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1968-1969. Un biennio rivoluzionario

di Alessandro Giardiello

 

Prima del ’68

Gli anni ‘50 furono anni di forte repressione padronale e di arretramenti costanti per la classe operaia. Solo alla Fiat vennero licenziati 3000 lavoratori comunisti e nei fatti la Cgil era ridotta in fabbrica alla semiclandestinità. Nella primavera del ‘60 Gronchi affidò l’incarico per formare il governo a Tambroni, uomo “d’ordine” come lui stesso amava definirsi; il suo governo ottenne il voto di fiducia in Parlamento grazie ai monarchici e al Msi. I fascisti si sentirono legittimati e nel giugno del ‘60 convocarono il loro congresso a Genova dove venne annunciata la presenza di Basile, ultimo prefetto di Genova durante la Repubblica di Salò e responsabile della morte e la deportazione di operai e comunisti genovesi.

La risposta non si fece attendere. Il 30 giugno del ‘60 decine di migliaia di operai (in gran parte giovani) scesero in piazza pronti all’insurrezione. Le organizzazioni partigiane locali formarono un Comitato di Liberazione Nazionale pronto ad assumere il potere. In questa atmosfera il prefetto di Genova vietò il congresso del Msi.

Per tutta risposta Tambroni dichiarò lo stato d’emergenza e autorizzò la polizia a sparare sui manifestanti. A Licata in Sicilia, il 5 luglio venne assassinato un giovane e altri 5 manifestanti riportarono ferite gravi. Il 7 luglio a Reggio Emilia 5 dimostranti furono uccisi e 19 feriti. La Cgil proclamò il giorno dopo lo sciopero generale nel quale la polizia sparò contro i manifestanti provocando altri morti a Palermo e Catania.

La Dc, allarmata per la situazione semi-insurrezionale che si stava generando nel paese spinse Tambroni a dimettersi. Una svolta autoritaria era impraticabile. I due anni successivi vedranno dunque un lento avvicinamento tra la Dc e il Psi.

Nel 1960 le ore di sciopero furono 46.289.000; ma la diga si era aperta e nel ‘62 ci fu un ulteriore impennata della mobilitazione operaia (181.732.000 ore di sciopero).

Si stava entrando nel periodo di massima espansione del capitalismo italiano. Nel quinquennio ‘59-’63 la produzione manifatturiera salì mediamente ogni anno del 10,1%, la produttività per occupato del 7,6%, gli investimenti del 13,8%.

L’espansione economica e il conseguente calo della disoccupazione (nel ‘61 i senza lavoro erano 800mila, il 3,9% della forza lavoro) aveva aumentato la fiducia dei lavoratori, che scioperarono rivendicando che una parte dei profitti padronali entrassero in busta-paga.

Tradizionalmente la situazione in Italia era di bassi salari e quello economico fu l’aspetto dominante delle lotte sociali nel ‘62. In quell’anno le principali categorie entrarono in lotta: insegnanti, braccianti, lavoratori della gomma e dell’industria cartaria, poligrafici, tessili, metalmeccanici.

Durante uno sciopero del saponificio di Ceccano (in provincia di Frosinone) un operaio venne ucciso dalla Polizia con un colpo d’arma da fuoco. Il fatto spinse le organizzazioni sindacali ad organizzare uno sciopero della categoria al quale parteciparono 1.200mila metalmeccanici.

Sessantamila lavoratori entrarono in sciopero a Mirafiori il 23 giugno, Valletta riuscì a far firmare un accordo separato a Uil e Sida (sindacato giallo aziendale). La risposta dei lavoratori fu particolarmente dura, 72 ore di sciopero che passarono alla storia per quanto avvenne a Piazza Statuto (dove era situata la sede della Uil torinese).

Un numero considerevole di giovani operai affluirono nella piazza per contestare il gruppo dirigente della Uil. Gli scontri con la polizia continuarono tutta la notte. 291 di loro vennero fermati e 38 imprigionati.

I dirigenti sindacali accusarono i manifestanti di Piazza Statuto di essere dei “teppisti senza partito”. Ma la realtà era un’altra. Non era impossibile che qualche provocatore si fosse infiltrato tra loro, ma resta il fatto che i principali protagonisti di Piazza Statuto erano quella nuova generazione di operai (in gran parte immigrati) che non si riconosceva nei vertici sindacali e che si sarebbe resa protagonista in seguito di lotte estremamente radicali. Piazza Statuto era un’anticipazione di quanto si sarebbe visto nell’Autunno caldo.

La Dc preoccupata dalle mobilitazioni (scese sotto il 40%, mentre il Pci salì di due punti) sposò la svolta “riformatrice”.

D’accordo con i settori più lungimiranti della borghesia (i grandi gruppi privati tra cui Fiat, Olivetti, Pirelli e nel settore pubblico il presidente dell’Eni, Enrico Mattei) cercò il coinvolgimento dei socialisti nell’area di governo e attraverso di loro aprì un dialogo con il Pci.

Nel dicembre del ‘63 si formò il primo governo di centrosinistra (Moro era il presidente del consiglio, Nenni il segretario del Psi né sarà il vice). La sinistra socialista fortemente contraria all’accordo si scinderà dal partito nel gennaio del ‘64 dando vita al Psiup (Partito socialista di unità proletaria).

Il tentativo del capitalismo italiano era di ottenere con il consenso di una parte del movimento operaio quello che non era più ottenibile con l’attacco frontale. Si aprì l’epoca del “riformismo senza riforme”, l’ipotesi “razionalizzatrice” sulla quale si muovevano Nenni e il gruppo dirigente del Psi.

Dopo un quinquennio il bilancio del centrosinistra tracciato da uno storico liberale quale Paul Ginsborg, non sospettabile di simpatie marxiste era il seguente: “Poche erano le riforme realizzate e quasi sempre in modo parziale: l’industria elettrica era stata nazionalizzata, ma in una maniera che aveva permesso agli ex monopoli di mantenere un enorme potere finanziario; il massimo che si era potuto ottenere nella questione cruciale della pianificazione urbanistica era la “legge ponte” del 1967, la cui applicazione era poi stata rinviata di un anno. La scuola media dell’obbligo fino ai quattordici anni era un fatto compiuto, ma i contenuti arcaici e l’organizzazione della scuola superiore e dell’università non erano stati toccati. La legge Pieraccini sulla programmazione era affondata senza lasciare traccia. Non c’era stata né riforma fiscale né riforma burocratica, non era stato introdotto il sistema sanitario nazionale né la riforma dei patti agrari o della federconsorzi. Anche l’istituzione delle regioni, così spesso promessa come una assoluta priorità non era stata portata a termine. Si trattava, a tutti gli effetti, di un bilancio assai misero…”

Il Psi, integrato sempre di più in una logica governista, nel ‘66 si riunificherà con i socialdemocratici e chiuderà miseramente nel ‘69 la sua esperienza di governo fortemente indebolito in termini di militanza e consensi elettorali e senza aver fatto avanzare di un millimetro le condizioni di vita dei lavoratori.

L’alleanza di una parte del movimento operaio con lo schieramento borghese progressista non poteva fare alcuna riforma come le precedenti esperienze avevano dimostrato.

La recessione del ‘63 e il ricatto occupazionale che ne seguì (nel ’66 i disoccupati tornarono ad essere 1.200.000) arrestò le mobilitazioni operaie.

Le rivendicazioni salariali passarono in secondo piano e per i lavoratori divenne prioritario difendere il posto di lavoro. Nel ‘65 mezzo milione di metalmeccanici erano in Cassa Integrazione.

Si avviò un piano di ristrutturazioni aziendali, accompagnato da un’intensificazione dello sfruttamento operaio. Tra l’agosto del ‘64 e l’agosto del ‘65 l’occupazione nell’industria diminuì del 5,2%, mentre la produttività del lavoro aumentò del 14,5%.

Verso la fine del ‘65 l’economia si riprese e questo condizionò positivamente la vertenza contrattuale dei metalmeccanici nel ‘66, dove si assisterà a una maggiore combattività operaia anche se limitata al piano economico. I risultati però non saranno soddisfacenti, i dirigenti sindacali svenderanno gli interessi dei lavoratori, firmando un accordo molto al di sotto delle aspettative.

Fu questa una delle cause che determinò il forte clima di contestazione contro il sindacato che si respirava all’inizio delle mobilitazione operaie nel ‘68 e che costrinse la Cgil, per tutto un periodo a “rincorrere i lavoratori”.

La Rivoluzione mondiale era incominciata?

Verso la fine del ‘67, decine di migliaia di giovani italiani giunsero alla conclusione che andava spezzato il dominio del grande capitale sul sistema formativo e sulla società in generale e decisero di impegnarsi attivamente nella “lotta rivoluzionaria”.

Il contesto fu decisivo in questo processo perché spinse gli studenti a sentirsi parte di una lotta anticapitalista, che si stava generalizzando sul piano internazionale.

I nodi venivano al pettine e le contraddizioni che si erano accumulate nel dopoguerra esplodevano in tutta la loro radicalità, in forme impensabili per i dirigenti “ufficiali” del movimento operaio, che erano chiaramente impreparati a una svolta così repentina.

Il boom degli anni ’50 e ‘60 aveva condotto gran parte di loro a concludere che il mercato avesse superato le sue contraddizioni fondamentali. Le concezioni riformiste e redistributive erano andate così rafforzandosi non solo nei partiti socialdemocratici (si pensi al congresso della Spd tedesca a Bad Godesberg nel ‘59, dove venne cancellato ogni riferimento alla prospettiva socialista) ma anche nei partiti comunisti, seppure a ritmi diversi.

Ma a un certo punto queste tesi vennero messe in discussione dagli stessi militanti di quelle organizzazioni, che divennero ricettivi, dopo un ventennio che questo non avveniva, alle idee del marxismo.

Lo sguardo era rivolto in particolare alle rivoluzioni nei paesi coloniali. In Africa, Asia e America Latina andava sviluppandosi un movimento di liberazione nazionale contro l’imperialismo. La guerra nel Vietnam e i crimini perpetrati dagli Usa contro i popoli coloniali ebbero un impatto di massa anche in Occidente.

La parola d’ordine del rivoluzionario argentino Ernesto Che Guevara, assassinato in Bolivia nel ‘67, “Dieci, cento, mille, Vietnam”, penetrò profondamente nella coscienza di milioni di persone che si riversarono nell’attività politica.

In un contesto del genere non era sorprendente che le teorie guerrigliere, fochiste, insurrezionaliste prendessero piede, soprattutto in mancanza di un movimento significativo della classe operaia occidentale, che si sviluppò solo in seguito a partire dal maggio ‘68.

