classe dominante è stufa di dispiegare truppe di terra in giro per il mondo. Però, l’imperialismo americano non ha imparato nulla da queste esperienze. Rifiutandosi di ammettere i nuovi rapporti di forza e cercando di mantenere il proprio predominio, si è ingolfato in una serie di conflitti che non può vincere.

Il rifiuto degli americani di utilizzare truppe di terra dopo le esperienze in Iraq e in Afghanistan, ad esempio, è stato uno dei principali handicap nella sua capacità di intervenire nella guerra civile siriana. Nel 2012, Obama aveva annunciato che l’utilizzo di armi chimiche da parte di Assad avrebbe rappresentato una “linea rossa” e minacciò un intervento diretto. Ma dal momento che non era pronto a far seguire alle proprie minacce un intervento militare significativo sul campo, fu la Russia a trasformarsi nel principale attore in quel conflitto.

Gli Stati Uniti intervennero sì nella guerra civile siriana, ma lo fecero principalmente per interposta persona, piuttosto che dispiegando proprie truppe, come avevano fatto in Iraq e in Afghanistan. Anche molte altre potenze regionali intervennero (Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi, Iran, Turchia), tutte per difendere i propri interessi e con il desiderio di spartirsi la Siria, armando e finanziando le diverse bande reazionarie di fondamentalisti islamici.

L’imperialismo russo si impegnò nella difesa del proprio alleato, Assad, e dell’unica base navale in suo possesso nel Mediterraneo. Inviò truppe di terra, sistemi di difesa aerea e caccia da combattimento. In questo modo, costrinse la Turchia, un membro della NATO, a scendere a patti e sconfisse le forze jihadiste finanziate dagli Stati Uniti e da altre potenze regionali. Un tale risultato, in una regione di importanza geostrategica come il Medio Oriente, sarebbe stato impensabile dieci anni prima.

Ne seguirono nuovi rapporti di forza in Medio Oriente. L’Iran uscì rafforzato, con tutta una serie di alleati regionali: Hamas, Hezbollah, le milizie sciite in Iraq e gli Houthi in Yemen. La Turchia, l’Arabia Saudita e gli Stati del Golfo accettarono la nuova situazione e si comportarono di conseguenza. La Siria venne riammessa nella Lega Araba. Un accordo mediato dalla Cina tra Iran e Arabia Saudita pose fine alla guerra in Yemen. La Cina, che è il più grande importatore di petrolio al mondo, si impose come il principale cliente delle esportazioni di energia degli Stati del Golfo.

Il vantaggio conquistato dalla Russia in Siria coincise con l’inasprimento delle relazioni tra l’America e l’Arabia Saudita, che è un suo alleato cruciale nella regione. Furono molti i fattori che vi contribuirono: l’incapacità di Washington di mantenere Mubarak al potere in Egitto durante la rivoluzione araba; lo sviluppo della produzione di shale oil (petrolio di scisto, ndt) negli Stati Uniti, che li mise in competizione con le esportazioni di petrolio saudite; il conflitto riguardo all’omicidio di Khashoggi; il fatto che una Cina affamata di energia fosse diventata il principale mercato di esportazione del petrolio saudita, ecc.

L’Arabia Saudita venne così spinta a sviluppare una politica più indipendente, il che incluse: aiutare la Russia a mantenere alti i prezzi del petrolio per eludere le sanzioni americane legate alla guerra in Ucraina; siglare un “ampio accordo di cooperazione strategica” con la Cina; e accettare un accordo di pace con l’Iran mediato dalla Cina.

Questo era lo stato dell’arte prima dell’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023. Tratteremo il conflitto in corso in Medio Oriente più avanti.

L’ascesa della Cina come potenza imperialista

La Cina non è soltanto un paese capitalista, è diventata ormai un paese imperialista. Essendo giunta tardi sull’arena internazionale, essa ha dato al suo potere una proiezione principalmente economica, ma sta anche consolidando un potere militare. Ha cercato di controllare le risorse di materie prime ed energetiche funzionali alla propria industria, sbocchi di investimento per i suoi capitali, le rotte commerciali per le sue importazioni ed esportazioni e i mercati per i suoi prodotti.

L’ascesa trentennale della Cina allo status di potenza imperialista di primo rango, che abbiamo affrontato altrove, è stata il risultato di investimenti massicci nei mezzi di produzione e dell’integrazione nel mercato globale. Inizialmente, essa si avvantaggiò delle proprie vaste riserve di mano d’opera a basso costo per esportare prodotti tessili e giocattoli nel mercato mondiale. Oggi, si è trasformata in un’economia capitalista tecnologicamente avanzata che gode di una posizione dominante in tutta una serie di moderni settori ad alta tecnologia (veicoli elettrici e batterie, celle fotovoltaiche, ecc.), ma esporta anche capitali.

Eppure adesso si sta scontrando con i propri limiti. La Cina sta affrontando una classica crisi capitalistica di sovrapproduzione e l’impatto della crescita della composizione organica del capitale. Allo stesso tempo, le esportazioni cinesi si stanno scontrando con barriere doganali e protezionismo in un momento in cui l’espansione del commercio mondiale si è fermata. La medesima mole di investimenti non garantisce più lo stesso tasso di crescita economica, e quello che viene prodotto è più difficile da vendere sul mercato mondiale.

L’economia cinese sta ancora crescendo, ma ad un ritmo più lento. Dal 1990, la Cina è cresciuta al ritmo strabiliante del 9% annuo, con picchi del 14%. Tra il 2012 e il 2019, è cresciuta tra il 6 e il 7%. Al momento, sta faticando a raggiungere il 5%.

