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La Rivolta della Ragione – Capitolo 9 Il Big Bang – Tempo, spazio e moto

di Alan Woods e Ted Grant

 

La cosmologia

Per molte persone, che non sono abituate a pensare in modo dialettico, è difficile accettare il concetto di infinito. Esso contrasta col mondo finito degli oggetti quotidiani, in cui tutto ha un inizio e una fine, al punto di sembrare strano ed incomprensibile. Inoltre è in contraddizione con gli insegnamenti di gran parte delle principali religioni. Molte religioni antiche avevano il proprio mito della Creazione. Gli studiosi ebraici del Medioevo fissarono la data della creazione al 3760 a.C. e infatti il calendario ebraico parte da quella data. Nel 1658 il vescovo Ussher calcolò che l’universo era stato creato nel 4004 a.C e per tutto il XVIII secolo si pensò che l’universo avesse al massimo 6 o 7mila anni.
Si potrebbe obiettare che la scienza del XX secolo non ha nulla a che fare con tutti questi miti sulla Creazione e che con i moderni metodi scientifici possiamo ottenere un quadro preciso delle dimensioni e delle origini dell’universo. Purtroppo le cose non sono così semplici. In primo luogo, nonostante gli enormi progressi, la nostra conoscenza dell’universo osservabile è limitata dalla capacità persino dei telescopi più potenti, dei segnali radio e delle sonde spaziali. In secondo luogo, cosa più grave, questi risultati e osservazioni vengono interpretati in una maniera altamente speculativa, spesso confinante col vero e proprio misticismo. Troppo spesso si ha veramente l’impressione di essere tornati al mondo del mito della Creazione (il “Big Bang”, il grande scoppio), insieme al suo compagno inseparabile, il Giorno del Giudizio Universale (il “Big Crunch”, il grande crollo).
Progressivamente, a partire dall’invenzione del telescopio, il progresso della tecnologia ha allontanato sempre di più i confini dell’universo. Le sfere celesti, che dal tempo di Aristotele e di Tolomeo avevano limitato la mente degli uomini, vennero finalmente infrante, insieme a tutte le altre barriere che i pregiudizi del Medioevo avevano posto sulla strada del progresso.
Nel 1755, Kant postulò l’esistenza di remoti ammassi di stelle, che egli chiamò “universi isola”. Eppure ancora nel 1924 si pensava che l’intero universo avesse un diametro di soli 200.000 anni luce e fosse composto da tre sole galassie, cioè la nostra e due vicine. In seguito l’astronomo statunitense Edwin Powell Hubble, usando il telescopio da cento pollici di Mount Wilson, dimostrò che la nebulosa di Andromeda è ben al di là della nostra galassia. Successivamente furono scoperte altre galassie ancora più lontane. L’ipotesi di Kant sugli “universi isola” risultò esatta. Di conseguenza l’universo fu rapidamente “espanso” – nel pensiero degli uomini – e da allora continua ad espandersi, man mano che vengono scoperti oggetti sempre più distanti. Invece che di 200.000 anni luce, si ritiene ora che il diametro sia di decine di miliardi di anni luce e col tempo si vedrà che nemmeno i calcoli attuali si avvicinano alla verità, poiché l’universo è infinito, come pensavano Niccolò Cusano ed altri. Prima della Seconda guerra mondiale si calcolava che l’età dell’universo fosse solo di due miliardi di anni, risultato leggermente migliore di quello ottenuto dal vescovo Ussher, pur rimanendo un calcolo totalmente errato. Attualmente infuria un dibattito tra i fautori del Big Bang riguardo la presunta età dell’universo. A questo torneremo in seguito.
In realtà la teoria del Big Bang è il mito della Creazione (proprio come quello del primo libro della Genesi). Essa afferma che l’universo ebbe origine circa 15 miliardi di anni fa. Prima di allora, secondo questa teoria, non c’erano né universo, né materia, né spazio, né, a quanto pare, il tempo. Si suppone che allora tutta la materia dell’universo fosse concentrata in un unico punto. Questo punto invisibile, chiamato singolarità dagli appassionati, sarebbe poi esploso con una forza tale da riempire istantaneamente l’universo, che di conseguenza è ancora in espansione. A proposito, questo fu il momento in cui “iniziò il tempo”. Se state pensando a una presa in giro, vi sbagliate. È proprio quanto afferma la teoria del Big Bang ed è quanto crede la maggioranza dei professori universitari con tanto di lauree e dottorati. Negli scritti di un settore della comunità scientifica compaiono chiari segni di una deriva verso il misticismo. Negli ultimi anni abbiamo assistito a un’inondazione di libri sulla scienza che, camuffati da testi divulgativi delle più recenti teorie sull’universo, tentano di contrabbandare nozioni religiose di ogni genere, particolarmente in relazione alla cosiddetta teoria del Big Bang.
Il 7 maggio del 1994 il New Scientist di Londra pubblicò un articolo dal titolo In principio era il Big Bang. L’autore, Colin Price, ex scienziato e attualmente pastore di una Chiesa protestante, inizia l’articolo ponendo la domanda: “Può essere, forse, che la teoria del Big Bang sia sorprendentemente biblica? Oppure che, in altri termini, il libro della Genesi sia, paradossalmente, scientifico?” e conclude dichiarando fiducioso che “nessuno avrebbe apprezzato il racconto del Big Bang più degli autori dei primi due capitoli della Genesi”. Questo è assai tipico della filosofia mistica che sta dietro a quello che Price, forse ironicamente, ma in modo preciso, definisce come racconto del Big Bang.

L’effetto Doppler

Nel 1915 Albert Einstein avanzò la sua teoria generale della relatività. Prima di allora, la visione generale dell’universo si basava sul modello meccanicista classico elaborato nel XVIII secolo da Isaac Newton. Per Newton l’universo era come un enorme meccanismo ad orologeria, che obbediva ad una serie di leggi del moto preordinate. Nella sua estensione era infinito, ma essenzialmente immutabile. Questa visione dell’universo era caratterizzata dal limite comune a tutte le teorie non dialettiche: la staticità.
Nel 1929 Edwin Hubble, servendosi di un potente telescopio, mostrò che l’universo era molto più grande di quanto si fosse pensato in precedenza. Inoltre, egli notò un fenomeno fino ad allora inosservato: quando la luce raggiunge i nostri occhi da una fonte in moto, subisce un cambiamento di frequenza. Questo può essere espresso in termini di colori dello spettro. Quando una sorgente luminosa si muove verso di noi, si osserva che la sua luce si sposta verso l’estremità dello spettro che corrisponde alle frequenze più alte (violetto). Quando invece si allontana, osserviamo uno spostamento verso l’estremità rossa, cioè quella delle frequenze più basse. Questa teoria, elaborata per la prima volta dall’austriaco Christian Doppler e chiamata appunto “effetto Doppler”, ebbe notevoli implicazioni in campo astronomico. Le stelle appaiono all’osservazione come un insieme di luci su uno sfondo nero. Dato che la maggior parte delle stelle mostravano uno spostamento verso l’estremità rossa dello spettro, le osservazioni di Hubble suggerirono l’idea che le galassie si stanno allontanando da noi a una velocità proporzionale alla distanza delle galassie stesse. Questa si conosce come legge di Hubble, sebbene lo stesso Hubble non ritenesse che l’universo fosse in espansione.
Hubble constatò che esisteva una relazione fra il redshift (lo spostamento verso il rosso) e la distanza, stimata quest’ultima in base alla luminosità apparente delle galassie. Pareva all’epoca che le galassie più distanti allora osservabili si allontanassero a 40.000 km al secondo. Con il nuovo telescopio da 200 pollici negli anni ‘60 furono individuati molti più oggetti, alcuni dei quali si allontanavano a ben 240.000 km/s. In base a queste osservazioni si è costruita l’ipotesi dell’Universo in espansione. Inoltre le “equazioni di campo” della teoria della relatività generale di Einstein potevano essere interpretate in modo tale da conformarsi a tale ipotesi. Per estensione si sosteneva che, se l’universo è in espansione, doveva essere molto più piccolo in passato rispetto a oggi. La conseguenza di questo ragionamento era l’ipotesi che l’universo avesse avuto inizio come un singolo denso nucleo di materia. Questa idea non era originariamente quella di Hubble; era già stata avanzata nel 1922 dal matematico russo Aleksandr Friedmann. Poi nel 1927 il prelato belga George Lemaître presentò la sua idea dell’“uovo cosmico”. Dal punto di vista del materialismo dialettico, l’idea di un universo eternamente statico e chiuso, è evidentemente erronea, quindi abbandonarla era senza dubbio un passo avanti.
Le teorie di Friedmann ricevettero un notevole impulso dalle osservazioni di Hubble e di Wirtz. Queste sembravano indicare che l’universo, o almeno quella parte di esso che possiamo osservare, fosse in espansione. Lemaître, basandosi su di esse, tentò di dimostrare che, se l’universo era finito nello spazio, lo doveva essere anche nel tempo: doveva avere avuto un inizio. L’utilità di una tale teoria per la Chiesa cattolica è indubbia; essa spalanca le porte all’idea di un Creatore il quale, dopo essere stato espulso ignominiosamente dall’universo dalla scienza, ora prepara il proprio trionfale ritorno nelle vesti del mago cosmico.
“Ritenni allora,” avrebbe ricordato Hannes Alfvén anni dopo, “che la teoria di Lemaître fosse motivata dal bisogno di conciliare la sua fisica con la dottrina ecclesiastica della creazione ex nihilo.”1
Lemaître fu premiato in seguito con la nomina alla carica di direttore dell’Accademia pontificia della scienza.

Come si è evoluta la teoria

Non è esatto parlare della “teoria del Big Bang”, poiché ce ne sono state almeno cinque, ognuna delle quali ha incontrato difficoltà. La prima, come abbiamo visto, fu avanzata da Lemaître nel 1927. Questa fu presto confutata per una serie di motivi: conclusioni erronee tratte dalla relatività generale e dalla termodinamica, una teoria sbagliata sui raggi cosmici e sull’evoluzione delle stelle, ecc.
Dopo la Seconda guerra mondiale, la screditata teoria fu riportata in vita in una forma nuova da George Gamow e altri. Questi presentarono vari calcoli per spiegare i diversi fenomeni che sarebbero risultati dal Big Bang (non senza una certa fantasia contabile): la densità della materia, la temperatura, i livelli delle radiazioni e così via. Il brillante stile espositivo di George Gamow garantì che il Big Bang colpisse la fantasia popolare. Ma anche questa teoria incontrò dei seri problemi.
Venne rilevata tutta una serie di incongruenze che invalidarono non solo il modello di Gamow, ma anche quello dell’“universo oscillante” elaborato successivamente da Robert Dicke e altri che, nel tentativo di aggirare il problema di cosa fosse successo prima del Big Bang, volevano far oscillare l’universo in un ciclo eterno. Ma Gamow aveva fatto una previsione importante: che un’esplosione così immensa avrebbe lasciato il proprio segno sotto forma di “radiazione di fondo”, una specie di eco del Big Bang nello spazio. Questo fu utilizzato qualche anno dopo per rispolverare la teoria.
Fin dall’inizio quest’idea venne osteggiata. Nel 1928 Thomas Gold e Hermann Bondi proposero come alternativa lo “stato stazionario”, reso popolare in seguito da Fred Hoyle. Pur accettando l’idea dell’espansione dell’universo, essi cercavano di motivarla con la “creazione continua di materia dal nulla”. Ritenevano che questo succedesse di continuo, ma ad un ritmo troppo lento per essere rilevato dalla tecnologia odierna. Ciò significa che l’universo rimarrebbe essenzialmente immutato per tutto il tempo, da cui il nome di “stato stazionario”. Così le cose andarono di male in peggio; dall’uovo cosmico alla materia creata dal nulla! Le due teorie rivali fecero a pugni per oltre un decennio.
Il fatto stesso che così tanti scienziati seri fossero disposti ad accettare la nozione fantastica di Hoyle per cui la materia sia stata creata dal nulla è già di per sé veramente sbalorditivo. Alla fine la teoria si dimostrò errata. Lo stato stazionario presupponeva un universo omogeneo nel tempo e nello spazio. Se l’universo fosse costantemente in uno “stato stazionario”, la densità di un oggetto radioemittente dovrebbe essere costante, poiché più guardiamo lontano nello spazio e più vediamo indietro nel tempo. Invece dalle osservazioni risultò che non era così: più si guardava lontano nello spazio e più le onde radio erano intense. Questo dimostrò in modo conclusivo che l’universo è in uno stato continuo di cambiamento e di evoluzione; non è sempre stato uguale. La teoria dello stato stazionario era sbagliata.
Nel 1964 questa teoria ricevette il colpo di grazia in seguito alla scoperta di due giovani astronomi statunitensi, Arnas Penzias e Robert Wilson, della radiazione di fondo nello spazio. In un primo tempo si suppose che si trattasse dell’eco del Big Bang, come prevista da Gamow. Tuttavia persistevano alcune incongruenze; si osservò che la temperatura della radiazione era solo 3,5°K, non i 20°K previsti da Gamow, né i 30°K previsti dal suo successore P.J.E. Peebles. Il risultato è ancora più lontano dalla teoria di quanto sembri; visto che la quantità di energia in un campo è proporzionale alla quarta potenza della sua temperatura, l’energia osservata di questa radiazione era in realtà parecchie migliaia di volte inferiore a quella prevista.
Robert Dicke e P.J.E. Peebles ripresero la teoria dal punto in cui l’aveva lasciata Gamow. Dicke si rese conto che c’era un modo comodo per aggirare il problema spinoso di cosa fosse successo prima del Big Bang recuperando l’idea einsteiniana di un universo chiuso. Si poteva sostenere che l’universo si sarebbe espanso per un certo tempo, per poi collassare fino a diventare un punto (una “singolarità”), o qualcosa del genere, e poi rimbalzare verso una nuova fase di espansione, in una specie di interminabile ping-pong cosmico. Il problema era che secondo i calcoli di Gamow il rapporto tra l’energia e la densità dell’universo era insufficiente, anche se di poco, per fermare l’espansione dell’universo. La densità era circa di due atomi per metro cubo di spazio, mentre l’energia, espressa come la temperatura prevista della radiazione di fondo, che si supponeva rappresentasse i resti del Big Bang, era 20°K, cioè 20 gradi sopra lo zero assoluto. In realtà Gamow aveva fissato convenzionalmente questi dati per dimostrare che il Big Bang aveva prodotto gli elementi pesanti, cosa che ormai nessuno accettava. Così Dicke li buttò a mare, scegliendone di nuovi e altrettanto arbitrari, che si sarebbero adattati alla sua teoria di universo chiuso.
Dicke e Peebles previdero che l’universo fosse pieno di radiazioni, principalmente onde radio, con una temperatura di 30°K. Successivamente Dicke proclamò che il suo gruppo di scienziati aveva previsto una temperatura di 10°K, ma questa cifra non compare affatto nei suoi appunti pubblicati e comunque corrisponde ad un livello di energia 100 volte superiore al risultato osservato. Questo dimostrò che l’universo era meno denso di quanto avesse pensato Gamow e dunque con minore gravità, il che accentuava il problema di base della provenienza di tutta l’energia del Big Bang. A questo proposito, Eric Lerner fa notare che “lungi dal confermare il modello Peebles-Dicke, la scoperta Penzias-Wilson escludeva recisamente la possibilità del modello chiuso oscillante.”2
Così nacque una terza versione del Big Bang, la quale acquisì il nome di modello standard: un universo aperto in uno stato di espansione continua.
Fred Hoyle fece calcoli dettagliati e annunciò che un Big Bang avrebbe prodotto solo elementi leggeri: elio, deuterio e litio (gli ultimi due sono in realtà assai rari). Calcolò che se la densità dell’universo fosse circa un atomo ogni otto metri cubi, le quantità di questi tre elementi leggeri sarebbero abbastanza vicine a quelle osservate. Così venne esposta una nuova versione della teoria che non assomigliava affatto a quelle precedenti. Non si accennava più ai raggi cosmici di Lemaître, né agli elementi pesanti di Gamow; questa nuova teoria si fondava invece sulla radiazione di fondo di microonde e su questi tre elementi leggeri. Eppure niente di tutto ciò costituisce una prova conclusiva del Big Bang. Un problema importante era l’estrema omogeneità del fondo a microonde. Le cosiddette irregolarità della radiazione di fondo sono così piccole che tali fluttuazioni non avrebbero avuto tempo di crescere di intensità per originare le galassie, a meno che non ci fosse stata molta più materia (e quindi molta più gravità) di quanto non apparisse.
C’erano anche altri problemi. Come può succedere che frammenti di materia che si muovono in direzioni opposte riescano tutti a raggiungere la stessa temperatura, tutti allo stesso momento (il problema “orizzonte”)? I fautori della teoria indicano le presunte origini dell’universo come un modello di perfezione matematica, tutto perfettamente regolare, un vero e proprio “Eden di simmetria le cui caratteristiche si conformano alla pura ragione”, come dice Lerner. Ma l’universo di oggi è tutt’altro che perfettamente simmetrico: è irregolare, contraddittorio, “grumoso”. Niente affatto la stoffa di cui sono fatte le educate equazioni di Cambridge! Uno dei problemi è capire perché il Big Bang non abbia prodotto un universo omogeneo. Perché la materia e l’energia semplici dell’origine non si sono diffuse in modo uniforme nello spazio come un’immensa nube di polvere e gas? Da dove provengono tutte queste stelle e galassie? Dunque, come siamo passati da A a B? Come è potuto succedere che la pura simmetria dell’universo primitivo abbia dato origine a quello irregolare che vediamo davanti ai nostri occhi?