Queste concezioni si mescolarono con il maoismo. Nel ‘66-’67 la “rivoluzione culturale” cinese venne vista (in Italia più che in altri paesi) come una rivoluzione antiburocratica. Tutti i “gruppi rivoluzionari” che sarebbero sorti in seguito divennero maoisti o vennero pesantemente influenzati da quelle concezioni.

In realtà lo scontro che vedeva impegnati Mao e Liu Shao-Chi era uno scontro tra burocrazie rivali che si contendevano il controllo dello Stato e del Partito comunista cinese. Le frasi del “Grande timoniere”: “Sparare sul quartier generale”, “che cento fiori fioriscano” vennero interpretate come una rivoluzione politica contro la banda di burocrati “che voleva restaurare il capitalismo”.

Le vere cause del conflitto erano altre: il regolamento di conti venne determinato dalle enormi tensioni, politiche, sociali ed economiche che andavano accumulandosi nel paese. Mao era stato responsabile degli insuccessi economici dei piani quinquennali negli anni precedenti, oltre che dei fallimenti cinesi in politica estera.

Sulla base di questa esperienza una parte della burocrazia che si opponeva a Mao voleva “razionalizzare” la produzione nelle campagne facendo delle concessioni alla piccola distribuzione per rispondere alla crisi dell’economia agricola, troppo arretrata per sopportare una collettivizzazione rigida.

Non a caso quando Mao vinse la disputa strumentalizzando la radicalizzazione dei giovani cinesi, e si assicurò il controllo dello Stato, tolse ogni spazio democratico alle guardie rosse; con misure draconiane si impedì alle masse di esercitare alcun controllo sulle leve principali del potere, che rimasero ben salde nelle mani della burocrazia.

Il maoismo non era un’alternativa di sinistra allo stalinismo, fino al punto che la Cina nel ‘73 fu il primo stato a riconoscere la giunta militare di Pinochet che aveva assassinato Salvador Allende e migliaia di attivisti della sinistra cilena.

A questo non diede molta importanza il movimento in Italia che subì una vera e propria infatuazione per il maoismo.

La rivolta studentesca

Nell’autunno del ‘67 ebbe inizio il movimento delle occupazioni nelle università italiane. L’elemento scatenante fu la presentazione della legge 2314 del ministro Gui. In sostanza la proposta di legge mirava a introdurre dei criteri di selezione scolastica in un contesto nel quale i livelli di selezione erano già molto alti.

L’istruzione era gestita secondo criteri elitari e fortemente autoritari. Utilizzando una definizione di Guido Viale, leader delle lotte universitarie a Torino, gli esami orali erano l’occasione in cui “un poliziotto denominato per l’occasione docente, liquida in 5-10 minuti l’imputato con una serie di domande”.

Dal ’61 al ’67, in seguito alle riforme sull’estensione dell’obbligo scolastico (1962) e alla liberalizzazione dell’accesso alle università scientifiche da parte degli studenti degli istituti tecnici (1961), il numero degli studenti universitari raddoppiò, arrivando a circa mezzo milione. Nel 1968 le università di Roma, Napoli e Bari avranno rispettivamente, 60mila, 50mila e 30mila studenti quando erano state programmate per non averne più di 5mila.

La condizione degli studenti-lavoratori era particolarmente intollerabile.

Chi non era “figlio di papà” doveva lavorare per mantenersi gli studi, lo Stato non garantiva nessun tipo di borse di studio o di sussidi e la selezione scolastica era molto alta. Oltre l’80% di chi aveva un diploma di scuola superiore entrava all’università, ma di questi solo il 44% riusciva a laurearsi. È inutile dire che i più colpiti fossero proprio i figli dei lavoratori e dei ceti meno abbienti, che da qualche anno cominciavano ad accedere all’università in numero consistente.

Ma questo di per se non era sufficiente a provocare una reazione di tali dimensioni. La legge Gui non venne vista come una proposta a se stante, ma inserita in un quadro più ampio derivante dall’oppressione capitalista.

La società andava radicalizzandosi a tal punto che le prime occupazioni iniziarono proprio nelle università cattoliche di Trento e di Milano. Due università pensate e programmate per “riprodurre la classe dominante” e dove la Dc aveva formato negli anni precedenti gran parte dei propri quadri dirigenti.

Nella primavera del ‘68 il movimento si diffuse anche nelle università di provincia. Lo stesso avvenne nelle scuole superiori.

La repressione poliziesca non fermò la mobilitazione. Anzi, dopo averne prese tante, gli studenti che fino ad allora erano stati assolutamente pacifici giunsero alla conclusione che era necessario difendere la loro incolumità fisica.

Avvenne così che il 1° marzo del ‘68 a Valle Giulia, gli studenti romani malmenati dalla Polizia e cacciati dalla facoltà di Architettura decisero di “non scappare più” e risposero all’aggressione. Alla fine ebbero la meglio e la polizia fu costretta ad indietreggiare.

Si parla molto oggi della violenza di quegli anni, ma nessuno dice mai che a provocarla non furono gli studenti ma lo Stato “democratico” che assassinò decine di attivisti e picchiò selvaggiamente decine di migliaia di manifestanti, trasformando ogni manifestazione pacifica in una guerra vera e propria.

I limiti ideologici del movimento studentesco

La sventura degli studenti del ‘68 fu quella di non trovare all’interno del Pci e del Psiup (da cui provenivano in gran numero i leader del movimento, eccetto quelli del cattolicesimo di base) delle alternative credibili al riformismo dei gruppi dirigenti della sinistra ufficiale.

L’assenza di riferimenti stabili li spinse ad abbandonare quelle organizzazioni, tentando di riprodurre nella propria specificità un nuovo impianto teorico.

Il risultato fu quello di riprodurre a livello locale, in ogni università, in ogni scuola, dei “poli teorici” differenziati, che in seguito diedero la base ideologica alla formazione di una innumerevole quantità di “partiti rivoluzionari”.

Ma come aveva dimostrato l’esperienza degli anni ‘20, la questione del partito rivoluzionario non poteva essere risolta in termini semplici. Un partito non si improvvisa in pochi mesi: è necessario un lungo periodo di consolidamento e una sperimentazione dei quadri e dei militanti nelle fasi di avanzamento come in quelle di riflusso del movimento.

Solo verificando nella pratica dell’azione, le proprie posizioni teoriche e politiche si può conquistare l’autorità sufficiente tra le avanguardie prima e tra le masse poi, per farsi carico delle responsabilità di direzione, non cedendo né alle pressioni della classe dominante e dei riformisti, né alle tentazioni estremiste.

In mancanza di una forza di quelle caratteristiche emergeranno ogni tipo di semplificazioni teoriche che, nella primavera-estate del ‘68, fecero entrare il movimento in una crisi di strategia.

Una conoscenza più approfondita del marxismo e dell’esperienza storica del movimento operaio (che a detta degli stessi leader studenteschi risultava essere molto carente) avrebbe impedito che si commettessero certe ingenuità, a partire dalla lettura unilaterale che venne data del sistema capitalistico: un sistema che, per gli attivisti di quegli anni, era senza margini di mediazione, senza contraddizioni interne alla classe dominante e in cui tutto era o bianco o nero.

Da questo tipo di concezione derivava una estremizzazione esasperata di ogni aspetto politico e una scarsa scientificità nell’analizzare i processi.

Questo si traduceva in una incomprensione di fondo del ruolo delle organizzazioni storiche della sinistra (Pci, Psi, Psiup e sindacati) e del rapporto dialettico che avevano con il movimento operaio, la sottovalutazione di ogni questione tattica e un attivismo senza freni che sfociava in una vera e propria pratica volontarista (“questo è l’obiettivo e me lo prendo”) senza tener conto dei rapporti di forza, del contesto sociale, dei processi reali che obbligano un movimento per forza di cose a dotarsi di una strategia.

Come dirà Guido Viale: “… i leaders finiscono col porre sempre più l’accento sull’essere e sul fare che sui dati dell’analisi e dell’apprendimento, e quest’ultimo si riduce ad una coscienza demistificata del proprio essere, della propria condizione… lo studente deve scoprire, nel collettivo, che cosa sia repressione attraverso una descrizione e una riflessione sulla sua propria esperienza. Analogamente, si intenderà la natura dell’imperialismo solo attraverso la spiegazione della condizione dello studente negli Stati Uniti per rapporto alla politica internazionale degli stessi. L’apprendimento è, insomma, ravvicinato nel cuore dell’esperienza diretta e singola, di modo che diventa, immediatamente, scelta morale, conseguenza di atteggiamento o di attività.”

Il maggio ‘68 in Francia e la ripresa delle lotte operaie in Italia aiutarono gli studenti a capire i limiti delle concezioni “terzomondiste” e a ricredersi sul ruolo della classe operaia occidentale, che a differenza di quanto pensavano certi intellettuali “marxisti”, non si era affatto imborghesita ma continuava ad avere un ruolo fondamentale nel processo rivoluzionario.

In poco tempo si sciolsero come neve al sole quelle teorie (tra queste le più significative quella dei teorici della scuola di Francoforte) che non riconoscevano il ruolo centrale della classe operaia e che avevano avuto un certo peso nelle discussioni delle università occupate (in particolare nel primo periodo a Pisa, Trento e Torino).

Come ebbe modo di dichiarare Luigi Bobbio: “La mobilitazione attorno alla centralità operaia, emerse in modo dirompente ed esplosivo, in qualche modo ha arrestato lo sviluppo policentrico dei movimenti, li ha risucchiati ricostituendo un centro. Attraverso questo centro sono poi passate tutte le vecchie concezioni organizzative di matrice terzinternazionalista.”

Ovviamente Bobbio aveva una visione negativa della tradizione terzinternazionalista. Coerentemente con la linea assunta da Lotta continua, che lui stesso affermerà essere più che un partito “uno stato d’animo”, si affiderà ciecamente solo allo spontaneismo delle masse.

Per parte nostra possiamo dire che quelle concezioni (quelle dei primi quattro congressi della Terza Internazionale, precedenti alla degenerazione staliniana) avrebbero aiutato non poco gli attivisti del ‘68, visto che chi guidava quella Internazionale una rivoluzione in Russia nel ‘17 l’aveva fatta, e poteva di certo fare scuola sul terreno della strategia e della tattica rivoluzionaria.

Quando nel ‘68 esploderanno le prime mobilitazioni operaie, gli studenti, che avevano teorizzato “l’autonomia dei movimenti”, si trovarono catapultati davanti ai cancelli delle fabbriche. Fu il movimento operaio che li tirò fuori dalla crisi e li riorientò dando loro una prospettiva.