Mastodontici pacchetti di stimolo economico (misure keynesiane) hanno impedito una caduta più rovinosa. Ma ciò ha comportato una diminuzione dei profitti e anche, come effetto collaterale, un massiccio aumento del debito.

Nel 2000, il rapporto tra debito e PIL della Cina era solo del 23% ed è arrivato all’83% nel 2023. Si tratta di una cifra ancora inferiore a quella delle più avanzate economie capitaliste, ma rappresenta comunque un aumento significativo. Secondo alcuni calcoli, il debito totale (incluso debito statale, quello privato, le passività delle grande aziende e i titoli di debito dei governi locali) sarebbe il 297% del PIL, un dato che è chiaramente insostenibile.

Per alcuni aspetti, l’evoluzione economica della Cina negli ultimi trent’anni assomiglia a quella del Giappone. Il Giappone ebbe una crescita molto veloce negli anni ’60, che si attestò su una media del 10% annuo, che poi rallentò negli anni ’70 e ’80. Esso entrò poi in un periodo di lunga crisi e stagnazione nel 1992, dal quale non si riprese mai nonostante i successivi piani di colossali stimoli economici.

Con ciò non vogliamo dire che la Cina seguirà esattamente lo stesso schema e ci sono ovviamente importanti differenze tra i due paesi. Ma l’esempio del Giappone suggerisce che, raggiunta una certa soglia, sarà molto difficile per il capitalismo cinese mantenere i tassi di crescita che ha visto nel passato.

Nel frattempo, in Cina è stata creata una classe operaia di gigantesche dimensioni, che si è assuefatta ad una crescita costante delle proprie condizioni di vita per un lungo periodo. Si tratta di una classe operaia giovane e fresca, non demoralizzata dalle sconfitte e senza legami con le organizzazioni riformiste. Quando comincerà a muoversi, questa stessa classe provocherà un’esplosione di proporzioni sismiche.

La Russia

La Russia è una potenza imperialista molto più debole. Economicamente è molto più debole della Cina, ma ha messo in piedi un potente esercito e una poderosa industria bellica, e possiede un arsenale nucleare che ha ereditato dall’Urss.

A seguito del crollo dell’Unione Sovietica e del saccheggio su larga scala dell’economia pianificata, la classe dominante russa civettò con l’idea di essere accettata su un piano di parità alla tavola delle potenze mondiali. Ventilarono persino l’idea di unirsi alla NATO. Ma questa richiesta venne respinta. Gli Stati Uniti volevano esercitare un dominio completo e illimitato sul mondo e non vedevano alcuna utilità nell’includervi una Russia debole e in crisi. Yeltsin, un buffone alcolizzato e una marionetta dell’imperialismo americano, era l’icona di questo periodo.

La volontà di umiliare la Russia si manifestò in maniera chiara in un primo momento quando la Germania e gli Stati Uniti congegnarono la spartizione reazionaria della Jugoslavia, che apparteneva alla tradizionale sfera di influenza russa, e poi con il bombardamento della Serbia nel 1999. Ciò si concluse con lo stallo tra i carri armati russi e le forze della NATO all’aeroporto di Pristina nel 1999.

Il capitalismo russo, tuttavia, si riprese dalla crisi economica. Cominciò a contrastare l’avanzata verso est della NATO, una mossa che aveva infranto tutte le promesse fatte ai russi nel 1989. La classe dominante e l’apparato statale russi non erano più disposti ad accettare le umiliazioni sull’arena internazionale e cominciarono a far sentire il proprio peso. Questa nuova situazione produsse Putin, il bonapartista astuto e manovratore che utilizzò metodi mafiosi per imporre il proprio volere.

Nel 2008, la Russia condusse una breve guerra vittoriosa in Georgia, distruggendo l’esercito di questo paese, che era stato addestrato e armato dalla NATO. Questo fu il primo avvertimento. La Siria fu il secondo.

Il relativo indebolimento dell’imperialismo americano venne ulteriormente rivelato dall’umiliante ritirata dall’Afghanistan, nell’agosto 2021. Fu in questo contesto che la classe dominante russa disse “quando è troppo, è troppo” e cercò di riaffermare i propri interessi strategici nazionali, contro 25 anni di accerchiamento imperialista da parte degli Stati Uniti nella propria sfera di influenza. La guerra civile in Ucraina servì a mettere alla prova, nella pratica, il rafforzamento relativo dell’imperialismo russo sulla scena internazionale.

L’invasione russa dell’Ucraina fu la logica conseguenza del rifiuto dell’Occidente di accogliere le preoccupazioni della Russia riguardo alla sua sicurezza nazionale, espresse nella richiesta della neutralità dell’Ucraina e nell’arresto dell’espansione a est della NATO.

Dal punto di vista dell’imperialismo americano, la guerra in Ucraina non era necessaria. L’Occidente non considerò mai seriamente l’idea dell’ingresso dell’Ucraina nella NATO, sapendo che ciò avrebbe comportato uno scontro diretto con la Russia. Ma si sono rifiutati ostinatamente di ammetterlo a livello ufficiale, dal momento che ciò sarebbe stato percepito come un segno di debolezza di fronte alla Russia. L’imperialismo americano e la NATO erano pienamente consapevoli che questa rappresentasse una linea da non oltrepassare dal punto di vista degli interessi di sicurezza nazionale del capitalismo russo.