La “teoria inflazionaria”

Per aggirare questo e altri problemi, il fisico statunitense Alan Guth ha esposto la sua teoria dell’”universo inflazionario” (forse non è una coincidenza che questa idea sia stata proposta negli anni ’70, quando il mondo stava attraversando una crisi inflazionistica!). Secondo questa teoria, la temperatura diminuì in modo talmente rapido che non ci fu tempo sufficiente per la separazione dei diversi campi o la formazione delle diverse particelle. La differenziazione avvenne solo più tardi, quando l’universo era molto più esteso. Ecco, dunque, la versione più recente del Big Bang. Essa afferma che, quando si verificò il Big Bang, l’universo subì un’espansione esponenziale, nel corso della quale raddoppiò di grandezza ogni 10-35 secondi (di qui “inflazione”). Mentre le versioni precedenti del “modello standard” immaginavano tutto l’universo compresso in un volume pari alle dimensioni di un pompelmo, Guth andò oltre: stimò che l’universo non è iniziato come un pompelmo, bensì miliardi di volte più piccolo del nucleo di un atomo di idrogeno. In seguito si sarebbe espanso ad una velocità incredibile – molte volte superiore a quella della luce, che è 300.000 km al secondo – fino a raggiungere 1090 volte il volume originario, cioè 1 seguito da 90 zeri!
Consideriamo le implicazioni di questa teoria. Come tutte le altre teorie sul Big Bang, essa parte dall’ipotesi che tutta la materia dell’universo fosse concentrata in un unico punto. In merito a ciò, l’errore fondamentale è immaginare che l’universo sia uguale a quello osservabile e che sia possibile ricostruire tutta la storia dell’universo come un processo lineare, senza tener conto di tutte le diverse fasi, transizioni e stati che attraversa la materia.
Il materialismo dialettico concepisce l’universo come infinito, ma non statico o in uno stato permanente di “equilibrio”, come lo raffigurarono Einstein e Newton. La materia e l’energia non possono essere né create né distrutte ma subiscono un processo continuo di moto e di cambiamento, che comporta periodiche esplosioni, espansione e contrazione, attrazione e repulsione, vita e morte. Non c’è nulla di intrinsecamente improbabile nell’idea di una o di molte grandi esplosioni. Il problema è un altro: un’interpretazione mistica di certi fenomeni osservati, come il redshift di Hubble, e il tentativo di introdurre nella scienza, per la porta di servizio, l’idea religiosa della creazione dell’universo.
Innanzitutto, è impensabile che tutta la materia dell’universo fosse stata concentrata in un unico punto, di “densità infinita”. Per chiarire cosa ciò implichi, in primo luogo è impossibile mettere una quantità infinita di materia in uno spazio finito. È sufficiente porsi la questione per avere la risposta. “Ah – dicono i bigbanghisti – ma l’universo non è infinito bensì finito, secondo la teoria della relatività generale di Einstein”. Nel suo libro Eric Lerner fa presente che le equazioni di Einstein ammettono un numero infinito di universi, diversi fra loro. Friedmann e Lemaître dimostrarono che molte di queste equazioni si traducevano in un universo in espansione, ma non è assolutamente vero che tutte queste comportavano uno stato di “singolarità”. Eppure Guth e compagnia proposero dogmaticamente solo questa variante.
Anche se ammettessimo che l’universo è finito, la nozione di “singolarità” ci porta a conclusioni di carattere evidentemente fantastico. Se consideriamo come l’intero universo quel piccolissimo angolo che noi siamo in grado di vedere – una supposizione arbitraria senza alcuna base logica o scientifica – stiamo sempre parlando di oltre 100 miliardi di galassie, di cui ognuna contiene circa 100 miliardi di stelle della sequenza principale (come il nostro Sole). Secondo Guth, tutta questa materia era concentrata in uno spazio più piccolo di un singolo protone. Quando esisteva da 10-24 di secondo, con una temperatura di miliardi di miliardi di gradi, c’era un solo tipo di campo e un solo tipo di interazione fra le particelle. Quando l’universo si espanse ulteriormente e diminuì la temperatura, i diversi campi si sarebbero “condensati” dallo stato originario di semplicità.
Sorge la domanda della provenienza di una tale quantità di energia necessaria per alimentare un’espansione di dimensioni così incredibili. Per risolvere questo rompicapo, Guth ricorse a un ipotetico campo di forza onnipresente (il “campo di Higgs”), la cui esistenza è ipotizzata da alcune teorie quantistiche delle particelle, ma che non ha ricevuto una verifica sperimentale diretta.
“Nella teoria di Guth – osserva Eric Lerner – il campo di Higgs, che esiste nel vuoto, genera tutta l’energia necessaria dal nulla, ex nihilo. L’universo, secondo l’espressione di Guth, è un enorme «pranzo gratuito», gentile concessione del campo di Higgs.”3

Materia oscura?

Ogni volta che l’ipotesi del Big Bang incontra problemi, i suoi sostenitori, invece di abbandonarla, cambiano semplicemente le regole del gioco: introducono supposizioni nuove e sempre più arbitrarie per puntellare la loro teoria. Ad esempio, la teoria richiede che nell’universo ci sia una certa quantità di materia. Se, come prevede il modello, l’universo fu creato 15 miliardi di anni fa, non c’è stato tempo sufficiente per consentire alla materia che osserviamo di coagularsi in galassie come la Via Lattea, senza l’ausilio di un’invisibile “materia oscura”. Secondo i cosmologi del Big Bang, affinché le galassie siano state formate dal Big Bang, ci deve essere stata materia sufficiente nell’universo per fermare prima o poi l’espansione per mezzo della legge di gravitazione. Questo comporterebbe una densità di circa dieci atomi per metro cubo di spazio. In realtà, la quantità di materia presente nell’universo osservabile è circa un atomo ogni dieci metri cubi, ossia un centesimo della densità prevista dalla teoria.
I cosmologi hanno denominato omega il rapporto tra la densità dell’universo e la densità necessaria per fermare l’espansione. Così, se omega fosse pari a 1, sarebbe appena sufficiente per bloccarla. Purtroppo, il rapporto (omega) osservato realmente è tra 0,01 e 0,02. In qualche modo “manca all’appello” il 99% circa della materia necessaria. Come hanno risolto il rompicapo? Molto semplice: visto che la teoria richiedeva una determinata quantità di materia, hanno fissato arbitrariamente il valore di omega prossimo a 1 e poi si sono messi a cercare freneticamente la materia mancante! Il primo problema posto di fronte alle teoria del Big Bang era l’origine delle galassie. Come ha potuto una radiazione di fondo estremamente uniforme produrre un universo così irregolare e “grumoso”? Le cosiddette “increspature” (anisotropie) della radiazione sarebbero il riflesso della formazione degli ammassi di materia intorno ai quali si aggregarono le prime galassie. Ma le irregolarità osservate erano troppo piccole per essere state responsabili della formazione delle galassie, a meno che non ci fosse stata molta più materia, e quindi gravità, di quanto sembra esserci. Per essere precisi, serviva l’altro 99% della materia, la quale semplicemente non c’era.
Nasce così la nozione di “materia fredda e oscura”. Va precisato che nessuno l’ha mai osservata; la sua esistenza è stata ipotizzata poco più di un decennio fa allo scopo di rattoppare un imbarazzante buco nella teoria. Visto che solo l’1-2% dell’universo è visibile, si presume che il restante 99% sia costituito da materia invisibile, che è oscura e fredda in quanto non emette alcuna radiazione. Queste singolari particelle dopo un decennio di ricerche rimangono inosservate; ciò nonostante occupano una posizione centrale nella teoria, semplicemente perché essa richiede la loro esistenza.
Fortunatamente è possibile calcolare con una certa precisione la quantità di materia nell’universo osservabile. È circa un atomo ogni dieci metri cubi di spazio, un centesimo appunto di quanto richiesto dalla teoria. Ma, come dicono i giornalisti, non lasciamo che la verità rovini un buon servizio! Se non rileviamo sufficiente materia nell’universo per far quadrare la teoria, allora ce ne deve essere un bel po’ che non vediamo. Brent Tully osserva che “è preoccupante constatare come ogni nuova osservazione dà luogo ad una nuova teoria.”
A questo punto, i difensori del Big Bang decidono di chiedere soccorso al Settimo Cavalleria, i fisici delle particelle, impegnati ad indagare sui misteri del mondo subatomico; il loro compito è trovare quel 99% di materia che è “andata perduta”. Finché non risolvono questo mistero, le equazioni non quadreranno e il modello standard dell’origine dell’universo sarà nei pasticci!
Nel suo libro Il Big Bang non c’è mai stato, Eric Lerner avanza una serie di osservazioni i cui risultati sono stati pubblicati su riviste scientifiche e confutano completamente l’idea della materia oscura. Eppure, anche di fronte all’evidenza, i difensori del Big Bang continuano a comportarsi come quel dotto che rifiutò di guardare nel telescopio per verificare l’esattezza delle teorie di Galileo. La materia oscura deve esistere, perché la nostra teoria lo richiede!
“La teoria scientifica – dice Lerner – trova un collaudo nella corrispondenza fra previsioni e osservazione e il Big Bang lo ha mancato. Prevede che nell’universo non ci siano oggetti di un’età superiore ai venti miliardi di anni o di una grandezza superiore ai centocinquanta milioni di anni luce di diametro. Invece esistono. Prevede che l’universo, su una scala sufficientemente grande, dovrebbe essere uniforme e omogeneo. Ma non lo è. La teoria prevede che per produrre le galassie che vediamo intorno a noi a partire dalle fluttuazioni minime evidenziate dal fondo a microonde deve esserci cento volte più materia oscura che materia visibile. Invece non vi è nessuna prova che esista una benché minima quantità di materia oscura. E se non esiste materia oscura, secondo la teoria, non si formerà nessuna galassia. Eppure le galassie ci sono, sparse per tutto il cielo; noi ne abitiamo una.”4
Alan Guth riuscì ad eliminare alcune delle obiezioni al Big Bang, ma solo proponendo la versione più fantastica e arbitraria della teoria vista finora. La teoria non diceva cosa fosse la “materia oscura”, si limitava a fornire ai cosmologi una giustificazione teorica. Il significato reale era stabilire il legame fra cosmologia e fisica delle particelle, legame che dura fin da allora. Il problema è che la tendenza generale della fisica teorica, così come della cosmologia, è ricorrere sempre più a presupposti matematici a priori per giustificare le teorie, facendo poche previsioni verificabili nella pratica. Le teorie risultanti hanno un carattere sempre più arbitrario e fantastico e frequentemente ricordano più che altro la fantascienza.
In effetti, i fisici delle particelle che corsero in aiuto della cosmologia avevano già abbastanza problemi per conto loro. Alan Guth ed altri erano alla ricerca di una Grande Teoria Universale (GUT) che unificasse le tre forze che operano su piccola scala in natura – l’elettromagnetismo, la forza debole (che causa il decadimento radioattivo) e la forza forte (che tiene insieme il nucleo atomico ed è responsabile della liberazione dell’energia nucleare). Speravano di replicare il successo di Maxwell, che cent’anni prima aveva dimostrato che l’elettricità e il magnetismo sono la stessa forza. I fisici delle particelle erano fin troppo disposti ad entrare in un’alleanza con i cosmologi, nella speranza di trovare nel cosmo la soluzione alle difficoltà in cui si trovavano. In realtà i loro metodi erano simili. Con ben pochi riferimenti alle osservazioni, si basavano su una serie di modelli matematici e di assunti completamente arbitrari, che erano spesso poco più di semplici speculazioni. In poco tempo sono state formulate molte teorie, l’una meno credibile dell’altra. La teoria dell’“inflazione” ne è un esempio.

Salvati dal neutrino?

La determinazione con cui i sostenitori del Big Bang si aggrappano alle loro posizioni li porta spesso a fare singolari salti mortali. Avendo cercato invano quel 99% mancante di “materia oscura e fredda”, non riuscirono a trovare la benché minima quantità di materia necessaria, secondo la teoria, per impedire un’espansione perpetua dell’universo. Il 18 dicembre 1993 il New Scientist di Londra ha pubblicato un articolo dal titolo L’universo si espanderà per sempre, nel quale si ammetteva che “un gruppo di galassie nella costellazione di Cefeo contiene molta meno materia invisibile di quanto si sosteneva qualche mese fa” e che le dichiarazioni fatte in precedenza da astronomi statunitensi erano “basate su un’analisi difettosa.” Sono in gioco molte reputazioni scientifiche, per non parlare delle centinaia di milioni di dollari di sovvenzioni alle ricerche. Forse che ciò ha a che fare col fanatismo con cui viene difeso il Big Bang? Come al solito, hanno visto quello che vogliono vedere. I fatti devono assolutamente conformarsi alla teoria!
L’evidente insuccesso nella ricerca della “materia oscura e fredda”, la cui esistenza è essenziale per la sopravvivenza della teoria, provocava disagio nei settori più seri della comunità scientifica. Un editoriale del New Scientist, pubblicato il 4 giugno 1994 con il titolo suggestivo Una follia dei nostri tempi?, paragonava l’idea della materia oscura al concetto ottocentesco dell’“etere”, un mezzo invisibile in cui si credeva che le onde di luce si propagassero nello spazio:
Era invisibile e onnipresente e nel tardo ‘800 ogni scienziato credeva nella sua esistenza. Si trattava, naturalmente, dell’etere, il mezzo in cui credevano che si propagasse la luce, ma che risultò un fantasma. La luce, a differenza del suono, non ha bisogno di un mezzo attraverso cui propagarsi.
Ora, sul finire del XX secolo, i fisici si trovano in una situazione curiosamente simile a quella dei loro omologhi vittoriani. Ancora una volta, ripongono la loro fede in qualcosa che è invisibile e onnipresente. Questa volta è la materia oscura.