I due movimenti si attrassero vicendevolmente e si verificò una sorta di “osmosi” che ebbe effetti fecondi nelle due direzioni. È innegabile infatti il ruolo positivo che gli studenti ebbero nel politicizzare la lotta operaia, particolarmente nella prima fase, come venne riconosciuto in più occasioni dagli stessi attivisti sindacali e militanti del Pci.

Esplode la rabbia che “fa cadere le statue”

Ciò che caratterizzò più di ogni altra cosa le lotte operaie del ‘68 furono la spontaneità, le forme di agitazione estremamente radicali e la forza che avranno nel far saltare ogni logica concertativa e prerogativa sindacale nella gestione delle vertenze.

Già nel ‘67 si era verificato un fatto nuovo, quelle che storicamente venivano definite le “aristocrazie operaie” e che ai tempi di Lenin rappresentavano il sostegno fondamentale alle burocrazie sindacali avevano subìto un processo di forte proletarizzazione (riduzione dei privilegi e dei salari).

Avvenne così che gli operai altamente specializzati dell’Olivetti e i tecnici della Snam, anticipando gli operai comuni, rifiutarono le soluzioni delle burocrazie sindacali mettendo in discussione l’organizzazione sociale del lavoro e l’uso capitalistico che veniva fatto delle macchine nel processo di sfruttamento della forza lavoro. Lo stesso fenomeno si era visto in Francia con l’irrompere dei tecnici nella lotta di classe, i quali giocarono un ruolo fondamentale nel maggio ‘68.

Quando si scatenarono gli scioperi spontanei in centinaia di aziende si aprì una contraddizione abissale tra gli operai che spingevano e i vertici sindacali che “frenavano” sentendosi vincolati ai “preamboli contrattuali” firmati nel ‘62 con Confindustria, che sostanzialmente erano degli accordi di contenimento salariale che oggi chiameremo comunemente di concertazione sindacale.

Ma la radicalità operaia sarà così forte da far saltare ogni tipo di “tregua sociale” aprendo lo scontro sul piano aziendale.

Già il 7 marzo del ‘68 la Cgil, sotto la pressione operaia, convocò da sola, senza Cisl e Uil uno sciopero generale per la difesa delle pensioni: il successo fu totale, molto al di là delle più rosee aspettative.

Le confederazioni si videro imporre dal basso l’apertura di una vertenza nazionale per l’abolizione delle “gabbie salariali”. A Latina e Taranto ci furono degli scioperi contro le direttive dal centro e così il sindacato fu costretto a “dirigere” una mobilitazione che non aveva affatto programmato e che andrà avanti per i due anni successivi, con lotte molto dure particolarmente al Sud, fino al raggiungimento dell’obiettivo.

Le lotte operaie iniziarono in quei settori che avevano sempre avuto un ruolo marginale nello scontro di classe. Tra questi, certamente i tessili.

Un violento processo di ristrutturazione nell’industria tessile provocò intense lotte operaie di cui certamente la più significativa fu quella delle lavoratrici e dei lavoratori della Marzotto di Valdagno (a prevalenza di manodopera femminile).

Valdagno era la classica città-fabbrica, costruita dalla famiglia Marzotto, nel lontano 1836. Basandosi sui valori della Chiesa cattolica e una buona dose di paternalismo, i Marzotto erano riusciti a tenere il conflitto per più di un secolo fuori dalla fabbrica. I lavoratori fino ad allora erano fortemente convinti che i loro interessi fossero strettamente legati a quelli del padrone e della comunità.

Ma quando l’azienda, come avvenne in altre fabbriche, aumentò i ritmi di lavoro, riducendo allo stesso tempo i salari (rendendo i premi del cottimo sempre più inaccessibili) e dichiarando 400 licenziamenti l’ira operaia esplose con una radicalità senza precedenti. I sindacati erano sempre stati deboli alla Marzotto ma questo non impedì ai lavoratori di rispondere con azioni spontanee agli attacchi del padrone.

Quelle “cattolicissime” mamme di famiglia e i loro compagni, il 19 aprile conclusero la manifestazione (alla quale erano presenti 4.000 lavoratori) abbattendo la statua di Gaetano Marzotto che stazionava nella piazza principale.

Rapidamente e con irruenza i lavoratori, “aiutati” dai manganelli dei poliziotti, compresero quanto era stato impossibile per loro comprendere nell’arco di generazioni e cioè che i loro interessi erano radicalmente opposti a quelli del padrone.

La lotta di Valdagno assunse un valore simbolico perché determinò la fine di un’epoca segnata dall’interclassismo, per aprirne un’altra in cui i lavoratori misero al di sopra di ogni cosa i propri interessi di classe.

Solo in un secondo momento scesero in campo i “battaglioni pesanti” della classe operaia: le grandi fabbriche del triangolo industriale, di Porto Marghera e le concentrazioni industriali del Sud Italia.

Fino ad allora il regime in fabbrica era basato su un rapporto sostanzialmente autoritario e in generale c’era un rigido rispetto della disciplina e dei ritmi che venivano imposti dalla gerarchia aziendale. Nonostante la ripresa delle mobilitazioni sindacali all’inizio degli anni ‘60 le cose non erano mutate di molto rispetto agli anni ‘50.

Nessuno nel movimento operaio e nel sindacato, neanche tra gli “operaisti”, immaginava neppure lontanamente che tipo di esplosione sociale andava preparandosi sotto la superficie. Il fatto che nel ‘67 gran parte delle riviste che si erano formate sull’onda delle mobilitazioni operaie del ‘60-’63 entrassero in crisi e chiusero i battenti (“Classe Operaia”, la rivista di Tronti, chiuse nell’estate del ‘67, lo stesso vale per i “Quaderni Rossi” che entrarono in crisi poco prima) dimostra fino a che punto gli intellettuali del movimento operaio fossero pessimisti sulle possibilità di una ripresa della conflittualità nelle fabbriche.

Era la calma che precedeva la tempesta.

Si stava preparando la più grande mobilitazione dal dopoguerra, con lotte che si articolarono nelle forme più variegate con l’obiettivo preciso di colpire il padrone nel modo più duro con il minimo danno per i lavoratori.

Si diffusero a macchia d’olio i cortei interni, gli scioperi a “singhiozzo”, a “gatto selvaggio”, a “scacchiera”, forme di controllo operaio sui ritmi di lavoro e in certi casi anche di sabotaggio.

Le rivendicazioni assunsero un forte connotato egualitaristico, un rifiuto netto ad ogni forma di collaborazione con il padrone e una “forte richiesta di socialismo” che veniva praticato nelle fabbriche con il controllo operaio sulla produzione, esercitato attraverso gli strumenti di democrazia operaia cui seppe dotarsi la classe a partire dai consigli.

Ognuna di queste lotte meriterebbe di essere conosciuta a fondo per la ricchezza di contenuti e l’originalità conflittuale che seppe esprimere, ma per carenza di spazio ci limiteremo a parlare delle tre fra le più significative sulle quali non a caso si formarono le principali organizzazioni dell’estrema sinistra italiana: Avanguardia Operaia, Potere Operaio e Lotta Continua.

Ci riferiamo alle lotte della Pirelli Bicocca, della Montedison di Porto Marghera e della Fiat di Torino.

La lotta alla Pirelli e il Comitato unitario di base

Alla Pirelli di Bicocca, il ‘68 era stato preceduto da un lungo periodo di divisioni sindacali, dove la Cisl e la Uil avevano un carattere particolarmente arretrato. Il contratto del ‘66 era stato firmato da Uil e Cisl ma non dalla Cgil.

La prima manifestazione unitaria dalla fine della Resistenza si tenne nel 1967 in occasione del contratto aziendale. Nonostante l’aumento della produzione c’èra una forte diminuzione dell’organico con un costante ricambio della manodopera. I ritmi erano forsennati e la tendenza generale era verso la dequalificazione.

Negli anni immediatamente precedenti c’era stato un leggero aumento dei minimi salariali (non paragonabile alla crescita della produttività) ma questi aumenti erano sempre più legati al risultato, agli straordinari e alla produttività (con un largo uso del cottimo e dei premi di produzione).

Crescevano così oltre misura le malattie nervose, gli infortuni, le intossicazioni e gli aborti delle lavoratrici a contatto con sostanze chimiche.

I lavoratori esasperati reagirono con slancio ed entusiasmo quando vennero chiamati alla lotta da Cgil-Cisl-Uil e videro con fiducia la ritrovata unità sindacale.

I vertici sindacali avevano fatto di tutto per evitare gli scioperi e le loro richieste erano molto modeste (moderati aumenti salariali, piccolissima riduzione d’orario, ritocchi sulla condizione normativa degli operai), ma l’atteggiamento padronale alla scadenza del contratto fu di chiusura totale.

Lo sciopero ebbe una risposta di massa e questo spaventò le direzioni sindacali che invece di organizzare un calendario di nuove e più energiche mobilitazioni “sospesero” l’agitazione.

Cisl e Uil decisero che la trattativa andava chiusa senza chiamare nuovamente alla lotta i lavoratori e nell’incontro tra le parti nel febbraio del ‘68 si dichiararono disposte a rinunciare a parte delle rivendicazioni unitarie, già così arretrate. La Cgil si dissociò in un primo momento ma non abbandonò il tavolo delle trattative finendo col firmare l’accordo. La reazione operaia fu rabbiosa, al punto che decine di iscritti alla Cisl, indignati dalla capitolazione dei dirigenti, strapparono le tessere del sindacato.

Poche ore prima della firma un gruppo di lavoratori denunciò con un volantino il fatto che i sindacati si apprestavano a firmare una piattaforma su basi molto arretrate. La richiesta fu quella di maggior democrazia sindacale e che tutto venisse deciso in assemblea dai lavoratori. Su queste basi vennero ricevuti molto bene dagli operai.

Gli autori del volantino (di cui una parte erano iscritti al Pci e alla Cgil) vennero sottoposti a una aggressione senza precedenti da parte della burocrazia sindacale, con calunnie e pressioni di ogni tipo.

Ma a metà marzo il gruppetto era ancora in piedi e si presentò a tutti i lavoratori con un volantino firmato Comitato Unitario di Base.

In quel volantino si spiegava che il Comitato unitario di Base (Cub) voleva essere un organismo ampio e unitario che comprendesse lavoratori di varie tendenze convergenti attorno all’obiettivo “di un rilancio deciso della lotta di classe in fabbrica, della direzione democratica di base delle lotte, dello stimolo in direzione di altre fabbriche affinché anche altrove sorgessero comitati unitari”.

Le rivendicazioni principali del Cub erano le seguenti:

– superare i limiti del contratto gomma con la lotta

– no al blocco dei salari, alla politica dei redditi che limita l’aumento salariale al di sotto dell’inflazione e non teneva conto dell’enorme aumento della produttività.