Nell’aprile 2022, i negoziati in Turchia tra l’Ucraina e la Russia giunsero a un punto abbastanza avanzato e avrebbero potuto portare alla fine della guerra, sulla base dell’accettazione di una serie di richieste russe. L’imperialismo occidentale, nella persona di Boris Johnson, fece naufragare i colloqui, facendo pressione su Zelensky per non firmare, con la promessa di un appoggio illimitato che avrebbe condotto l’Ucraina a una vittoria totale.

L’imperialismo americano pensò di poter utilizzare l’Ucraina come carne da cannone in una campagna per indebolire la Russia e compromettere il suo ruolo nel mondo. Non si poteva permettere che un paese come la Russia, rivale dell’imperialismo americano, invadesse un paese che era alleato degli Stati Uniti. Washington voleva anche mandare un messaggio chiaro alla Cina rispetto a Taiwan. Ad un certo punto, Biden, gonfio della propria arroganza, sollevò persino l’idea di un rovesciamento del regime a Mosca! Pensavano che le sanzioni economiche e il logoramento militare avrebbero portato la Russia al collasso.

Oggi, gli Stati Uniti si trovano di fronte a una sconfitta umiliante in Ucraina. Le sanzioni non hanno avuto l’effetto sperato. Lungi dall’essere isolata, la Russia ha ormai stabilito stretti rapporti economici con la Cina e molti paesi che venivano considerati parte della sfera di influenza americana l’hanno aiutata ad eludere le sanzioni: India, Arabia Saudita, Turchia, ecc.

La Cina e la Russia sono oggi diventati alleati molto più affiatati, nella loro contrapposizione al dominio americano del mondo, e hanno raggruppato intorno a sé tutta una serie di altri paesi. Quando la sconfitta americana in Ucraina si sarà finalmente consumata, avrà conseguenze enormi e durevoli nelle relazioni mondiali, indebolendo ulteriormente il potere dell’imperialismo americano in tutto il mondo. Ed è evidente quali conclusioni la Cina trarrà da ciò rispetto alla questione di Taiwan.

La sconfitta americana in Ucraina invierà un potente messaggio. La più forte potenza imperialista al mondo non riesce sempre a imporre il proprio volere. Inoltre, la Russia uscirà dalla guerra con un grande esercito, temprato nei metodi più recenti e nelle tecniche della guerra moderna.

La guerra in Medio Oriente

L’attuale conflitto in Medio Oriente può essere compreso soltanto sullo sfondo della situazione mondiale. L’imperialismo americano si era indebolito in Medio Oriente, mentre la Russia, la Cina e anche l’Iran vi si erano rafforzati. Israele si sentì minacciato. L’attacco del 7 ottobre rappresentò un grave colpo alla classe dominante israeliana. Distrusse il mito della sua invincibilità e mise in discussione la capacità dello Stato sionista di proteggere i propri cittadini ebrei, una questione decisiva che la classe dominante israeliana aveva sfruttato per raccogliere attorno a sé la popolazione.

L’attacco smascherò platealmente anche il fallimento degli Accordi di Oslo, firmati sulla scia del crollo dello stalinismo, quando sembrava possibile risolvere i conflitti nel mondo per mezzo di negoziati. La classe dominante sionista non ha mai preso seriamente in considerazione qualsiasi idea di una concessione ai palestinesi di una vera e propria nazione. Essi consideravano l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) come nient’altro che un’occasione per dare in appalto la repressione nei confronti dei palestinesi. Questo portò al discredito di Fatah e dell’ANP, percepiti giustamente come semplici marionette di Israele, e, con il tacito consenso di Israele, all’ascesa di Hamas, vista come l’unica forza che portasse avanti la lotta per i diritti nazionali palestinesi.

Gli Accordi di Abramo, firmati nel 2020, avevano la funzione di consolidare la legittimità di Israele nella regione e di normalizzare le relazioni commerciali tra di esso e i paesi arabi. Ciò avrebbe significato mettere una pietra tombale sulle aspirazioni nazionali palestinesi, una cosa che i regimi reazionari arabi erano abbastanza lieti di fare. L’attacco del 7 ottobre fu una risposta disperata a tutto questo.

L’attacco venne utilizzato da Netanyahu, che poco prima aveva dovuto fronteggiare proteste di massa, come una scusa per lanciare una campagna genocida contro Gaza. Un anno dopo, Israele ancora non ha raggiunto nessuno dei propri obiettivi dichiarati: il rilascio degli ostaggi e la distruzione di Hamas. Ciò ha portato a manifestazioni di massa con centinaia di migliaia di persone e anche a un breve sciopero generale.

Il carattere di queste manifestazioni non è a favore della causa palestinese, né in opposizione alla guerra in quanto tale, ma il fatto che ci sia stato un tale livello di opposizione di massa al primo ministro nel pieno svolgimento della guerra è un sintomo della profondità delle divisioni all’interno della società israeliana.

Il crollo del consenso nei suoi confronti ha spinto Netanyahu ad accelerare la situazione con l’invasione del Libano e con un attacco contro Hezbollah, accompagnati da provocazioni costanti nei confronti dell’Iran. Per salvarsi politicamente, egli ha dimostrato più volte di essere pronto a scatenare una guerra regionale che costringerebbe gli Stati Uniti a intervenire direttamente al suo fianco.