A questo punto lo scienziato serio dovrebbe chiedersi se non ci sia qualcosa di fondamentalmente sbagliato nella sua teoria. Lo stesso editoriale aggiunge:
Nella cosmologia, i parametri arbitrari sembrano moltiplicarsi come conigli. Se le osservazioni non si adeguano alle teorie, i cosmologi sembrano contenti semplicemente di aggiungere nuove variabili. Ma rattoppando continuamente la teoria, forse stiamo perdendo una qualche ‘Big Idea’” (“Grande Idea”, Ndt).
Certo, ma non lasciamo che i “fatti” ci blocchino la strada. Come il mago che tira fuori un coniglio da un cilindro, hanno scoperto improvvisamente… il neutrino! Il neutrino, che è una particella subatomica, è descritto da Hoffmann come “fluttuante nell’incertezza fra esistenza e non esistenza”; cioè, nel linguaggio della dialettica, “è e non è”. Come conciliare tale fenomeno con la legge d’identità, la quale afferma categoricamente che una cosa è o non è? Di fronte a tali dilemmi, che capitano a più riprese nel mondo delle particelle subatomiche descritto dalla meccanica quantistica, c’è spesso la tendenza a ricorrere a formulazioni quali l’idea per cui il neutrino sia una particella senza massa né carica. L’opzione iniziale, tuttora sostenuta da molti scienziati, era che il neutrino non fosse dotato di massa e, poiché una carica elettrica non può esistere senza massa, la conclusione ineluttabile era che il neutrino non possedesse né l’una né l’altra.
I neutrini sono particelle estremamente piccole ed è quindi difficile rilevare la loro presenza. L’esistenza del neutrino fu postulata inizialmente per spiegare una discrepanza nella quantità di energia presente nelle particelle emesse dal nucleo. Sembrava che andasse persa una certa quantità di energia per cause inesplicabili. Dato che la legge della conservazione dell’energia precisa che essa non può essere né creata né distrutta, il fenomeno richiedeva un’altra spiegazione. Sembra che il fisico idealista Niels Bohr nel 1930 fosse pronto a buttare a mare la legge della conservazione dell’energia, ma in seguito ciò risultò alquanto prematuro! La discrepanza venne spiegata con la scoperta di una particella fino ad allora sconosciuta, il neutrino appunto.
I neutrini formatisi nel nucleo del Sole ad una temperatura di 15 milioni di gradi viaggiano alla velocità della luce, raggiungendo la superficie in tre secondi. Quantità enormi di queste particelle si riversano nell’universo e passano attraverso la materia solida apparentemente senza interagire con essa. Queste elusive particelle sono così piccole che attraversano direttamente la Terra e la loro interazione con altre forme di materia è di entità minima. Possono attraversare la Terra e persino il piombo senza lasciare traccia; anzi, miliardi di neutrini stanno attraversando il vostro corpo mentre leggete queste righe. Ma non preoccupatevi, è molto improbabile che qualcuno di essi vi rimanga intrappolato. È stato stimato che un neutrino può attraversare piombo solido con uno spessore di cento anni luce, con solo un 50 per cento di probabilità di essere assorbito. Per questo motivo è rimasto celato alla nostra osservazione così a lungo. È difficile immaginare come una tale particella possa mai essere rivelata. Invece è stata trovata.
Pare che certi neutrini possano essere “imprigionati” dall’equivalente di due millimetri di piombo. Nel 1956, per mezzo di un esperimento ingegnoso, scienziati statunitensi riuscirono ad intrappolare un antineutrino. Poi, nel 1968, scoprirono neutrini provenienti dal Sole, anche se solo un terzo della quantità prevista dalle teorie dell’epoca. Indubbiamente il neutrino possedeva caratteristiche non rilevabili ai consueti mezzi di indagine. Date le sue dimensioni estremamente ridotte, questo non sorprende. Ma l’idea di una forma di materia a cui mancassero anche le proprietà fondamentali della materia era chiaramente una contraddizione. Il problema sembra essere stato risolto da due fonti completamente diverse. Uno degli scopritori del neutrino, Frederick Reines, annunciò nel 1980 di aver scoperto nel corso di un esperimento l’esistenza di oscillazioni nei neutrini. Ciò indicherebbe che il neutrino possiede una massa, anche se i risultati non furono considerati conclusivi.
Tuttavia, alcuni fisici sovietici che compivano un esperimento assolutamente diverso, dimostrarono che i neutrini-elettroni hanno una massa, che poteva equivalere ad un’energia di fino a 40 eV. Visto che tale valore corrisponde a solo 1/13.000 della massa di un elettrone, che a sua volta è solo 1/2.000 della massa di un protone, c’è poco da stupirsi se per tanto tempo si è ritenuto che il neutrino non avesse massa. Fino a poco tempo fa l’establishment scientifico riteneva che il neutrino non avesse né massa né carica. Ora, d’improvviso, hanno cambiato parere, dichiarando che il neutrino ha davvero una massa, e forse di una certa entità. È la conversione più stupefacente da quando San Paolo fu fulminato sulla via di Damasco! Anzi, una tale fretta deve sollevare seri dubbi sui motivi di questa conversione miracolosa. Sono forse disperati perché non riescono a trovare la “materia oscura fredda” e per questo hanno fatto marcia indietro sul neutrino? Possiamo immaginare cosa avrebbe detto Sherlock Holmes al dottor Watson.
Nonostante gli enormi progressi realizzati nel campo della ricerca sulle particelle, la situazione attuale è confusa. Sono state scoperte centinaia di particelle nuove, ma finora non esiste una soddisfacente teoria generale in grado di mettervi un po’ d’ordine, come fece Mendeleev nella chimica. Attualmente è in atto un tentativo di classificazione delle forze fondamentali della natura, raggruppandole sotto quattro voci: gravità, elettromagnetismo e le forze nucleari “forte” e debole”, ognuna delle quali opera a un livello diverso.
La gravitazione agisce su scala cosmica, legando insieme stelle, pianeti e galassie. L’elettromagnetismo lega gli atomi nelle molecole, trasporta i fotoni dal Sole e dalle stelle e attiva le sinapsi del cervello. La forza forte lega insieme i protoni e i neutroni nei nuclei atomici. La forza debole si esprime nella trasmutazione di atomi instabili durante il processo di decadimento radioattivo. Le ultime due operano unicamente su scala atomica. Tuttavia, non c’è motivo di supporre che questa configurazione rappresenti l’ultima parola sull’argomento; sotto certi aspetti si tratta di un concetto arbitrario.
Ci sono grosse differenze fra queste forze. La gravitazione influisce su tutte le forme di materia e di energia, mentre la forza forte interessa solo una classe di particelle. Eppure la gravitazione è 1044 volte più debole della forza nucleare forte. Più importante, non è evidente perché non debba esistere una forza opposta alla gravità, mentre l’elettromagnetismo si manifesta come carica elettrica sia positiva che negativa. Questo problema, malgrado gli sforzi di Einstein, rimane irrisolto ed è di importanza vitale per tutto il dibattito sulla natura dell’universo. Ogni forza è descritta dal proprio gruppo di equazioni, per un totale di 19 parametri. Queste danno risultati, anche se nessuno sa perché.
Le cosiddette Grandi Teorie Unificate ipotizzano che la materia stessa sia solo una fase transitoria nell’evoluzione dell’universo. Tuttavia, la previsione che i protoni decadano non è stata confermata, smentendo così almeno la versione più semplice delle GUT. Nel tentativo di dare coerenza alle proprie scoperte, alcuni fisici si sono aggrovigliati in teorie sempre più bizzarre e fantastiche, come quella della cosiddetta “supersimmetria” (“SUSY”) secondo cui l’universo si basava originariamente su più di quattro dimensioni. Secondo questa ipotesi, l’universo avrebbe potuto cominciare, ad esempio, con dieci dimensioni, ma purtroppo tutte tranne quattro di queste crollarono durante il Big Bang e ora sono troppo piccole per essere rilevabili.
A quanto pare, questi oggetti sarebbero le stesse particelle subatomiche, dei quanti di materia e di energia che si condensarono dallo spazio puro. Così si vacilla da una speculazione metafisica all’altra in un vano tentativo di spiegare i fenomeni fondamentali dell’universo. La supersimmetria postula che l’universo sia iniziato in uno stato di assoluta perfezione. Con le parole di Stephen Hawking, “l’universo in origine era più semplice, ed era molto più attraente proprio perché era molto più semplice.” Certi scienziati cercano addirittura di giustificare questo tipo di speculazioni mistiche su basi estetiche; si ritiene che la simmetria assoluta sia bella. Così ci ritroviamo nell’atmosfera rarefatta dell’idealismo di Platone.
In realtà, la natura non è caratterizzata da una simmetria assoluta, ma è piena di contraddizioni, irregolarità, cataclismi e improvvise interruzioni della continuità. La vita stessa è prova di questa affermazione; per qualsiasi sistema dotato di vita, l’equilibrio assoluto significa la morte. La contraddizione che qui osserviamo è vecchia come il pensiero umano; è la contraddizione fra le astrazioni “perfette” del pensiero e le necessarie irregolarità ed “imperfezioni” che caratterizzano il mondo materiale. Tutto il problema sorge dal fatto che le astratte formule della matematica, siano o non siano belle, certamente non rappresentano in modo adeguato il mondo reale della natura. Supporre una cosa del genere è un grave errore metodologico e necessariamente ci porta a trarre conclusioni sbagliate.

La costante di Hubble: un rompicapo

Attualmente è in corso un acceso dibattito fra i sostenitori del Big Bang riguardo la presunta età dell’universo. Di fatto, tutto il “modello standard” è in crisi. Assistiamo ad uno spettacolo in cui rispettabili uomini di scienza si attaccano in pubblico con un linguaggio non certo da gentiluomini. L’oggetto del dibattito è una cosa chiamata costante di Hubble; questa fa parte della formula per misurare la velocità alla quale i corpi si muovono nell’universo. È una cosa di grande importanza per chi vuole scoprire l’età e le dimensioni dell’universo; il problema è che nessuno ne conosce l’entità!
Edwin Hubble affermò che la velocità con cui le galassie si allontanano l’una dall’altra è proporzionale alla distanza fra esse; più sono lontane e più velocemente si muovono. Questo è espresso dalla legge di Hubble: v(velocità) = H x d(distanza), dove H rappresenta la costante di Hubble. Per quantificarla, è necessario conoscere due dati: la velocità e la distanza di una determinata galassia. La velocità si può calcolare con il redshift, ma la distanza fra le galassie non può essere misurata con un regolo calcolatore. In realtà non esistono strumenti affidabili per misurare distanze talmente immense. E qui sta il guaio! Gli esperti non riescono a raggiungere un consenso sul valore effettivo della costante di Hubble, come viene rivelato in modo divertente da un recente programma del Canale 4 inglese:
Michael Pierce dichiara che, senza dubbio, la costante di Hubble è 85. Invece Gustaf Tamman afferma che è 50, George Jacoby 80, Brian Schmidt 70, Michael Rowan Robinson 50 e John Tonry 80. La differenza fra 50 e 80 può sembrare minima – dice l’opuscolo pubblicato da Canale 4 – ma è cruciale per il calcolo dell’età dell’universo. Se la costante risultasse avere un valore alto, gli astronomi potrebbero essere in procinto di smontare la loro teoria più importante.
L’importanza di ciò è che quanto più è alta la costante di Hubble, tanto più velocemente le galassie si stanno muovendo e più siamo vicini a quel momento del passato in cui si sarebbe verificato il Big Bang. Negli ultimi anni sono state applicate nuove tecniche per misurare la distanza delle galassie, il che ha portato gli astronomi a rivedere drasticamente le loro stime precedenti. Questo ha provocato costernazione nella comunità scientifica, poiché le stime della costante di Hubble aumentano di continuo. L’ultimo calcolo fissa l’età dell’universo a soli 8 miliardi di anni. Ciò significherebbe che ci sono stelle più vecchie dell’universo stesso! È una contraddizione lampante, non di carattere dialettico, ma di semplice buon senso.
Ebbene, – osserva Carlos Frank, citato nello stesso opuscolo – se risulta che l’età delle stelle è antecedente al momento in cui viene datata l’espansione dell’universo, come suggeriscono la misura della costante di Hubble e la misura della densità dell’universo, allora ci troviamo in un’autentica crisi. Rimane una sola alternativa: abbandonare gli assunti fondamentali su cui si basa il modello dell’universo. Ciò significa lasciar cadere alcuni, forse tutti, i presupposti di base su cui poggia la teoria del Big Bang.5
Esistono ben pochi dati empirici a sostegno della teoria del Big Bang. Gran parte del lavoro svolto per sostenerla ha un carattere puramente teorico e poggia prevalentemente su formule matematiche astruse e preconcette. Le numerose contraddizioni fra questo schema preconcetto e l’evidenza delle osservazioni vengono appianate cambiando continuamente le regole, al fine di conservare a tutti i costi una teoria sulla quale si sono costruite tante reputazioni accademiche.
Secondo la teoria, nell’universo non può esistere nulla che abbia più di 15 miliardi di anni. Ma disponiamo di dati che contraddicono tale affermazione. Nel 1986 Brent Tully dell’Università delle Hawaii scoprì enormi agglomerati di galassie (“superammassi”) lunghi circa un miliardo di anni luce, larghi trecento milioni di anni luce e di circa cento milioni di spessore. Per la formazione di oggetti talmente vasti sarebbe occorso un periodo fra gli ottanta e i cento miliardi di anni, vale a dire quattro o cinque volte il tempo concesso dai sostenitori del Big Bang. Da allora ci sono stati altri risultati che tendono a confermare queste osservazioni.
Il New Scientist (5 febbraio 1994) riportava un servizio sulla scoperta di un ammasso di galassie da parte di Charles Steidel del Massachusetts Institute of Technology e Donald Hamilton del California Institute of Technology di Pasadena, con importanti implicazioni per la teoria del Big Bang:
La scoperta di un tale ammasso causa problemi alle teorie sulla materia fredda e oscura, le quali sostengono che una considerevole parte della massa dell’universo risieda in oggetti freddi e oscuri come i pianeti e i buchi neri. Secondo le teorie, il materiale dell’universo primitivo si raggruppò «dal basso in alto», in modo che si costituirono per prime le galassie, che si raggrupparono solo successivamente per formare gli ammassi.
Come al solito, la reazione iniziale degli astronomi è modificare la teoria per aggirare i dati scomodi. Mauro Giavalisco del Baltimore Space Telescope Science Institute “crede che sia appena possibile spiegare la nascita del primo ammasso di galassie ad un redshift di 3,4 con una messa a punto della teoria della materia fredda e oscura. Ma aggiunge un monito: «Se trovaste dieci ammassi ad un redshift di 3,5, questo annienterebbe le teorie sulla materia fredda e oscura»”.
Possiamo dare per scontato che non solo dieci, ma un numero molto maggiore di tali vasti ammassi esistono e saranno rivelati e che questi, a loro volta, rappresenteranno solo una piccola parte della materia che si estende ben oltre i limiti dell’universo osservabile. Ogni tentativo di porre un limite all’universo materiale è destinato a fallire, poiché la materia non ha limiti, sia a livello subatomico, sia nel tempo e nello spazio.

“Big Crunch” e Supercervello

Dies irae, dies illa
Solvet saeclum in favilla
(Giorno dell’ira, quel giorno,
Scioglierà l’universo in ceneri)
Tommaso da Celano

Così come non riescono ad accordarsi su come nacque l’universo, così non sono d’accordo su come finirà, anche se sono tutti d’accordo che finirà male! Secondo una scuola di pensiero, l’espansione dell’universo sarà arrestata prima o poi dalla forza di gravità, dopodiché tutta la baracca crollerà su se stessa, portando ad un “Big Crunch”, un grande crollo, in cui finiremo tutti dove avevamo cominciato, dentro l’uovo cosmico. Invece no! – dice un’altra scuola di bigbanghisti – la gravità non è abbastanza forte per opporsi all’espansione; l’universo semplicemente continuerà ad espandersi indefinitamente, dirandandosi sempre più, fino ad estinguersi in una nera notte di nulla.
Diverse decine di anni fa, alla luce del materialismo dialettico, uno di noi (Ted Grant) ha parlato della mancanza di basi serie sia della teoria del Big Bang sia di quella dello stato stazionario avanzata da Hoyle e Bondi. Successivamente la teoria dello stato stazionario, che prevedeva la creazione continua di materia (dal nulla) si dimostrò falsa. Il Big Bang quindi prevalse per esclusione e viene difeso tuttora dalla maggioranza dell’establishment scientifico. Dal punto di vista del materialismo dialettico, è una sciocchezza parlare dell’“inizio del tempo” o della “creazione della materia”. Tempo, spazio e moto sono il modo di esistere della materia, la quale non può essere né creata né distrutta. L’universo esiste dall’eternità, come materia – ed energia, che è la stessa cosa – in cambiamento, moto ed evoluzione continui. Tutti i tentativi di individuare un “inizio” o una “fine” dell’universo materiale inevitabilmente falliranno. Ma come si spiega questa strana regressione verso una visione medievale del destino dell’universo?
Non ha senso cercare un legame diretto e causale fra i processi in atto nella società, nella politica e nell’economia e lo sviluppo della scienza, poiché il rapporto non è né automatico né diretto, ma molto più sottile. Tuttavia, è difficile resistere alla conclusione che la visione pessimistica di certi scienziati in merito al futuro dell’universo non sia fortuita, ma si colleghi in qualche modo ad una sensazione generale che la società sia giunta ad un vicolo cieco: “La fine del mondo è vicina”.
Non è un fenomeno nuovo; la stessa tetra prospettiva era presente nel periodo del declino dell’Impero romano e alla fine del primo millennio. In entrambi i casi, l’idea che il mondo stesse finendo rifletteva il fatto che un determinato sistema di sociale si era esaurito ed era sul punto di estinguersi. Quello che era imminente non era la fine del mondo, ma solo il crollo della schiavitù o del feudalesimo.
Consideriamo il seguente brano tratto da I primi tre minuti del premio Nobel Steven Weinberg:
Per noi esseri umani è quasi irresistibile credere che intratteniamo qualche speciale rapporto con l’universo, che la vita umana non è solo l’esito più o meno farsesco d’una catena di casi risalente ai primi tre minuti, ma che eravamo in qualche modo previsti sin dal principio. Mentre scrivo mi trovo su un aereo a 30.000 piedi sopra il Wyoming in volo verso casa da San Francisco a Boston. Sotto, la Terra appare molto dolce e confortevole; qua e là soffici nuvole, neve che volge al rosa sotto i raggi del sole al tramonto, strade che corrono da una città all’altra per tutto il paese. È assai difficile rendersi conto che tutto questo non è che un’infima parte di un universo indicibilmente ostile. È ancora più difficile comprendere che l’attuale universo si è evoluto da una primitiva condizione ineffabilmente aliena e ha dinanzi a sé un’estinzione futura d’interminabile gelo o d’intollerabile calore. Quanto più l’universo sembra comprensibile, tanto più appare insensato.6
Abbiamo già visto come la teoria del Big Bang apra le porte alla religione e ad ogni genere di idee mistiche. Offuscare la distinzione fra scienza e misticismo significa far tornare indietro l’orologio di 400 anni; riflette l’attuale stato d’animo pessimista della società. E invariabilmente porta a conclusioni di carattere totalmente reazionario. Consideriamo una questione apparentemente remota e oscura: “I protoni decadono?” Come abbiamo detto, questa è una previsione di una delle branche della moderna fisica delle particelle detta GUT. Sono stati condotti numerosi esperimenti sofisticati per verificarlo, ma sempre senza successo. Eppure si persiste nell’avanzare la stessa idea.
Ecco un esempio del tipo di letteratura pubblicata da fautori della teoria del Big Crunch:
Negli istanti finali la gravità diventa la forza dominante in senso assoluto, che schiaccia inesorabilmente la materia e lo spazio. La curvatura dello spazio-tempo aumenta in modo sempre più rapido. Sempre più vaste regioni dello spazio vengono compresse entro volumi sempre più piccoli. Secondo la teoria convenzionale, l’implosione diventa infinitamente forte, schiacciando tutta la materia e annientando ogni realtà fisica, compresi lo spazio e il tempo, in una singolarità spazio-temporale. È la fine.
Il Big Crunch, nella misura in cui siamo in grado di intenderlo, non è soltanto la fine della materia. È la fine di tutto. Poiché il tempo stesso finisce al momento del Big Crunch, è privo di significato domandarsi che cosa possa accadere dopo, così come è privo di significato chiedersi che cosa accadeva prima del Big Bang. Non esiste nessun «dopo» nel quale possa accadere alcunché; non vi è nessun tempo neppure per l’inattività, nessuno spazio neppure per il vuoto. Un universo nato dal nulla al momento del Big Bang scomparirà nel nulla al momento del Big Crunch: dei suoi gloriosi zillioni di anni di vita non resterà neppure il ricordo.”
La domanda che segue esprime un inconscio umorismo:

“Dovremmo lasciarci deprimere da una simile prospettiva?” chiede Paul Davies, che a quanto pare si aspetta una risposta seria! Egli tenta poi di tirarci su di morale speculando sui vari mezzi coi quali l’umanità potrebbe sfuggire alla distruzione. Ci troviamo inevitabilmente in un mondo bizzarro a metà strada fra religione e fantascienza:
Ci si può domandare se un super-essere il quale si trovasse a vivere gli ultimi istanti di un universo in stato di collasso potrebbe avere un numero infinito di esperienze e di pensieri diversi nel tempo finito a sua disposizione.
Dunque, prima che finiscano gli ultimi tre minuti, l’umanità getta il suo rozzo corpo materiale per diventare puro spirito, in grado di sopravvivere alla fine di tutto, trasformandosi in un Supercervello.
Qualunque supercervello dovrebbe, con eccezionale prontezza e acutezza, inviare rapide comunicazioni da una direzione all’altra, mentre le oscillazioni provocano un più rapido collasso prima in una direzione e poi in un’altra. Se il super-essere fosse in grado di tenere il ritmo, le oscillazioni stesse potrebbero fornire l’energia necessaria ad alimentare i processi di pensiero. Inoltre, nei modelli matematici semplici appare un infinito numero di oscillazioni nel tempo finito che si conclude con il Big Crunch. Ciò fornisce al super-essere un’infinita quantità di processi informativi, e quindi, per ipotesi, un tempo soggettivo infinito. In questo modo, anche se il Big Crunch mette bruscamente fine al mondo fisico, il mondo mentale può non aver mai fine.7
Occorre davvero un Supercervello per venire a capo di quanto sopra! Vorremmo pensare che l’autore stia scherzando, ma non ne siamo sicuri; purtroppo abbiamo letto di recente troppi brani del genere. Se il Big Crunch comporta “la fine di tutto”, dove troverà posto il nostro amico Supercervello? In primo luogo, solo un idealista irriducibile potrebbe concepire un cervello senza corpo. Beninteso, abbiamo di fronte non un cervello qualsiasi, ma un Supercervello. Tuttavia, supponiamo che l’esistenza di una colonna vertebrale e di un sistema nervoso centrale gli possa essere in qualche modo utile; che tale sistema nervoso, in tutta giustizia, disponga di un corpo e che tale corpo (anche un Supercorpo) abbia generalmente bisogno di un qualche sostentamento, dato che in particolare il cervello è assai vorace, in quanto assorbe un’alta percentuale delle calorie totali consumate da un mero essere mortale. Logicamente il Supercervello sarebbe dotato di un Superappetito! Purtroppo, visto che il Big Crunch è la fine di tutto, il nostro malcapitato Supercervello dovrà seguire una dieta piuttosto severa per il resto dell’eternità. Possiamo solo sperare che, essendo svelto di pensiero, abbia tempo per farsi uno spuntino prima che scadano i tre minuti. Con questo pensiero edificante, ci congediamo dal nostro Supercervello per tornare alla realtà.
Non stupisce forse che, dopo duemila anni di enormi progressi della cultura umana e della scienza, ci ritroviamo nel mondo del libro delle Rivelazioni? Engels avvertì cent’anni fa che gli scienziati, voltando le spalle alla filosofia, sarebbero finiti inevitabilmente nel “mondo degli spiriti”. Purtroppo la sua previsione si è dimostrata fin troppo esatta.

Un universo di plasma?

Il modello standard dell’universo ci ha portati in una strada senza uscita, dal punto di vista scientifico, filosofico e morale. La teoria stessa fa acqua da tutte le parti. Eppure rimane in piedi, sebbene gravemente scossa, più che altro per mancanza di un’alternativa. Tuttavia, qualcosa si muove nel mondo della scienza; cominciano a prendere corpo nuove idee che non solo rifiutano il Big Bang ma partono dall’idea di un universo infinito in continuo mutamento. È troppo presto per dire quale di queste teorie si dimostrerà corretta. Un’ipotesi interessante, quella dell’“universo di plasma”, è stata avanzata dal premio Nobel svedese Hannes Alfvén. Non possiamo trattare nel dettaglio questa teoria, ma ci sembra opportuno fare almeno un cenno ad alcune sue idee.
Alfvén passò dallo studio del plasma in laboratorio ad una ricerca su come si evolve l’universo. Il plasma è composto da gas fortemente riscaldati al punto di diventare conduttori di elettricità. Ora si sa che il 99% della materia nell’universo è plasma. Mentre nei gas normali gli elettroni sono legati ad un atomo e non possono muoversi facilmente, nel plasma gli elettroni vengono scissi dal nucleo da un calore intenso, il che permette loro di muoversi liberamente. I cosmologi del plasma concepiscono un universo “intersecato da vaste correnti elettriche e potenti campi magnetici, governato dal contrappunto cosmico di elettromagnetismo e gravità”.8 Negli anni ’70, le sonde Pioneer e Voyager rilevarono la presenza intorno a Giove, Saturno ed Urano di correnti elettriche e di campi magnetici contenenti filamenti di plasma.
Scienziati come Alfvén, Anthony Peratt e altri hanno elaborato un modello dell’universo che è dinamico, non statico, e che non richiede un inizio del tempo. Il fenomeno dell’espansione di Hubble richiede una spiegazione, ma non è necessariamente quella del Big Bang; un Big Bang produrrebbe certamente un’espansione, ma non per questo un’espansione richiede un Big Bang. Alfvén pone la seguente analogia: “È come dire che, essendo tutti i cani animali, tutti gli animali sono cani.” Il problema non risiede nell’idea di un’esplosione che ad un certo punto ha dato origine a un’espansione di una parte dell’universo – in questo non c’è nulla di intrinsecamente improbabile – ma nell’idea che tutta la materia dell’universo fosse concentrata in un solo punto e che l’universo e il tempo stesso siano nati da un singolo evento chiamato Big Bang.
Il modello alternativo suggerito da Hannes Alfvén e Oskar Klein ammette che può essersi verificata un’esplosione, provocata dalla combinazione di enormi quantità di materia ed antimateria in un piccolo angolo dell’universo visibile, la quale ha generato enormi quantità di elettroni e protoni ad alta energia. Intrappolate nei campi magnetici, queste particelle hanno sparso il plasma lontano per centinaia di milioni di anni.
L’esplosione di questa epoca, dieci o venti miliardi di anni fa, scagliò verso l’esterno il plasma da cui quindi si formarono le galassie: nell’espansione di Hubble. Però questo non fu assolutamente un Big Bang in grado di generare la materia, lo spazio e il tempo. Fu solamente un «big bang», un’esplosione in una parte dell’universo. Alfvén per primo ammette che questa spiegazione non è la sola possibile. «Il punto significativo» egli sottolinea ‘è che vi sono alternative al Big Bang’.
In un’epoca in cui quasi tutti gli altri scienziati ritenevano che il cosmo fosse semplicemente uno spazio vuoto, Alfvén dimostrò il contrario. Egli spiegò che l’intero universo è pervaso da correnti di plasma e da campi magnetici. Svolse un lavoro pionieristico nello studio delle macchie solari e dei campi magnetici. In seguito dimostrò con un esperimento in laboratorio che quando una corrente elettrica attraversa un plasma, essa assume la forma di un filamento per muoversi lungo le linee del campo magnetico. Partendo da questa osservazione, concluse poi che lo stesso fenomeno si verifica nel plasma dello spazio; si tratta di una proprietà generale del plasma in tutto l’universo. In tal modo, abbiamo immense correnti elettriche che fluiscono lungo filamenti di plasma, formati naturalmente, che intersecano il cosmo.
Aggregandosi per formare le strutture filamentose osservate sia su scala molto piccola che molto grande, materia ed energia possono essere compresse nello spazio. Ma è chiaro che l’energia può inoltre essere compressa nel tempo; l’universo si colma improvvisamente di subitanee ed esplosive liberazioni di energia. Un esempio familiare ad Alfvén è il brillamento solare (solar flare), l’improvvisa liberazione di energia sulla superficie del Sole, la quale genera le correnti di particelle che causano le tempeste magnetiche sulla Terra. I suoi modelli di «generatori» di fenomeni cosmici mostravano come l’energia potesse essere prodotta in modo graduale, come in una centrale elettrica ben funzionante, ma non in modo esplosivo come nei brillamenti solari. Comprendere il fenomeno della liberazione esplosiva di energia era la chiave della dinamica del cosmo.
Alfvén aveva dimostrato la correttezza dell’“Ipotesi Nebulosa” di Kant-Laplace. Allora, se le stelle e i pianeti possono essere formati dall’azione di enormi correnti filamentose, non c’è motivo per cui interi sistemi solari non possano formarsi allo stesso modo:
Anche in questo caso il processo è identico, ma immensamente più grande: i filamenti che percorrono una nebulosa protogalattica comprimono il plasma per ottenere i «materiali da costruzione» del Sole e delle altre stelle. Quando il materiale abbia inizialmente subìto la compressione, la gravità aggrega parte di esso, specialmente polvere e particelle di ghiaccio a moto più lento, che formeranno un nucleo per la crescita di un corpo centrale. Inoltre, il moto vorticoso di un filamento fornirà momento angolare a ciascuno degli agglomerati minori al suo interno, generando un nuovo e più piccolo insieme di filamenti portatori di correnti e un nuovo ciclo di compressione che forma un sistema solare (nel 1989 tale ipotesi, ora ampiamente accettata, fu definitivamente confermata quando gli scienziati osservarono che gli assi di rotazione di tutte le stelle in una data nube sono allineati con il campo magnetico della nube; chiaramente una formazione stellare controllata da un campo magnetico).”
Le teorie di Alfvén vennero naturalmente respinte dai cosmologi, poiché non solo mettevano in discussione il modello standard, ma anche l’esistenza dei buchi neri, che proprio allora erano in auge. Egli aveva già interpretato correttamente l’origine dei raggi cosmici, non come resti del Big Bang, bensì come prodotti dell’accelerazione elettromagnetica.
In tal modo, nello scenario di Alfvén e Klein solo una piccola parte dell’universo – quella che noi vediamo – avrebbe prima subìto un collasso e poi sarebbe esplosa. L’esplosione, anziché provenire da una singolarità, giunge da una vasta zona del cosmo, larga centinaia di milioni di anni luce, e impiega, per svilupparsi, centinaia di milioni di anni; non è necessaria nessuna ‘origine dell’universo’.9
Solo col tempo si saprà se questa particolare teoria è corretta. L’importante, come osserva Alfvén, è che sono possibili ipotesi alternative a quella del Big Bang. Qualunque cosa accada, siamo certi che il modello di universo che sarà infine avvalorato dalla scienza non avrà niente a che fare con l’universo chiuso che parte da un Big Bang e finisce con un Big Crunch. L’invenzione del telescopio nel 1609 fu un punto di svolta decisivo nella storia dell’astronomia. Da allora l’orizzonte dell’universo è stato spinto sempre più lontano. Oggi, potenti radiotelescopi penetrano sempre più profondamente nello spazio; vengono scoperti sempre nuovi oggetti, più grandi e più lontani, senza fine. Eppure l’ossessione dell’uomo per il “finito” alimenta il desiderio di porre un “limite ultimo” a tutto. Vediamo che questo fenomeno si presenta a più riprese nella storia dell’astronomia.
È un’ironia il fatto che, in un’epoca in cui la tecnologia ci consente di penetrare sempre di più la vastità dell’universo, assistiamo ad una regressione psicologica verso il mondo medievale di un universo finito, che parte dalla Creazione e finisce con l’annientamento totale di spazio, tempo e materia. A questo punto si traccia una linea, oltre la quale la mente umana non deve indagare, poiché “non possiamo sapere” cosa vi si trova. È l’equivalente nel XX secolo delle vecchie mappe che mostravano l’orlo del mondo, contrassegnato dal severo monito: “Hic sunt Leones”.

Einstein e il Big Bang

Negli ultimi decenni si è radicato sempre più profondamente il pregiudizio che la scienza “pura”, specialmente la fisica teorica, sia il prodotto esclusivo del pensiero astratto e della deduzione matematica. Come spiega Eric Lerner, Einstein fu parzialmente responsabile di questa tendenza. Diversamente dalle teorie precedenti, come le leggi dell’elettromagnetismo di Maxwell o la legge della gravitazione di Newton, che avevano solide basi nella sperimentazione e vennero ben presto confermate da centinaia di migliaia di osservazioni indipendenti, le teorie di Einstein ebbero conferma inizialmente sulla base di soli due esperimenti, la deviazione della luce da parte del campo gravitazionale solare e una lieve precessione dell’orbita di Mercurio. Il fatto che la teoria della relatività si dimostrò successivamente corretta ha portato altri, probabilmente non all’altezza del genio di Einstein, a ritenere che si dovesse procedere allo stesso modo. Perché annoiarsi con esperimenti e tediose osservazioni che portano via tempo? E allora perché affidarsi alle prove empiriche, quando possiamo giungere dritti alla verità con il metodo della deduzione pura?
Si osserva una tendenza crescente verso un approccio puramente astratto e teorico alla cosmologia, basato quasi esclusivamente sui calcoli matematici e sulla teoria della relatività.
Il numero annuo di riviste cosmologiche pubblicate salì alle stelle, passando da sessanta nel 1965 a oltre cinquecento nel 1980, e pur tuttavia questo aumento consisteva quasi esclusivamente in lavori puramente teorici; entro il 1980 circa il novantacinque per cento di queste memorie scientifiche erano dedicate a vari modelli matematici, come «l’universo Bianchi tipo XI». Entro la metà degli anni ‘70 i cosmologi provavano una tale sicurezza in se stessi da ritenersi in grado di descrivere minuziosamente eventi che risalivano al primo centesimo di secondo di tempo, parecchi miliardi di anni fa. La teoria assunse sempre più le caratteristiche del mito: conoscenza assoluta ed esatta intorno ad eventi del remoto passato, ma comprensione sempre più nebulosa sul modo in cui quegli eventi avevano condotto al cosmo che ora vediamo, e un crescente rifiuto dell’osservazione.
Il tallone di Achille dell’universo chiuso e statico di Einstein è che esso inevitabilmente crollerebbe su se stesso a causa della forza di gravità. Per aggirare questo problema, egli avanzò l’ipotesi della “costante cosmologica”, una forza repulsiva che poteva controbilanciare quella della gravità, impedendo così un tale collasso. Per un certo periodo l’idea di un universo statico, mantenuto per l’eternità in uno stato di equilibrio dalle forze gemelle della gravità e della “costante cosmologica”, trovò consensi, per lo meno da parte dell’esiguo numero di scienziati che ritenevano di capire le teorie estremamente astratte e complicate di Einstein.
Nel 1970, in un articolo su Science, Gerard de Vaucouleur mostrò che più sono grandi gli oggetti nell’universo e minore è la loro densità. Ad esempio, un corpo di dimensioni dieci volte maggiori di un altro avrà un centesimo della densità di quest’ultimo. Ciò pone serie implicazioni al fine di determinare la densità media dell’universo, dato indispensabile per poter determinare se c’è gravità sufficiente per fermare l’espansione di Hubble. Se la densità media si riduce con l’aumento delle dimensioni, sarà impossibile definire la densità complessiva dell’universo. Se de Vaucouleur ha ragione, la densità dell’universo osservato sarà molto minore rispetto a quanto si era pensato e il valore di omega potrebbe essere non più di 0,0002. In un universo con così poca materia, gli effetti della gravità saranno così deboli che la differenza fra la relatività generale e la gravità newtoniana sarà trascurabile, quindi, “ai fini pratici la relatività generale, base della cosmologia convenzionale, può essere ignorata!” Eric Lerner prosegue:
La scoperta di De Vaucouleur mostra che in nessuna parte dell’universo – tranne forse nei pressi di poche stelle di neutroni iperdense – la relatività generale è qualcosa di più che una lieve correzione.10
Sono ben note le difficoltà che si incontrano quando si cerca di afferrare quello che Einstein “voleva dire veramente”. Si racconta che quando un giornalista chiese allo scienziato inglese Eddington se fosse vero che solamente tre persone al mondo capivano la relatività, quest’ultimo rispose: “Ah, davvero? E chi è il terzo?”. Tuttavia, all’inizio degli anni ‘20 Aleksandr Friedmann mostrò che il modello einsteiniano dell’universo era solo uno di un numero infinito di possibili cosmologie, alcune in espansione, altre in contrazione, a seconda del valore della costante cosmologica e delle “condizioni iniziali” dell’universo. Questo era un risultato puramente matematico, che derivava dalle equazioni di Einstein; ma il reale valore del lavoro di Friedmann era mettere in discussione l’idea di un universo chiuso e statico e mostrare che erano possibili altri modelli.