– no all’aumento dei ritmi

– no al “preambolo contrattuale” firmato dai sindacati che non prevedeva la possibilità di mobilitazione se non negli ambiti triennali previsti dal Contratto nazionale

– no alla mancanza di democrazia sindacale, no alle Commissioni interne che erano subordinate al sindacato centrale e non sottoposte al controllo dei lavoratori.

– ripresa delle mobilitazioni dal basso.

– un premio di produzione pari al 25% della paga più la contingenza

– aumento del salario annuo con la parificazione delle mensilità tra operai e impiegati

– abolizione delle condizioni nocive di lavoro. La salute non va contrattata né monetizzata

– aumento degli organici

– riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario

– sabato festivo

Nel volantino si precisava che: “Da quanto detto ed essendo questi i lineamenti politici del Comitato unitario di base è evidente che noi non vogliamo assolutamente formare un nuovo sindacato o scavalcare i sindacati esistenti. Vogliamo invece costruire un organismo che possa e sappia legare insieme la rivendicazione e la lotta, l’aspetto economico e quello politico, che sappia insomma costruire intorno a se una rete organizzativa permanente per la contestazione continua dello sfruttamento.”

Nel settembre del ‘68 il Cub promosse la ripresa delle lotte. La Cgil, subendo le pressioni dei lavoratori, intervenne in seguito prendendone la paternità. Cisl e Uil si tennero fuori.

La direzione della Cgil, se da una parte recepì la pressione operaia dall’altra attuò delle manovre per far naufragare le mobilitazioni: prima rinviando il più possibile gli scioperi, poi tentando di limitare le richieste a obiettivi prettamente salariali (lasciando da parte la riduzione d’orario).

Il padrone preoccupato della crescita impetuosa delle lotte di reparto tentò l’arma della repressione. A inizio ottobre nel reparto decisivo, l’8655 vennero tagliati i tempi di produzione. Il reparto entrò in sciopero immediatamente, il padrone replicò con la serrata in 5 reparti. Scattò lo sciopero in fabbrica e il 3 ottobre si fermò tutto. L’adesione fu del 100%.

Il Cub con un volantino, il 6 ottobre, fece appello a continuare la lotta e a non interromperla durante le trattative.

I sindacati decisero invece di interrompere le lotte durante le trattative e i sindacalisti della Cgil, il 9 ottobre alla sera, si presentarono davanti alla fabbrica per convincere gli operai a non scioperare. Gli operai del turno di notte entrarono in fabbrica ma non andarono a lavorare, facendo un corteo interno e alle 4 di mattino uscirono dalla fabbrica per picchettarla. Di fronte alla contrarietà della base, la Cgil alle 5 del mattino fu costretta a proclamare da sola lo sciopero di fabbrica.

Le lotte proseguirono fino a quando il padrone non fu costretto a cedere, almeno parzialmente.

È interessante vedere quali contraddizioni attraversarono le organizzazioni politiche presenti nella fabbrica: mentre il gruppo dirigente del Pci era completamente assente dalla contesa, molti militanti comunisti erano attivi nel Cub, nel quale, come è risaputo, in una prima fase non c’erano solo gli studenti e gli operai che avrebbero dato vita ad Avanguardia Operaia.

La situazione era invece rovesciata nel Psiup che vedeva i militanti di base generalmente schierati sulle posizioni ufficiali della Cgil mentre la federazione provinciale, a differenza di quella del Pci, dava un appoggio di massima ai Comitati di base.

Questo dimostrerebbe come il Pci, nonostante il vertice avesse una politica ben più moderata del Psiup, avendo radici più profonde nel movimento di massa aveva una base più permeabile dagli umori generali che attraversavano la classe operaia.

Non a caso quando il movimento, nell’Autunno caldo, si generalizzò fu il Pci a beneficiarne in termini di militanza organizzata più di chiunque altro, nonostante la sua situazione nelle fabbriche prima del ‘68, particolarmente a Torino e Milano, fosse di crisi profonda.

La calda estate di Porto Marghera

Nell’estate del ‘68 l’assemblea operai-studenti che firmava i propri volantini con la sigla di Potere Operaio diresse il movimento dei lavoratori alla Montedison.

I leader della lotta erano in grande maggioranza operai specializzati, con una certa tradizione sindacale alle spalle.

La mobilitazione operaia cominciò il 21 giugno del ‘68 quando si fece il primo sciopero per ottenere il premio di produzione, a cui parteciparono tutte le fabbriche del gruppo a Porto Marghera. Nell’occasione ci fu l’incontro tra gli studenti e gli operai, che si trovarono insieme a fare i picchetti.

Il 27 giugno ci fu un secondo sciopero con assemblea nella quale si decise di proclamare il blocco della produzione a giorni alternati per il 2-4-6-8 luglio. Ma il sindacato dopo un incontro con le rappresentanze studentesche (1 luglio) e la riunione dei direttivi sindacali congiunti decise di ritirare gli scioperi alternati.

Quando nelle assemblee venne comunicata questa decisione la reazione fu dura e si verificarono incidenti fra operai e sindacalisti.

Il 3 luglio gli attivisti operai si ritrovarono per discutere la situazione alla facoltà occupata di Architettura a Venezia e lì decisero di scioperare ugualmente il 5. La Camera del Lavoro di Mestre venne assediata dagli operai che si presenteranno con un atteggiamento piuttosto minaccioso.

Il 12 luglio, a un’assemblea Cgil al cinema Piave, si verificano scaramucce fra sindacalisti e studenti. Gli operai imposero il controllo assembleare della lotta e il nuovo calendario dell’agitazione.

Nei giorni successivi i dirigenti sindacali tentarono di provocare la rottura della solidarietà sindacale alla Vetrocoke e alla Petrolchimica con tanto di provocazioni contro i capi operai.

Il 18 luglio si svolse la prima colossale manifestazione operaia a Venezia dal dopoguerra, con il blocco del cavalcavia di Mestre e del ponte di Venezia.

Il 25 luglio i picchetti di massa furono molto duri, così come lo sciopero; il padrone avviò una trattativa con la Commissione Interna per “garantire i servizi minimi” i cosiddetti “indispensabili” che vennero concessi in numero ridotto.

Ma il 29 luglio ci fu nuovamente un blocco totale della fabbrica senza alcuna garanzia sugli “indispensabili” che alla fine non vennero concessi. Il 31 luglio, nuovo blocco totale della produzione.

Il 1° agosto il padrone decise la serrata provocando lo sciopero in tutte le altre fabbriche con manifestazione a Mestre e blocco del cavalcavia e della stazione ferroviaria.

Il giorno dopo iniziò a Roma la trattativa fra sindacati, governo e padroni dove si raggiunse l’accordo che solo parzialmente andava incontro alle richieste operaie.

La serrata alla Petrochimica si concluse nel primo pomeriggio. Alle 17.00 i primi gruppi di operai entrarono in fabbrica.

L’accordo sindacale deluse gli operai ma l’assemblea non lo respinse. Dopo 13 scioperi in 40 giorni e senza una direzione sindacale adeguata non c’erano più le condizioni per continuare la mobilitazione, che comunque riprenderà con più forza dopo qualche mese.

La conclusione erronea a cui giunse Potere operaio fu che la lotta aveva dimostrato che non aveva più senso parlare di tradimento dei sindacati. Questa era una questione superata perché “superati” erano i sindacati e il tradimento era congenito nel loro carattere di “organi dello Stato capitalista”.

Quel tipo di considerazioni non potevano essere condivise da tutti gli attivisti ed erano fortemente condizionate dagli intellettuali del gruppo e dagli studenti lì presenti. Questo li condusse ad estraniarsi sempre più dalla massa dei lavoratori perdendo quel consenso che era stato possibile ottenere in una prima fase rapportandosi correttamente con i sindacati, criticandoli per le scelte sbagliate ma senza contrapporsi frontalmente ad essi paragonandoli al nemico di classe.

Posizione tanto più assurda se si considera che alcuni tra i migliori attivisti di Potere Operaio erano stati iscritti per anni a quella organizzazione del “nemico di classe”. È importante annotare infatti, che tra i più attivi militanti di Potere operaio in fabbrica, c’era persino un membro della Commissione Interna e storico iscritto alla Cgil, Italo Sbrogiò, che successivamente verrà espulso dal sindacato di categoria (nel giugno del ‘69), con il parere contrario della Camera del lavoro territoriale.

La svolta alla Fiat e la nascita di Lotta continua

Alla Fiat negli anni del boom le condizioni di lavoro erano andate peggiorando notevolmente con l’intensificazione dei ritmi di lavoro.

Il sindacato in fabbrica era molto debole. A Mirafiori, con oltre 50mila lavoratori occupati, c’era una commissione interna che poteva contare solo su 18 attivisti. Il tasso di sindacalizzazione era molto basso soprattutto tra i giovani, che a migliaia entravano nella fabbrica ogni anno, in gran parte immigrati dal sud Italia.

Il primo battito dei lavoratori ci fu alle Ausiliarie, nell’aprile del ‘69, un reparto in cui il Psiup aveva una certa forza, e dove veniva richiesto il passaggio di categoria, aumenti salariali e l’elezione dei delegati di reparto.

Già in alcune fabbriche del torinese (Castor, Singer, Ignis, ecc.) si erano firmati degli accordi che si proponevano di regolamentare il lavoro sulle linee e dei cottimi. Nei fatti in quegli accordi che si erano realizzati in primo luogo nell’industria leggera (elettrodomestici) nacque il “capocottimo” (come era stato definito nell’accordo alla Singer) figura che presto si sarebbe diffusa in molte fabbriche e che ebbe un ruolo centrale nell’Autunno caldo.

Il delegato di reparto infatti, da “controllore operaio” del cottimo si trasformerà, sull’onda delle mobilitazioni, nel rappresentante sindacale degli operai (nel senso più autentico della parola).

Attraverso questa figura i lavoratori assumeranno il controllo sulle vertenze sottraendole alla Commissione interna, entità ormai screditata e distante dalle esigenze dei lavoratori.

Gli scioperi dalle Ausiliarie si estesero alla fine di maggio alle Presse, ai carrellisti, alla Carrozzeria, al montaggio. Il 30 maggio l’intera produzione era bloccata.

Si scatenò un clima di ribellione generale: ogni reparto sviluppava per proprio conto una piattaforma e scendeva in lotta senza alcun tipo di filtro sindacale.

Proprio per questo il sindacato era estremamente allarmato come lo era l’azienda. Nei mesi di giugno e luglio ‘69 la direzione delle lotte, come riconobbe Garavini, a quei tempi dirigente torinese della Cgil, non l’aveva il sindacato, ma l’assemblea operai-studenti che si contraddistingueva per mettere sui volantini l’intestazione: la lotta continua, che in seguito divenne Lotta Continua.