Washington era preoccupata che il massacro a Gaza avrebbe potuto provocare una destabilizzazione rivoluzionaria dei regimi arabi reazionari (in Arabia Saudita, in Egitto e soprattutto in Giordania) che non avevano mosso un dito in appoggio ai palestinesi. Questo è il motivo per cui gli USA si sono profusi in pubblico in gesti tesi a porre un freno a Netanyahu. Tuttavia, fin dall’inizio, Biden ha chiarito che il proprio appoggio a Israele era “di ferro” e Netanyahu ha sfruttato più volte questo assegno in bianco per proseguire nella direzione di un’escalation verso una guerra regionale.

Che i gretti interessi personali di un’unica persona possano avere un tale effetto sproporzionato sugli eventi è un riflesso dell’enorme instabilità dell’intera situazione mondiale. La classe dominante non sempre è in grado di agire in maniera razionale, a difesa dei propri interessi a lungo termine. Gli Stati Uniti, minacciati da potenze rivali e riluttanti ad ammettere il ridimensionamento del proprio ruolo nel mondo, perseguono una politica disperata (in Ucraina e in Medio Oriente), che alla fine porterà al disastro.

La Russia, di fronte alle provocazioni costanti da parte dell’imperialismo americano in Ucraina (la consegna di armi sempre più moderne, il permesso a colpire in profondità nel territorio russo, ecc.) ha risposto in maniera speculare e proporzionale, incrementando il proprio appoggio all’Iran e anche agli Houthi. La Russia dispone della tecnologia per costruire missili ipersonici avanzati e di sistemi superiori di difesa aerea, che possono essere utili ai nemici degli Stati Uniti nella regione.

Nell’ultimo periodo, il regime iraniano è stato indebolito da proteste di massa al proprio interno a da una crescita economica più lenta del solito. Prima del crescendo di attacchi sconsiderati di Netanyahu contro l’Iran, questo paese stava cercando un’intesa con l’Occidente per giungere ad un accordo sulla ricerca nucleare, che ponesse fine alle sanzioni.

La situazione è adesso completamente ribaltata. L’Iran ha un forte incentivo ad accelerare lo sviluppo di armi nucleari. L’equazione è semplice. Né l’Iraq né la Libia avevano armi di distruzione di massa. Sono stati schiacciati dall’imperialismo e i loro leader uccisi. Dall’altro lato, la Corea del Nord dispone di armi atomiche e proprio per questo motivo l’imperialismo americano non l’ha attaccata.

Un settore della classe dominante israeliana pensa di poter utilizzare l’attacco di Hamas del 7 ottobre per indebolire e umiliare i propri nemici (Hamas, Hezbollah e l’Iran), trascinando gli americani in una guerra regionale. Si erano chiaramente preparati a colpire Hezbollah fin da quando erano stati costretti a lasciare il Libano alla fine dell’invasione del 2006, attraverso l’accumulo di elementi di intelligence. L’esperienza passata mostra che è impossibile distruggere completamente organizzazioni come Hamas ed Hezbollah, che traggono il proprio appoggio dal fatto di resistere all’aggressione e all’occupazione militare straniera.

Hezbollah è emersa in seguito all’invasione israeliana del Libano del 1982 e Hamas in seguito alla capitolazione dell’Olp guidato da Fatah. I bombardamenti aerei e gli attacchi diretti dai servizi segreti contro le infrastrutture delle comunicazioni e i dirigenti di queste organizzazioni possono infliggere gravi danni, ma non possono distruggerle del tutto. I bombardamenti aerei devono essere accompagnati da operazioni di terra, con le truppe. Queste truppe sono soggette a tattiche di guerriglia, imboscate e stanno combattendo in territorio nemico, dove le forze difensive hanno un vantaggio tattico, oltre che l’appoggio della popolazione. La brutalità dei metodi di Israele, insieme con gli attacchi indiscriminati contro la popolazione e le infrastrutture civili, non fanno altro che portare nuove reclute a queste organizzazioni.

Il crollo repentino e inaspettato del regime di Assad in Siria ha alterato ancora una volta i rapporti di forza a livello regionale. La Turchia è una potenza capitalista di secondo rango sulla scena economica mondiale, ma ha delle forti ambizioni regionali. Erdogan ha sfruttato abilmente il conflitto tra l’imperialismo americano e la Russia a proprio vantaggio. Un esempio di ciò è il suo tentativo di acquistare i più sofisticati sistemi russi di difesa aerea, mentre continuava a corteggiare gli americani per i loro caccia da combattimento più moderni.

Intuendo che l’Iran e la Russia, con cui Erdogan firmò un accordo in Siria nel 2016, erano impegnati altrove (la Russia in Ucraina e l’Iran in Libano), la Turchia ha provato a costringere Assad a concedergli una fetta più grossa della torta siriana. Quando Assad si è rifiutato, Erdogan ha deciso di appoggiare l’offensiva degli jihadisti di HTS da Idlib. Nella sorpresa generale, questo ha portato al crollo completo del regime. Il grado di fragilità in cui esso era stato ridotto dalle sanzioni economiche, dalla corruzione e dagli scontri interni era molto maggiore di quanto chiunque potesse immaginare.

La caduta di Assad è un colpo alla reputazione e al prestigio sia della Russia, in qualità di potenza mondiale di secondo rango, sia dell’Iran, in qualità di potenza regionale. Adesso, Erdogan si sente rafforzato e andrà all’assalto contro i curdi nella Siria nordorientale. , ringalluzzito dall’indebolimento dell’Iran e dai colpi inflitti a Hezbollah in Libano, tenterà ora di far valere gli interessi di Israele nei confronti di Hamas, ma anche in Cisgiordania, sulle alture del Golan e persino spingendosi ulteriormente in Siria.