Stelle di neutroni

Contrariamente all’idea dell’antichità per cui le stelle erano eterne ed immutabili, l’astronomia moderna ha dimostrato che le stelle e gli altri corpi celesti hanno una storia, una nascita, vita e morte: gigantesche, rarefatte e rosse nella loro gioventù; azzurre, calde e raggianti nella mezz’età; rimpicciolite, dense e di nuovo rosse nella vecchiaia.
Con le osservazioni astronomiche effettuate mediante potenti telescopi si è accumulata una quantità enorme di dati. Già prima della Seconda Guerra Mondiale, solo all’università di Harvard, un quarto di milione di stelle erano già state classificate in quaranta classi per opera di Annie J. Cannon. Oggi si sa molto di più come risultato dell’esplorazione spaziale e dell’introduzione dei radiotelescopi.
L’astronomo inglese Fred Hoyle ha svolto un’indagine dettagliata sulla vita e la morte delle stelle. Queste sono alimentate dalla fusione dell’idrogeno nel loro nucleo con formazione di elio. Una stella nelle prime fasi cambia poco di dimensione e temperatura; è la condizione attuale del nostro Sole. Ma, prima o poi, l’accumulazione continua di elio nel caldo nucleo stellare raggiunge una certa entità e la quantità si trasforma in qualità. Avviene un mutamento drastico, che comporta un’improvvisa variazione di dimensione e di temperatura. La stella subisce un’enorme espansione, mentre la superficie perde calore. Diventa una gigante rossa.
Secondo questa teoria, il nucleo di elio si contrae, innalzando la temperatura fino al punto in cui i nuclei degli atomi possono fondersi per formare carbonio, liberando nuova energia. Mentre si riscalda, si contrae ulteriormente. A questo stadio, la vita della stella va rapidamente verso la conclusione, poiché la fusione dell’elio genera molto meno calore di quella dell’idrogeno. Ad un certo punto, l’energia che occorre per mantenere l’espansione della stella contro la forza del suo campo gravitazionale comincia a venir meno. La stella si contrae rapidamente, crollando su di sé per diventare una nana bianca circondata da un alone di gas, i resti degli strati esterni espulsi dal calore della contrazione. Questi ultimi sono la base delle nebulose planetarie. Le stelle possono rimanere in questo stato per un lungo periodo, raffreddandosi lentamente, fino al punto in cui non possiedono più energia sufficiente per emettere luce; allora cessano la loro esistenza come nane nere.
Tuttavia, tali processi sembrano relativamente tranquilli in confronto allo scenario delineato da Hoyle per le stelle di dimensioni maggiori. Quando una stella gigante raggiunge una fase avanzata di sviluppo, in cui la sua temperatura interna è di 3-4 miliardi di gradi, inizia a formarsi ferro nel nucleo. Ma ad un certo punto, la temperatura raggiunge un livello in cui gli atomi di ferro esplodono per formare elio. A questo stadio, la stella crolla su di sé nel giro di un secondo. Un collasso così tremendo provoca una violenta esplosione che getta tutto il materiale esterno lontano dal centro della stella. Questo fenomeno è noto come supernova ed è lo stesso che sbalordì gli astronomi cinesi nell’XI secolo.
Sorge la domanda riguardo al destino di una stella che continuasse a collassare sotto la pressione della propria gravità. Forze gravitazionali di potenza inimmaginabile costringerebbero gli elettroni dentro gli spazi già occupati dai protoni. Secondo una legge della meccanica quantistica, il principio di esclusione di Pauli, due elettroni non possono occupare lo stesso stato energetico in un atomo. È questo principio, che agisce sui neutroni, ad impedire un crollo ulteriore. A questo punto la stella è composta per la maggior parte di neutroni, da cui la denominazione. Questo tipo di stella ha un raggio molto piccolo, forse solo 10 km, ovvero circa 1/700 del raggio di una nana bianca, ed è oltre 100 milioni di volte più densa di quest’ultima, la quale è già estremamente densa. Una scatola di fiammiferi riempita di tale materia peserebbe come un asteroide di un paio di chilometri di diametro.
Con una concentrazione di massa così sbalorditiva, l’attrazione gravitazionale di una stella di neutroni assorbirebbe tutto quello che c’è nello spazio circostante. L’esistenza di tali stelle fu prevista a livello teorico nel 1932 dal fisico sovietico Lev Landau e studiata successivamente in modo più approfondito da J. R. Oppenheimer e altri. Per un certo periodo si dubitò che tali stelle potessero esistere, ma nel 1967 la scoperta di pulsar all’interno dei resti di supernove come la nebulosa del Granchio diede luogo alla teoria che tali pulsar fossero effettivamente stelle di neutroni. In tutto questo non c’è nulla di incongruente con i principi del materialismo.
Le pulsar sono stelle pulsanti caratterizzate da brevi ed intense emissioni di energia ad intervalli regolari. Si stima che solo nella nostra galassia ne possano esistere circa centomila, di cui centinaia sono già state individuate. Si riteneva che la fonte di queste potenti onde radio fosse appunto una stella di neutroni. Secondo la teoria, dovrebbe possedere un campo magnetico immensamente forte. Nella stretta del campo gravitazionale della stella di neutroni, gli elettroni potrebbero emergere solo dai poli magnetici, perdendo energia sotto forma di onde radio durante il processo. Le brevi emissioni di onde radio potrebbero essere spiegate da un moto rotatorio della stella. Nel 1969, si osservò che la luce di una stella poco luminosa nella nebulosa del Granchio lampeggiava in modo intermittente, all’unisono con le pulsazioni delle microonde. Era il primo avvistamento di una stella di neutroni. In seguito nel 1982 fu scoperta una pulsar veloce, con pulsazioni 20 volte più frequenti di quelle nella nebulosa del Granchio, cioè 642 volte al secondo.
Negli anni ‘60 furono scoperti con i radiotelescopi dei nuovi oggetti, le quasar. Alla fine del decennio ne erano state individuate ben 150, di cui alcune a una distanza di nove miliardi di anni luce, se consideriamo corretti i calcoli in base al redshift. Per essere visibili ad una tale distanza, questi oggetti devono essere da 30 a 100 volte più luminosi di una galassia comune. Eppure sembravano di dimensioni molto limitate. Questa impressione ha posto difficoltà che hanno indotto alcuni astronomi a respingere la stima della loro distanza da noi, giudicandola eccessiva.
La scoperta delle quasar ha fornito un sostegno inatteso alla teoria del Big Bang. L’esistenza di stelle collassate con un campo gravitazionale enormemente forte poneva problemi che non si potevano risolvere con l’osservazione diretta. Questo fatto ha dato il via ad un’ondata di speculazioni, incluse le interpretazioni più singolari della teoria della relatività generale di Einstein. Osserva Eric Lerner:
Il fascino delle misteriose quasar attirò rapidamente i giovani ricercatori verso i calcoli arcani della relatività generale e dunque verso i problemi cosmologici, specialmente quelli di natura matematica. Dopo il 1964 il numero di pubblicazioni cosmologiche aumentò rapidamente, ma la crescita in questione riguardava quasi interamente studi di carattere teorico, studi matematici di talune problematiche legate alla relatività generale in cui mancava totalmente la volontà di confronto tra i risultati e le osservazioni. Già nel 1964 forse quattro su cinque pubblicazioni cosmologiche erano teoriche, mentre solo un decennio prima esse non costituivano che un terzo degli scritti pubblicati.11
È necessario distinguere chiaramente fra i buchi neri, la cui esistenza si desume da un’interpretazione particolare della teoria generale della relatività, e le stelle di neutroni, che sono state effettivamente osservate. L’idea dei buchi neri ha colpito la fantasia di milioni di persone attraverso gli scritti di autori come Stephen Hawking. Eppure l’esistenza dei buchi neri non è accettata da tutti, né è stata dimostrata definitivamente.
Roger Penrose, in un saggio basato su un discorso radiofonico trasmesso nel 1973 dalla BBC, descrive la teoria dei buchi neri come segue:
Cos’è un buco nero? Per scopi astronomici, esso si comporta come un «corpo» piccolo e scuro ad altissima densità. Ma non è realmente un corpo materiale nel senso che viene comunemente attribuito al termine. Non ha una superficie definita. Il buco nero è una regione di spazio vuoto (sebbene singolarmente distorta) che agisce come nucleo di attrazione gravitazionale. Un tempo il corpo materiale esisteva, ma collassò verso l’interno vittima della propria attrazione gravitazionale. Più il corpo si concentrava verso il nucleo, più forte diventava il campo gravitazionale e meno il corpo era in grado di impedire un crollo ulteriore. Ad un certo stadio si raggiunse il punto di non ritorno e il corpo entrò nel suo «orizzonte assoluto degli eventi».
Di questo parlerò ancora più avanti, ma per i nostri scopi immediati si può dire che è l’orizzonte assoluto degli eventi che agisce come superficie limite del buco nero. Questa superficie non è materiale; è semplicemente una linea di demarcazione che separa una regione interna da una regione esterna dello spazio. La regione interna – in cui è caduto il corpo – è caratterizzata dal fatto che né materia, né luce, né alcun tipo di segnale possono sfuggire, mentre la regione esterna è quella in cui è ancora possibile che segnali o particelle materiali sfuggano verso lo spazio esterno. La materia il cui collasso formò il buco nero è caduta nel profondo di esso e raggiunge densità incredibili, per essere apparentemente schiacciata fino a scomparire in quella che è nota come «singolarità spazio-temporale», ovvero un luogo in cui le leggi fisiche, come oggi le intendiamo, non sono più applicabili.12

Stephen Hawking

Nel 1970 Stephen Hawking avanzò la teoria per cui il contenuto energetico di un buco nero potesse occasionalmente produrre una coppia di particelle subatomiche, una delle quali potesse sfuggire. Questo implica che un buco nero può evaporare, anche se ciò richiederebbe un tempo infinitamente lungo. Infine, secondo questa visione, esso esploderebbe, producendo una grande quantità di raggi gamma. Le teorie di Hawking hanno suscitato molta attenzione; il suo avvincente best-seller Dal Big Bang ai buchi neri, breve storia del tempo è stato forse il libro che più di ogni altro ha portato le nuove teorie cosmologiche all’attenzione del pubblico. Lo stile chiaro e lineare dell’esposizione fa apparire le complicate nozioni come semplici e attraenti. Ma si può dire altrettanto per molte opere di fantascienza e purtroppo sembra che sia diventato di moda per gli autori di opere divulgative sulla cosmologia sembrare il più mistici possibili e avanzare le teorie più bizzarre, basate su una quantità massima di speculazione e una quantità minima di dati. I modelli matematici hanno sostituito quasi interamente l’osservazione. La filosofia centrale di questa scuola di pensiero è riassunta nell’aforisma di Hawking: “Non è possibile opporsi veramente a un teorema matematico”. Hawking afferma di aver dimostrato (matematicamente), insieme a Roger Penrose, che la teoria generale della relatività “implica che l’universo debba avere un inizio e, forse, una fine”. Alla base di tutto ciò è l’accettazione della teoria della relatività come verità assoluta. Eppure, paradossalmente, al momento del Big Bang la relatività generale diventa improvvisamente irrilevante; non vale più, così come non è applicabile nessuna delle leggi della fisica, cosicché non si può dire assolutamente niente in proposito. Niente, cioè, tranne le speculazioni metafisiche della peggiore specie. Ma a questo torneremo in seguito.
Secondo questa teoria, il tempo e lo spazio non esistevano prima del Big Bang, momento in cui tutta la materia dell’universo sarebbe stata concentrata in un singolo punto infinitamente piccolo, chiamato singolarità dai matematici. Lo stesso Hawking spiega le dimensioni in gioco in questa notevole transazione cosmologica:
Noi oggi sappiamo che la nostra galassia è solo una delle centinaia di milioni di galassie che possiamo osservare con i moderni telescopi, contenenti ciascuna qualche centinaio di milioni di stelle […] Noi viviamo in una galassia […] che ha un diametro di circa centomila anni-luce e compie un lento movimento di rotazione; le stelle situate nelle braccia della spirale orbitano attorno al suo centro con un periodo di varie centinaia di milioni di anni. Il Sole è soltanto una comune stella gialla, di dimensioni medie, in prossimità del bordo interno di un braccio della spirale. Abbiamo certamente percorso un bel tratto di strada dal tempo di Aristotele e Tolomeo, quando si pensava che la Terra fosse il centro dell’universo!13
In realtà, le strabilianti quantità di materia di cui si parla non danno un’idea precisa sulla quantità di materia nell’universo. Vengono scoperte di continuo nuove galassie e superammassi, e il processo non ha limiti. Avremmo pure percorso un bel tratto di strada dal tempo di Aristotele sotto certi aspetti, ma in altri sensi sembra che siamo molto arretrati rispetto al filosofo greco, che non avrebbe mai commesso l’errore di parlare di un tempo prima che esistesse il tempo o di affermare che l’intero universo fosse stato creato praticamente dal nulla. Per ritrovare idee come queste si dovrebbe tornare indietro di parecchie migliaia di anni fino al mito giudaico-babilonese della Creazione.
Se qualcuno tenta di protestare contro questo modo di procedere, viene immediatamente condotto alla presenza del grande Albert Einstein, come lo scolaretto indisciplinato che viene portato nell’ufficio del preside, per ricevere una severa predica sulla necessità di avere un maggiore rispetto per la relatività generale, sentirsi dire che non è possibile opporsi a un teorema matematico ed essere mandato a casa debitamente castigato.
Solo che molti presidi sono vivi, mentre Einstein è morto e quindi non può commentare questa particolare interpretazione delle sue teorie. Di fatto, in tutti gli scritti di Einstein si cercherebbe invano qualsiasi riferimento al Big Bang, ai buchi neri e simili. Lo stesso Einstein, sebbene tendesse inizialmente verso l’idealismo filosofico, si oppose implacabilmente al misticismo nella scienza e passò gli ultimi decenni della sua vita lottando contro le idee idealiste soggettive di Heisenberg e di Bohr e in realtà si avvicinò ad una posizione materialista. Sarebbe rimasto senz’altro inorridito per il fatto che dalle sue teorie si traggano conclusioni mistiche. Il seguente passo ne è un buon esempio:
Tutte le soluzioni di Friedmann sono accomunate dal presupposto che in qualche momento del passato (fra dieci e venti miliardi di anni fa) la distanza fra galassie vicine deve essere stata nulla. A quel tempo, che noi chiamiamo il Big Bang, la densità dell’universo e la curvatura dello spazio-tempo devono essere state infinite. Poiché la matematica non può trattare in realtà numeri infiniti, ciò significa che la teoria generale della relatività (su cui si fondano le soluzioni di Friedmann) predice che nell’universo esiste un punto in cui la teoria stessa viene meno. Tale punto è un esempio di quella che i matematici chiamano una singolarità. In verità tutte le nostre teorie scientifiche sono formulate sulla base dell’assunto che lo spazio-tempo sia regolare e quasi piatto, cosicché esse cessano di essere valide in presenza della singolarità del Big Bang, dove la curvatura dello spazio-tempo è infinita. Ciò significa che, quand’anche ci fossero stati degli eventi prima del Big Bang, non li si potrebbe usare per determinare che cosa sarebbe accaduto dopo, poiché la predicibilità verrebbe meno proprio in corrispondenza del Big Bang. Analogamente, se – come si dà il caso – noi conoscessimo solo ciò che è accaduto dopo il Big Bang, non potremmo determinare che cosa è accaduto prima. Per quanto ci riguarda, gli eventi anteriori al Big Bang non possono avere conseguenze, cosicché non dovrebbero formare parte di un modello scientifico dell’universo. Noi dovremmo perciò escluderli dal modello e dire che il tempo ebbe un inizio col Big Bang.
Passaggi come questo ci ricordano fortemente la ginnastica intellettuale degli Scolastici del Medioevo, che discutevano su quanti angeli potessero danzare sulla punta di uno spillo. Questo non è da intendersi come un insulto; se la validità di un’argomentazione è determinata dalla sua coerenza interna, allora le argomentazioni degli Scolastici erano tanto valide quanto questa. Essi non erano degli imbecilli, bensì logici e matematici estremamente capaci, che ergevano costruzioni teoriche elaborate e perfette come le cattedrali medievali. Bastava solo accettare le loro premesse e ogni tassello andava al suo posto. Il problema è se le premesse originali sono valide o meno. Questo è un problema generale della matematica nel suo complesso e ne è una debolezza di fondo. E questa teoria poggia fortemente sulla matematica.
“A quel tempo, che noi chiamiamo il Big Bang…” Ma se non c’era tempo, come facciamo a parlare di un “tempo”? Si dice che il tempo sia iniziato a quel punto. Allora, cosa c’era prima del tempo? Un tempo in cui non c’era tempo! È lampante il carattere contraddittorio di questa idea. Il tempo e lo spazio sono il modo di esistere della materia. Se non c’erano né tempo, né spazio, né materia, cosa c’era? Energia? Ma l’energia, come spiega Einstein, è solo un’altra manifestazione della materia. Un campo di forza? Ma anche questo è energia, quindi il problema rimane e si può rimuovere solo se diciamo che prima del Big Bang non c’era… niente.
Il problema è: come è possibile passare dal nulla a qualcosa? Per i credenti, non c’è problema; Dio creò l’universo dal nulla. Questa è la dottrina della Chiesa cattolica, della creazione ex nihilo. Hawking se ne rende conto, come afferma proprio nella riga successiva:.
A molte persone l’idea che il tempo abbia avuto un inizio non piace, probabilmente perché questa nozione sa un po’ di intervento divino (la Chiesa cattolica, d’altra parte, si impadronì del modello del Big Bang e nel 1951 dichiarò ufficialmente che esso è in accordo con la Bibbia).
Hawking stesso non vuole accettare questa conclusione, ma è inevitabile farlo. Tutto il pasticcio nasce da una concezione filosoficamente scorretta del tempo. Ne fu in parte responsabile Einstein, poiché sembrava introdurre un elemento soggettivo confondendo la misurazione del tempo col tempo stesso. Anche qui la reazione contro la vecchia fisica meccanica di Newton è stata portata all’estremo. La questione non è se il tempo sia “relativo” o “assoluto”. Il problema è se sia oggettivo o soggettivo, cioè se il tempo è il modo di esistere della materia, oppure un concetto del tutto soggettivo che esiste nella mente ed è determinato dall’osservatore. Hawking adotta chiaramente una visione soggettiva del tempo quando scrive:
Le leggi del moto di Newton misero fine all’idea di una posizione assoluta nello spazio. La teoria della relatività si è liberata anche del tempo assoluto. Consideriamo due gemelli e supponiamo che uno vada a vivere sulla cima di una montagna, mentre l’altro rimanga al livello del mare. Il primo gemello invecchierà più rapidamente del secondo, cosicché, quando essi torneranno a incontrarsi, uno dei due sarà più vecchio dell’altro. In questo caso la differenza di età sarebbe molto piccola. Si avrebbe invece una differenza di età molto maggiore (…) se uno dei due gemelli partisse per un lungo viaggio su un’astronave lanciata nello spazio interstellare a una velocità prossima a quella della luce. Al suo ritorno, l’astronauta sarebbe molto più giovane del suo gemello rimasto sulla Terra. Questo caso è noto come il paradosso dei gemelli, ma è un paradosso solo se nel fondo della propria mente non si riesce ad andare oltre l’idea di un tempo assoluto. Nella teoria della relatività non esiste un’unica assoluta misura del tempo, ma ogni individuo ha la propria, che dipende da dove si trova e da come si sta muovendo.14
Che ci sia un elemento soggettivo nella misurazione del tempo non è in discussione. Misuriamo il tempo secondo un determinato punto di riferimento che può variare, ed effettivamente varia, da un luogo all’altro; l’ora di Londra è diversa dall’ora di Sidney o di New York. Ma ciò non significa che il tempo è puramente soggettivo. I processi oggettivi nello spazio si svolgono indipendentemente dal fatto che noi li possiamo misurare o meno. Il tempo, lo spazio e il moto sono oggettivi per la materia e non hanno né inizio né fine.
Qui è interessante notare quanto aveva da dire Engels in proposito:
Andiamo avanti. Dunque il tempo ha avuto un principio. Che cosa c’era prima di questo principio? Il mondo che si trovava in uno stato uguale a se stesso, immutabile. E poiché in questo stato non abbiamo mutamenti successivi, anche il concetto più specifico di tempo si trasforma nell’idea più generale dell’essere. In primo luogo, qui a noi non interessa affatto quali concetti si trasformino in testa a Dühring. Non si tratta del concetto di tempo, ma del tempo reale e di questo Dühring non si libererà tanto a buon mercato. In secondo luogo, per quanto il concetto di tempo possa trasformarsi nell’idea più generale dell’essere, non perciò noi faremo un passo avanti. Infatti, le forme fondamentali di tutto l’essere sono spazio e tempo, e un essere fuori del tempo è un assurdo altrettanto grande quanto un essere fuori dello spazio.
L’«essere trascorso senza tempo» di Hegel, il neo-Schellingiano «essere impensabile in precedenza» sono idee razionali in confronto a questo essere fuori del tempo. Perciò Dühring si mette all’opera con molta cautela: parlando con precisione, probabilmente c’è un tempo, ma è un tempo tale che in fondo non si può chiamare tempo; il tempo, invero, in se stesso, non consta di parti reali e solo dal nostro intelletto viene arbitrariamente diviso; solo un tempo realmente riempito di fatti distinguibili appartiene alla sfera del numerabile. Che cosa possa significare l’accumularsi di un vuoto durare è cosa che non si può assolutamente pensare. Che cosa possa significare questo accumularsi è qui assolutamente indifferente; ci si chiede se il mondo, nello stato che qui è presupposto, dura, ha una durata nel tempo. Che a misurare una tale durata priva di contenuto, non si ricavi niente, precisamente come a misurare lo spazio vuoto senza scopo, e senza meta, è cosa che sappiamo già da lungo tempo ed anzi, proprio per via dell’insulsaggine di questo procedere, Hegel questa infinità la chiama anche la cattiva infinità.15