Lotta Continua fu capace di mettere insieme centinaia di lavoratori e di studenti che per diversi mesi organizzarono tutti i giorni presidi davanti ai cancelli e assemblee a fine turno in cui si discuteva sul da farsi per poi praticarlo in fabbrica, senza alcun tipo di mediazione sindacale.

In questa situazione il 12 giugno l’azienda si convinse a firmare l’accordo con il sindacato, che riconosceva la figura dei delegati di reparto. Il 3 luglio Cgil-Cisl-Uil convocarono uno sciopero generale sul problema casa (caro-affitti). L’assemblea operai-studenti approfittando dello sciopero organizzò nel pomeriggio un corteo esterno alla fabbrica.

Era il primo corteo operaio che veniva organizzato al di fuori delle sigle sindacali. Lo sciopero ebbe un gran successo e nelle prime ore del pomeriggio c’erano al concentramento tre-quattromila lavoratori insieme a una rappresentanza significativa di studenti. Ma il corteo non ebbe modo neanche di partire perché subì violente cariche da parte della polizia.

Invece di disperdersi i manifestanti risposero con una fitta sassaiola. Il corteo tentò di ricostruirsi; informate dell’accaduto migliaia di persone giunsero dai quartieri operai della zona. Gli scontri con la polizia proseguirono fino a tarda notte. La giornata del 3 luglio era destinata a passare alla storia come la rivolta di Corso Traiano.

La polemica sui delegati

Avendo perso il controllo in fabbrica, il sindacato decise di andare incontro alle istanze operaie e il 13 settembre del ‘69, convocò, presso la Camera del lavoro, una “riunione plenaria del Consiglio dei delegati operai” che, nelle intenzioni dei sindacalisti, aveva il compito di coordinare e dirigere assieme agli organismi dirigenti dei sindacati la lotta contrattuale.

Nella riunione i dirigenti sindacali vennero sommersi di critiche da parte dei 150 delegati presenti. I dirigenti sindacali infatti erano disposti a riconoscere i delegati, ma imponendo loro certe limitazioni. Ai “delegati di squadra” che erano stati eletti direttamente dai lavoratori nelle Ausiliarie e alle Presse, la direzione tentò di affiancare i “delegati di linea” che erano una ramificazione della Commissione Interna perché designati dall’alto, secondo l’accordo fatto con l’azienda alla fine di giugno (gli unici che inizialmente la Fiat riconosceva).

Ma alla fine i vertici dovettero retrocedere su tutta la linea perché i lavoratori imposero l’idea del delegato eleggibile e revocabile in qualsiasi momento, come unico soggetto autorizzato a parlare a nome dei lavoratori in qualsiasi trattativa.

La posizione sindacale da quel momento non fu più quella di opporsi ai delegati, ma di adattarsi alle loro pressioni, tentando di limitare il più possibile il loro potere.

L’errore di Lotta Continua fu quello di non riconoscere né i delegati, né il Contratto nazionale ma di bollarli entrambi come una “gabbia” imposta della burocrazia sindacale.

L’idea infantile e settaria del “siamo tutti delegati”, del “sindacato che è stato superato dalle lotte” del “delegato che è stato inventato per isolare gli operai più combattivi dalla massa e renderli responsabili di fronte al sindacato, per trasformare la protesta operaia in vertenza burocratica” non venne capita dalla maggioranza dei lavoratori, tanto è vero che diversi attivisti di Lotta Continua si fecero eleggere delegati dai loro compagni che li riconoscevano come avanguardie nella fabbrica, e quelli che non lo fecero, seguendo i suggerimenti di Sofri, non vennero capiti dai loro compagni di reparto.

Questo errore fu alla base della disintegrazione della Assemblea operai-studenti che si consumò lentamente in una lotta intestina che condusse all’unico sbocco possibile: la trasformazione da organismo di base della lotta alla Fiat in “organizzazione politica generale”.

L’errore tragico fu quello di pensare che un organismo provvisorio come l’assemblea operai-studenti fosse sufficiente come unico organo di direzione operaia, tentando di trasporre formalisticamente nella realtà operaia il metodo di organizzazione delle lotte studentesche dell’anno prima.

L’idea di fondo era quella di organizzare la classe operaia come se si partisse da zero, secondo il criterio del “movimento politico di massa” non tenendo conto però che tra i lavoratori le cose si ponevano in termini differenti, perché esistevano forme organizzate precedenti come i sindacati che avevano tradizioni consolidate, nonostante la loro posizione alla Fiat nel ‘68-’69 fosse particolarmente debole.

Se quei metodi potevano avere un certo impatto tra i lavoratori più “nuovi”, con scarse tradizioni sindacali alle spalle e di estrazione non proletaria (ci riferiamo in particolare agli operai di recente proletarizzazione che venivano dal sud Italia), non era la stessa cosa per tutti gli altri. Ed era impensabile che persino alla Fiat, dove questi lavoratori rappresentavano una fetta consistente della classe, potesse imporsi stabilmente una posizione che non solo negava l’utilità del sindacato, ma negava persino l’utilità del delegato, una figura che riprendeva le migliori tradizioni consiliari del movimento operaio italiano che nel biennio rosso (1919-20), così come nell’autunno caldo vedeva rinascere questa forma di rappresentanza democratica dei lavoratori nei momenti più alti della lotta di classe.

L’autunno caldo e il sindacato dei consigli

Nell’autunno del ‘69, quando ebbe inizio la lotta per il rinnovo contrattuale (che coinvolse non solo i metalmeccanici, ma un totale di 7 milioni di lavoratori) il sindacato riuscì a raccogliere tutte le spinte che venivano dalla base, lasciandosi permeare, almeno in parte, dalla radicalità operaia.

C’è un episodio significativo al riguardo che la dice lunga: inizialmente la piattaforma contrattuale preparata dalle confederazioni non contemplava un criterio egualitaristico, nella proposta di aumenti salariali che invece era stato largamente presente nelle lotte alla Fiat dell’estate ‘69, ed era un tasto su cui avevano insistito molto non solo Lotta Continua ma tutti i gruppi “operaisti” di quegli anni.

Ancora nel maggio del ‘69, alla Conferenza d’organizzazione della Fiom, la linea anti-egualitaria si era imposta e in quell’occasione Trentin aveva avuto modo di esprimere chiaramente la sua posizione: “La qualifica è un bene dell’operaio costato sacrifici”. Ma quando nella consultazione operaia del luglio del ‘69, preparatoria alla stesura della piattaforma, la linea egualitaria ebbe un sostegno plebiscitario da parte degli operai, il sindacato la introdusse nella proposta di contratto.

La piattaforma che ne uscì, che aveva visto la consultazione di 300.000 lavoratori, prevedeva tra le altre cose: aumenti salariali consistenti uguali per tutti, riduzione dell’orario a 40 ore settimanali e aumento dei giorni di ferie, parità normativa operai-impiegati, diritti sindacali in fabbrica (riconoscimento dei delegati con un monte ore a disposizione, assemblea retribuita, revisione delle procedure disciplinari).

Lotta Continua e gli altri gruppi persero gran parte dell’egemonia che avevano conquistato e pian piano, di fronte alla forza prepotente dei consigli, persero di importanza tutte le ipotesi di autorganizzazione precedenti (comitati di base, assemblee operai-studenti), che divennero nel migliore dei casi le “frazioni sindacali” dei gruppi dell’estrema sinistra (è il caso del Cub con Avanguardia Operaia).

Nelle Confederazioni sindacali si era aperto un dibattito tra un’area conservatrice, non disponibile a riconoscere i delegati, e un’area di “rinnovatori”, sensibile alle pressioni che provenivano dal basso e orientata a compiere una svolta che prevedesse un riconoscimento dei consigli, affidando loro il diritto a gestire la trattativa a livello aziendale. Al congresso della Cgil del giugno ‘69 vinsero questi ultimi che miravano a una certa “elasticità” e permeabilità delle organizzazioni sindacali alla radicalizzazione operaia. I sindacati si riservavano però, e su questo non si transigeva, il diritto a gestire le trattative di carattere generale, opponendosi strenuamente ad ogni tentativo di coordinare i consigli di fabbrica a livello territoriale e nazionale.

Per non perdere il controllo della situazione i vertici si adeguavano, non solo permettendo alle lotte di svilupparsi, ma in certi casi contribuendo a far avanzare il livello rivendicativo delle situazioni più arretrate.

Fu un processo non privo di contraddizioni, dove si assistette a svolte estremamente brusche. In più occasioni la situazione rischiava di scappare dal controllo della direzione sindacale che fu abile a “trasformarsi”.

Oggi ci si stropiccia gli occhi un po’ increduli quando si vedono quelle trasmissioni come “Format”, che mandano in onda immagini di trent’anni fa, con Trentin, Benvenuto o Carniti di fronte a masse oceaniche di lavoratori che parlano di lotta di classe e rivoluzione sociale.

Ma è quanto avvenne realmente e senza quei discorsi, difficilmente avrebbero tenuto sotto controllo la classe operaia di quegli anni, che non temeva nulla e credeva che qualsiasi obiettivo fosse raggiungibile, fino al comunismo.

Uno dei casi più eclatanti di svolta a 180 gradi della linea del sindacato fu forse quello della Fim-Cisl, particolarmente a Milano e Torino.

Il tradizionale sindacato cattolico, che aveva alle spalle una storia di forte moderatismo, si trovò alla fine degli anni ‘60 ad avere una posizione totalmente marginale tra i metalmeccanici. Alla Fiat era diventato nel ‘68 il più debole dei quattro sindacati presenti (alle elezioni della commissione interna prese solo il 13,7% dei voti). Il gruppo dirigente giunse così alla conclusione che l’unico modo per non sparire in quella situazione sociale era di assecondare le spinte dal basso e si trovò in un batter d’occhio più a sinistra della Cgil, facendo concorrenza agli estremisti di Lotta Continua.

A questo contribuì non poco la radicalizzazione che aveva avuto luogo nelle Acli, che decisero nel ‘69 di rompere con la politica della Dc per orientarsi chiaramente a sinistra. Livio Labor, che fu presidente delle Acli fino al ‘69, formò successivamente un partito politico di ispirazione cattolica (Mpl, movimento politico dei lavoratori) con una politica estremamente radicale, che non a caso nel ‘74 entrerà a far parte del percorso fondativo del Pdup (Partito di unità proletaria) dove confluirono la sinistra del Psiup e il Manifesto.

Il dato generale che si trae dall’autunno caldo è che i sindacati riuscirono a recuperare il controllo del movimento facendo propri gli obiettivi rivendicativi e le forme di lotta spontanee dalla classe operaia.