L’attuale spartizione della Siria è la continuazione di più di cent’anni di ingerenza imperialista, fin dagli accordi di Sykes-Picot.

In ultima istanza, non può esserci pace in Medio Oriente finché la questione nazionale palestinese non verrà risolta. Ciò non può avvenire sotto il capitalismo. Gli interessi della classe dominante sionista di Israele (appoggiata dalla più grande potenza imperialista al mondo) non permettono la formazione di una vera nazione per i palestinesi e ancor meno il diritto al ritorno dei milioni di profughi.

Da un punto di vista puramente militare, i palestinesi non possono sconfiggere Israele, che è una potenza imperialista moderna con la più sofisticata tecnologia militare e un servizio di intelligence che non è secondo a nessuno. La lotta dei palestinesi ha bisogno di alleati ed essi possono essere rinvenuti solo nella potente classe operaia della regione, prima di tutto in Egitto e in Turchia, ma anche in Arabia Saudita, negli Stati del Golfo e in Giordania. Un’insurrezione vittoriosa, che portasse la classe operaia al potere in uno qualsiasi di questi paesi, creerebbe le condizioni per una guerra rivoluzionaria per liberare i palestinesi.

Lo Stato di Israele e la classe dominante sionista possono essere sconfitti solo creando una frattura nella popolazione di questo paese lungo linee di classe. Al momento, la prospettiva di una frattura di classe all’interno di Israele sembra distante. Tuttavia, l’attacco del 7 ottobre, combinato con uno stato ininterrotto di guerra e conflitto, potrebbe alla fine portare un settore delle masse israeliane a trarre la conclusione che l’unica strada per la pace è attraverso una soluzione democratica della questione nazionale palestinese.

Le guerre in Medio Oriente non risolveranno nulla. Sotto il dominio dell’imperialismo, le tregue temporanee e gli accordi di pace prepareranno semplicemente la base per nuove guerre. Tuttavia, l’instabilità generale, che è al contempo causa ed effetto delle guerre, creerà le condizioni per un movimento rivoluzionario delle masse nel prossimo periodo. Se questo movimento venisse guidato da un partito marxista cosciente (cioè, internazionalista proletario), esso potrebbe recidere l’intricato nodo di contraddizioni apparentemente irrisolvibili e andare in direzione dell’unica possibile soluzione di lungo periodo: la Federazione Socialista del Medio Oriente.

I palestinesi possono ottenere la liberazione nazionale solo come parte di una rivoluzione socialista nella regione. Lo stesso si può dire dei curdi, che sono ora sotto assedio nel Rojava. Solo una federazione socialista può risolvere la questione nazionale una volta per tutte. Tutti i popoli, i palestinesi e gli ebrei israeliani, ma anche i curdi e tutti gli altri, avrebbero il diritto di vivere in pace all’interno di una federazione socialista siffatta. Il potenziale economico della regione avrebbe una piena realizzazione all’interno di un piano socialista di produzione. La disoccupazione e la povertà diventerebbero vestigia del passato. Soltanto su tale base, i vecchi rancori nazionali e religiosi potrebbero essere superati. Diventerebbero il ricordo di un brutto incubo.

La rivolta contro gli Stati Uniti

Come abbiamo spiegato, esiste una lotta per una nuova divisione del mondo tra le diverse potenze imperialiste in competizione tra loro, principalmente tra gli Stati Uniti, il vecchio egemone ormai in un declino relativo, e la Cina, la nuova vivace potenza in ascesa che li sfida sull’arena internazionale.

L’ascesa dei BRICS, che vennero ufficialmente fondati nel 2009, rappresenta un tentativo di Cina e Russia di rafforzare la propria posizione sul terreno mondiale, per proteggere i propri interessi economici e per attrarre saldamente nella propria sfera di influenza tutta una serie di paesi.

L’implementazione da parte dell’imperialismo americano di sanzioni economiche ad ampio raggio contro la Russia ha fallito nel proprio obiettivo principale di indebolire il suo rivale al punto di rendere ad esso impossibile la continuazione della guerra in Ucraina. Dovendo escogitare meccanismi per evitare ed aggirare le sanzioni, la Russia ha stretto una serie di alleanze con altri paesi, incluse Arabia Saudita e India, ed è stata spinta ad una cooperazione economica molto più ravvicinata con la Cina.

Lungi dal dimostrare la forza degli Stati Uniti, il fallimento delle sanzioni ha rivelato l’incapacità dell’imperialismo americano di imporre il proprio volere e ha spinto numerosi paesi a considerare alternative al dominio americano delle transazioni finanziarie. La lista dei membri dei BRICS si è allungata con l’invito di nuovi paesi e la richiesta di adesione di altri, inclusi molti paesi che erano ritenuti alleati o vassalli dell’imperialismo americano.

Quando affrontiamo questa questione, dobbiamo avere il senso delle proporzioni. Per quanto questi mutamenti siano importanti, i BRICS sono permeati da ogni sorta di contraddizione. Il Brasile, mentre partecipa ai BRICS, è allo stesso tempo parte del Mercosur, che è in procinto di firmare un accordo di libero scambio con l’UE. Molte delle principali aziende brasiliane sono quotate nella borsa di New York. L’India è un membro fondatore dei BRICS, ma allo stesso tempo ha una “alleanza strategica” con gli Stati Uniti. Essa fa anche parte dell’alleanza militare Quad con Stati Uniti, Giappone e Australia e la sua marina effettua esercitazioni militari regolari con quella americana.

