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Per un lungo periodo la Cina ha dato un contributo rilevante alla crescita dell’economia globale. Abbiamo assistito per oltre un ventennio a livelli di crescita impressionanti che hanno trasformato il Dragone nella seconda potenza economica mondiale. Tuttavia la spinta propulsiva è andata esaurendosi tra il 2014 e il 2015, quando è stato raggiunto il picco della crescita cinese. Da allora siamo entrati in una fase nuova che va compresa per la sua rilevanza a livello internazionale.
La fine del miracolo cinese
Quando alla fine dello scorso anno Pechino ha abbandonato le misure draconiane contro il Covid, i vertici del Partito Comunista Cinese (PCC) si aspettavano un forte rimbalzo dell’economia. Ma questo non è avvenuto. A luglio le esportazioni della Cina sono diminuite per il terzo mese consecutivo registrando un calo del 14,5%, mentre le importazioni sono scese del 12,4%, l’attività manifatturiera si è contratta per il quarto mese consecutivo e la disoccupazione giovanile ha toccato il 21,6%, aggravando una crisi che ha molte affinità con quella dei “mutui subprime” americani del 2007-08.
Il crack finanziario allora venne evitato solo grazie all’intervento massiccio da parte degli Stati e delle banche centrali, naturalmente a spese dei lavoratori. La storia si ripete oggi in Cina con un mercato immobiliare in profonda crisi. La società Evergrande così come altre aziende del settore sono virtualmente fallite e tenute artificialmente in vita grazie all’intervento pubblico e allo spacchettamento di attivi inesistenti e totalmente fittizi, ceduti ad altre aziende su ordine del PCC.
La realtà è che il modello di sviluppo cinese sta facendo emergere tutti gli elementi parassitari tipici del capitalismo moderno, con un’espansione senza precedenti dei debiti pubblici e privati.
Cosa succede se questo rallentamento continua, come è probabile che sia? La rappresentazione del mondo fatta da Xi Jinping vedeva l’ascesa della Cina e il declino dell’Occidente. Ma la realtà che si paventa di fronte a noi è che è quanto meno lecito dubitare che la lunga marcia della Cina verso il dominio economico globale sia davvero così inarrestabile.
Ripercussioni politiche
Questo a un certo punto aprirà inevitabilmente una crisi al vertice del regime. Xi Jinping all’ultimo congresso del PCC ha concentrato un enorme potere nelle sue mani (ottenendo anche il terzo mandato presidenziale), ma questo non è certo un segnale di forza, piuttosto il contrario.
Si è molto discusso sulle recenti sparizioni di esponenti di primo piano del PCC (considerati fieri sostenitori di Xi Jinping) come il ministro alla Difesa Li Shangfu e il ministro degli Esteri Qin Gang (oltre che di diversi generali e alti ufficiali). Secondo il sinologo Michelangelo Cocco non si tratterebbe di una purga operata da Xi Jinping (che ha eliminato molti rivali con la campagna anticorruzione 2012-17), ma di una manovra di dirigenti contrari all’offensiva pigliatutto compiuta dallo stesso Xi al congresso dello scorso ottobre. Si vocifera anche che il presidente non abbia partecipato alla riunione del G-20 a New Dehli (cosa che in effetti è sembrata molto strana), a causa del veto posto dalle fazioni rivali nel partito.
Aldilà di ogni possibile speculazione giornalistica, che ci sia una crisi di consenso verso il regime è dimostrato anche dalle mobilitazioni di protesta che si stanno estendendo in tutto il paese (non solo da parte della classe operaia ma anche dei ceti medi e degli studenti).
E’ solo l’inizio
Oltre alla crisi immobiliare, pare che la più grande azienda privata di investimenti cinese, il gruppo Zhongzhi abbia seri problemi di liquidità. Zhongzhi è conosciuta per essere la più grande “shadow bank” (sistema bancario ombra) della Cina. Si tratta di una caratteristica particolarmente significativa del sistema economico cinese.
Come spiegava Marx, “il credito permette al capitale di espandersi al di là dei propri limiti naturali e di superare temporaneamente la sua crisi – ma al prezzo di una crisi ancora più grande quando i debiti devono essere ripagati”. Il castello di carta su cui è stata costruita buona parte della crescita cinese (il sistema immobiliare rappresenta il 28% del PIL) rischia di saltare per aria.
Non si tratta della crisi del 2008, quando la Cina era un’economia emergente con un basso livello di debito statale e privato e la sua industria era in rapida espansione. L’attuale crisi economica è la prima crisi in piena regola che la Cina affronta da quando è entrata nel sistema capitalista mondiale e il PCC non è in grado di impedirla.
Le ultime crisi hanno screditato l’argomento principale della teoria del “socialismo con caratteristiche cinesi” e cioè che le contraddizioni del capitalismo possono essere gestite efficacemente attraverso il forte intervento del potere statale (ciò che chiamano “la guida illuminata del Partito”). L’intervento del PCC non solo non è riuscito a risolvere la crisi di Evergrande, ma si dimostrerà incapace di prevenire nuovi crolli. Country Garden e Zhongzhi non saranno gli ultimi casi di questo tipo e crisi aziendali di portata più vasta seguiranno.
Ciò che preoccupa realmente la burocrazia del PCC e l’establishment mondiale è fino a che punto la crisi immobiliare può avere un effetto sul sistema finanziario internazionale. La crisi del sistema immobiliare cinese (un sistema chiuso sul piano nazionale, senza import ed export) di per sé li preoccupa relativamente, in quanto impoverisce solo le masse cinesi che si ritrovano ad aver pagato delle case che non riceveranno mai. Molto più importante per loro è quanti titoli di queste aziende (obbligazioni, azioni, prestiti) sono usciti dalla Cina e sono entrati nei portafogli internazionali. Nessuno lo sa esattamente, ma ciò che questo produrrà è il rischio di una progressiva chiusura dei capitali internazionali che si orienteranno verso altri lidi.
Uno scenario molto pericoloso per Xi Jinping e che verrebbe utilizzato sia dal settore liberista che da quello ultranazionalista del PCC per condurre una resa dei conti all’interno del partito. Un tale contesto sarebbe terreno fertile per una nuova esplosione della lotta di classe, come quella dei lavoratori della Foxconn dello scorso autunno, su scala generalizzata. Sono le spaccature al vertice che più volte nella storia hanno aperto quelle brecce in cui si sono inseriti i movimenti di massa.
E se c’è un paese in cui questo si è mostrato vero più che in qualunque altro è proprio la Cina.
6 ottobre 2023