Ma ogni tentativo che venne fatto di coordinare i consigli operai a livello nazionale, in una prospettiva di trasformazione rivoluzionaria venne boicottato frontalmente da parte dei dirigenti sindacali.

Il segretario della Cgil, Luciano Lama, bollerà come eversivi quei legami che spontaneamente o per opera di gruppi di attivisti operai andavano formando tra i CdF: “La Cgil respinge ogni concezione che tenda a collegare tra loro i consigli dei delegati in strutture parallele a quelle del sindacato al dì fuori della fabbrica, perché una tale soluzione organizzativa, porterebbe non alla sintesi, alla interazione che vogliamo fra organizzazioni di base unitaria e sindacato; porterebbe bensì alla concorrenza ed alla lotta tra le due strutture”.

Non a caso quando uscirono dei volantini delle commissioni operaie del Psiup di Milano e Torino che proponevano questo percorso ci fu una reazione isterica del gruppo dirigente della Cgil, che esercitò una pressione molto forte nei confronti della sinistra sindacale, ai tempi composta da esponenti di primo piano del Psiup (Foa, Giovannini, Lettieri).

I dirigenti della sinistra sindacale capitolarono a queste pressioni. Nonostante per anni si fossero verbalmente dichiarati a favore di posizioni consiliariste e formalmente rivoluzionarie, spinsero la federazione del Psiup di Torino a “richiamare” gli attivisti portatori di queste posizioni. Questo passaggio rappresenta uno snodo cruciale nello sviluppo degli avvenimenti successivi.

Una volta soffocati i tentativi di unificare i consigli veniva meno il controllo operaio sulle vertenze generali, ma soprattutto si chiudeva la strada a una prospettiva rivoluzionaria che era possibile solo trasformando gli organismi di contropotere nella fabbrica a organi del nuovo potere operaio nella società.

Dopo numerosi scioperi generali e la mobilitazione di milioni di lavoratori vennero firmati 81 contratti di lavoro (di cui 46 nell’industria e 30 nei servizi) dal carattere molto avanzato. La borghesia, e in particolar modo il governo, terrorizzati dall’idea di perdere tutto, fecero concessioni rilevanti.

Quello dei metalmeccanici fu l’ultimo su cui venne apposta la firma il 21 dicembre del ‘69; prevedeva:

– un aumento salariale di 65 lire orarie uguali per tutti gli operai

– nuovi diritti sindacali sul controllo del processo produttivo

– il riconoscimento definitivo del delegato di reparto e dell’assemblea dei delegati

– la riduzione d’orario a 40 ore settimanali

– limitazioni all’uso dello straordinario

– parità del trattamento infortunistico e di malattia tra operai e impiegati

– un giorno di ferie in più

– diritto di assemblea nelle fabbriche con più di 15 dipendenti (10 ore retribuite all’anno)

– 8 ore di permesso retribuite al mese per i delegati

Lotta Continua e altri gruppi lo definirono un contratto bidone, ma i lavoratori non la pensavano allo stesso modo. Non a caso quando venne presentato al voto nelle fabbriche ricevette un sostegno quasi unanime. Il sindacato uscì dall’autunno enormemente rafforzato.

Dopo la firma dei contratti un decreto amnistiò tutti i lavoratori che erano stati denunciati nel corso del ‘69 per reati politici (circa 15mila) e il 20 maggio del ‘70 sull’onda delle mobilitazioni la Camera approverà (con l’astensione del Pci, che lo voleva ancora più avanzato) lo Statuto dei lavoratori.

Si aprirà un nuovo decennio di forti mobilitazioni unitarie.

Non c’è qui lo spazio per approfondire i processi politici e sociali che seguirono il ‘69. Ma è giusto annotare che i gruppi presero atto a un certo punto dei loro errori, sia per quanto riguarda i delegati, che per la necessità di lavorare nei sindacati.

Quando tra il ‘72 e il ‘74 buona parte di loro giunse alla conclusione che non potevano rifiutarsi di lavorare nei sindacati, era già passata molta acqua sotto i ponti: la loro forza era andata riducendosi di molto e i Consigli di Fabbrica erano diventati nel ‘72 gli organismi di base del sindacato unitario (abolendo le Commissione Interne). I tre sindacati metalmeccanici, sotto la spinta della base, si erano fusi in un unico sindacato (Flm), e lo stesso fecero i chimici.

Il sindacato aveva visto accrescere enormemente il proprio consenso. Nel ‘75 gli iscritti al sindacato dei metalmeccanici (Flm) erano il doppio del ‘67 (200.932 contro 97.433), il Pci, che prima dell’autunno caldo era un partito in crisi (particolarmente nelle fabbriche dove aveva perso gran parte dei propri iscritti) aumentò notevolmente la propria militanza. Mentre nel ‘68 gli iscritti al Pci erano 1.503.816, nel ‘76 divennero 1.814.262.

La risposta del capitale alla grande ondata di mobilitazione operaia fu di due tipi: da una parte la borghesia faceva concessioni economiche cercando il sostegno dei gruppo dirigente del Pci, dall’altra preparava una svolta autoritaria se la linea “morbida” non fosse bastata.

Ci si affidava anche alla “responsabilità” dei dirigenti sindacali e non a caso molte delle concessioni che vennero fatte in quegli anni erano accompagnate da una maggiore agibilità dei dirigenti sindacali in fabbrica, perché “controllassero” le “spinte operaie”.

Non a caso, nello Statuto dei lavoratori, insieme agli aspetti positivi concernenti i diritti venne inserito un articolo (il 19) che riconosceva solo alle Confederazioni e alle organizzazioni firmatarie di contratto il diritto a partecipare alle trattative. Con questo si mirava a colpire la spontaneità operaia, riconoscendo come unico soggetto trattante l’organizzazione sindacale.

Dall’altra parte per ricacciare indietro gli operai e per terrorizzarli si utilizzò la strategia della tensione, che venne inaugurata il 12 dicembre con la strage di piazza Fontana.

Oggi le responsabilità dei fascisti e dell’apparato dello Stato sono note (anche se nessuno dei responsabili ha pagato), a quei tempi vennero additati immediatamente gli anarchici e gli estremisti di sinistra in generale.

In questo clima di emergenza e sotto la spinta emotiva di quella strage si riuscì a firmare il contratto dei metalmeccanici qualche giorno dopo, impedendo agli operai di spingersi oltre le semplici conquiste sindacali.

Settori non secondari dell’apparato dello Stato e dei militari iniziarono a ragionare seriamente di un golpe, non tanto nel periodo delle lotte studentesche, ma quando si presentarono prepotentemente gli operai sulla scena politica. Quella era l’ultima carta da giocare se tutte le altre si fossero rivelate insufficienti.

Alla fine i dirigenti sindacali e del Pci riuscirono, ma solo dopo sette anni di lotte quasi ininterrotte, a far rifluire il movimento con la linea dell’Eur e dell’Unità nazionale.

La fiducia che i lavoratori avevano riposto nelle proprie organizzazioni, per la trasformazione della società, vennero tradite e utilizzate per consolidare il potere della borghesia italiana e del partito che l’aveva rappresentata più di ogni altro nel dopoguerra, la Democrazia cristiana.

Conclusioni

L’esperienza dell’Autunno caldo è istruttiva per molte ragioni. Tentiamo di riassumerle:

a) La lotta di classe non si sviluppa su linee graduali, ma per esplosioni successive alternate a periodi di riflusso. Alla sconfitta della classe operaia nel ‘48 e agli arretramenti degli anni ‘50, interrotti dall’esplosione del luglio ‘60 (che venne causata dalle provocazioni del governo Tambroni e del Msi), seguì una ripresa della mobilitazione che venne interrotta dal primo governo di centrosinistra alla fine del ‘63, oltre che dalla recessione economica. Una volta che l’esperienza del centrosinistra si dimostrò essere fallimentare ci fu una nuova esplosione della lotta di classe che raggiunse il punto più alto nell’autunno del ‘69.

I lavoratori imparano dall’esperienza. Senza voler con questo negare il valore della teoria, che è fondamentale, dobbiamo sottolineare che la gran parte della classe giunge a conclusioni rivoluzionarie solo quando, alla luce degli avvenimenti, nessuna altra soluzione risulta percorribile.

Spesso le rotture rivoluzionarie giungono inaspettate e improvvise nei momenti in cui pare che i lavoratori siano sulla difensiva, incapaci di reagire alla repressione padronale. Da questo punto di vista la situazione che esisteva fino al ‘68 a Mirafiori è significativa: la classe operaia era sottomessa all’arbitrio dei capi, sottoposta a condizioni di pesante sfruttamento, divisa, poco sindacalizzata e apparentemente disinteressata alla politica e ciò nonostante fu quella stessa classe operaia che ribaltò da un giorno all’altro i rapporti di forza.

Arriva un punto in cui i limiti di sopportazione umana vengono infranti ed esplode la rabbia accumulata nel corso di anni. Spesso queste svolte sono brusche e tanto più irruente quanto maggiori sono le umiliazioni e i rospi che sono stati ingoiati dai lavoratori.

b) Le esplosioni sociali non di rado vengono anticipate da segnali premonitori quali la radicalizzazione di strati che fino ad allora avevano giocato un ruolo marginale nella lotta sociale. Come la prima rivoluzione russa del 1905 vide la sua prima manifestazione diretta da un prete ortodosso (pope Gapon) anche l’autunno caldo è stato anticipato dal risveglio e dalla radicalizzazione del mondo cattolico di base, degli studenti e di altri settori fino ad allora non particolarmente avvezzi alla lotta anticapitalista.

I lavoratori che si mossero per primi, furono quelli che storicamente si erano mostrati meno combattivi e con minori tradizioni sindacali (i tecnici tra questi), o quelle categorie più arretrate che fino ad allora avevano svolto un ruolo marginale (si pensi al risveglio dei tessili e degli edili e in particolare alla lotta dei lavoratori di Valdagno dell’aprile ‘68).

c) Dopo un lungo periodo di arretramenti sociali è inevitabile che le burocrazie sindacali, ma anche i lavoratori più anziani, per quanto abbiano un passato glorioso di lotte sindacali e politiche, facciano propri una serie di valori della classe dominante e si abituino alle sconfitte e di conseguenza alla logica del compromesso.

Proprio per questo i giovani, forze fresche su cui non grava il peso delle sconfitte passate, diventano i settori più dinamici e decisivi nel corso delle mobilitazioni.

Non è un caso che tutti i partiti che condussero delle rivoluzioni avevano dei militanti con un’età media molto bassa (nel partito bolscevico del ‘17 era di 23 anni, nel Frente sandinista nicaraguense del ‘79 di 24 anni, solo per citare due esempi).