Il grado di integrazione politico ed economico dei paesi BRICS è ancora molto debole. Inoltre, nonostante tutti i discorsi al riguardo, essi sono molto lontani dal creare uno strumento alternativo per le transazioni finanziarie internazionali o un’alternativa al dominio del dollaro nel sistema finanziario mondiale.

A riguardo, è interessante che un paese come l’India, che viene considerato un alleato degli americani e un rivale della Cina, abbia giocato un ruolo importante nell’aiutare la Russia ad eludere le sanzioni americane. L’India compra petrolio russo a prezzo di favore e poi rivende all’Europa i prodotti raffinati ad un prezzo più alto. Finora, gli Stati Uniti hanno deciso di non prendere provvedimenti contro l’India. Nel 2023, la Cina è diventata il principale partner commerciale dell’India, spodestando gli Stati Uniti.

Fino ad adesso, i BRICS non sono niente più che una alleanza informale di vari paesi, ognuno dei quali coltiva i propri interessi. L’India, per esempio, è restia a permettere l’ingresso di nuovi membri nei BRICS, poiché ciò ridurrebbe il suo peso all’interno del blocco. È l’arroganza imperialista degli Stati Uniti nei confronti dei suoi rivali che sta spingendo questi paesi a stringersi insieme e ad incoraggiarne altri ad unirsi.

La crisi in Europa

Sebbene gli Stati Uniti abbiano subito un declino relativo nella propria potenza ed influenza a livello globale, le vecchie potenze imperialiste europee, Gran Bretagna, Francia, Germania, ecc., hanno avuto un crollo molto più accentuato rispetto a bei vecchi giorni gloriosi, trasformandosi in potenze di secondo rango. Vale la pena notare che l’Europa, in quanto blocco imperialista, è stata particolarmente indebolita nello scorso decennio. Una serie di golpe militari hanno cacciato la Francia dall’Africa centrale e dal Sahel, a beneficio della Russia.

Le potenze europee hanno seguito entusiasticamente l’imperialismo americano nella sua guerra per procura in Ucraina contro la Russia, il che si scontrava direttamente con i loro interessi. A partire dal crollo dello stalinismo nel 1989-91, la Germania aveva perseguito una politica di espansione della propria influenza ad est, seguendo un orientamento di lungo corso della propria politica estera, e aveva annodato stretti rapporti commerciali con la Russia.

L’industria tedesca ha beneficiato dell’energia russa a basso costo. Prima della guerra in Ucraina, più della metà delle importazioni di gas naturale della Germania, un terzo di quelle di petrolio e metà di quelle di carbone venivano dalla Russia.

Questa fu una delle ragioni del successo dell’industria tedesca nel periodo precedente, mentre le altre due furono la deregolamentazione del mercato del lavoro (condotta da governi socialdemocratici) e l’alto tasso di investimenti produttivi. Il predominio della classe dominante tedesca sull’Unione Europea e il libero commercio con la Cina e gli Stati Uniti formavano un circolo virtuoso.

Per quanto riguarda i rifornimenti energetici, lo stesso valeva per l’UE in generale, dal momento che la Russia era il principale fornitore di petrolio (24,8%), di gas tramite gasdotti (48%) e di carbone (47,9%). Dal punto di vista dei capitalisti europei, è stata una sciocchezza comminare sanzioni alla Russia. Ciò ha portato a prezzi molto più elevati per l’energia, provocando un effetto a catena sull’inflazione e una perdita di competitività delle esportazioni europee.

Alla fine, l’Europa ha dovuto importare il gas naturale liquefatto (Gnl) dagli Stati Uniti, molto più costoso, e prodotti petroliferi russi attraverso l’India a un prezzo molto più elevato. In effetti, gran parte del gas tedesco proviene ancora dalla Russia, solo che adesso arriva passando attraverso paesi terzi, ad un costo molto maggiore.

Le classi dominanti tedesca, francese e italiana si sono buttate la zappa sui piedi e adesso stanno pagando un prezzo molto alto. Gli Stati Uniti hanno ripagato i propri alleati europei dichiarando loro una guerra commerciale, attraverso tutta una serie di misure protezionistiche e di sussidi all’industria americana.

L’Unione Europea rappresenta il tentativo delle potenze imperialiste indebolite del Vecchio Continente di stringersi insieme nella speranza di ottenere maggiore voce in capitolo nella politica e nell’economia mondiale. Nella pratica, il capitale tedesco ha dominato le altre economie più deboli. Quando c’era crescita economica, si raggiunse un certo grado di integrazione economica e persino una moneta unica.

Tuttavia, le differenti classi dominanti nazionali che compongono l’UE hanno continuato ad esistere, ognuna coltivando i propri interessi particolari. Nonostante tutte le chiacchiere al riguardo, non c’è alcuna politica economica comune, né una politica estera unitaria o un esercito comune per implementarla. Mentre il capitale tedesco si basa sulla competitività delle esportazioni di prodotti industriali e i suoi interessi si situano ad est, la Francia riceve dall’UE grandi somme in sussidi all’agricoltura e i suoi interessi imperialisti devono essere trovati nelle vecchie colonie francesi, principalmente in Africa.