Esistono le singolarità?

Un buco nero e una singolarità non sono la stessa cosa. Non c’è niente in via di principio che escluda la possibile esistenza di buchi neri stellari, intesi come stelle di grandi dimensioni collassate in cui la forza di gravità è così immensa che nemmeno la luce può sfuggire dalla loro superficie. L’idea non è nemmeno nuova; fu prevista nel XVIII secolo da John Mitchell, il quale osservò che una stella sufficientemente massiccia avrebbe intrappolato la luce. Egli giunse a questa conclusione in base alla teoria classica della gravitazione di Newton; la relatività generale non c’entrava.
Tuttavia, la teoria di Hawking e Penrose va ben oltre i fatti osservati e, come abbiamo visto, trae delle conclusioni che si prestano ad ogni genere di misticismo, anche se non era questa la loro intenzione. Eric Lerner considera poco fondata l’idea di buchi neri supermassicci al centro delle galassie. Insieme ad Anthony Peratt, ha dimostrato come tutte le caratteristiche associate a questi buchi neri supermassicci, quasar ecc. possono essere meglio interpretati come fenomeni elettromagnetici. Tuttavia, ritiene che siano più consistenti i dati a favore dell’esistenza di buchi neri di dimensioni stellari, poiché questo si basa sulla rilevazione di fonti di raggi X troppo intense per essere stelle di neutroni. Ma anche in questo caso le osservazioni non costituiscono affatto una prova definitiva.
Le astrazioni della matematica sono utili strumenti per capire l’universo, a una condizione: che non perdiamo di vista il fatto che anche il miglior modello matematico è solo una rozza approssimazione della realtà. I problemi cominciano quando si inizia a confondere il modello con il fenomeno reale. Hawking rivela inconsciamente la debolezza di questo metodo nel brano già citato; egli suppone che la densità dell’universo al momento del Big Bang fosse infinita, senza spiegarne il motivo, e poi aggiunge, con un ragionamento più strano, che, “poiché la matematica non può trattare in realtà numeri infiniti”, la teoria della relatività a questo punto viene meno. A questo bisogna aggiungere “e tutte le leggi note alla fisica”, poiché col Big Bang viene meno non solo la relatività generale, bensì tutta la scienza. Non è solo che non sappiamo cosa avvenne prima di questo punto, ma che non possiamo saperlo.
Qui si torna alla teoria di Kant sull’inconoscibilità della cosa in sé. In passato era il ruolo della religione e di certi filosofi idealisti, come Hume e Kant, a porre un limite alla comprensione umana. Si permetteva alla scienza di andare solo fino ad un certo punto e non oltre. Oltre il limite posto al procedere dell’intelligenza umana cominciavano il misticismo, la religione e l’irrazionalità. Eppure tutta la storia della scienza è la storia di come è stata abbattuta una barriera dopo l’altra; quello che per una generazione sembrava inconoscibile diventava un libro aperto per quella successiva. Tutta la scienza si basa sul presupposto che l’universo può essere conosciuto. Ora, per la prima volta, sono degli scienziati a porre limiti alla conoscenza, una situazione straordinaria e un triste commento alla condizione attuale della fisica teorica e della cosmologia.
Consideriamo le implicazioni del brano citato: a) visto che le leggi della scienza, compresa la relatività generale (la quale dovrebbe costituire la base di tutta la teoria), vengono meno al momento del Big Bang, è impossibile sapere che cosa, se qualcosa, avveniva prima di esso; b) anche se ci fossero stati eventi precedenti al Big Bang, non hanno rilevanza per quello che avvenne dopo; c) non ne possiamo sapere niente, e quindi d) dobbiamo semplicemente “escluderli dal modello e dire che il tempo ebbe inizio col Big Bang”.
La sicurezza con cui si fanno queste affermazioni è davvero sbalorditiva. Ci viene chiesto di accettare un limite assoluto alla nostra capacità di capire i problemi fondamentali della cosmologia, in pratica di non porre domande (perché tutte le domande sul tempo prima del tempo sono senza senso) e che dobbiamo accettare senza discussioni il fatto che il tempo iniziò col Big Bang. In questo modo, Hawking semplicemente suppone ciò che sarebbe da dimostrare. Alla stessa maniera, i teologi affermano che Dio creò l’universo e, quando si chiede chi creò Dio, rispondono che tali domande non rientrano nelle competenze dei mortali. Su una cosa però siamo d’accordo: tutta la faccenda infatti “sa un po’ di intervento divino”. Anzi, lo implica necessariamente.
Nella sua polemica contro Dühring, Engels osserva che è impossibile che il moto nasca dall’immobilità, che qualcosa nasca dal nulla:

“Senza un atto di creazione non possiamo mai arrivare dal nulla a qualcosa, anche se il qualcosa fosse tanto piccolo quanto un differenziale matematico.”16
Pare che la difesa principale di Hawking sia che la teoria alternativa al Big Bang proposta da Fred Hoyle, Thomas Gold e Hermann Bondi – quella del cosiddetto stato stazionario – risulta falsa. Dal punto di vista del materialismo dialettico non è stata mai una questione di scelta fra queste due teorie; l’una era cattiva quanto l’altra. Anzi, la teoria dello stato stazionario, che ipotizzava la creazione continua di materia dal nulla nello spazio, era semmai ancora più mistica della sua rivale. Il fatto stesso che una tale idea potesse essere presa sul serio dagli scienziati è in sé un’amara dimostrazione della confusione filosofica che tormenta la scienza da lungo tempo.
Gli antichi già comprendevano che “dal nulla non viene nulla”. Questo fatto è espresso da una delle leggi fondamentali della fisica, quella della conservazione dell’energia. L’affermazione di Hoyle per cui si tratterebbe solo di una quantità minima non cambia niente e ricorda l’ingenua signorina che, rimasta incinta, cerca di calmare l’ira di suo padre rassicurandolo che si tratta di un bambino “piccolo piccolo”. Nemmeno la più infima particella di materia (o di energia, che è la stessa cosa) può essere mai creata né distrutta e quindi la teoria dello stato stazionario era condannata fin dall’inizio.
Inizialmente la teoria di Penrose della “singolarità” non aveva nulla a che fare con l’origine dell’universo; prevedeva semplicemente che una stella che collassa sotto la propria gravità sarà intrappolata in una regione la cui superficie si riduce prima o poi a zero. Tuttavia, nel 1970 Penrose e Hawking pubblicarono un documento nel quale ritennero di aver dimostrato che lo stesso Big Bang era una tale “singolarità”, a condizione “che la relatività generale sia corretta e che l’universo contenga tanta materia quanta ne osserviamo”.
Ci furono molte opposizioni al nostro lavoro, sia da parte dei russi in conseguenza della loro fede marxista nel determinismo scientifico, sia da parte di persone che ritenevano che l’idea di singolarità fosse ripugnante e che deturpasse la bellezza della teoria di Einstein. In realtà, però, non è possibile opporsi veramente a un teorema matematico, cosicché infine il nostro lavoro fu generalmente accettato e oggi quasi tutti ammettono l’ipotesi che l’universo abbia avuto inizio con la singolarità del Big Bang.
La relatività generale ha dimostrato di essere uno strumento molto potente, ma ogni teoria ha i propri limiti e in questo caso si ha l’impressione che essa venga spinta appunto al limite. È impossibile dire quanto tempo passerà prima che la relatività generale sia sostituita da un insieme di idee più ampio e comprensivo, ma è chiaro che questa particolare applicazione ci ha condotti a un vicolo cieco. Per quanto riguarda la quantità di materia presente nell’universo, non si avrà mai un dato definitivo, poiché non ha limite. È tipico di questa gente essere talmente immersa nelle equazioni matematiche da dimenticare la realtà. Di fatto le equazioni hanno sostituito la realtà.
Essendo riuscito a convincere molta gente, in base al fatto che “non è possibile opporsi veramente a un teorema matematico”, Hawking ha cominciato a ripensarci:
È forse un’ironia che, avendo cambiato parere, io cerchi ora di convincere altri fisici che in realtà non ci fu alcuna singolarità all’inizio dell’universo; come vedremo, tale singolarità potrà scomparire qualora si tenga conto degli effetti quantistici.”
La natura arbitraria di questo metodo nel suo complesso è dimostrata dallo straordinario mutamento d’opinione da parte di Hawking. Ora afferma che l’universo non è iniziato con una singolarità. Perché? Cosa è cambiato? Non disponiamo di una maggiore quantità di dati rispetto al passato; tutte queste svolte e contorsioni avvengono nel mondo dell’astrazione matematica.
La teoria di Hawking dei buchi neri rappresenta un’estensione dell’idea della singolarità a particolari regioni dell’universo. È piena di elementi contraddittori e mistici. Consideriamo il seguente brano, che descrive l’eccezionale scenario in cui un astronauta precipita in un buco nero:
Le ricerche compiute fra il 1965 e il 1970 insieme a Roger Penrose dimostrarono che, secondo la relatività generale, in un buco nero deve esserci una singolarità di densità e di curvatura dello spazio-tempo infinite. Un buco nero è un po’ come il Big Bang all’inizio del tempo, solo che sarebbe la fine del tempo per l’astro che subisce il collasso e per l’astronauta. In questa singolarità le leggi della scienza e la nostra capacità di predire il futuro verrebbero meno.Tuttavia, un osservatore che si trovasse al di fuori del buco nero non risentirebbe di questo venir meno della predicibilità, poiché dalla singolarità non potrebbero giungergli né luce, né alcun altro segnale.Questo fatto notevole condusse Roger Penrose ad avanzare l’ipotesi della censura cosmica, che si potrebbe parafrasare in questo modo: «Dio aborrisce una singolarità nuda». In altri termini, le singolarità prodotte dal collasso gravitazionale si verificano solo in luoghi – come i buchi neri – dove sono pudicamente nascoste a ogni osservatore esterno da un orizzonte degli eventi.A rigore, questa teoria è nota come ipotesi debole della censura cosmica: essa protegge gli osservatori che rimangono all’esterno del buco nero dalle conseguenze del venir meno della predicibilità in corrispondenza della singolarità, ma non comporta nessun beneficio del genere per lo sventurato astronauta che cade dentro il buco.17

Cosa ci possiamo capire? Non contenti di un inizio e di una fine del tempo nell’universo, Penrose e Hawking ora scoprono nell’universo numerose zone in cui il tempo è già finito! Sebbene i dati che suggeriscono l’esistenza dei buchi neri non siano molto consistenti, sembra probabile che un tale fenomeno esista, nella forma di stelle collassate con enormi concentrazioni di materia e di gravità. Ma dubitiamo fortemente che un tale collasso gravitazionale possa mai raggiungere il livello di una singolarità, tanto meno rimanere per l’eternità in tale condizione. Ben prima di raggiungere questo punto, una concentrazione talmente grande di materia e di energia provocherebbe una massiccia esplosione.
L’intero universo è prova che il processo di cambiamento è infinito, a tutti i livelli. Vaste regioni dell’universo possono essere in espansione, altre in contrazione. Lunghi periodi di apparente equilibrio vengono sconvolti da violente esplosioni come le supernove, le quali a loro volta forniscono materia prima per la formazione di nuove galassie; è un processo che non si ferma mai. Non c’è scomparsa o creazione di materia, ma solo un cambiamento continuo ed inquieto da uno stato ad un altro. Dunque, non si può porre la questione della “fine del tempo”, che sia dentro un buco nero o altrove.