Negli anni ‘50 e ‘60 si era verificato un processo di degenerazione delle organizzazioni sindacali che avevano perso nelle fabbriche rappresentatività e consenso.

Non è strano che in situazioni come queste gli strati più combattivi della classe (o in grande misura quelli meno legati alle tradizioni sindacali) entrino in lotta attraverso nuovi organi di rappresentanza. Questo nel ‘68 fu alla base del successo che ottennero gli studenti che intervenivano ai cancelli delle fabbriche, con la proposta dei Comitati di base e delle Assemblee operai-studenti.

Ciò non significava affatto, come affermò qualcuno che “i sindacati fossero fuori gioco”. Il fatto che qualche migliaio o decine di migliaia di avanguardie consideri “superati” i sindacati tradizionali non significa che l’insieme della classe si prepari ad uscire da queste organizzazioni, soprattutto se le burocrazie sindacali (come quasi sempre avviene in questi casi), rendendosi conto della loro perdita di influenza, spostano a sinistra il baricentro delle rivendicazioni per “cavalcare la tigre”.

I sindacati operai esistono da più di un secolo e l’esperienza ha dimostrato che sono rarissimi gli episodi in cui un sindacato tradizionale viene sostituito a sinistra da un nuovo sindacato o da un altro organismo operaio, quanto meno sul piano generale.

Questo si è verificato solo in condizioni molto particolari di fronte ad eventi eccezionali (le due guerre mondiali a cui hanno fatto seguito delle ondate rivoluzionarie) o all’uscita di una dittatura fascista, in condizioni tali per cui il vecchio sindacato tradizionale era stato praticamente annullato dal regime.

È il caso delle Comisiones Obreras spagnole che alla fine degli anni ‘60 diventarono il primo sindacato operaio, anche se la vecchia Ugt non ha smesso di esistere e si è ricostituita con una rapidità impressionante nel periodo della “transizione” dal franchismo alla democrazia.

Nella grande maggioranza dei casi la massa dei lavoratori quando decide di lottare lo fa attraverso le proprie organizzazioni storiche, tentando di trasformarle e spingendo i dirigenti più in là di quanto essi stessi siano disposti ad andare. Non a caso Lenin proponeva ai comunisti di tutto il mondo di non seguire “… la balorda teoria della non partecipazione dei comunisti ai sindacati reazionari”.

Quello che non capirono i militanti di Avanguardia Operaia, di Lotta Continua, di Potere Operaio e di altri gruppi minori in quegli anni, è che il processo di presa di coscienza della classe operaia è un processo disomogeneo, raggiunge prima certi strati e solo successivamente coinvolge la massa e gli strati più arretrati.

Milioni di operai italiani in quegli anni passarono per la prima volta dal disinteresse più totale ad organizzarsi nella struttura più elementare e accessibile che avevano a disposizione: i sindacati e i partiti operai tradizionali.

Mentre migliaia di attivisti tra i più avanzati uscirono, tra il ‘66 e il ’68, dal Pci, dal Psiup, e dai sindacati convinti del carattere riformista e non rivoluzionario di queste organizzazioni, centinaia di migliaia di lavoratori e giovani, che prima di allora non si erano mai occupati di questioni politiche e sindacali, si preparavano nel ‘69 e poi per tutti gli anni ‘70 ad entrare in queste organizzazioni convinti di fare una scelta rivoluzionaria.

La base del Pci, del Psiup e dei sindacati in quegli anni era fortemente permeabile alle posizioni marxiste e le avrebbe appoggiate se queste fossero state visibili al loro interno. Chi si cullava nell’idea, che presto o tardi i lavoratori, capendo il “carattere controrivoluzionario” di quelle organizzazioni sarebbero usciti per entrare nelle piccole “organizzazioni rivoluzionarie” restò profondamente deluso.

Chi poteva orientarli per trasformare questa buona intenzione in una pratica di lotta e di intervento politico era uscito da queste organizzazioni, dichiarandole “superate”, senza capire che lo erano forse per un settore d’avanguardia, ma non per la maggioranza della classe operaia.

Quello dei “gruppetti” come allora li chiamavano sprezzantemente i dirigenti del Pci, fu il classico errore di voler identificare le “punte avanzate dello scontro” con il livello generale di coscienza dei lavoratori.

Per questa ragione i comunisti devono sempre e comunque, salvo eccezioni che servono a confermare la regola, lavorare nei sindacati di massa della classe operaia per conquistarli a una politica di classe rivoluzionaria.

Un atteggiamento tattico che associasse l’intervento fatto con i Comitati di base a un lavoro di opposizione nel sindacato avrebbe permesso alle forze rivoluzionarie di rafforzare enormemente la loro influenza, rappresentando un ostacolo non indifferente per le burocrazie che si preparavano a far deragliare il movimento. E non appena i consigli si fossero generalizzati sarebbe stato corretto entrarci sciogliendo i comitati di base (o trasformarli quanto meno in una struttura di supporto).

d) Non c’è un legame diretto e “assoluto” tra la condizioni di lavoro e la coscienza; le trasformazioni del capitale non possono impedire ai lavoratori di battersi contro di esso.

Sono stati molti in quegli anni (prima del ‘68) a teorizzare che gli operai di linea erano incapaci di esprimere una coscienza politica, infatti fino ad allora le organizzazioni sindacali si basavano fondamentalmente sugli operai specializzati.

Ma furono proprio quegli operai di linea, gli “operai massa” come vennero definiti, in gran parte immigrati dal sud Italia e senza esperienza sindacale alle spalle, che giocarono un ruolo di primo piano nelle mobilitazioni.

Oggi come allora c’è chi sostiene che la precarizzazione del lavoro e la “scomparsa della grande fabbrica” non permetta ai lavoratori di esprimere la propria conflittualità e che i “precari” sono difficilmente organizzabili.

Ancora una volta questi argomenti verranno smentiti dai fatti.

Uno degli elementi scatenanti dell’Autunno caldo fu proprio l’aumento dello sfruttamento operaio, e la precarietà delle condizioni di vita e di lavoro. Se in un primo momento l’offensiva padronale riuscì a stordire la classe, alla lunga finì per radicalizzare ancor più le posizioni operaie.

I lavoratori indipendentemente dall’organizzazione del lavoro, dal ruolo dei dirigenti sindacali, dalla precarizzazione delle loro condizioni, presto o tardi trovano sempre il canale per esprimere la loro conflittualità, il proprio antagonismo inconciliabile con la classe dominante.

e) Nei momenti più alti della lotta di classe, ogni qualvolta si sviluppa un movimento di massa, si formano degli organismi di democrazia operaia, attraverso i quali si conducono le lotte.

I consigli di fabbrica (soviet in lingua russa) hanno assunto un ruolo decisivo in tutte le situazioni prerivoluzionarie.

Il consiglio nasce con l’obiettivo di rappresentare nella maniera più diretta tutti i lavoratori e le loro istanze ed è l’unico organismo che nell’esperienza storica, ha dimostrato di avere la capacità di rappresentare in modo immediato e senza filtri burocratici i cambiamenti di umore delle masse quando entrano sulla scena storica.

Non a caso i soviet, non si presentano mai nei momenti di relativa calma sociale (se sono realmente tali), ma solo e soltanto in condizioni prerivoluzionarie come dimostra in Italia l’esperienza del Biennio Rosso, della Resistenza e dell’Autunno caldo.

Sono organismi che hanno un senso in situazioni di dualismo di potere e uniti tra loro rappresentano il potenziale potere operaio alternativo da opporre a quello della borghesia. Potenziale perché di per sé la presenza di soviet non è garanzia di uno stato operaio, tutt’altro.

In assenza di un partito comunista che organizzi il settore più avanzato dei lavoratori orientando il movimento verso uno sbocco rivoluzionario, inevitabilmente prevarrà (in tempi più o meno lunghi) la demoralizzazione, il movimento rifluirà e i soviet potranno trasformarsi in organi attraverso cui si faranno strada le posizioni riformiste e della classe dominante.

I consigli dei delegati nell’autunno caldo potevano rappresentare l’organo embrionale su cui era possibile costruire la nuova società. L’ostacolo principale in questo caso fu l’assenza di un partito rivoluzionario in grado di coordinarli a livello nazionale mettendo all’ordine del giorno la questione del potere.

Il fatto che Lotta Continua e Avanguardia Operaia (seppure in forma meno netta) non riconoscessero la figura del delegato eletto dai lavoratori in lotta e lo considerassero solo un’invenzione del sindacato per imbrogliare gli operai, dimostra fino a che punto fossero limitate queste ed altre organizzazioni che in quegli anni si fecero portatrici a parole di una prospettiva rivoluzionaria.

f) I lavoratori nella lotta di generazioni contro l’oppressione capitalista si sono dotati di determinati strumenti che si sono poi affermati nell’esperienza pratica: partiti, sindacati e soviet.

Il partito (se è un partito realmente comunista) è lo strumento in cui si organizza l’avanguardia del proletariato e che dovrebbe raccogliere (diciamo dovrebbe perché nella storia si sono viste ogni tipo di deformazioni) i settori più avanzati della classe operaia, per intenderci quelli che sono disposti a lottare contro il capitalismo ed ogni forma di oppressione sociale sulla base di una lotta che non è solo economica, ma è fondamentalmente politica e ideologica.

I sindacati invece sono organismi molto più ampi che difendono gli interessi diretti e fondamentalmente economici della classe operaia. La base per aderire ai sindacati non è l’accettazione del programma comunista e la lotta contro il capitalismo, ma la disponibilità a lottare per i propri interessi primari.

Infine ci sono i consigli operai; questi sono gli organismi che rappresentano tutta la classe e che per queste ragioni si formano sono in situazioni rivoluzionarie, quando la massa dei lavoratori è attiva nella lotta di classe e c’è una forte accelerazione della presa di coscienza.

Nei fatti stiamo parlando di tre livelli di organizzazione operaia con funzioni diverse, ma tutti e tre ugualmente importanti. Chiunque si sia proposto di opporre gli uni agli altri ha sempre sviluppato delle concezioni teoriche che si sono rivelate fallimentari.

Il movimento marxista si è costruito combattendo quelle tendenze che facevano confusione su quest’aspetto fondamentale (proudhoniani, anarchici bakuninisti, blanquisti, anarcosindacalisti, sindacalisti rivoluzionari, economicisti, consiliaristi, operaisti, per citare i principali) che in un modo o nell’altro si riprodussero anche nel ‘68, dove comparvero a lato dei riformisti ogni tipo di varianti rivoluzionarie: coloro che riconoscevano il ruolo dei consigli operai e dei sindacati, ma sottovalutavano la funzione fondamentale del partito rivoluzionario (operaisti di destra e sinistra socialista), quelli che rifiutavano i consigli operai e i comitati di base e riconoscevano solo il ruolo del partito e dei sindacati (maoisti dell’Uci-ml), quelli che riconoscevano il ruolo del partito rivoluzionario ma rifiutavano quello dei sindacati ed erano ambigui in un primo momento sui consigli (Avanguardia Operaia) e infine coloro che riuscirono a rifiutare persino tutti e tre gli strumenti in questione: il partito rivoluzionario (nella concezione leninista), i sindacati e i consigli (Lotta Continua e Potere Operaio).