La crisi dei debiti sovrani, che seguì la recessione mondiale del 2008-2009, spinse l’UE al limite. La situazione adesso è ancora peggiore. Il recente rapporto stilato dall’ex-presidente della Bce, Mario Draghi, che abbiamo trattato altrove, ritrae la crisi del capitalismo europeo con toni allarmisti, ma non sbaglia. Fondamentalmente, il motivo per cui l’UE non è in grado di competere con i propri rivali imperialisti nel mondo è il fatto che non è un’unica entità politico-economica, bensì un insieme di svariate economie di taglia medio-piccola, ognuna delle quali con la propria classe dominante, le proprie industrie nazionali, le proprie regolamentazioni, ecc.

La crisi del capitalismo europeo ha importanti implicazioni politiche e sociali. L’ascesa di forze populiste di destra, euroscettiche e anti-establishment in tutto il continente ne è la diretta conseguenza. La caduta dei governi francese e tedesco sono l’ultimo episodio di questa crisi. La classe operaia europea, le cui forze sono perlopiù intatte e non hanno subito sconfitte, non accetterà senza lottare un’altra tornata di tagli alla spesa pubblica e licenziamenti di massa. La situazione è matura per un’esplosione della lotta di classe.

Corsa al riarmo e militarismo

Nella storia, qualsiasi alterazione degna di nota nella forza relativa delle diverse potenze imperialiste è stata alla fine risolta mediante la guerra, come è successo ad esempio nelle due guerre mondiali del XX secolo. Oggi, l’esistenza delle armi atomiche rende una guerra mondiale aperta molto improbabile nel prossimo periodo.

I capitalisti vanno alla guerra per assicurarsi mercati, sbocchi per gli investimenti e sfere di influenza. Una guerra mondiale oggi porterebbe a una distruzione su larga scala delle infrastrutture e della vita vera e propria, dalla quale nessuna potenza trarrebbe vantaggio. Servirebbe un leader bonapartista completamente folle, alla testa di una potenza nucleare di prim’ordine, affinché una guerra mondiale possa aver luogo. Questo richiederebbe una o più sconfitte decisive della classe operaia, la qual cosa non rappresenta una prospettiva immediata di fronte a noi.

Tuttavia, il conflitto tra le potenze imperialiste, che riflette la lotta per imporre una nuova spartizione del pianeta, domina la situazione mondiale. Questo si esprime nelle numerose guerre regionali, che causano estese devastazioni e decine di migliaia di morti, oltre che tensioni sul piano commerciale e diplomatico, che sono in crescita costante. L’anno passato, abbiamo assistito al più alto numero di guerre dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.

Questo ha portato a una nuova corsa al riarmo, alla crescita del militarismo nei paesi occidentali e a una pressione montante a ricostruire, a riequipaggiare e a modernizzare le forze armate ovunque. Gli Stati Uniti pianificano di spendere una cifra stimata di 1,7 mila miliardi di dollari in 30 anni per rinnovare il proprio arsenale nucleare. Recentemente, hanno deciso di dispiegare missili da crociera sul suolo tedesco per la prima volta dalla Guerra Fredda.

C’è una forte pressione da parte degli Stati Uniti su tutti i paesi NATO ad aumentare la loro spesa militare. La Cina ha annunciato un aumento del 7,2% della spesa per la difesa. Nel 2023, la spesa militare della Russia è cresciuta del 27%, raggiungendo il 16% della spesa totale del governo e il 5,9% del PIL. La spesa militare globale nel 2023 ha superato i 2,44 mila miliardi di dollari, un aumento del 6,8% rispetto al 2022. Questo è l’aumento più consistente dal 2009 e della cifra più alta mai registrata.

Si tratta di una quantità stratosferica di denaro, per non parlare della forza-lavoro e delle risorse tecnologiche impiegate, che potrebbe essere utilizzata per finalità socialmente utili. Questo è un aspetto che dobbiamo evidenziare nella nostra propaganda e nell’agitazione.

Sarebbe semplicistico dire che i capitalisti si avventurano in una nuova corsa al riarmo per alimentare la crescita economica. Infatti, la spesa militare ha per sua natura ricadute inflazionistiche e qualsiasi effetto sull’economia sarà di breve termine e verrà controbilanciato dai tagli in altri settori. È il conflitto tra le potenze imperialiste per la spartizione del mondo che sta fomentando l’aumento della spesa militare. Il capitalismo, nella sua fase imperialistica, conduce inevitabilmente a conflitti tra le potenze e in ultima istanza alla guerra.

La lotta contro il militarismo e l’imperialismo è diventata una questione centrale nella nostra epoca. Noi ci opponiamo con vigore alle guerre imperialiste e all’imperialismo, ma non siamo pacifisti. Dobbiamo sottolineare che l’unico modo per garantire la pace è l’abolizione del sistema capitalista che alimenta la guerra.

L’inversione della globalizzazione

Nella sfera economica, l’accresciuta competizione per i mercati e i settori di investimento in un’epoca di crisi economica ha portato all’affermarsi di tendenze protezionistiche.

La “globalizzazione” (cioè l’espansione del mercato mondiale) è stato uno dei principali motori della crescita economica per un intero periodo dopo il crollo dello stalinismo in Russia e la restaurazione del capitalismo in Cina, combinato con l’integrazione di questi paesi nell’economia mondiale. Quello cui assistiamo adesso sono, al contrario, barriere doganali e guerre commerciali tra tutti i principali blocchi economici (Cina, Unione Europea e Stati Uniti), ognuno dei quali cerca di salvare la propria economia a spese degli altri. “Dazio è la parola più bella nel dizionario!”, ha esclamato Donald Trump.