Una vuota astrazione

L’interpretazione in chiave mistica deriva da una concezione soggettivista del tempo, che lo fa dipendere da (“relativo a”) un osservatore. Ma il tempo è un fenomeno oggettivo, indipendente da qualsiasi osservatore. La necessità di introdurre nello scenario uno sventurato astronauta non nasce da una qualche necessità scientifica, ma è il prodotto di un determinato punto di vista filosofico, contrabbandato sotto il vessillo della “teoria della relatività”. Il tempo, vedete, per essere “reale”, ha bisogno di un osservatore, che lo possa poi interpretare dal proprio punto di vista. Dobbiamo supporre che, se manca l’osservatore, nemmeno il tempo esiste! Secondo un ragionamento davvero singolare, questo osservatore è protetto contro la maligna influenza del buco nero da un’ipotesi arbitraria, una “censura cosmica debole”, qualunque cosa sia. Invece dentro il buco il tempo non esiste affatto. Dunque, fuori esiste il tempo, ma a poca distanza non esiste. Al confine fra questi due stati, c’è il misterioso orizzonte degli eventi, la cui natura è avvolta nell’oscurità.
Pare perlomeno che dobbiamo abbandonare ogni speranza di comprendere quello che succede oltre l’orizzonte degli eventi, poiché, citando Hawking, è “pudicamente nascosto a ogni osservatore esterno”. Ci viene riproposto l’equivalente nel XX secolo della kantiana cosa in sé. E, come la cosa in sé, dopo tutto non risulta tanto difficile da comprendere. Si tratta di una visione mistica e idealista del tempo e dello spazio, inserita in un modello matematico e contrabbandata per realtà.
Il tempo e lo spazio sono le proprietà basilari della materia. Più esattamente, sono il modo di esistere della materia. Kant aveva già osservato che, se lasciamo da parte tutte le proprietà fisiche della materia, ci rimangono il tempo e lo spazio. Ma questa è in realtà una vuota astrazione. Il tempo e lo spazio non possono esistere separati dalle proprietà fisiche della materia più di quanto non si possa consumare “frutta” in generale, al posto di mele e arance, o fare l’amore col “sesso femminile”. Contro Marx si è lanciata l’accusa, assolutamente ingiustificata, di aver concepito una Storia che si svolge senza la partecipazione cosciente di uomini e donne, come risultato di Forze Economiche, o sciocchezze simili. In realtà Marx precisa in modo ben chiaro che la Storia non può fare nulla e che gli uomini fanno la propria storia, sebbene non la facciano esclusivamente secondo la propria “libera volontà”.
Hawking, Penrose e molti altri sono rei precisamente dell’errore ingiustamente attribuito a Marx. Al posto della vuota astrazione Storia, che viene effettivamente personificata e dotata di una propria vita e di una propria volontà, vediamo l’astrazione altrettanto vuota Tempo, concepita come un’entità indipendente che nasce e muore e nel frattempo combina un sacco di marachelle, insieme al suo amico Spazio, che sorge, crolla e si piega, un po’ come un ubriacone cosmico, fino ad ingoiare sventurati astronauti in buchi neri. Ora, questo genere di cose va benissimo nella fantascienza, ma non è molto utile come mezzo per capire l’universo. Chiaramente ci sono immense difficoltà pratiche per ottenere informazioni precise, poniamo, sulle stelle di neutroni. In un certo senso, in relazione all’universo, ci troviamo in una situazione più o meno analoga a quella degli uomini primitivi in relazione ai fenomeni naturali. In mancanza di informazioni adeguate, cerchiamo una spiegazione razionale per le cose difficili ed oscure; dobbiamo ripiegare sulle nostre risorse: la mente e l’immaginazione. Le cose sembrano misteriose quando non vengono comprese e per comprenderle è necessario fare delle ipotesi; alcune di queste risulteranno erronee. Questo in sé non presenta problemi; la storia della scienza è piena di esempi in cui la ricerca basata su un’ipotesi errata ha portato a scoperte importanti.
Tuttavia, abbiamo il dovere di tentare di assicurare che le ipotesi abbiano un carattere ragionevolmente razionale. In tali circostanze diventa indispensabile lo studio della filosofia. Dobbiamo proprio tornare ai miti primitivi e alla religione per comprendere l’universo? Dobbiamo riportare in vita le nozioni screditate dell’idealismo, che in realtà sono strettamente legate a tali miti? È proprio necessario reinventare la ruota? “Non è possibile opporsi a un teorema matematico”. Forse no, ma è senz’altro possibile mettere in discussione premesse filosofiche scorrette e un’interpretazione idealista del tempo, che porta a conclusioni come le seguenti:
Ci sono alcune soluzioni delle equazioni della relatività generale in cui per il nostro astronauta è possibile vedere una singolarità nuda: può accadere che egli riesca a evitare di colpire la singolarità e precipiti invece in un «cunicolo» (wormhole) per fuoriuscire in un’altra regione dell’universo. Questo fatto offrirebbe grandi possibilità per i viaggi nello spazio e nel tempo, ma purtroppo pare che debba trattarsi in ogni caso di soluzioni altamente instabili; il minimo disturbo, come la presenza di un astronauta, potrebbe modificarle, cosicché l’astronauta potrebbe non vedere la singolarità finché non fosse a contatto con essa, nel qual caso il suo tempo finirebbe. In altri termini la singolarità sarebbe sempre nel suo futuro e mai nel suo passato. La versione forte dell’ipotesi della censura cosmica afferma che, in una soluzione realistica, le singolarità si troverebbero sempre interamente nel futuro (come la singolarità del collasso gravitazionale) o interamente nel passato (come il Big Bang). Auspichiamo che una qualche versione dell’ipotesi della censura si riveli valida poiché in prossimità di singolarità nude potrebbe essere possibile compiere viaggi nel passato. Questa potrebbe essere una bella cosa per gli scrittori di fantascienza, ma significherebbe anche che non sarebbe mai sicura la vita di nessuno; qualcuno potrebbe infatti andare nel passato e uccidere tuo padre o tua madre prima che tu fossi concepito!18
Il “viaggio nel tempo” appartiene alle pagine della fantascienza, dove può essere fonte di innocuo divertimento. Ma siamo convinti che nessuno debba temere che la propria esistenza sia messa a repentaglio da un qualche irriverente viaggiatore nel tempo che gli faccia fuori la nonna! Francamente, basta porre la questione per capire che si tratta di un’evidente assurdità. Il tempo si muove in una sola direzione, dal passato al futuro, e non può tornare indietro. Qualunque cosa scopra il nostro amico astronauta in fondo al buco nero, non troverà che il tempo è tornato indietro o si è “fermato” (tranne nel senso che, siccome egli stesso sarebbe fatto a pezzi dalla forza della gravità, il tempo cesserebbe per lui, insieme a tante altre cose).
Abbiamo già commentato la tendenza a confondere scienza e fantascienza. È anche da notare che molta della stessa fantascienza è pervasa da uno spirito semireligioso, mistico e idealista. Molto tempo fa, Engels osservò che gli scienziati che disprezzano la filosofia cadono spesso vittime di ogni genere di misticismo. Egli scrisse un articolo dal titolo La scienza naturale e il mondo degli spiriti, da cui è tratto il seguente brano:
Questa scuola prevale in Inghilterra. Suo padre, il tanto lodato Francis Bacon, già avanzava la proposta che il suo nuovo metodo empirico ed induttivo fosse seguito per raggiungere, tramite esso, vita più lunga, ringiovanimento, in una certa misura modifica alla statura ed ai tratti, la trasformazione di un corpo in un altro, la produzione di nuove specie, potere sull’aria e la produzione di tempeste. Egli si lamenta che tali indagini sono state abbandonate e nella sua storia naturale dà ricette vere e proprie per la creazione dell’oro e per svolgere vari miracoli. In modo analogo Isaac Newton nella vecchiaia si occupava molto dell’esposizione della Rivelazione di San Giovanni.
Quindi non c’è da stupirsi se negli ultimi anni l’empirismo inglese nella persona di alcuni suoi esponenti – e non i peggiori – sembra essere caduto vittima perduta delle sedute spiritiche importate dall’America.19
Non c’è dubbio che Stephen Hawking e Roger Penrose siano scienziati e matematici eccezionali. Il problema è che, se si parte da una premessa sbagliata, si arriva inevitabilmente a conclusioni sbagliate.
Hawking evidentemente si sente a disagio all’idea che dalle sue teorie si possano trarre conclusioni religiose. Racconta come nel 1981 partecipò ad una conferenza sulla cosmologia tenutasi nel Vaticano, organizzata dai Gesuiti, e commenta:
La Chiesa cattolica aveva compiuto un grave errore nella vicenda di Galileo, quando aveva tentato di dettar legge su una questione scientifica, dichiarando che era il Sole a orbitare intorno alla Terra. Ora, a qualche secolo di distanza, aveva deciso di invitare un certo numero di esperti per farsi dare consigli sulla cosmologia. Al termine del convegno i partecipanti furono ammessi alla presenza del santo padre. Il papa ci disse che era giustissimo studiare l’evoluzione dell’universo dopo il Big Bang, ma che non dovevamo cercare di penetrare i segreti del Big Bang stesso perché quello era il momento della creazione e quindi l’opera stessa di Dio. Fui lieto che il papa non sapesse quale argomento avessi trattato poco prima nel mio intervento al convegno: la possibilità che lo spazio-tempo fosse finito ma illimitato, ossia che non avesse alcun inizio, che non ci fosse alcun momento della Creazione. Io non provavo certamente il desiderio di condividere la sorte di Galileo, pur essendo legato a lui da un forte senso di identità, dovuto in parte alla coincidenza di essere nato esattamente 300 anni dopo la sua morte!20
Chiaramente Hawking vuole delineare un confine tra se stesso e i creazionisti. Ma il tentativo non riesce molto bene. Come può l’universo essere finito, ma non avere confini? In matematica è possibile avere una serie infinita di numeri, che parte da uno. Ma in pratica l’idea dell’infinito non può partire da uno, né da qualsiasi altro numero. L’infinito non è un concetto matematico; non si può valutare come entità numerica. Questo “infinito” squilibrato è quello che Hegel definisce cattivo infinito. Engels tratta l’argomento nella sua polemica con Dühring:
Ma la contraddizione della «serie numerica infinita numerata»? Saremo in grado di indagarla da vicino non appena Dühring ci avrà esibito il pezzo di bravura di numerarla. Ne riparleremo quando sarà riuscito a contare da -∞ (meno infinito) a zero. È chiaro invero che dovunque egli comincerà a contare, si lascerà sempre alle spalle una serie infinita e con essa il compito che doveva assolvere. Si provi solo a rovesciare la sua propria serie infinita 1+2+3+4… e tenti di contare da capo, partendo dal termine infinito sino a 1; sarà evidentemente il tentativo di un uomo che non capisce affatto di che cosa si tratta. Ma c’è di più. Dühring, affermando che la serie infinita del tempo trascorso è numerata, afferma conseguentemente che il tempo ha un principio; difatti, diversamente non potrebbe, di certo, nemmeno cominciare a «numerare». Quindi ancora una volta introduce di soppiatto come presupposto ciò che deve dimostrare. L’idea della serie infinita e numerata, in altri termini, la legge duhringhiana del numero determinato, legge che abbraccia l’universo, non è quindi che una contradictio in adjecto, contiene in se stessa una contraddizione, e invero una contraddizione assurda.
È chiaro che l’infinità che ha una fine, ma non ha un principio, non è più nemmeno infinita di quella che ha un principio, ma non ha una fine. L’intuito dialettico più modesto avrebbe dovuto suggerire a Dühring che principio e fine sono necessariamente legati l’uno all’altra, come il polo nord e il polo sud, che, se si omette la fine, il principio diventa precisamente la fine, l’unica fine che la serie ha, e viceversa. Tutta l’illusione sarebbe impossibile senza la consuetudine propria della matematica di operare con serie infinite. Poiché nella matematica si deve partire dal determinato, dal finito, per arrivare all’indeterminato, all’infinito, tutte le serie matematiche, positive e negative, devono cominciare da 1, altrimenti sarebbe impossibile servirsene per calcolare. Ma l’esigenza ideale del matematico è molto lontana dall’essere una legge obbligatoria per il mondo reale.21
Stephen Hawking ha portato questa speculazione relativistica ad un punto estremo con il suo studio sui buchi neri, che ci porta proprio nel regno della fantascienza. Nel tentativo di aggirare la scomoda questione di cosa succedeva prima, viene proposta l’idea degli “universi baby”, connessi fra loro dai cosiddetti “cunicoli” (wormholes). Come osserva ironicamente Lerner: “È una visione che sembra implori una qualche forma di cosmico controllo delle nascite.22
È davvero stupefacente che scienziati equilibrati possano prendere per buone idee così grottesche.
L’idea di un “universo finito senza confini” è ancora un’altra astrazione matematica, che non corrisponde alla realtà di un universo eterno e infinito, in continuo cambiamento. Una volta adottato quest’ultimo punto di vista, non c’è bisogno di speculazioni mistiche su “cunicoli”, singolarità, supercorde e tutto il resto. Un universo infinito non richiede la ricerca di un inizio o una fine, ma solo la definizione del processo incessante di movimento, mutamento e sviluppo. La concezione dialettica non lascia spazio a Paradiso e Inferno, Dio e Diavolo, Creazione e Giudizio universale. Lo stesso non si può dire riguardo a Hawking, il quale prevedibilmente finisce per tentare di “conoscere la mente di Dio”.
Di fronte a questo spettacolo i reazionari si sfregano le mani e utilizzano per i propri fini la corrente di oscurantismo predominante nella scienza. William Rees-Mogg, consulente del grande capitale, scrive:
Pensiamo che sia estremamente probabile che il movimento religioso che vediamo in atto in molte società del mondo sarà rafforzato se attraverseremo un periodo economicamente molto difficile. La religione sarà rafforzata perché la tendenza attuale della scienza non erode più la percezione religiosa della realtà, ma, anzi, per la prima volta dopo secoli, addirittura la sorregge.”23