Questi errori ne determinarono altri a catena; l’inadeguatezza degli strumenti di cui si dotarono nella (mancata) strategia rivoluzionaria li spinse ad accogliere nel proprio seno le illusioni terroristiche che si basavano sulla concezione delle “avanguardie che si sostituiscono alla classe” e che esplosero nel brigatismo, soprattutto a partire dal ‘77, quando il gruppo dirigente del Pci chiuse tutti i varchi a una prospettiva rivoluzionaria con la politica dell’Unità nazionale.

Il successo dei bolscevichi nella Rivoluzione d’Ottobre venne determinato dalla loro capacità di unire una assoluta indipendenza politica (anche quando i bolscevichi non erano un partito indipendente ma costituivano una frazione del partito socialdemocratico russo) a una assoluta flessibilità tattica verso le organizzazioni sindacali e le altre organizzazioni riformiste nel movimento operaio.

I bolscevichi, che rigettavano le concezioni spontaneiste ed economiste, non rifiutarono mai di lavorare nei sindacati (anche i più reazionari) e sostennero i consigli fin dall’inizio avanzando la parola d’ordine “tutto il potere ai soviet” anche quando questi erano strumenti di politiche riformiste e di collaborazione di classe, essendo controllati dai menscevichi e dai socialisti rivoluzionari.

Non dichiararono mai superati sindacati e soviet solo perché non avevano ancora la maggioranza in questi organismi.

Applicando un orientamento di questo tipo, in Italia nel biennio ‘68-’69, una tendenza rivoluzionaria avrebbe dovuto orientare le proprie forze alla conquista della base operaia del Pci e del Psiup e dei sindacati, sviluppando allo stesso tempo un lavoro energico a livello assembleare verso gli studenti. Solo valutando concretamente in una analisi equilibrata, le proprie forze, la loro collocazione, dimensioni, caratteristiche e insediamento era possibile valutare un orientamento tattico, ma quello che è chiaro è che in nessun modo andava opposto un rifiuto settario a sporcarsi le mani in un lavoro nelle organizzazioni di massa.

Inevitabilmente ci si sarebbe trovati a militare affianco a molti burocrati, ma anche spalla a spalla con milioni di operai combattivi e sinceramente rivoluzionari che in quelle organizzazioni erano alla ricerca di una vera alternativa comunista.

Nell’ottobre del ‘72, un operaio di Lotta Continua facendo autocritica sulle scelte compiute nell’Autunno caldo, al Comitato nazionale del suo partito affermerà: “Abbiamo incarnato l’estremismo di sinistra nella sua accezione più tradizionale”. Se invece di inseguire le illusioni spontaneiste i militanti di allora avessero fatto i conti con la storia del movimento operaio forse il capitalismo sarebbe stato già messo da parte.

Toccherà a una nuova generazione farsi carico dei compiti della trasformazione della società, costruendo fin da oggi quello strumento in grado di intervenire in un “nuovo autunno caldo” che sta maturando sotto la superficie, nei meandri più oscuri della coscienza dei lavoratori.

Fino ad allora dovremo lavorare per “trovarci pronti” ad intervenire quando le masse si ripresenteranno sulla scena storica per mettere il destino nelle proprie mani. La vecchia talpa di Marx continua a scavare.

APPENDICI

1) Democrazia operaia

Quello che segue è il testo di uno storico volantino fatto dai delegati di squadra delle Ausiliare di Mirafiori a fine maggio ‘69

Compagni della Fiat, delegati operai!

Un grande enorme fatto sta accadendo in questi giorni. La forza della Fiat è stata scossa dalla lotta operaia, le leggi di ferro della produzione sono state sconvolte dalla forza operaia che in questi giorni s’è liberata attraverso gli scioperi, le assemblee interne, la nomina dei delegati di squadra, le discussioni che si accendono ovunque dentro la fabbrica, i cortei che abbiamo fatto nelle officine.

La forza e il potere che ci siamo conquistati in questi giorni devono ora diventare stabili. Non dobbiamo più tornare indietro, il nostro modo di lavorare da ora in avanti deve essere diverso. Per questo dobbiamo essere uniti.

In tutte le squadre, in tutti i reparti, dobbiamo fare assemblee e nominare i delegati per usare la forza dello sciopero e dell’unità per modificare completamente le nostre condizioni di lavoro esercitando il controllo operaio;

E necessario unire i delegati operai in un potente e unitario movimento dei delegati operai con l’obiettivo dell’esercizio permanente del controllo operaio sulle condizioni di lavoro.

Gli operai della Fiat sanno che la loro vittoria è possibile se vincono tutti gli operai; se in tutte le fabbriche i lavoratori affermano il controllo operaio attraverso le assemblee e i delegati.

L’assemblea

L’assemblea è lo strumento attraverso cui gli operai, uniti per squadra, per reparto, per officina, discutono e decidono gli obiettivi da raggiungere, i modi per raggiungerli, e per affermare il loro potere e il controllo sul lavoro.

Riteniamo inaccettabile qualsiasi forma di regolamentazione e di limitazione dell’assemblea, che deve potersi riunire tutte le volte che il collettivo operaio ne ha necessità.

L’assemblea nomina il delegato e può revocarlo in qualsiasi momento. Ogni iniziativa del delegato è l’espressione della volontà e della decisione dell’assemblea.

Il delegato operaio

Il delegato operaio è l’operaio più cosciente del gruppo in cui lavora, che gode della fiducia di tutti i suoi compagni di lavoro. Non è né proposto né nominato da nessuna organizzazione esterna alla fabbrica, ma è esclusivamente l’espressione della volontà dell’assemblea. Quindi è responsabile solo nei confronti degli operai e di nessun altro.

Egli deve poter trattare con tutta la gerarchia di fabbrica, dal capo reparto fino al capo del personale. Il suo compito non deve essere quello di trasmettere alla commissione interna i problemi, ma di trattarli fino in fondo.

La sua funzione inoltre non deve essere limitata a controllare un solo aspetto della condizione di lavoro: il delegato operaio deve potere trattare col padrone di tutti i problemi che il collettivo operaio ha.

Il collettivo operaio si impegna a difendere il suo delegato dagli spostamenti. E chiaro infatti che la Fiat non ci dà i delegati; bisogna farseli, fare in modo che funzionino e difenderli.

È necessario infine organizzare tutti i delegati operai in un potente ed unitario movimento dei delegati operai, che abbia come obiettivo permanente il controllo operaio sulle condizioni di lavoro e sulla produzione.

Questo obiettivo si realizza immediatamente con il rallentamento dei ritmi di lavoro e la diminuzione della produzione in tutte le officine; Cinque punti del controllo operaio sulle condizioni di lavoro:

1) ogni spostamento, ogni provvedimento, preso a carico di un operaio è sospeso se c’è il no del delegato.

2) Ogni imposizione di turni o di ore straordinarie può essere sospesa dal delegato, il quale rimette ogni decisione all’assemblea degli operai.

3) Ogni iniziativa della direzione sugli aumenti di merito, sulle categorie, sulle paghe di posto, può essere sospesa dal delegato che richiederà la decisione dell’assemblea degli operai.

4) L’assemblea degli operai e solo essa deve decidere il grado di disagio e di nocività del lavoro ed avanzare proposte, attraverso il delegato, per diminuire il disagio con il rallentamento dei ritmi, l’aumento degli organici e dei sostituti, l’incremento delle pause o le modifiche tecniche dell’ambiente di lavoro.

5) L’assemblea, attraverso i delegati, deve esercitare il controllo sul cottimo.

Ogni proposta da parte della direzione circa un mutamento tecnologico e organizzativo può essere sospesa dal delegato e portata davanti all’assemblea degli operai, la quale stabilisce se tale mutamento tecnologico sacrifica o meno gli interessi degli operai e decide di conseguenza…

Compagni operai, i delegati operai eletti alle Officine Ausiliarie propongono di riunire un consiglio di delegati operai della Fiat per discutere questi 5 punti, per concordare un’azione unitaria e forte dentro e fuori dalla fabbrica.

2) Lotta continua boccia il contratto e lo Statuto dei lavoratori

Il 21 dicembre 1969 si firma il contratto dei metalmeccanici, con una serie di conquiste importanti, che sarebbero state applicate nei tre anni successivi, e in particolare aumenti salariali uguali per tutti, la settimana di 40 ore, il tetto di 8 ore settimanali agli straordinari, il 100% di trattamento infortunistico, un giorno di ferie in più, diritto di assemblea nelle aziende oltre a 15 dipendenti, riconoscimento dei delegati e dei permessi retribuiti (8 ore al mese).

Ecco alcuni estratti dei volantini di Lotta continua, citati in D. Giachetti, Marco Scavino, La Fiat in mano agli operai.

1. Le 65 lire non servono neppure a compensarci dell’aumento dei prezzi (…)

2. Le 40 ore settimanali sono nell’arco dei tre anni, così il padrone ha la possibilità di organizzarsi e di fregarci con l’aumento della produzione (…)

3. Anche per la parità con gli impiegati le cose si prolungano negli anni. Per la faccenda della mutua e delle ferie ci danno un giorno (…)

4. Diritti sindacali. Su questo le cose cambiano veramente e le conquiste per i sindacati sono molte. È chiaro che servono anche ai padroni per far tappare la bocca agli operai in assemblea, perché in fabbrica girino con i permessi pagati, oltre ai capi e ai guardiani, anche i sindacalisti a bloccare le nostre lotte.

Gli scopi e l’organizzazione del sindacato è contro gli obiettivi, le lotte e l’organizzazione degli operai. Per questo noi non possiamo usare l’organizzazione sindacale per la nostra politica. (…)

Non possiamo usare i delegati e i comitati sindacali. (…) Coi delegati i sindacati cercano di isolare i compagni più attivi dalla massa e di renderli responsabili di fronte a lui.

Il referendum successivo tenuto fra i lavoratori vedrà la partecipazione dei 285.537 lavoratori su 376.731, con un’approvazione pressoché unanime.

L’opuscolo “1968-69. Un biennio rivoluzionario” è disponibile al prezzo di 3 euro nella nostra Libreria marxista on line a questo link.
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