Nel 1991, il commercio mondiale rappresentava il 35% del PIL mondiale, un dato che era rimasto praticamente immutato dal 1974. Da lì in poi, cominciò un periodo di rapida crescita fino al picco del 61% nel 2008, che rifletteva un brusco aumento dell’integrazione dell’economia mondiale. Ovviamente, non si è tratto di un processo neutro dal quale hanno tratto vantaggio tutti i paesi. La riduzione delle barriere doganali tra gli Stati Uniti e il Messico, per esempio, ha avvantaggiato il capitale americano e ha distrutto l’agricoltura messicana.

A partire dalla crisi del 2008, la quota del commercio mondiale sul PIL mondiale è stata stagnante. Il Fondo Monetario Internazionale prevede che il commercio mondiale crescerà appena il 3,2% all’anno nel medio periodo, un ritmo ben al di sotto del tasso di crescita annuale medio del 4,9% nel periodo 2000-2019. L’espansione del commercio mondiale non è più un motore della crescita economica come lo era in passato.

Nel 2023, i governi hanno introdotto a livello mondiale 2.500 misure protezionistiche (incentivi fiscali, sussidi mirati e restrizioni al commercio), il triplo rispetto a cinque anni fa. I dazi americani sui prodotti cinesi sono aumentati di sei volte, raggiungendo il 19,3%, nel caso dei veicoli elettrici gli Stati Uniti hanno imposto dazi del 100% sulle importazioni cinesi.

Durante la prima presidenza Trump, gli Stati uniti hanno adottato una politica protezionistica aggressiva, non solo contro la Cina, ma anche contro l’Europa. Questa politica è proseguita con Biden. Hanno approvato una serie di leggi (il Chips, il cosiddetto Inflation Reduction Act, ecc.) e misure rivolte ad avvantaggiare la produzione americana a spese delle importazioni dal resto del mondo.

Ricordiamoci che, dopo il 1929, ci fu una svolta generale in direzione del protezionismo che fece precipitare il mondo dalla recessione economica nella depressione. Il volume del commercio mondiale cadde del 25% tra il 1929 e il 1933 e gran parte di ciò fu causato direttamente dall’innalzamento delle barriere doganali.

Un mondo multipolare?

È in questo contesto di crescenti tensioni inter-imperialistiche che Donald Trump ha vinto le elezioni presidenziali americane. Il suo programma “America First” riflette queste contraddizioni nelle relazioni mondiali.

È difficile prevedere quali saranno le politiche di Trump, ma il suo obiettivo dichiarato di ridurre il coinvolgimento diretto americano nei conflitti in giro per il mondo sembra essere un riconoscimento dell’effettivo ridimensionamento relativo dell’imperialismo americano. La sua idea di tendere un ramo di ulivo alla Russia di Putin, per potersi meglio concentrare sul principale rivale degli USA, la Cina, in superficie, ha anch’esso più senso delle sconsiderate provocazioni di Biden.

Tuttavia, quali che siano le intenzioni di Trump, l’imperialismo americano è la superpotenza mondiale dominante. Non si può sottrarre, perché qualsiasi arretramento da parte di Washington sull’arena mondiale sarebbe una vittoria per i suoi rivali. Come spiegò Lenin, la ripartizione del mondo da parte delle potenze imperialiste sulla base dei mutamenti nella loro forza relativa non verrà condotta più di tanto con accordi tra gentiluomini, ma piuttosto mediate “una lotta pacifica e non pacifica”.

Alcuni hanno suggerito che l’attuale situazione mondiale sta andando nella direzione di un mondo “multipolare”, in cui il ridimensionamento dell’imperialismo americano creerà ipoteticamente un equilibrio tra differenti potenze, che si rispetteranno tutte a vicenda e risolveranno i propri problemi con un dialogo pacifico. Ci dicono che questo sarebbe in qualche modo un obiettivo progressista al quale la classe operaia e i popoli dominati dall’imperialismo nel mondo dovrebbero aspirare e per il quale dovrebbero, forse, persino lottare.

Niente può essere più lontano dalla verità. Quello che abbiamo visto non è la lotta per fondare un sistema mondiale più giusto, bensì la lotta tra diversi briganti imperialisti per la spartizione del bottino. Chiedete alla popolazione in Siria se pensano che la lotta tra le potenze regionali e mondiali in lizza nella loro terra abbia portato a un esito progressista. Chiedete ai poveri del Congo se la lotta della Cina per le ricchezze minerarie del loro paese ha portato alla pace e alla prosperità. Chiedete alla classe operaia dell’Ucraina se la provocazione di Washington contro la Russia ha rafforzato la loro sovranità nazionale.

No. Non c’è nulla di progressista nel sostituire il brutale e predatorio dominio dell’imperialismo americano con il dominio di svariate potenze imperialiste in lotta tra di loro sui cadaveri di centinaia di migliaia di lavoratori e di poveri, in mezzo a milioni di profughi.

Il dominio dell’imperialismo può essere superato in una maniera progressista solo attraverso il rovesciamento rivoluzionario del capitalismo e l’avvento al potere della classe operaia. Solo allora sarà possibile creare una società davvero giusta, in cui i mezzi di produzione che l’umanità ha creato in migliaia di anni saranno resi di proprietà comune, sotto il controllo di un piano democratico di produzione per soddisfare i bisogni della maggioranza e non la sete insaziabile di profitti privati di una minoranza parassitaria.

20 dicembre 2024

 

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