Pensieri nel vuoto

Ebbene, certe volte ho creduto fino a sei cose impossibili prima di colazione

(Lewis Carroll)
Con gli uomini questo è impossibile; ma con Dio tutte le cose sono possibili
(Matteo, 19:26)
Niente può essere creato dal nulla
(Lucrezio)
Poco prima di terminare la stesura di questo libro, ci è capitato sotto mano l’ultimo contributo alla cosmologia del Big Bang, pubblicato sul New Scientist del 25 febbraio 1995. In un articolo di Robert Matthews dal titolo Niente come un vuoto, leggiamo quanto segue: “È tutto intorno a voi, eppure non potete sentirlo. È la fonte di tutto, ma non è niente.” Cos’è questa cosa incredibile? È un vuoto. E cos’è un vuoto? Il suo nome indica che è proprio vuoto. Il dizionario lo definisce come uno “spazio vuoto, o privo di materia o di contenuto; qualsiasi spazio non occupato, non riempito.” Così è stato finora – ma non più. L’umile vuoto, citando Matthews, è diventato “uno degli argomenti più scottanti della fisica contemporanea.”
Ha mostrato di essere un paese delle meraviglie di effetti magici: campi di forza che emergono dal nulla, particelle spumeggianti che compaiono e scompaiono e vibrazioni energetiche apparentemente senza una fonte d’energia.
Grazie ad Heisenberg e Einstein (povero Einstein!) abbiamo
la sorprendente constatazione che tutto intorno a noi particelle subatomiche «virtuali» saltano continuamente fuori dal nulla e poi scompaiono nel giro di 10-23 secondi. Lo ‘spazio vuoto’ dunque non è affatto vuoto, ma è un mare che ribolle di attività e pervade l’intero universo.
Questo è allo stesso tempo vero e falso. È vero che tutto l’universo è pervaso da materia ed energia e che lo “spazio vuoto” non è realmente vuoto ma pieno di particelle, radiazioni e campi di forza. È vero che le particelle cambiano continuamente e che alcune hanno un’esistenza così fuggevole da venire definite particelle “virtuali”. Non c’è assolutamente niente di “sorprendente” in questi concetti, che erano noti già decenni fa. Ma non è affatto vero che queste particelle saltano fuori “dal nulla”. Abbiamo già trattato questo equivoco e non è necessario ripetere ciò che è stato detto.
Come un vecchio disco con il solco danneggiato, coloro che vogliono introdurre l’idealismo nella fisica battono sempre il tasto sull’idea che si può ottenere qualcosa dal niente. È un’idea che contraddice tutte le leggi note della fisica, compresa quella quantistica, eppure qui troviamo espresso proprio il concetto che l’energia si possa ottenere letteralmente dal nulla! È analogo ai tentativi fatti in passato di scoprire il moto perpetuo, che giustamente venivano ridicolizzati.
La fisica moderna parte dal rifiuto della vecchia idea dell’etere, come mezzo invisibile universale attraverso il quale si riteneva viaggiassero le onde di luce. La teoria di Einstein della relatività ristretta dimostrò che la luce può viaggiare attraverso il vuoto e non richiede un mezzo particolare. Incredibilmente, dopo aver citato Einstein come autorità in materia (ormai un atto obbligatorio, come farsi il segno della croce prima di uscire dalla chiesa, e per niente più significativo), Matthews cerca di reintrodurre l’etere nella fisica:
Ciò non significa che non possa esistere un fluido universale, bensì che tale fluido deve conformarsi ai dettami della relatività ristretta. Il vuoto non è obbligato ad essere mera fluttuazione quantistica intorno ad uno stato medio di vero nulla; può essere una fonte di energia permanente, non nulla, di energia nell’universo.”
Ora, cosa precisamente si deve trarre da tutto ciò? Finora ci è stato raccontato di “sorprendenti” nuovi sviluppi della fisica, di “paesi delle meraviglie” di particelle; ci è stato assicurato che un vuoto dispone di abbastanza energia per rispondere ad ogni nostra esigenza. Ma i dati stessi forniti dall’articolo non sembrano dire niente di nuovo. Contiene una grande quantità di affermazioni, ma è molto avaro di dati. Forse l’autore intendeva compensare questa carenza con l’oscurità delle sue formulazioni. Possiamo solo tirare ad indovinare il significato di “fonte permanente, non nulla, di energia”. E cosa sarebbe uno “stato medio di vero nulla”? Se intendeva dire un vero vuoto, sarebbe stato meglio usare due parole chiare invece di cinque poco chiare. Questo genere di ambiguità intenzionale viene usata di solito per celare pensieri confusi, soprattutto in questo campo. Perché non parlare in modo semplice? A meno che, ovviamente, non si tratti di un “vero nulla” di contenuto.
Lo scopo dell’articolo è dimostrare che il vuoto ricava quantità illimitate di energia dal nulla. L’unica “prova” di ciò è qualche accenno alle teorie della relatività, generale e ristretta, che vengono usate regolarmente come attaccapanni a cui appendere qualsiasi ipotesi arbitraria.
La relatività ristretta richiede che le proprietà del vuoto appaiano le stesse per tutti gli osservatori, qualunque sia la loro velocità. Affinché questo sia vero risulta che la pressione del «mare» di vuoto annulli esattamente la sua densità d’energia. È una condizione che può sembrare abbastanza innocua, ma ha alcune conseguenze sorprendenti. Significa, per esempio, che una determinata regione di energia di vuoto conserva la stessa densità d’energia, indipendentemente da quanto si espande quella regione. Questo è, a dir poco, strano. Confrontiamolo col comportamento di un gas normale, la cui densità d’energia diminuisce con l’aumento del volume. È come se il vuoto potesse attingere ad una riserva d’energia costante.
In primo luogo, notiamo che quello che un paio di frasi addietro era solo un ipotetico “fluido universale” si è trasformato adesso in un effettivo “mare” di vuoto, anche se nessuno sa di sicuro da dove venga tanta “acqua”. Questo è, a dir poco, strano. Ma lasciamolo lì dov’è; supponiamo ora, come fa l’autore, che sia vero quello che è ancora da dimostrare e accettiamo l’esistenza di questo vasto oceano di nulla. Risulta ora che questo “nulla” è ora non solo qualcosa, ma è un “qualcosa” di notevole consistenza. Come per magia, è riempito di energia da una “riserva costante”. Questo è l’equivalente cosmologico della cornucopia, il “corno dell’abbondanza” della mitologia greca e irlandese, un misterioso corno o calderone che, per quanto se ne attingesse, non era mai vuoto. Era un dono degli dèi, ma sembra roba da bambini in confronto a quello che ci regala ora il signor Matthews.
Se in un vuoto entra energia, essa deve provenire dall’esterno. Questo è abbastanza chiaro, dato che un vuoto non può esistere isolato dalla materia e dall’energia. L’idea di spazio vuoto senza materia è assurda quanto l’idea di materia senza spazio. Sulla Terra non esiste niente di assimilabile a un vuoto perfetto. La cosa che più si avvicina ad un vuoto perfetto è lo spazio. Ma in realtà nemmeno lo spazio è vuoto. Alcuni decenni fa, Hannes Alfvén spiegò come lo spazio brulica di intrecci di correnti elettriche e di campi magnetici riempiti di filamenti di plasma. Questo non è risultato di speculazioni o di appelli alla teoria della relatività, ma è confermato dall’osservazione, comprese quelle effettuate dalle sonde spaziali Voyager e Pioneer che hanno rilevato queste correnti e filamenti intorno a Giove, Saturno ed Urano.
Quindi c’è, effettivamente, parecchia energia nello spazio – non però del tipo di cui parla Matthews. Avendo stabilito l’esistenza del suo “mare del vuoto” egli intende prelevare la sua energia direttamente dal vuoto. Non occorre materia! Questo è molto meglio del prestigiatore che tira fuori un coniglio da un cilindro perché, in fondo si sa, il coniglio era nascosto da qualche parte. Invece questa energia viene proprio dal niente. Essa viene dal vuoto, per cortese intercessione della relatività generale:
Uno degli aspetti chiave della teoria generale della relatività di Einstein è che la massa non è l’unica fonte di gravitazione. In particolare la pressione, sia positiva che negativa, può generare effetti gravitazionali.
A questo punto il lettore sarà totalmente confuso. Ora, però, tutto diventa chiaro (o quasi):
Tale caratteristica del vuoto – ci viene detto a questo punto – è il nucleo forse del più importante nuovo concetto cosmologico dell’ultimo decennio: l’inflazione cosmica. Sviluppata principalmente da Alan Guth al MIT e da Andrei Linde, ora a Stanford, l’idea di inflazione cosmica sorge dalla supposizione che l’universo nelle primissime fasi fosse riempito di instabile energia di vuoto il cui effetto «antigravitazionale» fece espandere l’universo di un fattore forse di 1050 in solo 10-32 secondi. L’energia di vuoto svanì lasciando fluttuazioni casuali la cui energia si trasformò in calore. Dato che energia e materia sono interscambiabili, il risultato fu quella creazione di materia che ora chiamiamo Big Bang.
Ci siamo! Tutta questa costruzione assolutamente arbitraria è concepita unicamente per appoggiare la teoria inflazionaria del Big Bang. Come sempre, si cambiano continuamente le regole per puntellare a tutti i costi la loro ipotesi. Ricorda i sostenitori della vecchia teoria aristotelico-tolemaica delle sfere celesti, la quale veniva continuamente rivista e resa più complicata per adattarla ai fatti. Come abbiamo visto, la teoria di recente se la passava male, col problema della “materia oscura e fredda” introvabile e con il caos infernale intorno alla costante di Hubble. Di fronte alla pressante necessità di un appoggio, i sostenitori della teoria sono andati alla ricerca di una qualche spiegazione a uno dei problemi centrali della teoria: da dove è venuta tutta l’energia necessaria a provocare il Big Bang inflazionario, il “più grande pranzo gratuito di tutti i tempi”, come lo ha chiamato Alan Guth. Ora vogliono passare il conto a qualcuno, o a qualcosa, e trovano… un vuoto. Dubitiamo che questo conto sarà mai pagato e, nel mondo reale, chi non paga un conto viene condotto in cucina a lavare i piatti, nonostante offra la teoria generale della relatività al posto del denaro contante.
“Dal nulla, attraverso il nulla, fino al nulla”, disse Hegel. È un epitaffio adatto per la teoria dell’inflazione. C’è in realtà un solo modo per ottenere qualcosa dal nulla: con un atto di Creazione. E questo è possibile solo attraverso l’intervento di un Creatore. Malgrado i loro sforzi, i sostenitori del Big Bang troveranno che i loro passi li portano sempre in questa direzione. Qualcuno ci andrà di buon grado, altri insistendo che non sono religiosi “nel senso convenzionale”. Ma il ritorno al misticismo è la conseguenza inevitabile di questo mito moderno della Creazione. Per fortuna sempre più persone si scoprono insoddisfatte di questo stato di cose. Prima o poi si verificherà una rottura grazie all’osservazione, che consentirà l’emergere di una nuova teoria, permettendo al Big Bang una decente sepoltura. Prima succede e meglio sarà.

Le origini del sistema solare

Lo spazio non è veramente vuoto. In natura non esiste un vuoto perfetto. Lo spazio è riempito da un gas estremamente rarefatto, il “gas interstellare” rilevato per la prima volta nel 1904 da Hartmann. Le concentrazioni di gas e di polvere diventano molto maggiori e più dense nelle vicinanze delle galassie, che sono circondate da “nebbia” composta per la maggior parte da atomi di idrogeno ionizzati dalle radiazioni stellari. Anche questa materia non è inerte, ma viene scomposta in particelle subatomiche elettricamente cariche, soggette ad ogni tipo di movimenti, processi e cambiamenti. Questi atomi occasionalmente collidono e possono cambiare il loro stato energetico. Sebbene questo possa succedere ad un singolo atomo solo una volta ogni 11 milioni di anni, dato il vasto numero in gioco è sufficiente per creare un’emissione continua e rilevabile, il “canto dell’idrogeno”, rilevato per la prima volta nel 1951.
Si tratta quasi interamente di idrogeno, ma ci sono anche deuterio – una forma di idrogeno più complessa – ossigeno ed elio. Può sembrare impossibile che avvengano combinazioni, vista l’estrema rarefazione di questi elementi nello spazio. Però avvengono e ad un notevole grado di complessità. La molecola dell’acqua (H2O) è stata individuata nello spazio, come pure quella dell’ammoniaca (NH3), seguita dalla formaldeide (H2CO) e da molecole ancora più complesse, dando vita ad una nuova scienza: l’astrochimica. Infine è stato dimostrato che nello spazio sono presenti gli amminoacidi, cioè le molecole di base della vita stessa.
Kant (nel 1755) e Laplace (nel 1796) avanzarono per primi l’ipotesi nebulare della formazione del sistema solare. Secondo tale ipotesi, il Sole e i pianeti si erano formati dalla condensazione di un’immensa nube di materia. Questo sembrava coerente con i fatti e, quando Engels scrisse la Dialettica della natura, era generalmente accettato. Invece nel 1905 Chamberlain e Moulton proposero una teoria alternativa: l’ipotesi planetaria. Questa fu sviluppata ulteriormente da Jean e Jeffreys, che nel 1918 presentarono l’ipotesi tidal (delle maree), per cui il sistema solare sarebbe stato generato dalla collisione fra due stelle. Il problema di questa teoria è che, se fosse esatta, i sistemi planetari sarebbero fenomeni estremamente rari. Le enormi distanze fra le stelle sono tali che collisioni del genere sono 10.000 volte meno comuni delle supernove, anch’esse avvenimenti niente affatto comuni. Ancora una volta vediamo come, ricorrendo ad una fonte esterna e accidentale come una stella vagante, creiamo più problemi di quanti ne risolviamo.
Infine fu dimostrato che la teoria che pretendeva di sostituire il modello Kant-Laplace era matematicamente difettosa. Altre ipotesi, come la “collisione fra tre stelle” (Littleton) e la teoria di Hoyle sulla supernova, furono escluse nel 1939 quando si dimostrò che il materiale espulso dal Sole in tale modo sarebbe stato troppo caldo per condensare in pianeti; si sarebbe semplicemente espanso per formare un gas rarefatto. Così fu abbattuta la teoria catastrofico-planetaria. L’ipotesi nebulare è stata riabilitata, ma ad un livello superiore rispetto alla prima formulazione; non è solo una ripetizione delle idee di Kant e Laplace. Ad esempio, si ritiene attualmente che le nubi di polvere e di gas previste da quel modello dovrebbero essere molto più grandi di quanto si fosse pensato. Su scala così grande, la nube sarebbe soggetta a turbolenza, creando vasti vortici che in seguito si condenserebbero in sistemi separati. Questo modello perfettamente dialettico fu sviluppato nel 1944 dall’astronomo tedesco Karl F. von Weizsäcker e perfezionato dall’astrofisico svedese Hannes Alfvén.
Weiszäcker calcolò che ci sarebbe stata materia sufficiente nei vortici più ampi per creare galassie nel corso di un processo di contrazione turbolenta, dando luogo a vortici secondari, ognuno dei quali avrebbe potuto produrre sistemi solari e pianeti. Hannes Alfvén compì uno studio particolare del campo magnetico solare. Nel primo stadio della sua esistenza, il Sole ruotava su se stesso ad un’alta velocità, ma col tempo venne rallentato dal suo campo magnetico, il che trasmetteva momento angolare ai pianeti. La nuova versione della teoria di Kant-Laplace, come sviluppata da Alfvén e Weizsäcker, è ora generalmente accettata come versione più probabile delle origini del sistema solare.
La nascita e la morte delle stelle costituisce un esempio ulteriore del modo di operare dialettico della natura. Prima di esaurire il proprio combustibile nucleare, la stella vive un lungo periodo di pacifica evoluzione che dura milioni di anni. Ma quando raggiunge il punto critico, subisce una fine violenta, crollando sotto il proprio peso in meno di un secondo. In questo processo, essa emette una quantità colossale di energia sotto forma di luce, emettendone in pochi mesi più di quanto il nostro Sole ne generi in un miliardo di anni. Eppure questa luce rappresenta solo una piccola parte dell’energia totale di una supernova. L’energia cinetica dell’esplosione è dieci volte maggiore; e forse una quantità dieci volte maggiore di quest’ultima viene portata via sotto forma di neutrini, emessi in un lampo che dura un attimo. Gran parte della massa della stella viene sparsa nello spazio. L’esplosione di una supernova nei pressi della Via Lattea scagliò lontano la sua massa, ridotta in ceneri nucleari contenenti una gran varietà di elementi. La Terra e tutto quello che c’è in essa, noi compresi, è composta interamente da questa polvere di stelle riciclata; il ferro nel nostro sangue è un tipico esempio di detriti cosmici riciclati.
Queste rivoluzioni cosmiche, come quelle sociali, sono avvenimenti rari. Nella nostra galassia, negli ultimi mille anni sono state registrate solo tre supernove. Quella più brillante, osservata dagli astronomi cinesi nel 1054, produsse la nebulosa del Granchio. Inoltre, la classificazione delle stelle ha portato alla conclusione che non c’è nessun tipo nuovo di materia nell’universo; la stessa materia esiste ovunque. Le caratteristiche principali degli spettri di tutte le stelle vengono definite in termini di sostanze presenti sulla Terra. Lo sviluppo dell’astronomia ad infrarossi ha fornito il mezzo per esplorare l’interno delle nubi interstellari oscure, che sono probabilmente il sito di formazione della maggior parte delle nuove stelle. La radioastronomia ha cominciato a rivelare la composizione di queste nubi: principalmente idrogeno e polvere, insieme a una mistura di alcune molecole sorprendentemente complesse, molte delle quali di natura organica.
La nascita del nostro sistema solare circa 4,6 miliardi di anni fa ebbe inizio da una nube di detriti frantumati di una stella ormai estinta. Il Sole attuale si condensò al centro di una nube piatta rotante, mentre i pianeti si svilupparono in diversi punti intorno al Sole. Si ritiene che i pianeti esterni – Giove, Saturno, Urano, Nettuno e Plutone – siano un campione della nube originaria: idrogeno, elio, metano, ammoniaca e acqua. I pianeti interni, più piccoli – Mercurio, Venere, Terra e Marte – sono più ricchi di elementi più pesanti e più poveri di gas come elio e neon, che hanno potuto sfuggire alle loro gravità più deboli.
Aristotele pensava che tutto sulla Terra fosse destinato a perire, ma che i cieli stessi fossero immutevoli ed immortali. Ora la nostra conoscenza ci dice cose ben diverse. Mentre scrutiamo meravigliati l’immensità del cielo notturno, sappiamo che ognuno di questi corpi celesti che illuminano l’oscurità un giorno si estinguerà. Non solo gli uomini e le donne mortali, ma le stelle stesse, che portano i nomi degli dèi, subiscono l’agonia e l’estasi di cambiamento, nascita e morte. E, in qualche modo, questo fatto ci porta più vicino al grande universo della natura, dal quale siamo venuti e al quale dovremo un giorno tornare. Il nostro Sole dispone attualmente di abbastanza idrogeno per durare miliardi di anni nel suo stato attuale. Infine, però, aumenterà la sua temperatura al punto che la vita sulla Terra diventerà impossibile. Tutti gli individui devono perire, ma la meravigliosa diversità dell’universo materiale in tutta la sua miriade di manifestazioni è eterna ed indistruttibile. La vita sorge, scompare e risorge ancora. Così è stato e così sarà per sempre.
Note
1. Citato da Eric Lerner, Il Big Bang non c’è mai stato, pag. 245.
2. Ibid., pag. 180.
3. Ibid., pag. 187.
4. Ibid., pag. 61.
5. The Rubber Universe [L’universo di gomma], pagg. 11 e 14, enfasi nostra. Preso dal programma del canale Tv britannico “Channel Four”.
6. Steven Weinberg, I primi tre minuti.
7. Paul Davies, Gli ultimi tre minuti, pag. 127-128-129-130.
8. Lerner, op. cit., pag. 34.
9. Ibid., pagg. 74, 226, 241, 248.
10. Ibid., pagg. 181-2 e 252.
11. Ibid., pag. 177.
12. Ferris Timothy, The World Treasury of Physics, Astronomy and Mathematics, p. 204.
13. S. W. Hawking, Dal Big Bang ai buchi neri, una breve storia del tempo, pagg. 52-3.
14. Ibid., pagg. 64-65 e 49.
15. Engels, Anti-Dühring, pag. 50.
16. Ibid., pag. 89.
17. Hawking, op. cit., pagg. 69 e 108-9.
18. Ibid., pag. 109.
19. Engels, Dialettica della Natura, pagg. 68-9.
20. Hawking, op. cit., pagg. 136-7.
21. Engels, Anti-Dühring, pagg. 49.
22. Lerner, op. cit., pag. 190.
23. James Davidson e William Rees-Mogg, op. cit., pag. 447.
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